Cultura della memoria in Germania, i sionisti antisemiti e la liberazione della Palestina

Rachael Shapiro *-

1 marzo 2024 – Aljazeera

La tanto proclamatacultura della memoria” tedesca è nient’altro che vuota propaganda autocelebrativa.

Sono un’attivista ebrea solidale con la causa filo-palestinese originaria dell’area di New York e ora residente a Berlino. Mia nonna, di Colonia, era sopravvissuta all’Olocausto, fuggita a 16 anni negli Stati Uniti nel corso della Seconda Guerra Mondiale. I suoi genitori e gran parte della sua famiglia furono assassinati durante l’Olocausto. Sono tornata” in Germania circa cinque anni fa, una decisione nata in gran parte dal desiderio di guarire i traumi intergenerazionali miei e di mia nonna, allepoca ancora viva. Ho imparato il tedesco e nel corso degli ultimi anni della sua vita ho potuto parlarle nella sua lingua madre. Le raccontavo storie sulla vita in Germania, lei ha conosciuto alcuni dei miei amici ed apprezzava il modo in cui il Paese e la sua gente sembravano aver progredito elaborando le colpe della loro orribile storia.

Sono contenta che sia morta prima che avessi l’occasione di capire quanto fosse un’ingenua e idealistica illusione.

Negli ultimi anni della mia formazione sono diventata un’attivista nel movimento per la liberazione della Palestina liberandomi dal condizionamento estremista sionista e dal lavaggio del cervello insiti nella mia educazione; il mio apprezzamento per la Erinnerungskultur” (cultura della memoria”) tedesca si è rapidamente trasformato nella consapevolezza che lintero concetto non è altro che vuota propaganda autocelebrativa. Si basa sullo spostamento intenzionale e razzista dellantisemitismo e della responsabilità per lOlocausto dai tedeschi che lo hanno perpetuato agli arabi, ai musulmani e soprattutto ai palestinesi, che ora demonizzano e fanno capro espiatorio attraverso un meccanismo di deviazione e diversione.

Un documentario del 1985, Maloul Celebrates Its Destruction [Ma’loul commemora la sua distruzione, ndt.], fornisce un resoconto della distruzione di interi villaggi durante la Nakba del 1948. In esso, un intervistatore dice a un palestinese sfollato: Ma hanno ucciso sei milioni di ebrei”. La sua giusta risposta è: Li ho uccisi io? Coloro che li hanno uccisi devono essere ritenuti responsabili. Io non ho fatto male a una mosca. Il fatto che una verità così fondamentale sia stata sepolta così profondamente nel linguaggio della complessità” e del conflitto” è una prova dell’impegno e dell’estensione della narrazione imperialista diffusa da Israele, Stati Uniti e Germania (e dallOccidente in generale). Nel frattempo, più del 90% di tutti gli incidenti antisemiti in Germania è attribuibile allestrema destra, nonostante i dilaganti sforzi dei media di ignorare le statistiche, distorcere la realtà della violenza e del razzismo verso i palestinesi e mascherare il reale disinteresse per la così detta lotta allantisemitismo”.

Mentre gli episodi reali di antisemitismo rimangono in gran parte impuniti quelli di noi che sono solidali con la Palestina sono avvezzi alla brutale violenza di Stato, alla repressione e alla sorveglianza da parte della polizia e del governo tedesco in risposta a proteste pacifiche e boicottaggi. Ciò si è intensificato enormemente da quando è iniziato il genocidio a Gaza in ottobre, come sempre sotto il pretesto delle accuse di antisemitismo e Judenhass” (odio verso gli ebrei”). Ci impegniamo pertanto a rimanere forti e visibili, anche attraverso il nostro rifiuto di essere esclusi dalla lotta contro il crescente fascismo e il partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD).

Il 3 febbraio ho partecipato a una manifestazione anti-AfD a Berlino nellambito della coalizione filo-palestinese con il gruppo rivoluzionario marxista Sozialismus von Unten (Socialismo dal basso”), di cui sono membro attivo. Avevo un po’ di trepidazione allidea di partecipare a questa protesta dopo le esperienze violente, razziste e inquietanti vissute dai miei compagni palestinesi e filo-palestinesi durante le proteste anti-AfD delle ultime settimane. In tutta la Germania le persone che protestavano contro lAfD esprimendo anche solidarietà alla Palestina sono state vessate e attaccate senza pietà, denunciate alla polizia e allontanate violentemente sia dai manifestanti che dalla polizia.

In generale l’atmosfera era positiva e sembrava esserci una solidarietà più tangibile rispetto alle manifestazioni precedenti. Portavo un cartello che diceva: Jüdin gegen die AfD und Zionismus, für ein freies Palaestina” (Ebrea contro AfD e sionismo, per una Palestina libera”). Abbiamo distribuito volantini che sostenevano una mobilitazione strategica e sistematica contro lAfD. Abbiamo parlato con i manifestanti del legame tra la lotta al fascismo e la lotta per la liberazione della Palestina. Abbiamo spiegato che i palestinesi in Palestina stanno attualmente soffrendo a causa delle politiche fasciste contro le quali stiamo manifestando in Germania e che in Germania i palestinesi e coloro che sono solidali con loro sono già vittime di una concreta violazione e negazione di diritti umani fondamentali (libertà di parola, libertà di espressione, libertà di riunione). Abbiamo sottolineato limportanza di una solidarietà internazionale incondizionata.

Alcuni manifestavano con prudenza, evidentemente per paura di essere considerati antisemiti, ma molti erano curiosi, interessati e aperti a saperne di più. Per quanto i media tradizionali abbiano cercato di distorcere e manipolare le notizie sul genocidio in corso a Gaza un recente sondaggio ha mostrato che tra gli elettori tedeschi solo il 25% ha risposto affermativamente alla domanda se credano che gli attacchi di Israele a Gaza siano giustificati; Il 61% crede di no. Quest’ultimo gruppo era chiaramente presente alla manifestazione.

Dopo circa un’ora sono entrata in contatto con un rappresentante del 25% del sondaggio. Un uomo tedesco anziano con unespressione aggressiva si è avvicinato fermandosi davanti a me e ha quasi urlato: Allora quali sono secondo te le somiglianze tra lAfD e Israele? Capivo che non era disponibile ad affrontare una conversazione ragionevole, ma comunque ho iniziato a cercare di spiegare. Dopo poche parole ha alzato gli occhi al cielo e mi ha sputato addosso.

È difficile descrivere la particolare tonalità di rosso che ci ho visto, l’amaro del sangue che pompava alla testa, il gusto acre della furia sulla mia lingua. Era come se vedessi i volti senza vita dei miei bisnonni in balia dei nazisti, deportati e assassinati nel Ghetto di Varsavia così come appaiono nei miei sogni fin da quando ero bambina. Era la risolutezza con cui avrei difeso incondizionatamente fino al mio ultimo respiro la resistenza palestinese, il diritto di ogni popolo a resistere al proprio oppressore in qualsiasi forma. Ho sentito il sapore della rabbia e dellincredulità che tracimano dagli angoli delle nostre bocche mentre urliamo a squarciagola, vedendo il mondo osservare passivamente il massacro di uomini, donne e bambini palestinesi da più di quattro mesi e mezzo – muto, complice e accompagnato dall’eco implacabile di oltre 75 anni di occupazione, apartheid, furto, pulizia etnica, menzogne, disumanizzazione ed impressionante ingiustizia.

Ho rincorso quelluomo urlandogli che la mia famiglia era stata uccisa durante un genocidio a causa del fascismo; in risposta mi ha di nuovo sputato addosso.

Mi ha provocato: Che ne sai? LAfD è un partito fascista. Cosa centra questo con Israele?” Ho cominciato a sostenere l’evidenza: Mentre parliamo Israele sta commettendo un genocidio a Gaza…”, ma prima che finissi la frase mi ha sputato in faccia per la terza volta.

Mentre tremavo, infuriata e disgustata, il mio commento finale è stato: Sei chiaramente un antisemita”. Fino a quel momento era stato borioso e carico di disprezzo, ma (come già sapevo) questa battuta finale lo ha reso furioso. Mentre mi voltavo e me ne andavo, ha urlato: “COSA hai detto?”

Di recente un mio amico mi ha detto: I tedeschi non perdoneranno mai gli ebrei per lOlocausto”. Queste parole riecheggiano nelle mie orecchie e le sento vagare senza sosta nel petto, una dura e orribile verità nel cuore della società tedesca che riflette esattamente la mia esperienza di vita al suo interno. È sconcertante, comico e corrisponde al vero.

Dai neonazisti dellAfD agli esponenti della sinistra anti-tedeschi”, che affermano di combattere lantisemitismo tedesco sostenendo ossessivamente e incondizionatamente il sionismo, molti tedeschi di oggi sono carichi di rabbia repressa nei confronti degli ebrei. Che ne siano consapevoli o meno, ciò emerge in modo clamoroso dalla profonda, isterica ipocrisia di una reazione come quella dell’uomo della manifestazione, che ha sputato in faccia a una ebrea che manifestava contro il fascismo e il genocidio sulla base del suo rapporto personale e generazionale con il fascismo e il genocidio e si è di conseguenza arrabbiato per essere stato identificato come antisemita.

Questa furia è apparentemente una reazione all’”ingiustizia” dei tedeschi, che devono pentirsi per le azioni dei loro antenati, qualcosa per cui sono stati ampiamente lodati sulla scena globale. Il risentimento prende la forma di ottusità e fondamentalismo: gli unici concetti accettabili di ebraismo, popolo ebraico e vita ebraica” sono quelli che loro stessi, i tedeschi non ebrei, approvano esplicitamente. (Un esempio sono i commissari per la lotta all’antisemitismo” che affermano di rappresentare gli interessi del popolo ebraico in Germania, nessuno dei quali è ebreo o esperto in qualsiasi campo attinente o correlato.) Per molti tedeschi, lunico ebraismo accettabile è il sionismo, che in realtà non è affatto una forma di ebraismo. Quando sono costretti a confrontarsi con prospettive in conflitto con questa narrazione tossica o con un ebraismo non in linea con ciò che loro intendono la loro rabbia emerge in modo violento ed esplosivo. Gli Anti-tedeschisi armano della feticizzazione degli ebrei con il loro sionismo ossessivo, guidando aggressive campagne di odio e diffamazione contro coloro che non condividono le loro opinioni (inclusi gli ebrei antisionisti). Come osa qualcuno, soprattutto gli ebrei, mettere in discussione l’autorità dei tedeschi nel definire e relazionarsi con l’ebraismo, l’antisemitismo e il genocidio?

La pluridecennale collaborazione patologica tra Israele e Germania e la diffusa affermazione secondo cui la sicurezza di Israele è una ragione di Stato tedesca” (Staatsräson”), che sostiene l’integrazione sionista a fini politici e razzisti, hanno creato unatmosfera di paura, vergogna, senso di colpa e, in definitiva, ipocrisia che permea gran parte della società tedesca. Punisce le domande, dissuade dallapprendimento e annulla la necessaria comprensione dellebraismo come cultura ampia, differenziata e storicamente diasporica che esisteva molto prima del sionismo, ed esisterà molto tempo dopo.

La definizione di tutti gli ebrei e di tutto lebraismo come ununica entità uniforme, che parla necessariamente la stessa lingua (lebraico moderno), sostiene gli stessi valori (sionismo) e condivide unidentica cultura (che in Germania deve essere determinata dai tedeschi) è di fatto la precisa definizione di segregazione razziale antisemita e nazista e anche la retorica alienante e disumanizzante impiegata al suo servizio. La concezione rigida e intrinsecamente antisemita degli ebrei come popolo indifferenziato nativo” di ununica terra strutturata dal movimento nazionalista-coloniale sionista è semplicemente servita a continuare lopera di Hitler. Ha cancellato l’ebraismo laico in Europa. Ha sradicato lo yiddish, il ladino, l’ebraico-arabo, l’ebraico-persiano e altre lingue ebraiche. Ottantanni dopo lOlocausto è riuscita a sostenere la visione degli ebrei come un monolite, un incomodo straniero lontano dalla società tedesca, il cui tentativo di annientamento può ora essere sfruttato per giustificare lannientamento di un altro gruppo.

In Germania ormai da generazioni si tramanda la tradizione di controllo dellebraismo che, come nel caso delluomo della manifestazione anti-AfD, non ruota solo intorno ad una definizione consolidata e omogenea di ebrei ma anche e soprattutto al diritto e obbligo esclusivo dei tedeschi di dettarla.

Allora cosa ci rimane? Credo che possiamo vederlo nella statistica riportata sopra. La maggioranza dei tedeschi sa, nonostante quello a cui è stato portato a credere col condizionamento, che ciò che sta accadendo a Gaza è quanto meno sbagliato. Molti si accorgeranno che manca qualcosa di significativo e rilevante nella narrazione tradizionale sullantisemitismo, su Israele e sulla Palestina. Oserei dire che la maggior parte di coloro che marciano nelle strade contro lAfD lo fa perché vuole sinceramente stare dalla parte giusta della storia. Contemporaneamente, quella che in realtà è una minoranza è semplicemente più rumorosa, più arrabbiata e più visibile nel propagare il proprio razzismo anti-arabo, anti-musulmano e anti-palestinese, lantisemitismo e le opinioni a favore del genocidio e, così facendo, intimidisce gli altri coll’imporre loro un docile silenzio.

Nessuno nei principali media tedeschi ha riferito della mia esperienza alla protesta anti-AfD. Considerato il contesto culturale, questa non è una sorpresa. Ma mettere in rilievo questa ipocrisia e le narrazioni prevalenti e sempre più distruttive evidenziate da un simile incidente rappresenta una potente opportunità di educazione e responsabilizzazione. L’evidenziare le cause profonde e il contesto sociale di questi fatti consente di metterli a disposizione di tutti perché ognuno vi si possa confrontare. Dato che in così tanti scendono in strada è nostra responsabilità dargli i fatti come carburante per consentire a ogni singola persona di alzare la voce e sapere con fermezza di cosa parla e contro cosa parla. Così continueremo con più determinazione che mai nella lotta per una Palestina libera e nella mobilitazione contro il razzismo, il sionismo, lantisemitismo (di fatto), il fascismo e il genocidio. Lo ripeteremo ancora e ancora finché il ritmo delle nostre parole non diventerà il battito del cuore di una società che tenta di spegnere la nostra resistenza ma alla fine non ci riuscirà: Mai più significa mai più per nessuno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono allautrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

*Attivista ebrea antisionista residente a Berlino

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Abbiamo uno strumento per fermare i crimini di guerra di Israele: il BDS

Naomi Klein

10 gennaio 2024 – The Guardian

Nel 2005 i palestinesi hanno chiesto al mondo di boicottare Israele finché non rispetterà il diritto internazionale. Cosa sarebbe successo se li avessimo ascoltati?

Questa settimana, esattamente 15 anni fa, pubblicai un articolo su The Guardian. Iniziava così: “È ora. Da molto tempo. La miglior strategia per porre fine alla sempre più sanguinosa occupazione è che Israele diventi il bersaglio del tipo di movimento globale che ha posto termine all’apartheid in Sudafrica. Nel luglio 2005 una grande coalizione di organizzazioni palestinesi ha presentato un piano per fare proprio questo. Hanno chiesto alle persone di coscienza in tutto il mondo di imporre un boicottaggio generale e mettere in atto iniziative di disinvestimento contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica dell’era dell’apartheid. Era nata la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.”

Nel gennaio 2009 Israele scatenò una nuova fase sconvolgente di omicidi di massa nella Striscia di Gaza, denominando la sua feroce campagna di bombardamenti operazione “Piombo fuso”. Uccise 1.400 palestinesi in 22 giorni; il numero di vittime israeliane fu di 13. Questa per me fu la goccia che fece traboccare il vaso, e dopo anni di reticenza mi espressi pubblicamente a favore dell’appello guidato dai palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele, noto come BDS, finché non rispetterà le leggi internazionali e i principi universali dei diritti umani.

Nonostante il BDS avesse l’appoggio di più di 170 organizzazioni della società civile palestinese, a livello internazionale il movimento era ancora piccolo. Durante l’operazione Piombo fuso iniziò a cambiare, e vi aderì un crescente numero di associazioni studentesche e sindacati fuori dalla Palestina aderirono.

Però molti non lo fecero. Capivo perché questa tattica veniva percepita come problematica. C’è una lunga e penosa storia di attività economiche e istituzioni ebraiche prese di mira da antisemiti. Gli esperti in comunicazione che fanno pressione a favore di Israele sanno utilizzare questo trauma come arma, quindi etichettano invariabilmente campagne intese a combattere le politiche discriminatorie e violente di Israele come attacchi di odio verso gli ebrei in quanto gruppo identitario.

Per vent’anni il timore diffuso che deriva da questa falsa equazione ha protetto Israele dal dover affrontare tutto il potenziale di un movimento BDS, e ora, mentre la Corte Internazionale di Giustizia può ascoltare la devastante raccolta di prove del Sudafrica sul fatto che Israele sta commettendo il crimine di genocidio a Gaza, è più che sufficiente.

Dal boicottaggio degli autobus al disinvestimento sui combustibili fossili, le tattiche BDS hanno una storia ben documentata come l’arma più efficace dell’arsenale non-violento. Accoglierle e utilizzarle in questo momento di svolta per l’umanità è un obbligo morale.

La responsabilità è particolarmente grave per quanti di noi i cui governi continuano ad aiutare attivamente Israele con armi letali, lucrosi accordi commerciali e veti alle Nazioni Unite. Come ci ricorda il BDS, non dobbiamo consentire che questi accordi fallimentari parlino per noi senza contrastarli.

Gruppi di consumatori organizzati hanno il potere di boicottare imprese che investono nelle colonie illegali o riforniscono Israele di armi. I sindacati possono spingere i loro fondi pensione a disinvestire da queste imprese. Governi locali possono selezionare i fornitori in base a criteri etici che vietano questi rapporti. Come ci ricorda Omar Barghouti, uno dei fondatori e dirigenti del movimento BDS, “il più profondo obbligo etico in questi tempi è agire per porre fine alla complicità. Solo così possiamo realmente sperare di porre fine all’oppressione e alla violenza.”

In questo modo il BDS merita di essere visto come la politica estera del popolo, o la diplomazia dal basso, e se questa è sufficientemente forte obbligherà finalmente i governi ad imporre sanzioni dall’alto, come il Sudafrica sta cercando di fare. Che è chiaramente l’unica forza che può far cambiare rotta a Israele.

Barghouti sottolinea che, proprio come alcuni sudafricani bianchi hanno appoggiato le campagne contro l’apartheid durante quella lunga lotta, gli ebrei israeliani che si oppongono alle sistematiche violazioni del diritto internazionale da parte del loro Paese sono benvenuti nel BDS. Durante Piombo fuso un gruppo di circa 500 israeliani, molti dei quali importanti artisti e studiosi, fecero proprio questo, chiamando in seguito il loro gruppo Boicottaggio dall’interno.

Nel mio articolo del 2009 citavo la loro prima lettera per fare pressione, che chiedeva “l’adozione di immediate misure restrittive e sanzioni” contro il loro stesso Paese e faceva un parallelo diretto con la lotta sudafricana contro l’apartheid. “Il boicottaggio contro il Sudafrica è stato efficace,” sottolineavano, affermando che aveva contribuito a porre fine alla legalizzazione della discriminazione e ghettizzazione in quel Paese e aggiungendo: “Ma Israele è trattato con i guanti… Questo sostegno internazionale deve finire.”

Ciò era vero 15 anni fa; lo è in modo devastante oggi.

Il prezzo dell’impunità

Leggendo i documenti del BDS dalla metà alla fine degli anni 2000, sono rimasta molto colpita da quanto il contesto politico e umano si sia deteriorato. Negli anni successivi Israele ha costruito più muri, ha eretto più checkpoint, ha scatenato più coloni illegali e lanciato guerre molto più letali. Tutto è peggiorato: il veleno il livore, la rabbia, la convinzione di essere nel giusto, di aver ragione.

Chiaramente l’impunità, il senso di impenetrabilità e intangibilità che è alla base del modo in cui Israele tratta i palestinesi, non è una forza statica. Si comporta piuttosto come una fuoriuscita di petrolio: una volta rilasciata, filtra all’esterno, avvelenando tutto e tutti sul suo cammino. Si allarga e scende in profondità.

Da quando, nel luglio 2005, è stato scritto il primo appello per il BDS il numero di coloni che vivono illegalmente in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, è esploso, raggiungendo il numero stimato di 700.000, vicino a quello dei palestinesi espulsi nella Nakba del 1948. Come gli avamposti coloniali si sono estesi, così ha fatto la violenza degli attacchi dei coloni contro i palestinesi, tutto ciò mentre l’ideologia della supremazia ebraica e persino il fascismo esplicito si sono posti al centro della cultura politica israeliana.

Quando ho scritto il mio primo articolo sul BDS l’opinione assolutamente predominante era che l’analogia con il Sudafrica fosse scorretta e che la parola “apartheid”, che veniva usata da giuristi, attivisti e organizzazioni per i diritti umani palestinesi, fosse inutilmente provocatoria. Ora chiunque, da Humar Rights Watch ad Amnesty International, fino alla principale associazione israeliana per i diritti umani, B’Tselem, hanno fatto le loro attente analisi e sono arrivati alla inevitabile conclusione che apartheid è effettivamente il termine giuridico corretto per descrivere le condizioni sotto le quali israeliani e palestinesi conducono vite nettamente diseguali e segregate. Persino Tamir Pardo, ex-capo dell’agenzia di intelligence, il Mossad, ha ammesso il problema: “Qui c’è uno stato di apartheid,” ha affermato a settembre. “In un territorio in cui due popoli sono giudicati con due sistemi legali diversi, c’è uno stato di apartheid.”

Oltretutto molti adesso comprendono che l’apartheid esiste non solo nei territori occupati, ma all’interno dei confini di Israele del 1948, una questione esposta in un importante rapporto del 2022 dalla coalizione di associazioni palestinesi per i diritti umani riunita da Al-Haq [ong palestinese, ndt.]. È difficile sostenere il contrario quando l’attuale governo israeliano di estrema destra è arrivato al potere con un accordo di coalizione che afferma: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le zone della Terra di Israele…la Galilea, il Negev, il Golan, Giudea e Samaria.” Quando regna l’impunità, tutto cambia e si muove, comprese le frontiere coloniali. Niente rimane statico.

Poi c’è Gaza. All’epoca il numero dei palestinesi uccisi nell’operazione Piombo fuso sembrava inimmaginabile. Abbiamo rapidamente imparato che non si trattava di un caso isolato. Diede invece inizio a una nuova politica omicida a cui i comandanti militari israeliani si riferiscono con noncuranza come “tagliare l’erba”: ogni due anni c’è stata una nuova campagna di bombardamenti, con l’uccisione di centinaia di palestinesi o, nel caso dell’operazione Margine protettivo del 2014, più di 2.000, tra cui 526 minori.

Questi dati scioccarono di nuovo e scatenarono un’altra ondata di proteste. Non fu ancora sufficiente a porre fine all’impunità di Israele, che ha continuato ad essere protetto dal solido veto degli USA all’ONU, oltre che dal costante afflusso di armi. Ancor più distruttivi della mancanza di sanzioni internazionali sono state le ricompense: negli ultimi anni, insieme a tutta questa impunità, Washinton ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e poi vi ha spostato l’ambasciata. Ha anche mediato i cosiddetti accordi di Abramo, che hanno avviato intese di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco.

È stato Donald Trump che ha iniziato a ricoprire Israele di questi ultimi regali a lungo cercati, ma il processo è continuato allo stesso modo con Joe Biden. Così, alla vigilia del 7 ottobre, Israele e Arabia Saudita stavano per firmare quello che è stato frivolmente acclamato come “l’accordo del secolo”.

Dov’erano i diritti e le aspirazioni dei palestinesi in tutti questi accordi? Assolutamente da nessuna parte. Perché l’altra cosa che è cambiata in questi anni di impunità è stata ogni scusa che Israele intendeva per tornare al tavolo dei negoziati. L’evidente obiettivo è stato reprimere con la forza, insieme all’isolamento fisico e politico e alla frammentazione, il movimento dei palestinesi per l’autodeterminazione.

Sappiamo come sono andati a finire i successivi capitoli di questa storia. L’orripilante attacco di Hamas il 7 ottobre. La furibonda determinazione israeliana di sfruttare quei crimini per fare quello che alcuni importanti dirigenti del governo volevano fare comunque da molto tempo: spopolare Gaza dei palestinesi, che attualmente sembrano cercare di fare attraverso la combinazione di uccisioni dirette, demolizione massiccia di case (“domicidio”), la diffusione di fame, sete e malattie infettive e infine espulsioni di massa.

Sia chiaro: questo è il risultato di consentire a uno Stato di fare tutto quello che vuole, lasciare che l’impunità regni senza controllo per decenni, utilizzando i veri traumi collettivi patiti dal popolo ebraico come scusa senza fine e storia di copertura. Un’impunità come questa non inghiottirà solo un Paese, ma ogni Paese con cui è alleato, l’intera architettura del diritto umanitario forgiato tra le fiammo dell’Olocausto nazista. Se lo consentiamo.

Un decennio di attacchi giudiziari contro il BDS

Il che pone un’altra questione che non è rimasta costante nel corso degli ultimi 20 anni: la crescente ossessione israeliana per reprimere il BDS, anche a costo di diritti politici faticosamente conquistati. Nel 2009 c’erano molti argomenti di chi criticava il BDS sul perché fosse una cattiva idea. Alcuni temevano che il boicottaggio culturale e accademico avrebbe bloccato il necessario dialogo con i progressisti israeliani e che si sarebbe trasformato in censura. Altri sostenevano che misure punitive avrebbero creato una reazione e spostato Israele ancora più a destra.

Quindi, ripensandoci adesso, è sorprendente che queste discussioni iniziali siano sostanzialmente sparite dalla sfera pubblica, e non perché una parte abbia vinto il dibattito. Sono scomparse perché la stessa idea di discuterne è stata sostituita da una strategia totalizzante: utilizzare l’intimidazione giudiziaria e istituzionale per rendere impraticabili le tattiche del BDS e bloccare il movimento.

Secondo Palestine Legal [gruppo di difesa giudiziaria con sede a Chicago, ndt.], che ha monitorato da vicino questa impennata, ad oggi negli Stati Uniti sono state istituite in totale 293 leggi anti-BDS in tutto il Paese, e sono state approvate in 38 Stati. Spiega che alcune leggi prendono di mira i finanziamenti alle università, altre prevedono che chiunque vinca un appalto con uno Stato o lavori per esso firmi un contratto in cui si impegna a non boicottare Israele, e altre ancora “chiedono allo Stato di compilare liste nere pubbliche di organizzazioni che fanno boicottaggio a favore dei diritti dei palestinesi o appoggiano il BDS.” Nel contempo in Germania il sostegno ad ogni forma di BDS è sufficiente perché vengano revocati premi, tolti finanziamenti, spettacoli e conferenze vengano annullati (una cosa che ho potuto sperimentare di persona).

Non sorprende che questa strategia sia ancora più aggressiva all’interno di Israele. Nel 2011 il Paese ha emanato la legge per la Prevenzione dei Danni per lo Stato di Israele attraverso il Boicottaggio, stroncando efficacemente fin dai suoi inizi il nascente movimento “Boicottaggio dall’interno”. Il centro legale Adalah, un’organizzazione che lavora per i diritti della minoranza araba in Israele, spiega che la legge “vieta la promozione pubblica del boicottaggio accademico, economico o culturale da parte di cittadini e organizzazioni israeliani contro istituzioni israeliane o contro le illegali colonie israeliane in Cisgiordania. Consente di presentare denunce giudiziarie contro chiunque chieda il boicottaggio.” Come le leggi a livello statale negli USA, “proibisce anche a una persona che sostenga il boicottaggio di partecipare a gare di appalto pubbliche.” Nel 2017 Israele ha iniziato a impedire l’ingresso in Israele ad attivisti del BDS; 20 associazioni internazionali, compresa la coraggiosa [organizzazione] contro la guerra Jewish Voice for Peace, sono state messe sulla cosiddetta lista nera BDS.

Nel contempo negli USA lobbisti a favore delle imprese energetiche e dei fabbricanti di armi stanno prendendo spunto dall’offensiva giudiziaria contro il BDS e propugnano leggi fotocopia per limitare campagne di disinvestimento rivolte ai loro clienti. “Ciò spiega perché sia così pericoloso consentire questo tipo di eccezione palestinese alla [libertà di] parola,” ha detto alla rivista Jewish Currents Meera Shah, importante avvocatessa che fa parte di Palestine Legal. “Perché non danneggia solo il movimento per i diritti dei palestinesi, di fatto colpisce anche altri movimenti sociali.” Ancora una volta niente rimane fermo, l’impunità si estende e quando i diritti al boicottaggio e al disinvestimento vengono tolti alla solidarietà per la Palestina, si cancella anche il diritto di utilizzare questi stessi strumenti per sostenere l’attivismo contro i cambiamenti climatici, per il controllo delle armi e per i diritti LGBTQ+.

In un certo senso questo è un vantaggio, perché rappresenta un’opportunità di rafforzare alleanze tra movimenti. Ogni importante organizzazione e sindacato progressista ha interesse a proteggere il diritto al boicottaggio e al disinvestimento come principio fondamentale della libertà di espressione e strumento critico di trasformazione sociale. La piccola squadra di Palestine Legal ha guidato in modo straordinario l’opposizione negli USA avviando procedimenti giudiziari contro le leggi anti-BDS in quanto anticostituzionali e appoggiando le cause di altri. Meritano un sostegno molto maggiore.

È finalmente il momento del BDS?

C’è un altro motivo per essere fiduciosi: la ragione per cui Israele perseguita il BDS con tanta ferocia è la stessa per cui così tanti attivisti hanno continuato a credere in esso nonostante questi attacchi su più fronti. Perché può funzionare.

Lo abbiamo visto quando imprese multinazionali si ritirarono dal Sudafrica negli anni ‘80. Non fu perché vennero improvvisamente colpite da una rivelazione morale antirazzista. Piuttosto, dato che il movimento era diventato internazionale e le campagne di boicottaggio e disinvestimento iniziavano a influenzare la vendita di auto e i clienti delle banche fuori dal Paese, queste imprese ritennero che a loro sarebbe costato di più rimanere in Sudafrica che andarsene. I governi occidentali iniziarono tardivamente a imporre sanzioni per le stesse ragioni.

Ciò danneggiò il settore commerciale sudafricano, parte del quale mise sotto pressione il governo dell’apartheid perché facesse concessioni ai movimenti per la liberazione dei neri che si erano ribellati per decenni contro l’apartheid con rivolte, scioperi di massa e la resistenza armata. I costi di mantenere il crudele e violento status quo stavano crescendo sempre di più anche per l’élite sudafricana.

Alla fine degli anni ‘80 la tenaglia della pressione dall’esterno e dall’interno crebbe tanto che il presidente F. W. de Klerk fu obbligato a liberare Nelson Mandela dal carcere dopo 27 anni e poi a tenere elezioni democratiche, che portarono Mandela alla presidenza.

Le organizzazioni palestinesi che hanno tenuto viva la fiamma del BDS attraverso alcuni anni molto cupi sperano ancora nel modello sudafricano di pressioni dall’esterno. Infatti, mentre Israele perfeziona l’architettura e la progettazione della ghettizzazione e dell’espulsione, esso potrebbe essere l’unica speranza.

Ciò a causa del fatto che Israele è decisamente meno sensibile alla pressione interna da parte dei palestinesi di quanto lo fossero i sudafricani bianchi sotto l’apartheid, che dipendevano dalla manodopera dei neri per tutto, dal lavoro domestico alle miniere di diamanti. Quando i sudafricani neri si rifiutarono di lavorare o si impegnarono in altre forme di danneggiamento dell’economia, ciò non poté essere ignorato.

Israele ha imparato dalla vulnerabilità del Sudafrica; dagli anni ‘90 si è progressivamente ridotta la sua dipendenza dal lavoro dei palestinesi, soprattutto grazie ai cosiddetti lavoratori ospiti e all’ingresso di circa un milione di ebrei dall’ex Unione Sovietica. Ciò ha contribuito a rendere possibile per Israele passare dal modello di oppressione dell’occupazione all’attuale modello di ghettizzazione, che cerca di far sparire i palestinesi dietro a imponenti muri con sensori ad alta tecnologia e il molto decantato sistema di difesa aerea israeliana Iron Dome.

Ma questo modello, chiamiamola bolla fortificata, porta con sé vulnerabilità, e non solo per gli attacchi di Hamas. La vulnerabilità più strutturale deriva dall’estrema dipendenza di Israele dal commercio con l’Europa e il Nord America per tutto, dal suo settore turistico a quello tecnologico per la sorveglianza basato sull’intelligenza artificiale. Il marchio che Israele ha forgiato per se stesso è quello di un aggressivo, moderno avamposto occidentale nel deserto, una piccola bolla di San Francisco o Berlino che casualmente si è ritrovato nel mondo arabo.

Ciò lo rende straordinariamente suscettibile solamente alle azioni del BDS, compreso il boicottaggio culturale e accademico. Perché quando popstar che vogliono evitare polemiche cancellano le loro date a Tel Aviv, prestigiose università USA interrompono la loro collaborazione con quelle israeliane dopo aver assistito alla distruzione di varie scuole e università palestinesi e il bel mondo non sceglie più Eilat per le proprie vacanze perché i follower su Instagram non ne rimangono impressionati, ciò danneggia tutto il modello economico israeliano e la sua autorappresentazione.

Ciò metterà pressione dove i dirigenti israeliani oggi sono poco sensibili. Se le imprese internazionali di alta tecnologia e di progettazione smetteranno di vendere prodotti e servizi all’esercito israeliano, ciò aumenterà ancor di più la pressione, forse abbastanza da cambiare le dinamiche della politica. Gli israeliani vogliono disperatamente far parte della comunità mondiale, e se si troveranno improvvisamente isolati molti più elettori potranno iniziare a chiedere alcune delle azioni che gli attuali dirigenti israeliani scartano immediatamente, come negoziare con i palestinesi per una pace duratura radicata nella giustizia e nell’uguaglianza, come definita dalle leggi internazionali, piuttosto che cercare di proteggere la bolla fortificata con fosforo bianco e pulizia etnica.

Ovviamente il nodo è che, perché le tattiche non violente del BDS funzionino, le vittorie non possono essere sporadiche o marginali. Devono essere sostanziali e diffuse, almeno quanto la campagna sudafricana, che vide importanti imprese come la General Motors e la banca Barclays ritirare i loro investimenti, mentre artisti molto popolari come Bruce Springsteen e Ringo Starr riunirono il supergruppo per antonomasia degli anni ‘80 per cantare a squarciagola “Non suonerò a Sun City”, un riferimento alla lussuosa e iconica località sudafricana.

Il movimento BDS che prende di mira l’ingiustizia israeliana è sicuramente cresciuto negli ultimi 15 anni. Barghouti stima che “i sindacati dei lavoratori e dei contadini, così come movimenti per la giustizia razziale, di genere e per il clima” che lo appoggiano “insieme rappresentino decine di milioni in tutto il mondo”. Ma il movimento deve ancora raggiungere un punto di svolta di livello sudafricano.

Tutto questo ha avuto un costo. Non c’è bisogno di essere uno storico delle lotte di liberazione per sapere che, quando tattiche con una base etica sono ignorate, emarginate, calunniate e bandite, altre tattiche, slegate da queste preoccupazioni etiche, diventano molto più interessanti per persone alla disperata ricerca di una qualunque speranza di cambiamento.

Non sapremo mai quanto avrebbe potuto essere diverso il presente se molte più persone, organizzazioni e governi avessero dato ascolto all’appello BDS fatto dalla società civile palestinese quando venne lanciato nel 2005. Qualche giorno fa, quando ho contattato Barghouti, non stava guardando indietro a 20, ma a 75 anni di impunità. Israele, ha detto, “non sarebbe stato in grado di perpetrare il suo continuo genocidio a Gaza mostrato in televisione senza la complicità con il suo sistema di oppressione di Stati, imprese e istituzioni.” La complicità, ha sottolineato, è qualcosa che abbiamo sempre il potere di rifiutare.

Una cosa è certa: le attuali atrocità a Gaza rafforzano drammaticamente la causa del boicottaggio, del disinvestimento e delle sanzioni. Le tattiche nonviolente, che molti hanno cancellato in quanto estremiste o nel timore di essere etichettati come antisemiti, appaiono in modo molto diverso attraverso la fosca luce di vent’anni di massacri, con nuove rovine sulle vecchie, nuovi dolori e traumi scolpiti nella psiche delle nuove generazioni e nuovi abissi di depravazione raggiunti sia a parole che nei fatti.

Domenica scorsa nel suo spettacolo finale su MSNBC [canale televisivo statunitense via cavo di notizie, ndt.] Mehdi Hasan ha intervistato il fotogiornalista palestinese di Gaza Motaz Azaiza, che rischia la vita ogni giorno per inviare al mondo le immagini delle uccisioni di massa da parte di Israele. Il suo messaggio agli spettatori statunitensi è stato netto: “Non definitevi persone libere se non potete fare cambiamenti, se non potete fermare un genocidio che è ancora in corso.”

In un momento come questo siamo quello che facciamo. Molta gente ha fatto più di quanto abbia mai fatto in pricedenza: bloccato l’invio di armi, occupato sedi del governo chiedendo un cessate il fuoco, partecipato a proteste di massa, detto la verità, per quanto difficile. La combinazione di queste azioni potrebbe aver contribuito allo sviluppo più significativo nella storia del BDS: il ricorso del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) dell’Aia in cui accusa Israele di commettere un genocidio e chiede misure temporanee per fermare il suo attacco contro Gaza.

Una recente analisi del giornale israeliano Haaretz nota che, se la CIG sentenziasse a favore del Sudafrica, anche se gli USA ponessero il veto alle Nazioni Unite su un intervento militare, “un decreto ingiuntivo potrebbe dare come risultato che Israele e imprese israeliane vengano boicottate e sottoposte a sanzioni imposte da singoli Paesi o da gruppi di Nazioni.”

Nel contempo boicottaggi dal basso stanno già iniziando a farsi sentire. A dicembre Puma, uno dei principali bersagli del BDS, ha fatto sapere che porrà fine alla sua controversa sponsorizzazione della squadra nazionale di calcio israeliana. Prima di questo in Italia c’è stato un esodo di artisti da un importante festival del fumetto dopo che si è scoperto che l’ambasciata israeliana era tra gli sponsor.

E questo mese Chris Kempczinski, amministratore delegato di McDonald, ha scritto che quella che ha chiamato “disinformazione” stava avendo “un importante impatto economico” su alcune delle sue vendite in “vari mercati mediorientali e altri fuori dalla regione”. Si è trattato di un riferimento a un’ondata di indignazione scatenata dalla notizia secondo cui McDonald Israel aveva donato migliaia di pasti ai soldati israeliani. Kempczinski ha cercato di distanziare la marca internazionale da “gestori locali,” ma poche persone del movimento BDS sono state convinte da questa distinzione.

Mentre la spinta a favore del BDS continua ad aumentare, sarà fondamentale essere ben consapevoli che siamo nel bel mezzo di un’allarmante e concreta impennata di crimini d’odio, molti dei quali contro palestinesi e musulmani, ma anche contro attività economiche e istituzioni ebraiche solo per il fatto che sono tali. Questo è antisemitismo, non attivismo politico.

Il BDS è un movimento serio e non violento, con un modello organizzativo consolidato. Pur lasciando autonomia ai militanti locali per definire quali campagne funzioneranno nei loro territori, il Comitato Nazionale del BDS (BNC) stabilisce i principi guida del movimento e seleziona con cura come obiettivo un piccolo gruppo di imprese scelte “in base alla complicità da loro dimostrata con le violazioni dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele.”

Il BNC ha anche ben chiaro che non chiede il boicottaggio dei singoli israeliani in quanto tali, affermando di “rifiutare per principio il boicottaggio di singole persone in base alle loro opinioni o identità (come la cittadinanza, la razza, il genere o la religione)”. In altre parole i bersagli sono le istituzioni complici dei sistemi di oppressione, non le persone.

Nessun movimento è perfetto. Ogni movimento farà passi falsi. Ora tuttavia la questione più pressante ha poco a che vedere con la perfezione. È semplicemente questa: cosa ha maggiori possibilità di cambiare uno status quo moralmente intollerabile, fermando nel contempo ulteriore spargimento di sangue?  Gideon Levy, indomito giornalista di Haaretz, non si fa illusioni su quello che ci vorrà. Recentemente ha detto ad Owen Jones [editorialista inglese di sinistra, ndt.]: “La chiave è la comunità internazionale, intendo dire che Israele non cambierà da solo… La formula è molto semplice: finché gli israeliani non pagheranno e non verranno puniti per l’occupazione, non saranno chiamati a rendere conto di essa e non lo sentiranno nel quotidiano, non cambierà niente.”

È tardi

Nel luglio 2009, pochi mesi dopo che il mio primo articolo sul BDS era stato pubblicato, viaggiai a Gaza e in Cisgiordania. A Ramallah tenni una conferenza sulla mia decisione di appoggiare il BDS. Includeva scuse per non aver aggiunto prima la mia voce, cosa che confessai derivare dalla paura che la tattica fosse troppo estremista in quanto diretta contro uno Stato fondato sul trauma ebraico; paura che sarei stata accusata di tradire il mio popolo. Timori che ho ancora. “Meglio tardi che mai,” mi disse un membro del gentile pubblico dopo il discorso.

Allora era tardi; lo è ancora adesso. Ma non troppo tardi. Non troppo tardi perché tutti noi creiamo la nostra politica estera dal basso, che intervenga nella cultura e nell’economia in modo intelligente e strategico, che offra una speranza tangibile che finalmente siano finiti i decenni di impunità senza controllo di Israele.

Come ha chiesto la scorsa settimana il comitato nazionale del BDS: “Se non ora, quando? Il movimento sudafricano contro l’apartheid si organizzò per decenni per conquistare un vasto appoggio internazionale che portò alla caduta dell’apartheid, e l’apartheid crollò. La libertà è inevitabile. Ora è tempo di attivarsi per unirsi al movimento per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza in Palestina.”

Basta. È il momento di un boicottaggio.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Editoriale. Antisemitismo. L’estrema destra sbiancata attraverso il suo sostegno a Israele

Alain Gresh e Sarra Grira

19 dicembre 2023 – Orient XXI

La scena sarebbe stata impensabile nemmeno troppo tempo fa: deputati e sostenitori dell’estrema destra, alcuni compagni di strada del Gruppo Unione Difesa [sindacato studentesco di estrema destra, ndt.] (GUD) , che sfilano accanto a gruppi estremisti ebrei come la Lega di Difesa Ebraica (LDJ) e il Bétar [movimento giovanile del partito revisionista sionista fondato da Vladimir Jabotinsky, ndt.], durante la “marcia contro l’antisemitismo” del 12 novembre a Parigi. Nello stesso momento una parte della sinistra, che ha accettato di far da garante a questa manifestazione, veniva fischiata.

In poche settimane le autorità francesi, spalleggiate da diverse forze politiche e dai media, hanno rimosso l’ultimo ostacolo alla “normalizzazione” dell’estrema destra nello spazio politico, tollerando, anzi felicitandosi, della partecipazione del Rassemblement National (RN) [partito francese di estrema destra sovranista di Marine Le Pen, nato dal Front National, ndt.] e di Reconquète [partito francese di estrema destra fondato dal giornalista Eric Zemmour, ndt.] alla marcia del 12 novembre contro l’antisemitismo. L’odio per gli ebrei quindi non è più collegato agli eredi del Front National – partito co-fondato da un vecchio combattente delle SS – che continuano ad affermare che Jean-Marie Le Pen non è antisemita.

Questo antisemitismo non avrebbe alcun legame nemmeno con Reconquête, il cui dirigente Eric Zemmour continua a ripetere, nonostante le sue condanne, che il maresciallo Pétain avrebbe “salvato gli ebrei francesi”. Ormai questo razzismo si manifesterebbe soprattutto attraverso “la diserzione della France Insoumise [movimento politico di sinistra radicale, lanciato da Melanchon, ndt.]”, secondo Dov Alfon, direttore di Liberation, per il quale “la partecipazione del Rassemblement National alla marcia civica” sarebbe semplicemente “imbarazzante” (sic). E per non interrompere un così virtuoso cammino, alcuni partecipanti a questa marcia hanno sventolato, contrariamente a quanto affermato da molti media, delle bandiere israeliane, avallando così la confusione – troppo frequente, troppo sistematica, troppo pericolosa – tra Israele e gli ebrei. Un gesto in linea con l’intenzione già manifestata dal Presidente Emmanuel Macron nel luglio 2017, in occasione della commemorazione del rastrellamento del Velodromo d’Inverno [la più grande retata di ebrei in Francia durante la seconda guerra mondiale, ndt.] al fianco di Benjamin Netanyahu, di fare di Israele il depositario della lotta contro l’antisemitismo nel mondo.

Ebrei? No, israeliani

L’esempio è venuto dall’alto. Il governo di Emmanuel Macron, quello stesso che affermava che Philippe Pétain fu “un grande soldato”, desiderava commemorare la nascita di Charles Maurras, difensore dell’antisemitismo di Stato. Quanto al Ministro dell’Interno Gérald Darmanin, ha scritto un libro per spiegare che Napoleone Bonaparte “si interessò a dirimere le difficoltà relative alla presenza di decine di migliaia di ebrei in Francia. Alcuni di loro praticavano l’usura e davano origine a disordini e lamentele.”

Per il Rassemblement National il processo di ‘sbiancamento’ è iniziato nel 2011: Marine Le Pen affermava allora il sostegno del suo partito ad Israele, mentre Louis Aliot, suo compagno e numero due di quello che ancora si chiamava Front National, si recò a Tel Aviv e nelle colonie per cercare di sedurre l’elettorato francese. Di che far dimenticare i conti del padre e rassicurare le autorità israeliane che, dopo parecchi anni, non nascondono i loro legami con questi sionisti antisemiti, di cui il populista ungherese Victor Orban è uno dei capofila. Recentemente Israele ha avviato un dialogo con il partito Alleanza per l’Unità dei Romeni, che glorifica Ion Antonescu, il leader del Paese durante la seconda guerra mondiale. Collaborò coi nazisti e fu responsabile della morte di 400.000 ebrei. Dall’Austria alla Polonia, Netanyahu non conta più i suoi alleati di estrema destra, neofascisti, spesso negazionisti o nostalgici del III Reich.

La classe dirigente israeliana in realtà non fa che perpetuare così una tradizione che risale ai tempi dei padri fondatori del sionismo: trovare negli antisemiti europei degli alleati per la loro impresa, e che si protrae sulla scia della “convergenza coloniale”. L’universitario israeliano Benjamin Beit-Hallahmi scriveva, a proposito dell’alleanza tra il suo Paese e il Sudafrica dell’apartheid negli anni 1960-1980, il cui partito al potere dal 1948 aveva avuto simpatie per la Germania nazista:

“Si possono detestare gli ebrei e amare gli israeliani perché, in parte, gli israeliani non sono ebrei. Gli israeliani sono dei coloni e dei combattenti, come gli afrikaners [bianchi di origine olandese e ugonotta insediati dell’Africa meridionale, ndt.].”

Così, trovare degli accordi con l’antisemitismo europeo è da tempo la scelta dei dirigenti israeliani, che non si interessano alla lotta contro questo razzismo se non per mettere a tacere le critiche al loro governo, sulla scia di Netanyahu che definisce “antisemita” ogni velleità della Corte Penale Internazionale (CPI) o dell’ONU di indagare sui crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano. Il giornalista Amir Tibon di Haaretz racconta quanto questa alleanza sia “una priorità delle forze religiose di destra in Israele, che propongono ai nazionalisti europei uno scambio: Israele vi fornirà un timbro di approvazione (alcuni lo hanno cinicamente definito un “certificato kasher”) e in cambio voi sosterrete le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.” Troviamo la stessa strategia nei confronti degli Stati Uniti, quando Netanyahu chiude un occhio sulle frequentazioni antisemite di Donald Trump, sull’ideologia dei fondamentalisti cristiani, la lobby filoisraeliana più potente a Washington che lo sostiene, o quando riceve il padrone di X (ex Twitter) Elon Musk a Gerusalemme alcuni giorni dopo aver approvato un tweet antisemita di quest’ultimo. Se il miliardario americano alla fine si è scusato, la sua piattaforma ha visto crescere del 60% i tweet antisemiti dopo che lui ne ha assunto il controllo.

La Palestina come catalizzatore

È proprio intorno alla “convergenza coloniale” che si articola il “nuovo antisemitismo” contro cui marciano, fianco a fianco, i partiti cosiddetti repubblicani e quelli di estrema destra. I loro due bersagli? Da una parte la sinistra anti-colonialista, quella che rifiuta la gerarchia dei razzismi, che non ne denuncia uno (l’antisemitismo) per negare l’esistenza dell’altro (l’islamofobia), e i musulmani nel loro insieme, che ancora ieri venivano chiamati “gli arabi”, i più anziani dei quali marciavano già 40 anni fa contro il razzismo di Stato. Questa sinistra che ha rifiutato di sbiancare il RN viene demonizzata, definita antisemita per la minima critica contro Israele, mentre il Ministro dell’Interno in nome della lotta contro l’antisemitismo, prima di essere richiamato all’ordine dai tribunali, vieta ripetutamente ai sostenitori delle vittime palestinesi di manifestare o di radunarsi.

Il fatto è che gli israeliani come i dirigenti di estrema destra europei percepiscono i musulmani come il nemico principale. Il genocidio in corso a Gaza serve da catalizzatore di questa strategia. Intorno alla difesa di Israele si ritrovano l’estrema destra e i sostenitori di questo Stato, entrambi ricorrendo all’immaginario dello “scontro delle civiltà” in atto dall’11 settembre 2001. Alle dichiarazioni bellicose e escatologiche di Netanyahu, che parla di lotta del “popolo della luce” contro “il popolo delle tenebre” fanno eco le affermazioni di Gilles-William Goldnadel su Le Figaro che evocano “la battaglia finale” tra “l’essere occidentale, la sua cultura pacifica e democratica” e “l’oriente”. Tra la realtà coloniale nella Palestina occupata e quella fantasmatica di un “imbarbarimento” delle periferie (ovviamente musulmane) di cui i “bianchi” sarebbero le prime vittime, non c’è che un passo, che una parte sempre più ampia della classe politica supera allegramente. Parallelismi evidenziati dal giornalista Daniel Schneidermann in un tweet del 30 novembre:

“Civilizzati contro barbari: a volte ho l’impressione che mi si raccontino storie analoghe quando mi si parla di Gaza e quando mi si parla di Crépol [dove venne assassinato in una rissa il giovane Thomas. Molti responsabili e editorialisti hanno strumentalizzato l’incidente facendone un caso di “razzismo anti-bianco”, ndt.]

E così il senatore Stephane Ravier, membro di Reconquète, può dichiarare al senato l’11 ottobre, durante una seduta di interpellanze al governo:

“Questi Fratelli Musulmani che vivono in mezzo a noi a causa della folle politica di immigrazione che tutti voi avete sostenuto qui, miei cari colleghi, per debolezza o per convinzione, bisogna trattarli come in Israele: con una risposta radicale e spietata.”

Così, ecco il nemico interno, ieri ebreo, oggi musulmano. Anch’esso asservito alla retorica elettoralista dell’estrema destra, il governo francese ha deciso di fare della lotta contro l’immigrazione “la sua grande causa” e cerca disperatamente di ottenere il sostegno dei repubblicani [partito della destra storica, ndt.] che nulla separa, su questa questione come su molte altre, dal Rassemblement National.

Oggi c’è una volontà di accordo”, ha dichiarato a questo proposito la presidente dell’Assemblea Nazionale Yael Braun-Pivet. Dopo il suo arrivo alla presidenza Macron ha trasformato, o piuttosto proseguito la trasformazione, del secolarismo del 1905 in secolarismo punitivo contro i musulmani. Ha agitato lo spettro del separatismo facendo di tutto perché i musulmani francesi non si sentano a casa sul nostro territorio. Se gli atti antisemiti sono stati giustamente denunciati, nessuna parola pubblica si è alzata contro l’ondata di affermazioni apertamente arabofobe e islamofobe, addirittura incitazioni all’assassinio e alla violenza, sui canali televisivi e sulle reti social, anche nei confronti di giornalisti musulmani.

Questi due pesi e due msure, l’immobilismo della Francia e dell’Unione Europea di fronte al genocidio in corso a Gaza e lo scatenarsi di violenza islamofoba istituzionale avranno una sola conseguenza: scavare un fossato sempre più largo non solo tra i Paesi del nord e del sud – in particolare tra la Francia e il Maghreb – rendendo concreto il discorso dello “scontro di civiltà”, ma anche all’interno stesso delle nostre società. La stigmatizzazione permanente di una parte dei nostri concittadini e degli immigrati, oltre al bavaglio imposto ad ogni voce critica riguardo a Tel Aviv, avrà un solo effetto: nutrire una collera che si trasformerà in odio e si abbatterà ciecamente nelle strade delle nostre città.

Alain Gresh

Specializzato in Medio Oriente, autore di diversi lavori, tra cui ‘De quoi la Palestine est-elle le nom?’ [la Palestina di che cosa è il nome?]

Sarra Grira

Giornalista, caporedattrice di Orient XXI.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Le guerre nei campus USA. Un’ignobile campagna per sfruttare l’antisemitismo e reprimere le voci filo-palestinesi

Naftali Kaminski

14 dicembre 2023 – Haaretz

In quanto docente di Yale e israeliano figlio di sopravvissuti all’Olocausto, temo l’aumento dell’antisemitismo negli USA. Ma il furore orchestrato contro le rettrici delle università sta prendendo di mira i discorsi filo-palestinesi, non l’antisemitismo – ed è alimentato da una sinistra coalizione di fanatici antidemocratici.

Nella valanga di denunce, editoriali e post sulle reti sociali dopo le testimonianze al Congresso delle rettrici di tre prestigiose università, le successive dimissioni della rettrice dell’università della Pennsylvania Elizabeth MaGill e la risoluzione senza precedenti del Congresso che chiede alle rettrici di Harvard Claudine Gay e del MIT Sally Kornbluth di fare altrettanto, inizia ad emergere un quadro che mi ricorda minacciosamente una poesia letta quando ero ragazzino in Israele.

Scritta nel 1943 da Nathan Alterman, uno dei poeti israeliani più amati, la poesia utilizza l’affermazione del filosofo greco Archimede sulla legge della leva, “Datemi un punto di appoggio e solleverò la terra”, come metafora del ruolo dell’antisemitismo in politica. Egli suggerisce che demagoghi e tiranni usino l’antisemitismo come ultimo “punto di Archimede”, un punto d’appoggio che consente loro di raggiungere i propri obiettivi più indegni.

Penso che ciò sia quello a cui stiamo assistendo, ma ora il punto di appoggio di Archimede è l’affermazione secondo cui le rettrici universitarie “non stanno facendo abbastanza riguardo all’antisemitismo”. Viene utilizzato con l’immediata intenzione di reprimere le voci a favore dei palestinesi, così come con lo strategico e, come ora è stato detto più esplicitamente, vergognoso intento di lungo corso di tornare indietro rispetto ai progressi verso la diversità, l’equità e l’inclusione nelle università americane.

Sono consapevole che si tratta di una dichiarazione di vasta portata. In quanto israeliano, figlio di sopravvissuti all’Olocausto, la storia della mia famiglia è di oppressione, discriminazione e genocidio. Prima di arrivare a Yale, i miei familiari hanno vissuto a Pittsburgh e facevano parte della congregazione Tree of Life [Albero della Vita], luogo dell’attacco più letale da sempre contro ebrei sul territorio statunitense.

Le atrocità di Hamas il 7 ottobre hanno prodotto timori e pensieri che non avrei mai creduto di provare. Ho trovato deprecabili le manifestazioni di appoggio o i tentativi di minimizzarle. Temo l’aumento di antisemitismo negli USA e credo che dovrebbe essere combattuto. Ho anche la sensazione che l’attuale furia contro le rettrici di istituzioni d’élite non stia prendendo di mira l’antisemitismo. E questa sensazione è segnata dalla mia stessa esperienza negli ultimi mesi.

Quando mi sono svegliato quella maledetta mattina di ottobre e ho sentito degli attacchi di Hamas sono stato immediatamente intrappolato in un flusso di comunicazioni, in quanto ho affannosamente cercato di confermare che amici e familiari in Israele stessero bene, per offrire aiuto, simpatia, raccapriccio e sostegno.

Ma poi ho ricevuto un diverso tipo di messaggio. Era di un docente ebreo americano di Yale. Non c’era alcuna espressione di preoccupazione o empatia, nessun tentativo di sapere se io o i miei amici o familiari stessimo bene. Invece parlava di “antisemiti a Yale” e chiedeva che “agissimo preventivamente” per “mettere in guardia” i dirigenti di Yale. Il messaggio suggeriva una campagna con invio di lettere. Mi risultava evidente l’intenzione di contribuire a promuovere un’atmosfera che avrebbe etichettato come antisemita ogni manifestazione a favore dei palestinesi.

Quel messaggio e quelli che sono seguiti sono stati profondamente angoscianti per me. Era come se presumessero che il rettore di Yale, lui stesso ebreo e molto legato a Israele, non avrebbe fatto alcunché finché non fosse stato blandito e sollecitato. Non c’era alcuna manifestazione di preoccupazione riguardo a me o ad altri israeliani nel campus, salvo che con un’ottica: lottare contro la minaccia percepita di antisemitismo utilizzando gli orrori per ottenere risultati dal punto di vista ideologico.

Nei giorni seguenti, mentre le incommensurabili dimensioni delle atrocità di Hamas venivano alla luce, la mia attenzione era concentrata sulle sofferenze e le uccisioni nella regione. Ho aiutato l’Ufficio per la Diversità, l’Equità e l’Inclusione della Scuola di Medicina di Yale a organizzare un evento di solidarietà in cui membri israeliani della comunità di Yale con familiari o amici vittime degli attacchi del 7 ottobre ne parlassero e condividessero la loro esperienza. L’evento è stato pubblicizzato e sostenuto dalla dirigenza, che vi ha anche partecipato.

Nei giorni successive sono stato impegnato in un giro di lezioni già previsto, cinque conferenze in dieci giorni in diverse istituzioni e luoghi di incontro. Sentivo di non poter parlare solo di scienza e medicina e ho deciso di iniziare ogni conferenza presentandomi come ebreo israeliano e dicendo: “Sono rimasto scioccato e infuriato dalle atrocità commesse la scorsa settimana nel sud di Israele, e sono anche profondamente preoccupato e orripilato dalla continua violenza e dalle minacce immensamente aumentate per i civili nella regione. Spero e prego che la violenza finisca, che gli ostaggi vengano liberati, le minacce per i civili finiscano e che tutta le persone della regione, indipendentemente dall’identità etnica o religiosa, possano finalmente vivere in pace, libertà e dignità.” Questa dichiarazione è stata accolta ovunque con applausi praticamente da tutti.

Nel contempo a Yale ci sono state manifestazioni filo-palestinesi, veglie filo-israeliane, così come eventi educativi. Non ho partecipato alla maggior parte di essi, e se l’avessi fatto probabilmente non sarei stato d’accordo con tutto quello che vi è stato detto, ma dubito che mi sarei sentito in pericolo. In effetti, nonostante i tentativi di alcuni provocatori, gli eventi sono stati decisamente non-violenti. Un venerdì, in piazza Beinecke a Yale, ci sono stati tre eventi contrapposti, tra cui una veglia per l’umanità di israeliani e palestinesi, a cui hanno partecipato israeliani e palestinesi del campus, ma non ci sono stati conflitti o litigi. Non ci sono stati appelli al genocidio o minacce di violenza.

Durante una partita di football [americano] tra Yale e Harvard stavo andando a sedermi quando è scoppiata una protesta filo-palestinese. Gli studenti hanno sventolato bandiere, scandito i loro slogan, ma non c’era una sensazione di minaccia. Non c’è stato alcun appello al genocidio degli ebrei. Qualcuno tra la folla ha insultato i manifestanti e uno gli ha persino sputato contro, ma loro non hanno reagito e la protesta è finita con gli studenti contrari che se ne sono andati per protesta.

Quel giorno ho visto anche l’infame furgone che mostrava le foto di giovani studenti definiti i principali antisemiti ad Harvard o Yale. Ho pensato che si trattasse di un evidente e ignobile “tentativo di intimidire e attaccare” studenti, come ha detto il rettore di Yale.

Durante un dibattito sulle implicazioni per la salute pubblica della guerra tra Israele e Gaza alla Scuola di Salute Pubblica di Yale la discussione è stata concreta, professionale e sobria. Un disturbatore è stato rapidamente messo a tacere e il resto dell’evento è stato molto civile. Lo scorso sabato a New Haven un manifestante filo-palestinese ha per poco tempo appeso una bandiera palestinese su una Menorah di Hannukkah in un luogo pubblico. In seguito agli inviti di altri partecipanti alla protesta il dimostrante l’ha subito tolta. Questo avvenimento è stato accolto con la totale condanna da parte degli organizzatori della protesta, del rettore di Yale e dei politici locali, e come risposta in zona si sono tenute veglie.

Sulle reti sociali ho ricevuto innumerevoli manifestazioni di solidarietà da colleghi e amici, ebrei e musulmani, israeliani e palestinesi. Ho avuto qualche risposta antisemita, ma per lo più da risponditori automatici. Significativamente la maggior parte degli attacchi personali che ho subito sono stati di autoproclamati amici di Israele, persino miei colleghi, soprattutto quando ho manifestato sostegno al primo cessate il fuoco e rilascio di ostaggi, quando ho manifestato preoccupazione per il bilancio di civili di Gaza in seguito alla risposta di Israele o quando ho citato il fatto che i palestinesi in Cisgiordania sono bersaglio di un’ondata senza precedenti di violenti aggressioni da parte dei coloni ebrei.

Quando uno di questi conoscenti mi ha attaccato non mi sono tirato indietro e gli ho ricordato che, a differenza di lui, ho prestato servizio nell’esercito israeliano e come medico ho salvato la vita a israeliani. La discussione è finita lì, ma non ho potuto fare a meno di riflettere: se questo è il modo in cui sono stato trattato in quanto israeliano io, un docente universitario, come vengono trattati i palestinesi? Sono messi a tacere per timore di essere etichettati come antisemiti, per aver espresso la propria angoscia?

Non sto facendo questa digressione per smentire o minimizzare l’aumento dell’antisemitismo o minacce e isolamento che provano docenti, personale e studenti ebrei, ma per evidenziare come la mia stessa esperienza mi consente di comprendere che l’angoscia provata da studenti ebrei e dalle loro comunità sia stata utilizzata come arma per reprimere e delegittimare le voci filo-palestinesi.

Oltretutto, e peggio ancora, per alcuni gruppi questa è apparsa l’opportunità ideale per invertire i progressi che l’università americana ha fatto a favore di maggiore diversità, inclusione e equità. E ora questa coalizione di populisti, ricchi donatori, politici noti per essere nemici della scienza e della democrazia e altri fanatici sta febbrilmente sperando che il loro punto di Archimede gli darà un primo successo: il ribaltamento di uno dei più significativi risultati dell’eguaglianza delle donne nella recente vita accademica americana, obbligando alle dimissioni le rettrici di Penn, Harvard e MIT.

Vedere quell’audizione al Congresso è stato come rivivere le udienze pubbliche della Commissione del Camera per le Attività Antiamericane durante gli anni di McCarthy. Le rettrici hanno fatto dichiarazioni forti, hanno detto di essere rimaste scioccate per le atrocità di Hamas, hanno denunciato l’antisemitismo e descritto le iniziative prese nei campus. Ma quello che ne è seguito è stato un circo accuratamente orchestrato, con domande mirate intese a intrappolarle in risposte indifendibili. Agli occhi dell’opinione pubblica le cinque ore dell’audizione cristallizzate in 30 secondi di clip, diventate virali sulla base di travisamenti e mancanza di sfumature, hanno fatto sembrare le rettrici indecise e ambigue, mentre le loro precedenti dichiarazioni non lo erano state.

E quando ho visto la pubblica umiliazione di quelle donne incredibilmente competenti, una voce ha iniziato a risuonare nella mia testa, le parole dell’avvocato Joseph Welch a Joseph McCarthy: “Non ha il senso della decenza?”

Spero che la decisione di Harvard di mantenere al suo posto la rettrice Claudine Gay, nonostante la potente campagna e le false accuse contro di lei, verrà ricordata nello stesso modo in cui lo è ora l’affermazione di Joseph Welsh, un punto di svolta. Un momento in cui parli la ragione, venga rifiutato l’uso del giustificato timore per l’antisemitismo come punto di leva di Archimede e si consenta a tutti noi di concentrarci sul fare in modo che le nostre università e college siano più diversi, inclusivi e sicuri per tutti.

Naftali Kaminski è un medico ricercatore e docente di Medicina e Farmacologia presso la Scuola di Medicina all’università di Yale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sospesa la cerimonia per l’attribuzione di un premio dopo che l’autrice ha paragonato Gaza ai ghetti ebraici dell’epoca nazista

Kate Connolly da Berlino

14 dicembre 2023 – The Guardian

La giornalista russo-statunitense Masha Gessen aveva vinto il premo tedesco Hannah Arendt per il pensiero politico

Una fondazione tedesca ha affermato che non consegnerà più il premio per il pensiero politico a un’importante giornalista russo-statunitense dopo aver criticato come “inaccettabile” un recente saggio dell’autrice in cui fa un paragone tra Gaza e un ghetto ebraico nella Germania occupata dai nazisti.

Venerdì Masha Gessen avrebbe dovuto ricevere il premio Hannah Arendt per il pensiero politico. Ma la cerimonia di premiazione ora non avrà luogo come previsto dopo che la Heinrich Böll Foundation (HBS), affiliata al partito dei Verdi, ha affermato di aver ritirato il proprio appoggio. L’HBS sostiene di aver preso questa decisione in accordo con il senato di Brema, la città portuale del nord in cui era previsto che avesse luogo la premiazione.

Secondo il giornale tedesco Die Zeit, che ha pubblicato la notizia, il premio sarà ancora assegnato a Gessen, ma “in un contesto diverso”, sabato e non venerdì. Non risulta ancora chiaro chi lo presenterà, cosa verrà consegnato e se Gessen e altri ospiti invitati pensano ancora di parteciparvi.

L’HBS ha affermato di dissentire e rifiutare il paragone tra Gaza e i ghetti ebraici in Europa fatto da Gessen in un saggio del 9 dicembre sul New Yorker [famosa rivista statunitense di sinistra, ndt.].

Nel saggio Gessen critica l’incondizionato appoggio tedesco a Israele, richiamando l’attenzione sulla risoluzione del Bundestag del 2019 che condanna come antisemita il movimento BDS per il boicottaggio di Israele e citando un ebreo critico con la politica della Germania sul ricordo dell’Olocausto, secondo il quale la cultura della memoria è “andata in tilt”.

Nel paragrafo che ha attirato l’attenzione della HBS Gessen scrive che “ghetto” sarebbe “il termine più appropriato” per descrivere Gaza, ma la parola “provocherebbe accese polemiche per il confronto tra la situazione dei gazawi assediati e quella degli ebrei rinchiusi in un ghetto. Ciò ci avrebbe anche dato il linguaggio per descrivere quello che sta succedendo ora a Gaza. Il ghetto viene liquidato.”

La fondazione afferma che Gessen ha sottinteso che Israele intenda “liquidare Gaza come un ghetto nazista,” aggiungendo che “questa affermazione è inaccettabile per noi e la rifiutiamo.”

Gessen è stata contattata dal Guardian per un commento.

Su X/Twitter ha scritto che nessun mezzo di comunicazione tedesco rappresentativo ha cercato di contattarla, nonostante giovedì la storia sia stata ampiamente raccontata sui media tedeschi.

La Heinrich Böll Foundation ha annunciato ad agosto che Gessen aveva vinto il premio in base a una decisione presa da una giuria indipendente. All’epoca essa ha affermato che “come analista del declino e della speranza, Gessen ha informato sui giochi di potere e le tendenze totalitarie così come sulla disobbedienza civile e l’amore per la libertà.”

Sostenitori di Gessen, che è ebrea e i cui nonni e bisnonni sono stati tra i membri della famiglia uccisi dai nazisti, hanno subito evidenziato l’ironia di sospendere un premio concesso in memoria di Arendt, storica, filosofa e teorica politica antitotalitaria ebrea-americana nata in Germania, che coniò la frase “la banalità del male” riguardo al processo contro l’importante nazista Adolf Eichmann, che lei raccontò come giornalista per The New Yorker.

Samantha Rose Hill, autrice del profilo di Hannah Arendt ed editrice della raccolta di poesie di Arendt, l’ha definito “un affronto alla memoria di Hannah Arendt. In base alla sua stessa logica, la Heinrich Böll Foundation dovrebbe cancellare del tutto il premio Hannah Arendt.”

Un altro accademico ha affermato che, in base alle ragioni fornite per questa decisione, “Hannah Arendt oggi in Germania non avrebbe ottenuto il premio Hannah Arendt.”

In un’intervista pubblicata martedì da Die Zeit Gessen ha parlato delle reazioni che Arendt dovette affrontare in quanto fu una delle prime a criticare Israele, mettendo in guarda contro la costituzione di uno Stato puramente ebraico in Palestina, di conseguenza con l’esclusione della popolazione araba.

In una lettera aperta scritta con Albert Einstein e altri intellettuali ebrei Arendt, sottolinea Gessen, paragonò persino il Partito della Libertà israeliano [partito della destra sionista, ndt.] ai nazisti dopo che aveva messo in atto violenze con motivazioni razziali contro civili.

“Sono consapevole che, soprattutto in Germania, questo tipo di paragone è subito visto come una relativizzazione dell’Olocausto. È per questo che è molto importante per me che una pensatrice così differenziata e intelligente come Arendt non abbia avuto timore a fare questo paragone,” ha detto Gessen al giornale.

In riferimento alle persone che in Germania sono sospettose nei confronti della sfida “alla logica della politica tedesca della memoria” per paura di essere accusate di antisemitismo, ha aggiunto: “Il problema è che queste critiche a Israele sono spesso viste come antisemite, che penso sia l’autentico scandalo antisemita. Ciò ignora il vero antisemitismo.”

In una lettera aperta pubblicata mercoledì la sezione di Brema della German-Israeli Society ha affermato che le dichiarazioni di Gessen hanno “chiarito che il premio avrebbe onorato una persona il cui pensiero è in evidente contrasto con quello di Hannah Arendt.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Germania, da molto tempo hai tradito la tua responsabilità

Amira Hass

16 ottobre 2023 – Haaretz

Giovedì scorso il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha detto che “la sofferenza e le difficoltà della popolazione civile nella Striscia di Gaza non faranno che aumentare. Hamas è responsabile anche di questo.” Ma esiste qualche limite a questo aumento di sofferenza, dato che tu e i tuoi colleghi in occidente avete espresso un sostegno illimitato a Israele?

Acconsentirai all’uccisione di 2.000 bambini palestinesi? 80.000 anziani che potrebbero morire di disidratazione perché a Gaza manca l’acqua sono ai tuoi occhi un legittimo aumento della sofferenza?

Hai anche detto: “la nostra storia, la nostra responsabilità che deriva dall’Olocausto ci obbliga per sempre a schierarci per l’esistenza e la sicurezza dello Stato di Israele.”

Ma, Scholz, vi è una contraddizione tra questa affermazione e quella citata prima.

La sofferenza…non farà che aumentare” è dare carta bianca ad un Israele ferito ed offeso per polverizzare, distruggere e uccidere senza limiti e rischia di trascinare tutti noi in una guerra regionale, se non in una terza guerra mondiale, che danneggerebbe anche la sicurezza e l’esistenza di Israele. Ma “la responsabilità che deriva dall’Olocausto” significa fare tutto il possibile per impedire la guerra, che conduce a disastri che portano a guerre che aumentano le sofferenze, in un ciclo senza fine.

L’ho imparato da mio padre, un sopravvissuto ai carri bestiame tedeschi. Nel lontano 1992 ogni volta che ritornavo da Gaza con i rapporti sull’oppressione israeliana dei suoi abitanti lui mi diceva: “E’ vero, questo non è un genocidio come quello che abbiamo subito noi, ma per noi è finito dopo cinque o sei anni. Per i palestinesi le sofferenze sono continuate incessantemente per decenni.” E’ una continua Nakba.

Voi tedeschi da molto tempo avete tradito la vostra responsabilità, quella “che deriva dall’Olocausto” – cioè dall’assassinio delle famiglie dei miei genitori, tra le altre, e dalla sofferenza dei sopravvissuti. Avete tradito a causa del vostro appoggio senza riserve ad un Israele che occupa, colonizza, priva le persone dell’acqua, ruba la terra, imprigiona due milioni di gazawi in una gabbia sovraffollata, demolisce le case, espelle intere comunità dalle proprie case e incoraggia la violenza dei coloni.

E tutto questo è avvenuto dopo il cosiddetto accordo di pace che voi e altri leader occidentali avete sostenuto. Avete permesso a Israele di agire all’opposto di questo accordo nella sua interpretazione europea – come un percorso verso la creazione di uno Stato palestinese nei territori occupati da Israele nel 1967 e che molti palestinesi hanno appoggiato proprio per il loro desiderio di impedire ulteriori sofferenze e spargimento di sangue.

Non mancano diplomatici e dipendenti delle agenzie di sviluppo che hanno riferito di come centinaia di migliaia di giovani palestinesi abbiano perso ogni speranza e ogni senso della propria vita sotto l’arrogante oppressione di Israele e le sue uccisioni di civili – a volte alla spicciolata, a volte a ondate. Gli attivisti palestinesi per i diritti umani hanno messo in guardia più volte che la politica di Israele poteva solo condurre ad un’eruzione di proporzioni inimmaginabili. Anche attivisti contro l’occupazione israeliani ed ebrei vi hanno avvertiti.

Ma voi vi siete arroccati sulla vostra strada, mandando a Israele il messaggio che tutto andava bene – che nessuno lo avrebbe punito o avrebbe spiegato agli israeliani attraverso convincenti passi diplomatici e politici che non può esserci normalità insieme all’occupazione. E allora voi accusate chi critica Israele di antisemitismo.

No, questo articolo non vuole giustificare l’orgia di assassinii e di sadismo che le milizie armate di Hamas hanno perpetrato. E non è una giustificazione delle reazioni esultanti di alcuni palestinesi e del rifiuto di altri di condannare le atrocità commesse in loro nome.

E’ piuttosto una richiesta a voi perché fermiate l’attuale campagna di morte e distruzione prima che provochi un’altra catastrofe per milioni di israeliani, palestinesi, libanesi e forse anche cittadini di altri Paesi residenti nella regione.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Dissipare la nebbia della hasbara*

Recensione di Steve France

2 ottobre 2023 – Mondoweiss

Una nuova guida cerca di disinnescare e combattere “ l’israelese”, la rete di ingannevoli cliché e stereotipi che ha profondamente radicato la narrazione sionista nella coscienza degli americani.

 

* sforzi propagandistici per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele, ndt.]

Prima o poi, forse fra poco, gli americani cominceranno a porre molte più domande su Israele e Palestina. Quando succederà gli attivisti dovranno essere pronti. Specialmente in questo momento di dubbi e divisioni crescenti fra i sostenitori di Israele dobbiamo suscitare un dibattito che li metta di fronte a questa realtà razzista.

Fino a poco tempo fa avrei detto che stavo facendo il possibile per accelerare l’arrivo del giorno in cui questi dibattiti abbondassero. Non mi sembra di aver avuto molto successo nel risvegliare la gente all’importanza e urgenza di pari diritti per i palestinesi. Troppo spesso noto un’espressione distante e inquieta negli occhi di quelli che spero di illuminare. Ho la sensazione che anche altri sostenitori lottino per ampliare il cerchio di chi ha capito oltre al “coro” di quelli già convinti.

Tuttavia ora vedo che il mio approccio manca di efficacia. Invece di tentare di spiegare agli individui la verità come la conosco io, dovrei prima chiedere la loro opinione su Israele e Palestina, e poi ascoltare attentamente, persino con empatia. Invece di insegnare, dovrei fare delle domande indagatrici basate su fatti chiave sul posto e sulla storia per rivelare le inconsistenze inerenti al concetto di Israele quale “Stato ebraico e democratico.”

Potreste chiamare il nuovo approccio “Non dire. Chiedi.” È esposto chiaramente in un volumetto auto-pubblicato nel 2021, intitolato When They Speak Israel: A Guide to Clarity in Conversations about Israel (Quando parlano ‘israelese’: una guida alla chiarezza nel dibattito su Israele) di Alex McDonald, un quacquero, attivista di lunga data, che si batte per pari e pieni diritti per i palestinesi, incluso quello al ritorno per i rifugiati.

McDonald è un texano cresciuto accettando senza farsi domande la narrazione israeliana. Tuttavia, qualche anno fa, ormai adulto, si è imbattuto in un intoppo che l’ha incuriosito: in teoria la “recinzione di sicurezza” israeliana doveva tenere i palestinesi fuori da Israele e lontano dai civili israeliani. Eppure si è espansa profondamente dentro la Cisgiordania, ingoiando moltissimi tratti di terra palestinese, e quindi nella zona israeliana si trovano più palestinesi, non meno. Cercando di far ordine si è imbattuto in ulteriori inconsistenze e, ben presto, è diventato uno sfacciato antisionista critico della complicità USA. 

Il suo ripensamento è profondo, “come in Matrix”, il film di azione/fantascienza del 1999 in cui, ingerendo una “pillola rossa”, si spezza l’incantesimo che inganna la maggior parte dei personaggi e quindi si rivela l’odiosa verità: il loro mondo e le loro stesse vite non sono altro che mere illusioni. Ma McDonald si trova davanti ad un’altra sfida. Mentre cercava di far aprire gli occhi sulla verità su Israele ai suoi amici e familiari, loro gli facevano capire che “volevano porre termine a quelle conversazioni o smettere di leggere le mie email e scritti.” Si è trovato fra le fila degli attivisti solidali con i palestinesi i cui sforzi per informare la gente sono raramente ben accolti.

Il tentativo di capire questa profonda resistenza alle critiche a Israele l’ha portato a identificare un fenomeno che chiama “israelese,” cioè la rete di cliché e stereotipi fuorvianti che ha profondamente radicato la narrazione sionista nelle menti e nei dibattiti degli americani. Come prendere la “pillola blu” in Matrix che fa credere ai personaggi che le loro vite totalmente simulate sono reali, l’israelese illude gli ascoltatori, spesso facendo ricorso al non detto e alle emozioni.

Gli attivisti per i diritti umani per i palestinesi hanno gran familiarità con l’israelese. Il libro di McDonald elenca molti stratagemmi e confutazioni. “Israele non ha forse il diritto all’autodifesa?” (o il “diritto di esistere?”). E anche “La tua opinione è sbilanciata,” “Perché stai prendendo di mira Israele?” “Noi dovremmo sostenere l’unica democrazia del Medio Oriente.” “Quando Israele diede Gaza ai palestinesi essi hanno risposto lanciando razzi contro Israele,” oltre alle accuse e insinuazioni di antisemitismo che fanno sempre capolino.

McDonald risponde all’israelese con un processo in due fasi: primo, mettiti in contatto con gli ascoltatori diventando tu stesso un buon ascoltatore. Trova le convinzioni specifiche e i ragionamenti che stanno alla base del loro sostegno a Israele e della loro sfiducia verso i palestinesi. Questa fase può sembrare quella che Jonathan Kuttab [cofondatore di Nonviolence International e del gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq] ha definito ‘normalizzazione’, quelle conversazioni cioè che “mettono insieme ebrei e arabi in condizioni altamente controllate che apparentemente mirano a promuovere la coesistenza, senza veramente affrontare o mettere in dubbio l’ingiustizia sottostante.” Tuttavia l’approccio di McDonald va ben oltre questo primo passo.

La fase due del processo si fa più complicata. Adesso, l’obiettivo è, con gentilezza ma fermezza, di portare alla luce i fatti che rivelano il razzismo di Israele e chiedere come tali fatti possano conciliarsi con la nozione che Israele è giusto nei confronti dei palestinesi. Continuando il parallelo con Matrix, spiega che alcune particolari pillole blu (fatti, convinzioni e logiche infondati) stanno alla base delle posizioni sioniste del tuo interlocutore e poi offri gli antidoti appropriati, la pillola rossa.

Ecco, per esempio, come neutralizzare, anzi “ribaltare” la seguente frasetta in israelese: “Perché stai prendendo di mira e criticando Israele” (in un mondo pieno di altri governi che violano i diritti umani)?

Primo, assicurati che il tuo interlocutore “sappia che Israele viola i diritti umani,” implicito nella domanda stessa in israelese; (2) chiarisci che tu, in realtà, critichi gli altri violatori; (3) chiedi se loro proteggono dalle critiche altri violatori che non siano Israele e in ultimo, (4) chiedi perché si concentrano su Israele per la protezione. Come sempre devi essere chiaro che tu sei contro tutte le forme di razzismo, incluso il razzismo antiebraico e che non sei “pro-palestinese,” solo “pro-uguaglianza.”

È divertente vedere come McDonald dissolva vecchie battute sioniste con una gragnuola gentile, ma persistente, di confutazioni e contestualizzazioni. In effetti il libro offre una splendida parata di “fregato!”.” Comunque McDonald vuole evitare questo atteggiamento. Non importa quanto gli attivisti siano tentati, ogni presa in giro danneggia le possibilità di uno scambio proficuo. È determinato a intrattenere conversazioni sincere e rispettose con i sionisti e i loro simpatizzanti se anche loro parlano in buona fede. Consiglia i lettori di non perdere tempo con persone “che pur consapevoli del razzismo di Israele, comunque sostengono lo Stato.” Secondo lui lascia fuori molti potenziali interlocutori perché “la maggior parte dei sionisti sono brave persone,” sinceramente contro il razzismo, ma a cui è stato inculcato che sostenere Israele è giustificato, anzi un solenne dovere morale. Devono ancora rendersi conto che Israele ha cominciato e si dedica attivamente al razzismo e alle violazioni dei diritti umani.

McDonald si rende conto che potrebbe volerci del tempo per i sostenitori di Israele per accettare che Israele è razzista fino al midollo. Scrive che potrebbero dover passare attraverso le “cinque fasi del dolore: diniego, rabbia, contrattazione, depressione e infine accettazione,”. I difensori devono mostrare empatia senza tentennare nella loro posizione a favore di uguaglianza e diritti umani.

Il vostro interlocutore potrebbe essere confuso o rendersi conto di essere stato turlupinato” dalle false formule dell’israelese, precisa. “Dategli tempo e spazio. È davanti a una situazione molto difficile: buoni amici danno una cattiva notizia ai loro amici con dolcezza.” Ma continuano a dare la notizia: l’unico modo per una vera pace passa dall’uguaglianza dei diritti per tutti.

McDonald ci spinge a una specie di ri-orientamento “copernicano” per aprire le menti di individui e piccoli gruppi. Ci spinge verso un discorso che si basi sulla persona con cui stiamo parlando e non su noi stessi o sull’informazione che stiamo tentando di impartire, pur se di grande importanza. In un certo senso il punto focale della conversazione non è tanto come è Israele per l’altra persona ed esattamente perché lui o lei non vedono le clamorose diseguaglianze del dominio di Israele sui palestinesi. Così pur “amando” la persona con cui stai parlando devi essere forte abbastanza per combatterla.

Considerando la mia esperienza mi sono reso conto che il mio approccio è spesso stato troppo timido e troppo aggressivo. Ho cercato di dimostrare la mia conoscenza della storia pertinente e delle circostanze presenti. Mi sono concentrato sulle dichiarazioni in astratto delle altre persone, non sulle loro convinzioni errate, ma sincere. Ancora più sconcertante, il mio desiderio che la persona davanti a me avrebbe capito quanto sia razzista Israele verso i palestinesi non è espresso direttamente, ma resta sospeso in aria. Ho presunto che fosse trasmesso implicitamente, ma la connessione da persona a persona che mi avrebbe permesso di esprimerlo direttamente e personalmente manca.

Usare l’approccio di McDonald richiede sforzo. I passi sono semplici ma, come in un balletto, devono essere armoniosi, precisi e seguire la giusta sequenza. Eppure promettono di rendere la difesa meno stressante e frustrante. Una delle intuizioni più innovative di McDonald è che “Noi [critici di Israele] non dobbiamo portare delle prove alla nostra storia. Dobbiamo solo chiedere di spiegarci la loro” nel quadro di fatti noti e innegabili come, fra gli altri: il linguaggio decisamente razzista della Legge Fondamentale dello Stato-Nazione di Israele, il muro di separazione brutalmente invadente, il sostegno governativo ai coloni in Cisgiordania e l’impunità per la loro violenza contro i palestinesi, la sistematica detenzione in Israele dei minori secondo il diritto militare.

Il metodo di McDonald libera anche i difensori dalla necessità di conseguire una conoscenza enciclopedica sulla Palestina. Infatti egli ci mette in guardia dal farci coinvolgere in domande confuse su fatti che richiederebbero tempo prezioso e sono impossibili da risolvere. Attenetevi ai fatti più importanti. “La maggior parte delle persone a cui parlate di Israele sapranno che offre un trattamento preferenziale agli ebrei e discrimina contro i non ebrei, specialmente contro i palestinesi,” dice. “L’esempio più facile da sottolineare è la cittadinanza. Solo gli ebrei hanno il diritto alla cittadinanza entro 48 ore dall’arrivo in Israele.”

Sulla differenza che ha sperimentato usando il suo nuovo approccio dice: “La grande differenza è che, da quando ho interiorizzato il fatto che io sono a favore dell’uguaglianza per tutti e contro le discriminazioni contro chiunque, non sono più sulla difensiva sulle accuse di antisemitismo. Se si solleva il tema chiedo come sia possibile che sostenere l’uguaglianza per tutti possa discriminare qualcuno.”

Il gran sollievo che adesso prova è la chiave: “Il mio obiettivo è metterti più a tuo agio durante queste conversazioni,” conclude, “e sottolineare… i difetti logici nei messaggi che spesso potresti ascoltare sulla situazione Israele-Palestina.”

WHEN THEY SPEAK ISRAEL
A Guide to Clarity in Conversations About Israel
Alex McDonald
156 pp. Great Tree Publishing, $12.95

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Dei coloni ebrei hanno rubato la mia casa. Non è colpa mia se sono ebrei

Mohammed el Kurd 

 26 SEtTEMBre 2023, Mondoweiss

Ai palestinesi viene detto che le parole che usiamo minimizzano i decenni di violenza messa in atto contro di noi dall’autoproclamato Stato ebraico. Un drone va bene, ma gli stereotipi… uno stereotipo è inaccettabile. Ora basta.

Mentre crescevamo nella Gerusalemme occupata, le persone che cercavano di espellerci dal nostro quartiere erano ebrei e le loro organizzazioni spesso avevano “ebraico” nel nome. Lo stesso vale per le persone che ci hanno rubato la casa, buttato i nostri mobili per strada e bruciato la culla della mia sorellina. Anche i giudici che battevano il martelletto a favore della nostra espulsione erano ebrei, così come lo erano i legislatori le cui leggi facilitavano e sistematizzavano la nostra espropriazione.

Il burocrate che rilasciava – e talvolta revocava – le nostre carte d’identità blu era un ebreo, e io lo detestavo soprattutto perché un tratto della sua penna si frapponeva tra mio padre e la città dei suoi avi. Per quanto riguarda i soldati che ci perquisivano per controllare quei documenti, alcuni di loro erano drusi, altri musulmani, la maggior parte ebrei, e tutti loro, secondo mia nonna, erano “bastardi senza Dio”. Quelli che gestivano i fucili e le manette, quelli che redigevano meticolosi e sanguinari piani urbanistici erano … avete indovinato.

Non era un segreto. Vivevamo sotto il dominio dell’autoproclamato “Stato ebraico”. I politici israeliani hanno abusato di questa storia mentre i loro colleghi internazionali annuivano. L’esercito si è dichiarato esercito ebraico e ha marciato sotto quella che ha chiamato bandiera ebraica. I consiglieri comunali di Gerusalemme si vantavano di “prendere casa dopo casa” perché “la Bibbia dice che questo paese appartiene al popolo ebraico”, e i membri della Knesset intonavano canti simili. Quei legislatori non erano marginali o di estrema destra: la legge israeliana sullo Stato nazionale sancisce esplicitamente “l’insediamento ebraico” come un “valore nazionale… da incoraggiare e promuovere”.

Tuttavia, sebbene questo non fosse un segreto, ci veniva detto di trattarlo come tale, a volte dai nostri genitori, a volte da attivisti solidali ben intenzionati. Ci è stato detto di ignorare la Stella di David sulla bandiera israeliana e di distinguere gli ebrei dai sionisti con precisione chirurgica. Non importava che i loro stivali fossero sul nostro collo e che i loro proiettili e manganelli ci colpissero. Il nostro essere apolidi e senzatetto erano irrilevanti. Ciò che contava era il modo in cui parlavamo dei nostri guardiani, non le condizioni in cui ci tenevano – bloccati, circondati da colonie e avamposti militari – o il fatto stesso che ci tenessero.

Il linguaggio era un campo minato peggiore del confine tra la Siria e le alture del Golan occupate, e noi, all’epoca bambini, dovevamo aggirarlo, sperando di non calpestare accidentalmente uno stereotipo esplosivo che ci avrebbe screditato. Usare le “parole sbagliate” aveva la magica capacità di far scomparire le cose:gli stivali, i proiettili,i manganelli e i lividi diventano tutti invisibili se dici un qualcosa per scherzo o con rabbia. Ancora più pericoloso credere nelle “cose sbagliate”: ti rende meritevole di quella brutalità. La cittadinanza e il diritto alla libertà di movimento non erano gli unici privilegi che ci venivano derubati, anche la mera ignoranza era un lusso.

Come palestinesi comprendiamo fin da giovani che la violenza semantica che pratichiamo con le nostre parole fa impallidire decenni di violenza sistemica e materiale messa in atto contro di noi dall’autoproclamato Stato ebraico. Va bene un drone, ma uno stereotipo… lo stereotipo è inaccettabile. Impariamo a interiorizzare la museruola.

Quindi ho dato ascolto a quei messaggi – cos’altro dovrebbe fare un bambino di 10 anni? – e ho imparato a conoscere Hitler e l’Olocausto, ho imparato a riconoscere gli stereotipi del naso, i pozzi avvelenati, i banchieri, i vampiri, i serpenti e le lucertole (ho appena scoperto la piovra), e ho imparato che, quando parlo con i diplomatici in visita a quello zoo che è un nostro quartiere, i coloni che occupano casa nostra devono essere argomento secondario nella mia esposizione, dopo un’accalorata denuncia dell’antisemitismo globale. E quando mia nonna ottantenne si rivolgeva a quei visitatori stranieri, la interrompevo per correggerla ogni volta che descriveva i coloni ebrei in casa nostra come, be’, ebrei.   

Più di un decennio dopo non è cambiato molto. Lo stivale resta lì, lo stesso vale per i proiettili e i manganelli (e sarei negligente se non parlassi del genio creativo delle armi da fuoco robotiche azionate dall’Intelligenza Artificiale recentemente aggiunte all’arsenale dello Stato ebraico).

Il governo chiama il suo progetto in Galilea “l’ebreizzazione della Galilea” e le sue quasi-istituzioni fanno lo stesso. Per quanto riguarda i membri del consiglio che hanno promesso di prendere “casa dopo casa”, oltre al loro successo nel rubare case a Sheikh Jarrah, nella Città Vecchia, a Silwan e altrove, marciano regolarmente nelle nostre città con megafoni e bandiere cantando “vogliamo una Nakba ora.” I giudici continuano a battere martelletti per garantire la continuazione di questa Nakba, governano ancora a favore della supremazia ebraica. E, nonostante il disaccordo con la Corte Suprema su vari aspetti, i parlamentari legiferano in conformità con questo atteggiamento suprematista. Alcuni affermano apertamente che la vita ebraica è semplicemente “più importante della [nostra] libertà” (e talvolta sono anche così gentili da scusarsi con i presentatori televisivi arabi mentre gli comunicano questa dura verità).

Più di un decennio dopo lo status quo rimane immutato. E noi, e mi si spezza il cuore, continuiamo a ballare tra le mine. Continuiamo a puntare sulla moralità e sull’umanità così come loro puntano sulle loro armi.

Qualche settimana fa 16 agenti di polizia israeliani hanno spento le loro telecamere e hanno marchiato, intendo dire inciso fisicamente, la Stella di David sulla guancia del 22enne Orwa Sheikh Ali, un giovane arrestato nel campo profughi di Shufat.

Sempre poche settimane fa, MEMRI, un gruppo di controllo dei media co-fondato da un ex ufficiale dell’intelligence militare israeliana, ha pubblicato filmati del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas che affermava che gli europei “hanno combattuto [gli ebrei] a causa della loro posizione sociale” e dell’ ”usura” e “non a causa della loro religione”.

In risposta, un gruppo di rinomati intellettuali palestinesi, molti dei quali ammiro e rispetto, ha pubblicato una lettera aperta “condannando senza mezzi termini” – indovinate un po’? – i “commenti moralmente e politicamente riprovevoli” di Abbas.

Forse si può definire la loro dichiarazione congiunta una mossa “strategica” per confutare la convinzione che i palestinesi nascano intolleranti. Altri potrebbero dire che rappresenti ciò che significa avere un “codice morale coerente”. Sono certo che alcuni firmatari credono che la nostra cosiddetta autorità morale ci imponga di deplorare il revisionismo storico “rispetto all’Olocausto” e di dare l’esempio nel rifiutare ogni forma di razzismo, non importa quanto retorica.

Sia quel che sia, quando l’ho letta ho provato un senso di deja vu. Eccoci qui, presi ancora una volta in una crisi sconclusionata, a rispondere precipitosamente di crimini che non abbiamo commesso. La strategia di difenderci dall’accusa infondata di antisemitismo ci ha storicamente avvicinato ad essa. E soprattutto un simile impulso eleva inconsapevolmente la storia della sofferenza ebraica, che è certamente studiata e addirittura glorificata, molto al di sopra della nostra sofferenza odierna, una sofferenza negata e dibattuta.

Anche se i firmatari della lettera, alcuni dei quali criticavano l’Autorità Palestinese da prima che io nascessi, hanno denunciato “il governo sempre più autoritario e draconiano dell’Autorità Palestinese” e hanno preso atto delle “forze occidentali e filo-israeliane” che sostengono il mandato presidenziale scaduto di Abbas, nessuna di queste circostanze è servita da catalizzatore per quella che sembra essere la prima dichiarazione congiunta di condanna per Mahmoud Abbas. La lettera non menzionava nel titolo la sua collaborazione con il regime sionista, né la brutalizzazione di manifestanti e prigionieri politici, per non parlare dell’omicidio di Nizar Banat [militante e attivista per le libertà assassinato dalle Forze di Sicurezza Palestinesi, ndt.]

Il catalizzatore qui sono state le parole. Solo parole. Ed è sempre così. Ancora una volta, un drone va bene, ma uno stereotipo è vietato.

Ironicamente, sia la lettera congiunta che il discorso di Abbas cercavano di prendere le distanze dall’antisemitismo. Verso la fine del filmato, Abbas ha voluto “chiarire” che ha detto ciò che ha detto riguardo “gli ebrei d’Europa che non hanno nulla a che fare con il semitismo” perché dovremmo “sapere chi dobbiamo accusare di essere nostro nemico”. “

Che impeto impegnativo. Non solo viviamo nella paura di essere evacuati per mano di un colonialismo che si professa ebraico, non solo il nostro popolo è bombardato da un esercito che marcia sotto quella che sostiene essere la bandiera ebraica, e non solo i politici israeliani enunciano ossessivamente l’ebraicità delle loro azioni, ci viene detto di ignorare la Stella di David che sventola sulla loro bandiera – la Stella di David che incidono sulla nostra pelle.

Questo impeto è vecchio di decenni, se non di un secolo. Nella trascrizione manoscritta di un discorso tenuto al Cairo nell’ottobre 1948, lo studioso palestinese Khalil Sakakini cancellò un frammento di frase che diceva “… la lotta tra arabi ed ebrei” per sostituirla con “la lotta tra noi e gli invasori .” Gli accademici palestinesi, l’Istituto per gli studi sulla Palestina e il Centro di Ricerca sulla Palestina dell’OLP (che fu saccheggiato e bombardato ripetutamente negli anni ’80) hanno dedicato articoli, libri e volumi allo studio dell’antisemitismo, delle sue radici europee e delle sue manifestazioni, europee e non – e la sua fusione con l’antisionismo.

Il popolo palestinese ha continuamente chiarito che il nostro nemico è l’ideologia colonialista e razzista del sionismo, non gli ebrei. La nostra capacità di cogliere tale distinzione è ammirevole e impressionante, considerando la mano pesante con cui il sionismo tenta di farsi sinonimo di ebraismo.

Tuttavia, questa distinzione non è nostra responsabilità e, personalmente, non è fra le mie priorità. Il risentimento provato da un palestinese non ha il sostegno di una Knesset che lo codifichi in legge. Gli stereotipi non sono droni, né si possono convertire le teorie della cospirazione in armi nucleari. Siamo oltre i primi del ‘900. Le cose sono diverse, il potere è cambiato. Le parole non ammazzano.

Nei giorni trascorsi tra il gesto di 16 soldati che marchiano la Stella di David sul volto di un uomo e la pubblicazione della lettera congiunta, un soldato israeliano ha ucciso un adolescente disabile vicino a un posto di blocco militare a Qalqilya; un altro ha sparato alla testa a un bambino a Silwan; un giovane già colpito durante un raid israeliano nel campo profughi di Balata è morto per le ferite riportate; un cecchino ha sparato alla testa di un giovane palestinese a Beita; un diciassettenne è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a sud di Jenin; un altro giovane è morto a causa delle ferite riportate in seguito all’invasione del campo profughi; famiglie di palestinesi i cui cadaveri sono trattenuti dalle autorità di occupazione avevano marciato con bare vuote a Nablus; un soldato ha ucciso un uomo vicino a Hebron; la polizia ha giustiziato un ragazzo di 14 anni a Sheikh Jarrah tra gli applausi di centinaia di coloni; la polizia ha poi lanciato gas lacrimogeni sulla sua famiglia a Beit Hanina; un palestinese è stato ucciso dopo aver speronato soldati israeliani a Beit Sira uccidendone uno; nel nord di Gerico un palestinese è stato ucciso e un soldato è rimasto ferito in uno scontro a fuoco; un soldato ha sparato alla testa a un uomo a Tubas, uccidendolo – e questa è solo la punta dell’iceberg.

Quale di questi eventi ha causato un ampio dibattito? Nessuno. C’è stato molto dibattito in televisione riguardo all’affermazione di Itamar Ben-Gvir secondo cui la vita ebraica è “più importante della libertà [palestinese]”, molto meno riguardo al marchio della Stella di David e, naturalmente, Mahmoud Abbas ha ricevuto la reazione più rumorosa di tutte. (Questo vale in generale, non solo nel caso della lettera aperta).

Tutti e tre questi esempi riguardano l’estetica. Le dichiarazioni di Ben-Gvir erano concrete e vere: la vita ebraica vale più della nostra sotto il dominio israeliano, ma è stata la sua esplicita orazione a scatenare l’indignazione, piuttosto che le politiche istituzionalizzate che hanno reso le sue osservazioni razziste la realtà materiale sul campo. Anche la deformazione fisica del volto di un palestinese è risultata degna di nota solo per ciò che l’incisione simboleggiava, non per l’incisione stessa: se i soldati avessero inciso dei segni senza significato sulla sua guancia dubito del tutto che la cosa avrebbe attirato l’attenzione.

Per quanto riguarda la morte dei palestinesi, è quotidiana e trascurabile. Se siamo fortunati, i nostri martiri vengono comunicati in cifre sulle pagine dei resoconti di fine anno. Il “revisionismo”, d’altro canto, merita una cacofonia di condanne.

E questa è la mia posizione. C’è un ebreo che vive – con la forza – in metà della mia casa a Gerusalemme, e lo fa per “decreto divino”. Molti altri risiedono – con la forza – in case palestinesi mentre i loro proprietari restano nei campi profughi. Non è colpa mia se sono ebrei. Non ho alcun interesse nel ripetere a memoria o chiedere scusa per i luoghi comuni secolari creati dagli europei, o nel dare alla semantica più peso di quanto gli spetti, soprattutto quando milioni di noi affrontano un’oppressione reale e tangibile, vivendo dietro muri di cemento, o sotto assedio, o in esilio, e convivendo con pene troppo grandi per essere riassunte. Sono stanco dell’impulso a prendere preventivamente le distanze da qualcosa di cui non sono colpevole, e particolarmente stanco del presupposto che io sia intrinsecamente fazioso. Sono stanco della pretesa fintamente inorridita secondo cui se tale animosità esistesse, la sua esistenza sarebbe inspiegabile e senza radici. Soprattutto, sono stanco della falsa equivalenza tra violenza semantica e violenza sistemica.

So che questo saggio è già di per sé un campo minato. Che verrà estrapolato dal contesto e divulgato, ma io non sarò mai la vittima perfetta: non si può sfuggire all’accusa di antisemitismo. È una battaglia persa e, cosa ancora più importante, un’evidente diversivo. Ed è ora di riconsiderare questa tattica. Ci sono cose migliori da fare: abbiamo delle bare da trasportare. Abbiamo dei parenti nelle camere mortuarie israeliane che dobbiamo seppellire.

Questo saggio è stato ispirato dallo storico articolo di James Baldwin del 1967 “I negri sono antisemiti perché sono anti-bianchi”.

Mohammed el-Kurd (1998-) è uno scrittore e poeta palestinese che risiede a Sheikh Jarrah, Gerusalemme Est. Prima della crisi Israele-Palestina del 2021 stava conseguendo un master negli Stati Uniti ma è tornato per protestare contro lo sfratto dei palestinesi dalle loro case a Gerusalemme Est da parte di Israele.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Regno Unito e Israele: è iniziata la lotta contro la strumentalizzazione dell’antisemitismo?

Jonathan Cook

25 settembre 2023 – Middle East Eye

Organizzazioni e accademici ebraici stanno finalmente smascherando la campagna diffamatoria dellestablishment britannico per mettere a tacere le critiche nei confronti di Israele e distruggere la sinistra

Secondo un nuovo sondaggio condotto nelle università britanniche unondata di accuse di antisemitismo molto compromettenti ma infondate si è scatenata contro studenti e accademici.

In 38 dei 40 procedimenti contro docenti, studenti, sindacati e associazioni studentesche nei cinque anni fino al 2022 non è stata trovata alcuna prova a sostegno delle accuse di antisemitismo. Negli altri due casi i procedimenti devono ancora concludersi.

Dietro le nude cifre si cela lenorme costo sostenuto dagli incriminati per tali false accuse: sofferenza personale, danni alla reputazione e alla carriera, nonché lulteriore effetto dissuasivo sulla libertà accademica nella più ampia comunità universitaria.

È improbabile che questo sia uno spiacevole effetto collaterale di quelle accuse. Sembra esserne esattamente lo scopo.

Questo mese Brismes, un’organizzazione che rappresenta gli accademici britannici che studiano il Medio Oriente, ha pubblicato in una relazione i risultati di un sondaggio da cui emerge che il numero delle accuse errate o calunniose di antisemitismo sarebbe in crescita.

Londata di accuse si è scatenata dopo che le università hanno iniziato ad adottare la definizione revisionata e altamente controversa di antisemitismo promulgata dallInternational Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) nel 2016.

Fino ad ora 3/4 delle università hanno approvato la definizione dopo che nel 2020 Gavin Williamson, in qualità di Ministro dellIstruzione, ha minacciato di tagliare i finanziamenti a chiunque si rifiutasse di farlo.

La maggior parte degli 11 esempi illustrativi dell’IHRA, alcuni dei quali, come rileva il rapporto, contraddicono la definizione principale, sposta l’attenzione dal significato tradizionale di odio verso gli ebrei per focalizzarsi sulla critica a Israele.

Come molti hanno paventato, ciò ha fornito ai più convinti sostenitori di Israele uno strumento che possono usare per diffamare chiunque esprima solidarietà con i palestinesi contro loppressione israeliana, intimidendo il pubblico e costringendolo a un silenzio complice.

In verità questo è sempre stato lobiettivo. La definizione dellIHRA è nata dagli sforzi segreti del governo israeliano di offuscare le tradizionali distinzioni tra antisemitismo e antisionismo per proteggersi dai critici, tra cui le organizzazioni per i diritti umani che mettono in evidenza il regime di apartheid di Israele contro i palestinesi.

I critici messi a tacere

L’ufficializzazione della definizione dell’IHRA ha rischiato di violare il dovere legale della Gran Bretagna di proteggere la libertà di parola. Il governo del Regno Unito è uno dei firmatari della Convenzione europea sui diritti umani e, paradossalmente, a maggio ha approvato una Legge sullIstruzione Superiore (libertà di Parola).

La legge è apparentemente progettata per “garantire agli studenti la possibilità di parlare liberamente dentro e fuori l’aula, offrendo allo stesso tempo maggiore protezione agli accademici che insegnano materie che potrebbero offendere alcuni studenti”.

Ciò potrebbe spiegare perché la task force governativa sullantisemitismo abbia voluto reclamizzarne il riscontro da parte delle università che, a suo dire, dimostrerebbe come ladozione della definizione IHRA non abbia avuto alcun impatto sulla libertà accademica.

Le prove raccolte da Brismes, supportate dalla ricerca dellEuropean Legal Support Centre, sembrano sfatare tale affermazione. La strumentalizzazione dell’antisemitismo sta creando nei campus universitari un clima che sempre più interdice la discussione sui crimini israeliani.

Ma la lezione da imparare dalla crescente strumentalizzazione dellantisemitismo nel mondo accademico non si limita alle università. Come Middle East Eye ha regolarmente documentato, tattiche diffamatorie simili, invariabilmente basate sulla definizione dellIHRA, sono state utilizzate per anni per mettere a tacere attivisti politici, organizzazioni per i diritti umani, illustri personaggi della cultura e palestinesi.

Lobiettivo dellestablishment britannico è stato quello di utilizzare la definizione IHRA per ripulire del tutto il discorso politico e sociale riguardante Israele lasciandovi solo le critiche più blande.

Questo contesto consente al Regno Unito di intensificare i legami commerciali con Israele e di approvare leggi che concedono a Israele protezioni speciali nel momento in cui è stato raggiunto un consenso da parte della comunità internazionale per i diritti umani sul fatto che Israele è uno stato di apartheid e dopo che lanno scorso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha incluso nel suo nuovo governo alcuni politici autoproclamatisi fascisti.

Senza un minimo segno contrario da parte del partito laburista allopposizione, il disegno di legge sullattività economica degli enti pubblici del governo britannico negherà a enti pubblici quali le autorità locali il diritto di sostenere il boicottaggio, le sanzioni e le campagne di disinvestimento contro Israele per la sua oppressione dei palestinesi.

La verità orwelliana della politica ufficiale è questa: più i crimini di Israele vengono resi pubblici, meno ci è permesso di parlarne o fare qualcosa.

Azione legale

Il rapporto Brismes è il segnale tardivo di una ribellione. Così come la decisione questo mese di attivisti politici ebrei di allertare la Commissione per le Uguaglianze e i Diritti Umani (EHRC) sul trattamento discriminatorio del partito laburista sotto la guida di Keir Starmer nei confronti di membri ebrei.

Jewish Voice for Labour (JVL), che rappresenta gli ebrei di sinistra nel partito, ha inviato una denuncia formale al Labour, preparata dallo studio legale Bindmans, accusandolo di “discriminare illegalmente i suoi membri ebrei e illegalmente vessarli “.

La lettera, inviata anche allorganismo di vigilanza per le pari opportunità, sostiene che gli ebrei vengono penalizzati, invariabilmente sulla base della definizione dellIHRA, a causa delle loro critiche espresse nei confronti di Israele. Lascia intendere che se le preoccupazioni dell’organizzazione non venissero affrontate potrebbero seguire delle azioni legali.

JVL specifica che i membri ebrei del Labour sentono una speciale responsabilità morale di parlare apertamente della brutalità israeliana nei confronti dei palestinesi perché quell’oppressione è portata avanti da Israele in nome di tutti gli ebrei.

Ciononostante, le statistiche sul Labour mostrano che i componenti ebrei del partito hanno probabilità sei volte maggiori rispetto ai non ebrei di essere indagati per antisemitismo, e quasi dieci volte di essere espulsi dal partito.

La lettera aggiunge che le vessazioni nei confronti dei componenti ebrei di sinistra da parte della sede centrale del partito laburista comprendono un “severo regime disciplinare” che li sottopone a indagini, nonché una riluttanza a prendere sul serio le loro denunce. undici dei dodici membri ebrei del comitato esecutivo della JVL sono stati indagati.

L’anno scorso John McDonnell, ex cancelliere ombra, scrisse lui stesso al partito ammonendo che un trattamento “irrispettoso” verso membri della JVL avrebbe costituito una discriminazione.

Jenny Manson, una delle fondatrici di JVL, ha detto a MEE che agli iscritti ebrei sottoposti a provvedimento disciplinare per presunta condotta antisemita veniva spesso richiesto di ricevere una formazione sull’antisemitismo nel caso volessero restare nel partito.

È una beffa crudele, persino brutale, etichettare questi membri ebrei come antisemiti quando essi possiedono un’esperienza e una comprensione approfondita del vero antisemitismo”, afferma.

I laburisti, aggiunge, non solo sembravano tollerare la loro rappresentazione come untipo sbagliato di ebrei, ma spesso appoggiavano implicitamente questa etichettatura razzista rifiutandosi di affrontare il problema dei comportamenti vessatori nei loro confronti.

Evidenze insabbiate

La notifica da parte della JVL al garante delle pari opportunità sul trattamento abusivo verso i membri ebrei del partito probabilmente metterà in imbarazzo Starmer. Richiama alla mente le affermazioni fatte contro il suo predecessore, Jeremy Corbyn.

Nel caso di Corbyn, a differenza di Starmer, non cerano prove al di là delle insinuazioni alimentate dai media che il Labour discriminasse gli ebrei o assecondasse lantisemitismo.

Ciononostante nel 2018 due organizzazioni filo-israeliane hanno deferito i laburisti alla EHRC sostenendo che sotto Corbyn lantisemitismo dilagasse. L’organismo di vigilanza aveva condotto un’indagine, la prima su un importante partito politico, i cui risultati sono stati divulgati due anni dopo.

Anche basandosi sulla definizione dellIHRA la Commissione per le Uguaglianze aveva potuto identificare solo due casi di ciò che ha definito vessazioni antisemite, in ogni caso da parte di una singola persona e non di strutture di partito.

In effetti la conclusione principale, sepolta sia nel rapporto che nella copertura mediatica, è stata che, quando i funzionari di Corbyn discriminavano interferendo nelle procedure disciplinari per antisemitismo, di solito erano a favore dei denuncianti. In altre parole, il partito laburista sotto Corbyn ha definito ingiustamente alcuni comportamenti come antisemiti pur mancando di prove.

Leccessiva solerzia da parte della squadra di Corbyn di sospendere o espellere membri per antisemitismo sulla base di prove inconsistenti non era affatto sorprendente, dato che tutti i media britannici stavano dipingendo i laburisti sotto la guida di Corbyn come un covo di antisemiti.

L’anno scorso unindagine indipendente di Martin Forde del King’s College, ordinata da Starmer, ha rivelato che la questione dellantisemitismo è stata utilizzata faziosamente come arma principalmente per danneggiare Corbyn e i suoi sostenitori di sinistra e rafforzare la destra laburista.

Linchiesta di Forde ha confermato molte delle rivelazioni contenute in un rapporto interno trapelato che dimostrava come la burocrazia laburista di destra avesse complottato contro Corbyn tirando per le lunghe dei casi disciplinari per metterlo in imbarazzo e cercando attivamente di sabotare la sua campagna elettorale del 2017.

Starmer ha fatto del suo meglio per insabbiare il rapporto Forde sin dalla sua pubblicazione lo scorso anno. Si sta anche preparando a rischiare fino a 4 milioni di sterline (4,6 milioni di euro) in spese legali per fare causa ad ex membri dello staff di Corbyn che accusa di aver fatto trapelare il rapporto.

Il partito laburista non ha risposto alla richiesta di commento di Middle East Eye.

Politica truccata

Paradossalmente ora, sotto la guida di Starmer, la discriminazione contro gli ebrei da parte dei laburisti è quantificabile: i membri ebrei critici nei confronti di Israele sono stati presi di mira in misura sproporzionata.

Un risultato del genere era ciò contro cui la squadra di Corbyn aveva esplicitamente messo in guardia durante la sua dirigenza, pur sottoposto com’era a forti pressioni da parte dei media e delle organizzazioni lobbistiche filo-israeliane.

Nonostante lesiguità delle prove contro Corbyn, lEHRC ha imposto al Labour un piano dazione, monitorandolo efficacemente per prevenire la continuazione o il ripetersidi atti illegittimi legati allantisemitismo. Piano d’azione che, ha aggiunto, “in caso di inadempienza sarebbe stato imposto giuridicamente dal tribunale”.

A quanto pare Jewish Voice for Labour sta smascherando il bluff dell’EHRC. Quando Corbyn era leader lorganismo per le pari opportunità era stato fin troppo pronto a indagare sui laburisti, anche sulla base di deboli prove di antisemitismo e vessazioni nei confronti degli ebrei.

Sottoporrà Starmer ad una indagine simile, soprattutto quando le prove di vessazioni contro dei membri ebrei del partito sembrano schiaccianti e il piano d’azione di chi controlla le pari opportunità viene così palesemente ignorato?

Non contateci troppo. Gia a gennaio lEHRC ha liberato i laburisti dalle misure speciali.

Un portavoce dell’EHRC ha detto a Middle East Eye che la commissione era “soddisfatta di come [il partito laburista] avesse implementato gli interventi migliorativi necessari riguardo le procedure di reclamo, tesseramento, formazione e altre sulla base degli standard legali richiesti”.

Come aveva comunicato Corbyn in risposta alla pubblicazione del rapporto della commissione nel 2020, la portata dellantisemitismo nel Labour sotto la sua guida è stata fortemente sopravvalutata per ragioni politiche dai nostri avversari allinterno e allesterno del partito. Quegli avversari hanno vinto.

Tuttavia la mancanza di preoccupazione per il fatto che gli ebrei vengano discriminati così apertamente da uno dei due maggiori partiti britannici dimostra quanto Corbyn avesse ragione.

Il furore non ha mai riguardato lantisemitismo o il benessere degli ebrei. Per alcuni si è trattato di mettere a tacere le critiche a Israele mentre per altri di impedire a un socialista moderato di avvicinarsi al numero 10 di Downing Street.

Starmer, che ha posto in cima al suo programma patriottismo, NATO e grandi imprese, non ha nulla da temere. A nessuno al potere importa quanto il suo partito perseguiti gli ebrei quando quegli ebrei sono di sinistra.

La strumentalizzazione dellantisemitismo sta ancora servendo al suo scopo: ha schiacciato politicamente la sinistra usando Israele come clava ed è ora impegnato a soffocare le discussioni nelle università che avrebbero potuto mettere in luce quanto fosse fasulla e politicizzata la campagna contro la sinistra.

Ecco perché la controffensiva è importante. Non si tratta solo di mettere le cose in chiaro. Si tratta di scoprire quanto sia veramente truccata la politica britannica.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese e vincitore del Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. Il suo sito web e il blog sono disponibili all’indirizzo www.jonathan-cook.net

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il primo ministro israeliano Netanyahu, la ragazza pompon della tifoseria antisemita

Editoriale di Haaretz

18 settembre 2023 – Haaretz

Nell’anno ebraico 5783, che è appena terminato, il governo Netanyahu ha portato Israele ancora più in basso anche riguardo all’antisemitismo. Mentre l’antico odio ha rialzato la testa in tutto il mondo, è stato il governo israeliano a concedere legittimità a chi lo diffonde.

Uno dei più significativi esempi di ciò è stata la legittimazione pubblica che il ministro degli Esteri Eli Cohen ha fornito alla rumena Alleanza per l’Unità dei Romeni, o AUR, di estrema destra, nonostante la lunga storia di antisemitismo e negazionismo dell’Olocausto dei dirigenti del partito. Si prevede che questa politica continuerà anche il prossimo anno, ora con il coinvolgimento diretto del primo ministro Benjamin Netanyahu. Il suo primo incontro del 5784 sarà con il miliardario Elon Musk, che l’anno scorso ha comprato la piattaforma di social media Twitter e ne ha cambiato il nome in X.

Negli Stati Uniti importanti organizzazioni ebraiche sostengono che dall’acquisizione della piattaforma da parte di Musk c’è stato un significativo incremento sia del volume dei contenuti antisemiti che vi vengono pubblicati sia delle dimensioni dell’esposizione ad essi. Questa tendenza ha portato l’Anti-Defamation League, la più importante organizzazione ebraica che lotta contro l’antisemitismo, a criticare duramente Musk. In risposta egli ha accusato l’ADL di danneggiare deliberatamente le sue attività economiche ed ha manifestato sostegno ai post di persone di estrema destra che chiedono di bandire le attività dell’organizzazione. Musk ha circa 160 milioni di seguaci su X.

Si suppone che Netanyahu, che sta volando verso la Costa occidentale [degli USA, ndt.] con l’esplicito intento di incontrare Musk prima di tornare a New York alla fine della settimana per l’Assemblea Generale delle Nazioni unite, parteciperà a questa accesa discussione lunedì. Non ci sono dubbi che Musk utilizzerà l’incontro con il primo ministro israeliano per respingere le affermazioni secondo cui appoggia l’antisemitismo.

Da parte sua Netanyahu userà l’incontro per smorzare le critiche riguardo al danno provocato lo scorso anno dal suo governo all’industria israeliana dell’alta tecnologia. L’incontro fornirà ad entrambi una migliore immagine, ma la lotta contro l’antisemitismo ne risentirà e la politica di far finta di niente in merito alla diffusione di contenuti antisemiti sulle reti sociali riceverà un certificato israeliano di conformità.

Il Consiglio dei Rapporti della Comunità Ebraica della Zona della Baia, un’organizzazione che unisce le comunità ebraiche della regione di San Francisco, prima di Rosh Hashanah [capodanno civile ebraico, ndt.] ha mandato una lettera a Netanyahu in cui gli chiedeva di incontrare i rappresentanti della comunità ed ascoltare le loro preoccupazioni riguardo a Musk. È molto incerto che Netanyahu accetti questa richiesta. Per anni ha condotto una politica di disprezzo verso l’ebraismo statunitense a favore della comunità cristiana evangelica, che è legata al partito Repubblicano, rispetto a quella ebraica, che tende a sostenere il partito Democratico.

Come in Europa, negli Stati Uniti Netanyahu non ha alcun problema a unire le forze con quanti rappresentano una minaccia alla sicurezza degli ebrei, finché ciò è utile ai suoi interessi politici.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)