Rachel Corrie ha dato la vita per la Palestina

Tom Dale

16 marzo 2024 – Jacobin

In questo giorno nel 2003 l’IDF (esercito israeliano) uccise l’attivista americana Rachel Corrie mentre difendeva le case di Rafah dalla distruzione. Ora che Israele minaccia di invadere questa città un volontario che fu accanto a Rachel scrive della sua eredità – un invito alla ferma solidarietà con i gazawi.

Oggi non c’è nessuna città al mondo più colma di sofferenza e inquietudine di Rafah, addossata al

A partire da metà ottobre le forze Israeliane hanno già spianato la loro strada attraverso Gaza City e Khan Younis, compiendo massacri, distruggendo case e lasciandosi dietro terrore e morte per fame. Più di un milione di palestinesi sono fuggiti a sud a Rafah, facendo aumentare la sua popolazione di sette volte la sua dimensione precedente.

Ma adesso l’obbiettivo di Israele è puntato sulla stessa Rafah, con la minaccia di un’invasione devastante.

Rafah oggi è una città fatta di strutture di tela e plastica quanto di cemento; fredda e spesso fradicia, affamata e devastata. Le malattie si diffondono mentre la gente baratta quel poco cibo di cui dispone con le medicine e le donne strappano pezzi delle tende per usarli come assorbenti. Gli orfani – forse diecimila a Rafah – badano a sé stessi come meglio possono.

L’anno scorso Israele ha lanciato volantini su Khan Younis dicendo ai palestinesi di andare nei “rifugi” a Rafah, per sfuggire al conflitto. Ma là non ci sono rifugi e non c’è stata via di fuga. All’inizio della guerra un amico ha perso 35 membri della sua famiglia estesa in un solo attacco aereo sulla città. In maggioranza erano donne e bambini.

Più frequente degli attacchi a Rafah stessa è il suono dell’eco degli attacchi aerei dal nord, un sinistro avvertimento che il peggio può ancora arrivare.

Il mese scorso il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha sostenuto che rinunciare a invadere Rafah equivarrebbe ad una sconfitta del suo Paese e che ordinerà l’invasione anche se tutti gli ostaggi fossero rilasciati.

Il segretario di stato USA Anthony Blinken ha detto che Washington non sosterrà un’invasione di Rafah in assenza di un “chiaro” piano di protezione dei civili e che non è ancora stato approntato alcun piano. Si dice che i dirigenti israeliani stiano elaborando uno schema per trasferire i palestinesi che sono a Rafah in “isole umanitarie” a nord – dove già scarseggiano cibo e medicinali e la gente è morta di fame.

Il presidente Joe Biden ha detto che un’invasione di Rafah costituirebbe una “linea rossa”, ma non ha ventilato alcuna conseguenza nel caso Israele oltrepassi tale linea rossa, come ne ha oltrepassate tante altre. Netanyahu, come ha già fatto in precedenza, ha risposto sprezzantemente: “Ci andremo. Non li risparmieremo.”

Rasa al suolo, crivellata di proiettili e svuotata”

All’epoca della seconda Intifada, nel 2002-2003, vivevo a Rafah come volontario per l’International Solidarity Movement (ISM), un’organizzazione a guida palestinese che sostiene la resistenza nonviolenta all’occupazione. Tra i miei colleghi c’era Rachel Corrie, una volontaria americana di Olimpia, nello stato di Washington negli Stati Uniti, con uno spassoso senso dell’umorismo che nascondeva la serietà riguardo alla vita – ed al suo scopo – che non avrei del tutto compreso fino a quando lessi i suoi scritti anni dopo. Più tardi si unì al gruppo Tom Hurndall, un talentuoso fotografo che venne colpito alla testa da un cecchino dell’esercito israeliano nell’aprile 2003 e morì l’anno seguente dopo 9 mesi di coma.

Anche allora Rafah fu “rasa al suolo e crivellata di proiettili e svuotata”, come scrisse Rachel in un messaggio ai suoi genitori. Passavamo la maggior parte delle notti nelle case di famiglie vicino al confine con l’Egitto. Israele vi aveva creato una striscia di terra vuota, demolendo case per creare una zona di tiro libero e quindi un vantaggio tattico per le sue truppe posizionate lungo il confine. A volte avvertivano coi megafoni le famiglie di andare via, a volte sparavano nelle case finché le famiglie fuggivano. In ogni momento del giorno o della notte, attraverso demolizioni o no, potevano sparare inondando le case di pallottole.

Non tutti i proiettili sparati contro un muro entravano nell’edificio, ma alcuni sì, specialmente quelli sparati da armi più potenti. Tutti coloro che si trovavano in casa del nostro amico Abu Jamil, compresa Rachel, non poterono non accorgersi, mentre giocavano con i suoi figli, dei fori lasciati dai proiettili che avevano colpito il muro interno ad altezza della testa, sopra il lavello della cucina.

Quando i palestinesi ci chiamavano andavamo ad opporci ai bulldozer armati israeliani che lavoravano lungo la striscia di confine, tenendoli d’occhio e cercando di intervenire se andavano a demolire una casa. Alcune volte li abbiamo rallentati, abbiamo creato impaccio, concedendo a una famiglia qua o là una tregua di qualche giorno o settimana. Forse abbiamo attirato l’attenzione del mondo su quella striscia di terra più frequentemente che se non fossimo stati là. Ma la demolizione andava avanti e il mondo aveva altre preoccupazioni: l’invasione dell’Iraq era imminente.

Il 16 marzo 2003 poco dopo le 17 vidi che uno dei bulldozer di Israele di fabbricazione USA, enorme e imponente, si dirigeva verso la casa del dottor Samir Nasrallah e della sua giovane famiglia. Rachel, amica del dottor Samir, si mise tra il bulldozer e la casa. Mentre il bulldozer si muoveva verso di lei la sua lama iniziò spingere davanti a sé a un monticello di terra. Quando il monticello raggiunse Rachel lei vi si arrampicò, faticando per mantenersi in appoggio sulla terra molle, reggendosi con le mani fin quando la sua testa fu sopra il livello della lama. Il conducente deve averla guardata negli occhi, ma proseguì imperterrito e lei cominciò a perdere l’equilibrio.

Qualche settimana prima di quel giorno Rachel sognò di cadere e lo scrisse sul suo diario:

…cadevo verso la morte da qualcosa di polveroso e liscio e frammentato come le scogliere dello Utah, ma mi sono aggrappata e quando ogni nuovo punto d’appoggio o pezzo di roccia si rompeva io allungavo la mano mentre cadevo e ne afferravo un altro. Non ho avuto il tempo di pensare a niente – solo di reagire…e ho sentito “Non posso morire, non posso morire”, ancora e ancora nella mia testa.

Il terreno sul confine di Rafah, un’irregolare mistura di argilla e terra, ha una tonalità calda non tanto diversa da quella delle scogliere dello Utah. A distanza di anni, come molti degli scritti di Rachel, l’incubo sembra essere stato premonitore.

Benché ci provasse, Rachel non riuscì a mantenere l’equilibrio; il bulldozer avanzò deciso, la travolse, la spinse sotto la terra, la schiacciò. Morì mentre le tenevo le mani nell’ambulanza verso l’ospedale. Nel mio primo resoconto dei fatti, scritto due giorni dopo, specificai che dieci palestinesi erano stati uccisi a Gaza dopo Rachel, senza che lo si sapesse al di fuori dell’enclave stessa.

A parte la mia personale amicizia con Rachel, c’è disagio nel raccontare ciò che è necessario ribadire soprattutto oggi, alla luce della devastazione che Rafah subisce. Parte del nostro obbiettivo, tutti quegli anni addietro, era far risaltare un sistema razzista di violenza e il sistema razzista di narrazione che lo accompagna, al fine di sovvertire quei sistemi stessi. Alcuni potrebbero pensare che un simile tentativo sia sempre stato idealista o che qualunque tentativo di mettere in luce un simile sistema razzista, come il nostro sforzo di attirare lo sguardo internazionale su Gaza, è inevitabile che avvalori quel sistema.

Ciononostante, avendo fatto la mia scelta più di vent’anni fa, mi ritengo impegnato. Ogni qualvolta mi si chiede di parlare di Rachel lo faccio, non solo per onorare un’amica, ma con l’idea che forse la sua storia è un modo per far capire ad alcune persone, lontane dalla Palestina, delle verità più ampie sulla violenza dell’occupazione e sulle politiche che la rendono possibile. E che quelle verità in definitiva ci riportano indietro ai palestinesi e a Rafah. Credo che conducano anche ad altri luoghi.

L’esercito israeliano agisce nella convinzione dell’impunità. Perciò quando un fatto eccezionale, come l’uccisione di un non-palestinese, lascia presagire una resa dei conti, il sistema è poco preparato a rispondere. Il risultato spesso consiste in una serie di stravaganti menzogne. Nel caso di Rachel le autorità evitarono di contestare i dettagli dei nostri testimoni oculari. Sostennero invece che Rachel “si era nascosta dietro un terrapieno” e fu colpita dalla caduta di una lastra di cemento. I nostri fotografi sul posto, sia prima che dopo l’uccisione di Rachel, dimostrarono che lei si trovava in terreno aperto.

Secondo uno schema abituale la risposta ufficiale fu, in ordine approssimativo: non lo abbiamo fatto noi, lo abbiamo fatto ma non è stata colpa nostra, anche se è stata colpa nostra non siamo responsabili e comunque erano dei terroristi. Il comandante dell’esercito nel sud della Striscia di Gaza all’epoca dell’uccisione disse a un tribunale di Haifa, probabilmente con un’espressione seria, che “un’organizzazione terroristica ha inviato Rachel Corrie a intralciare i soldati dell’esercito. Lo dico con conoscenza di causa.” Gli osservatori dell’attuale guerra ricorderanno una serie di analoghe dichiarazioni “categoriche”.

L’impunità di Israele è merce di esportazione americana

I volontari che vanno in luoghi di guerra per stare accanto a chi è in prima linea sono sempre stati il fulcro della tradizione internazionalista. E ciò è vero ancora oggi, sia che accompagnino i pastori e i raccoglitori di olive sulle colline della Cisgiordania, sia che portino rifornimenti ai soldati ucraini sul fronte della guerra con la Russia, o forniscano assistenza medica ai rivoluzionari del Myanmar, o combattano il cosiddetto stato islamico insieme alle Unità di Protezione Popolare nel nordest della Siria. Questi impegni e le persone che li assumono non vanno idealizzati. Ma la profonda solidarietà e relazione che incarnano sono straordinarie.

Però questo genere di cose non è per tutti. E non deve esserlo. La solidarietà dei volontari che si recano in una zona di guerra per stare accanto a chi è in prima linea deve accompagnarsi ad un progetto complementare che cerca di mobilitare la potenza degli Stati – soprattutto degli Stati Uniti – verso gli stessi obbiettivi. E’ qualcosa in cui la maggioranza della gente può essere coinvolta in qualche modo. Nel caso della Palestina comincia con la creazione di sostegno pubblico e pressione politica verso un cessate il fuoco e un’interruzione degli aiuti militari a Israele. Ciò include una pressione incessante nei confronti di Biden e la difesa dei sostenitori del cessate il fuoco nel Congresso da coloro che vogliono punire la loro posizione.

Gli Stati Uniti avallano l’occupazione israeliana attraverso un massiccio aiuto militare e finanziario e ciò significa avallare l’attuale guerra a Gaza. Jeremy Konyndyk, un ex alto funzionario dell’amministrazione Biden, ha detto al Washington Post che l’amministrazione aveva agevolato “un numero straordinario di vendite nel corso di un brevissimo intervallo di tempo, il che suggerisce fortemente che la campagna israeliana non sarebbe stata sostenibile senza questo livello di supporto USA.”

Il risultato, sempre dolorosamente evidente a Rafah, è che l’impunità di Israele è merce di esportazione americana. Ma l’annullamento del sostegno non sarà con tutta probabilità sufficiente. Saranno necessarie sanzioni finalizzate a costringere al riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi. Dovranno andare ben oltre il prendere di mira singoli coloni o i loro sostenitori.

La richiesta di sanzioni è una sfida diretta al principale cardine non dichiarato della politica USA verso Israele. Biden e i suoi subalterni parleranno della necessità di uno Stato palestinese e della necessità per Israele di mostrare moderazione. Ma il loro principio fondamentale, che è stato assoluto per tre decenni ed era predominante nei decenni precedenti, è che Israele non deve mai essere costretto a fare simili concessioni. Israele può essere blandito, lusingato, persuaso e spronato, ma mai obbligato. La conseguenza è che la Palestina è tenuta in permanente stato di eccezione.

Un parente del dottor Nasrallah, il farmacista la cui casa di famiglia Rachel stava difendendo quando fu uccisa, mi ha detto che era come se Rafah fosse stata risucchiata in un “buco nero dove le leggi internazionali non valgono e il mondo non ci può vedere né sentire.”

Descrive quando è tornato a casa un pomeriggio sulla scena di una carneficina, in seguito ad un attacco aereo su un edificio vicino in cui almeno due famiglie sono state interamente spazzate via e un’altra ha perso due bambini. (Gli amici di Nasrallah stanno raccogliendo soldi per aiutarli a mettersi al sicuro.) Un parente che ha chiesto di non rivelare il suo nome ha detto che era ormai normale vedere uomini scoppiare in lacrime al minimo attacco perché indifesi e incapaci di provvedere alle loro mogli o figli. “Stiamo parlando, dice, del labile confine tra la vita e la morte.”

Un’invasione di Rafah, che potrebbe avvenire tra qualche settimana, sarebbe un disastro “oltre ogni immaginazione”, dicono i medici delle Nazioni Unite. Come ha detto Rachel poche settimane prima di essere uccisa: “Penso che per tutti noi sia una buona idea abbandonare tutto e dedicare la nostra vita a far sì che questo abbia fine.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il New York Times afferma che “molto probabilmente” forze israeliane hanno sparato a Shireen Abu Akleh.

Redazione di Al Jazeera

20 giugno 2022 – Al Jazeera

Un rapporto del New York Times si aggiunge al crescente numero di indagini che puntano il dito contro Israele per l’uccisione della giornalista di Al Jazeera.

Un’inchiesta del New York Times ha concluso che “molto probabilmente” un soldato israeliano ha colpito a morte la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, aggiungendosi a un crescente numero di indagini indipendenti che sono arrivati alla conclusione che l’inviata palestinese con cittadinanza americana è stata uccisa da forze israeliane.

Il rapporto del New York Times pubblicato lunedì [20 giugno] afferma che nessun uomo armato palestinese si trovava vicino a Abu Akleh quando è stata uccisa nella Cisgiordania occupata, smentendo la prima versione israeliana che incolpava i palestinesi per l’incidente.

L’indagine si basa sulle immagini video disponibili, su testimonianze dirette e su un’analisi acustica dei proiettili sparati nel momento in cui Abu Akleh è stata uccisa.

Un’inchiesta durata un mese del New York Times ha trovato che il proiettile che ha ucciso Abu Akleh è stato sparato più o meno dal luogo in cui si trovava il convoglio militare israeliano, molto probabilmente da un soldato di un’unità d’élite,” afferma il rapporto.

L’uccisione di Abu Akleh l’11 maggio ha suscitato l’indignazione internazionale e invoca la condanna delle aggressioni contro i giornalisti. La giornalista uccisa informava su avvenimenti e attacchi israeliani nei territori palestinesi occupati da 25 anni ed era diventata un volto familiare in tutto il mondo arabo.

È stata uccisa mentre indossava il giubbotto antiproiettile della stampa che la indicava chiaramente come giornalista, mentre stava per informare su un’incursione israeliana nella città cisgiordana di Jenin.

In precedenza inchieste del Washington Post, dell’Associated Press e dell’organizzazione di specialisti Bellingcat [gruppo di giornalisti investigativi con sede in Olanda, ndt.] erano arrivate alla conclusione che probabilmente Abu Akleh è stata uccisa dalle forze israeliane. Il mese scorso un’inchiesta della CNN [emittente televisiva di notizie statunitense, ndt.] ha affermato che le prove suggeriscono che l’esperta giornalista è stata uccisa in un “attacco mirato delle forze israeliane”.

Anche un’indagine dell’Autorità Nazionale Palestinese ha rilevato che Abu Akleh è stata deliberatamente colpita da forze israeliane.

La scorsa settimana Al Jazeera ha ottenuto un’immagine del proiettile che ha ucciso Abu Akleh estratto dal suo cranio. Secondo esperti di balistica e medici legali la pallottola era in grado di perforare una protezione blindata e viene utilizzata nei fucili M4, in dotazione all’esercito israeliano. Secondo gli esperti il proiettile è stato prodotto negli Stati Uniti.

La rete multimediale Al Jazeera ha accusato le forze israeliane di aver assassinato la giornalista “a sangue freddo”.

Israele, che ha ripetutamente cambiato la sua versione su come Abu Akleh è stata uccisa e la sua posizione riguardo all’indagine, ha respinto tali rapporti.

Alla fine di maggio il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha affermato di aver espresso la propria “protesta” al suo collega Antony Blinken riguardo a quella che ha definito “indagine tendenziosa sulla morte (di Abu Akleh) da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese così come la cosiddetta ‘inchiesta’ della CNN.”

Blinken e altri funzionari dell’amministrazione del presidente Joe Biden hanno sollecitato un’indagine trasparente riguardo all’uccisione di Abu Akleh, insistendo che Israele è l’autorità che la deve condurre. Washington ha anche rifiutato il possibile coinvolgimento della Corte Penale Internazionale nel caso.

I sostenitori dei diritti dei palestinesi hanno denunciato la posizione degli USA, sottolineando che Israele non può essere considerato affidabile nell’indagare su sé stesso.

Raramente le morti dei palestinesi suscitano l’attenzione internazionale, e soldati accusati di crimini contro i palestinesi in Cisgiordania raramente vengono incriminati,” afferma il rapporto del New York Times di lunedì.

Nonostante inchieste e prove disponibili puntino il dito contro Israele, questo mese Blinken ha detto chiaramente che i fatti relativi all’ uccisione di Abu Akleh “non sono stati ancora accertati.”

Nelle stesse dichiarazioni il capo della diplomazia USA ha chiesto un’indagine “indipendente”, ma in seguito il Dipartimento di Stato ha detto ad Al Jazeera che “non ci sono stati cambiamenti” nella posizione USA, secondo cui Israele deve essere la parte che conduce l’indagine.

Dopo l’omicidio di Abu Akleh le forze israeliane hanno aggredito i partecipanti al suo funerale, spingendo quelli che portavano il feretro della giornalista uccisa a farlo quasi cadere.

Inizialmente Israele ha affermato che “pare probabile che palestinesi armati” siano stati responsabili dell’uccisione di Abu Akleh.

Dopo l’incidente l’ufficio del primo ministro Naftali Bennett ha reso pubblico un video di palestinesi armati che sparano in un vicolo, suggerendo che erano stati loro ad aver sparato ad Abu Akleh. Ma questa versione è stata rapidamente smentita in quanto gli uomini armati non avevano una linea di tiro verso la giornalista assassinata, uccisa a centinaia di metri di distanza. E il video era stato ripreso ore prima che l’inviata venisse colpita.

Dopo qualche giorno l’esercito israeliano ha ammesso che la giornalista potrebbe essere stata uccisa da fuoco israeliano, ma ha escluso la possibilità che sia stata colpita deliberatamente.

Le autorità israeliane hanno anche cambiato la loro posizione riguardo all’inchiesta. Mentre Israele ha chiesto di visionare il proiettile che ha ucciso la giornalista, all’inizio ha affermato che non ci sarebbe stata un’indagine penale sull’incidente.

Ma in seguito mezzi di comunicazione israeliani hanno citato l’avvocato generale militare, secondo cui l’esercito sta “facendo ogni sforzo” per indagare sull’incidente.

Tuttavia all’inizio del mese il Washington Post ha citato l’affermazione dell’esercito israeliano secondo cui “ha già concluso che non c’è stato un comportamento criminoso” nell’uccisione di Abu Akleh.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La normalizzazione non farà sparire i palestinesi

Noa Landau

29 marzo 2022 – Haaretz

Se solo avessi avuto uno shekel da ogni persona che di recente mi ha spiegato che il problema israeliano nel Negev è la perdita della governabilità, che i russi non avanzano sul fronte ucraino come avevano sperato, che Israele non è riuscito a imparare la lezione dell’Olocausto sui rifugiati e il cliché sull’attualità che al momento preferisco: che oggi possiamo dire con certezza che Francis Fukuyama aveva torto!

È quello che noi umani facciamo: aggrapparci ai cliché e ripeterli fino all’ovvietà per dare ordine e logica al caos delle nostre vite.

Uno di questi cliché usurati è la clamorosa intuizione che oggi vari Paesi arabi hanno interessi comuni con Israele non correlati alla situazione palestinese (e ora in coro ripetete con me: Iran, sicurezza informatica, gas naturale). La teoria che la pace con il mondo arabo possa e debba essere perseguita senza tenere conto dei palestinesi è stata promossa principalmente da Benjamin Netanyahu. A quasi tutte le riunioni diplomatiche da primo ministro sollevava il suo “paradigma ribaltato” del conflitto israelo-palestinese che spiegava così:

Il metodo (della sinistra) è questo: bisogna fare pericolose concessioni ai palestinesi perché è necessario un accordo con i palestinesi per fare la pace con gli arabi e di conseguenza con il mondo. … Io prima mi rivolgo al mondo e da lì vado al mondo arabo musulmano e dal mondo arabo musulmano arriviamo ai palestinesi. Solo così, se siamo così forti, capiranno che non hanno altra scelta che arrivare a un compromesso con noi.”

Presumibilmente gli accordi di Abramo [tra Israele e alcuni Paesi arabi, sponsorizzati da Trump, ndtr.] e ora il summit del Negev sono la manifestazione di questa teoria ora ovvia: un “nuovo Medio Oriente” senza la precondizione di una soluzione con i palestinesi. A causa della disperazione dovuta all’impasse nel contesto Gerusalemme-Ramallah, hanno smesso di negare il premio di una normalizzazione aperta per la fine dell’occupazione e l’hanno offerta in cambio della necessità condivisa di bloccare l’Iran e promuovere accordi su armi, energia e tecnologia, oltre all’accesso ad Al-Aqsa [la moschea più importante di Gerusalemme, ndtr.]. 

Persino il tragico attacco terroristico a Be’er Sheva avvenuto durante il summit a Sde Boker [tra i ministri degli esteri di Israele, USA e i Paesi arabi coinvolti negli Accordi di Abramo, ndtr.], un evento che in passato sarebbe potuto diventare un incubo diplomatico, è diventato, a causa dell’insolito legame con l’ISIS [che ha rivendicato l’attentato, ndtr.], un simbolo della lotta di Israele e dei Paesi arabi moderati contro il comune nemico islamista.

Il problema con questa tesi, che in realtà riflette l’ovvio, è che tutto ciò non significa che i palestinesi stiano scomparendo. Persino nello scenario di Netanyahu l’obiettivo alla fine sarebbe di adoperarsi per la pace anche con loro.

Perciò la più estesa normalizzazione fra Paesi arabi e Israele non significa che adesso noi possiamo ignorare i palestinesi, ma piuttosto che, ora più che mai, sta a noi trovare una soluzione. Perché a un cittadino degli Emirati (non che ce ne siano molti o che la loro opinione là conti molto) dovrebbe importare del conflitto israelo-palestinese più che a un israeliano o un palestinese? L’interesse in una soluzione era e resta innanzitutto nostro. 

Questo sogno infantile dell’apertura alla normalizzazione con il mondo arabo che farebbe evaporare i palestinesi è stato commentato dal Segretario di Stato USA Antony Blinken, che ci ha ricordato quello che la maggior parte degli israeliani preferirebbero dimenticare: gli accordi di Abramo non “sostituiscono i progressi fra palestinesi e israeliani.”

Anche la maggior parte dei ministri arabi nei loro discorsi hanno messo l’accento sui palestinesi. È molto facile descrivere questo come parole al vento e la semplice adesione all’assioma, ma sono forse gli arabi che hanno deciso di ribaltare il paradigma su di noi? Noi potremmo raggiungere i palestinesi tramite il mondo arabo e musulmano, aveva detto Netanyahu, e infatti è stato a causa degli Accordi di Abramo che il suo piano di annessione [di parte dei territori palestinesi occupati, ndtr.] è stato cestinato. Rafforzare le relazioni con il mondo arabo potrebbe essere anche un’opportunità nel contesto palestinese, ma dipende principalmente da noi e loro, non dall’opinione pubblica del Bahrain.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)