“Valori condivisi”: l’Israele di Netanyahu consolida un’altra fosca alleanza con l’estrema destra europea

Editoriale di Haaretz

29 agosto 2023 – Haaretz

Mentre il ministro degli Esteri Eli Cohen è sottoposto a critiche giustificatamente feroci per aver reso pubblico un incontro segreto con la sua omologa libica, provocando disordini a Tripoli, la sua fuga a Istanbul con timori per la sua incolumità, e un’ulteriore rottura nelle relazioni con gli USA, Israele ha rafforzato un’altra dubbia amicizia, questa volta a Bucarest.

Su indicazioni di Cohen, l’ambasciatore israeliano in Romania, accompagnato dal leader dei coloni Yossi Dagan, ha incontrato il segretario del partito Alleanza per l’Unità dei Rumeni, di estrema destra, violando il boicottaggio israeliano dei contatti con un partito ultranazionalista, espansionista territoriale e filorusso che esalta il leader rumeno fascista del periodo della Seconda Guerra Mondiale Ion Antonescu, sotto il cui regime collaborazionista con il nazismo vennero uccisi 400.000 ebrei rumeni. Lo scorso anno il partito ha affermato che l’Olocausto in Romania fu una “questione di poco conto”.

Gli israeliani hanno strappato al leader dell’AUR George Simion una scialba e incompleta condanna dell’antisemitismo e della negazione dell’Olocausto. Ma la vera vittoria per il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, per la quale era disposto a vendere l’anima di Israele, è stato il pieno sostegno di Simion alle colonie israeliane in Cisgiordania.

Questo incontro fa parte di una strategia a lungo termine dei successivi governi Netanyahu: uno scambio di favori con i partiti di estrema destra europei. Israele ha legittimato i nazionalisti autoritari con ignobili primati di antisemitismo, negazionismo e fanatismo antimusulmano in cambio di un impegno a favore delle politiche israeliane.

Non c’è scarsità di partner estremisti, di Ungheria, Polonia, Italia, Francia, Svezia e ora Romania, ansiosi di ottenere un certificato israeliano di conformità. Per il partito Likud di Netanyahu, che ha costruito rapporti con tutta l’estrema destra europea, e per i coloni questa è un’occasione unica.

I termini di questa contrattazione faustiana sono espliciti: appoggiate la nostra annessione, noi ignoreremo il vostro antisemitismo; appoggiate il furto di terra delle colonie, noi sosterremo il vostro irredentismo territoriale; appoggiate il nostro attacco alla democrazia liberale, noi sosterremo il vostro fascismo e revisionismo sull’Olocausto; sostenete la nostra supremazia ebraica, e noi faremo altrettanto con la vostra supremazia cristiana.

Con l’estrema destra che sta notevolmente crescendo nei sondaggi nel continente, con elezioni decisive per il parlamento europeo il prossimo anno, così come elezioni nazionali in Austria, non c’è da sorprendersi che le comunità ebraiche locali, che sono in prima linea nell’opposizione di principio all’estrema destra, si ritrovino a chiedersi se Israele stia con loro.

Mentre il fiasco di Eli Cohen con la Libia ha fatto scalpore, questo incontro in Romania, che fa presagire la reale direzione in cui Netanyahu intende portare Israele, è passato inosservato. Il suo attacco alla democrazia, a una magistratura indipendente e a ogni valore liberale normativo, rafforzando nel contempo l’occupazione, è accompagnato dalla formazione di un asse di alleati deleteri e illiberali ma “filo-israeliani”, che si legittimano e sostengono a vicenda.

Sono passati solo 5 anni da quando l’allora presidente [della repubblica] Reuven Rivlin denunciò l’accondiscendenza di Netanyahu nei confronti dei neofascisti europei in nome dell’opportunismo politico e diplomatico.

Rivlin criticò duramente tali alleanze come “assolutamente incompatibili” con i principi israeliani. Oggi l’Israele di Netanyahu abbraccia orgogliosamente i suoi “valori condivisi” con l’estrema destra europea, e nel contempo butta nella spazzatura le comunità ebraiche e ogni residuo di dignità morale.

Il presente articolo è l’editoriale del direttore di Haaretz come è stato pubblicato in Israele nei giornali in ebraico e in inglese.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’utilizzo dell’antisemitismo come arma è dannoso per i palestinesi – e per gli ebrei

M Muhannad Ayyash

22 giugno 2023 – Aljazeera

Accuse infondate di antisemitismo rivolte a voci pro-palestinesi e antisioniste stanno ostacolando la lotta per sradicare l’odio antisemita

Il 12 maggio, nel suo discorso in occasione della consegna dei diplomi presso la Facoltà di Giurisprudenza della City University of New York (CUNY), la neolaureata yemenita-americana Fatima Mohammed ha osato parlare in modo onesto e veritiero della difficile situazione dei palestinesi.

La risposta era prevedibile. È stata organizzata e lanciata una campagna per intimidirla, attaccarla e metterla a tacere denunciando il suo acuto discorso come “antisemita”. Piattaforme di destra come il New York Post e Fox News hanno amplificato queste accuse infondate. I politici – sia repubblicani che democratici – si sono uniti all’insensato bullismo verso la giovane laureata e i parlamentari statali repubblicani hanno persino chiesto il ritiro dei fondi dalla CUNY per averle offerto una ribalta.

CUNY ha rapidamente ceduto alla pressione. Il 30 maggio il suo consiglio di amministrazione ha rilasciato una dichiarazione in cui ha condannato le parole di Mohammed come “incitamento all’odio”.

Ovviamente nulla di ciò che Fatima ha detto quel giorno era carico di odio o falso. Tutto ciò che ha detto era basato sui fatti e guidato da un desiderio di giustizia e decolonizzazione. Ogni affermazione fatta nel suo discorso di apertura può essere trovata in articoli di riviste scientifiche specializzate, in libri accademici di esperti di fama mondiale o nella realtà quotidiana di milioni di palestinesi.

Nell’ascoltare il suo discorso ci si accorge che in realtà non ha detto assolutamente nulla sull’identità o sul popolo ebraico. A tale proposito non ha fatto menzione della vita ebraica negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito, in Francia o persino in Israele. Il suo discorso ha riguardato lo Stato israeliano, i suoi fondamenti e pratiche coloniali e l’egemonia imperiale degli Stati Uniti di cui Israele è parte.

Anche se non si è d’accordo con le sue opinioni, ci si deve chiedere: cosa ha a che fare una tale critica con l’identità ebraica? Ci viene costantemente detto che non dovremmo mai confondere la vita ebraica, ad esempio, a New York, con lo Stato israeliano. E sono totalmente d’accordo con questo. Assumere che una persona ebrea a New York sia “fedele” ad Israele – o risponda delle sue azioni – è indubbiamente antisemita. Ma sfortunatamente quell’associazione è precisamente ciò che le campagne dei gruppi filo-israeliani e sionisti hanno reso aderente al senso comune all’interno del dibattito pubblico in Occidente. Ora, come risultato diretto di tali campagne, ogni volta che qualcuno osa criticare Israele in pubblico, e specialmente quando quella persona è associata a un’istituzione pubblica come un’università, viene accusato di aver lanciato un attacco antisemita contro la comunità ebraica locale.

La prima conseguenza di ciò è che le voci che parlano dei problemi del popolo palestinese e delle sue aspirazioni alla libertà e alla liberazione sono etichettate come “antisemite” e quindi condannate e censurate. Ciò può avere conseguenze disastrose per la vita e la sussistenza di questi individui e contribuisce notevolmente all’emarginazione delle comunità palestinesi e arabe in Occidente creando la percezione che queste comunità siano intrinsecamente cariche di odio.

Ma adesso, grazie al coraggio di persone come Fatima che continuano a parlare a favore della Palestina nonostante conoscano il pesante tributo che pagheranno, molti negli Stati Uniti e altrove percepiscono le vere intenzioni di queste campagne e riconoscono in tali casi l’infondatezza dell’accusa di antisemitismo. Nel caso del discorso di Fatima, ad esempio, l’enorme applauso che ha ricevuto al termine dimostra da solo che i suoi coetanei, che l’hanno scelta per tenere il discorso per prima, non percepiscono le sue opinioni come antisemite.

C’è però un’altra conseguenza altrettanto preoccupante e dannosa delle infondate accuse di antisemitismo rivolte alle voci filo-palestinesi: esse rendono meno convincenti tutte le accuse di antisemitismo, comprese quelle molto reali.

In effetti, accusare di antisemitismo tutti coloro che criticano gli interventi coloniali di Israele è estremamente pericoloso perché alla fine ciò indurrà, se non è già successo, ad iniziare a mettere in dubbio l’esistenza stessa del male sociale molto reale, dannoso e pervasivo che è l’antisemitismo.

In questo contesto, nonostante pochi difetti, la Strategia Nazionale Statunitense per Contrastare l’Antisemitismo recentemente pubblicata sembra essere un passo nella giusta direzione. La strategia si concentra giustamente su esempi di antisemitismo derivanti dalle teorie del complotto sul “potere e controllo ebraico” e separa persino quello che chiama “antisemitismo domestico” dall’antisemitismo globale. Elenca di sfuggita gli “sforzi per delegittimare lo Stato di Israele” come esempio di antisemitismo globale (un’affermazione con cui sono totalmente in disaccordo per le ragioni sopra esposte) ma a parte ciò menziona a malapena Israele poiché si concentra su veri e propri atti di antisemitismo piuttosto che su accuse politicamente motivate volte a proteggere Israele dalle critiche.

Per questo motivo credo che questa nuova strategia possa effettivamente aiutare a ridurre la nuova e reale ondata di antisemitismo in America.

Oggi, mentre i gruppi filo-israeliani si concentrano sul diffamare qualsiasi critica di sinistra del colonialismo di insediamento come “antisemita”, la destra sta rapidamente normalizzando le vecchie teorie del complotto antisemita sul “potere e controllo ebraico”.

In effetti negli Stati Uniti la politica di destra, sempre più estremista, è ora piena di cospirazioni da parte dei “globalisti” che starebbero conquistando il mondo, gestirebbero vaste cerchie di pedofili, priverebbero la gente comune delle loro libertà, commetterebbero omicidi di massa con vaccini e così via. Ovviamente globalista” per queste persone è solo una parola in codice per ebreo”.

È fondamentale che tali idee pericolose siano adeguatamente etichettate come antisemite e contrastate efficacemente, per la sicurezza e il benessere del popolo ebraico e della società in generale. Ma più la lobby israeliana e altri gruppi sionisti usano come arma l’antisemitismo per permettere allo Stato israeliano di consolidare ed espandere la sua colonizzazione della Palestina, meno efficace diventa la lotta contro il vero antisemitismo.

Oltre a diluire l’accusa di antisemitismo, l’uso dell’antisemitismo come arma ha una terza conseguenza: impedisce un’autentica discussione sull’intersezionalità tra la lotta contro l’antisemitismo e altre lotte antirazziste, comprese quelle contro il razzismo anti-palestinese e l’islamofobia.

In effetti, il discorso di Fatima avrebbe dovuto essere l’occasione per iniziare una discussione in proposito. Dopotutto, il percorso da lei suggerito verso la liberazione palestinese – la caduta dell’impero – è anche l’unico percorso per liberare il nostro mondo dall’odio vile che è l’antisemitismo, che è stato essenziale per la formazione dello stesso impero. In questo contesto, censurare e marchiare come antisemita il discorso di Fatima e di altre voci palestinesi e antisioniste serve a ostacolare non solo la liberazione palestinese, ma anche gli sforzi per contrastare tutte le altre conseguenze interconnesse della modernità coloniale, compreso l’antisemitismo.

Pertanto, tutti gli studiosi, gli attivisti e chiunque altro sia interessato a porre fine a tutte le diverse forme di razzismo e odio che stanno paralizzando vite e mezzi di sussistenza in tutto il mondo dovrebbero vedere l’accusa di antisemitismo rivolta a Fatima per quello che realmente è: un pericoloso attacco alla verità, alla giustizia, all’antirazzismo e alla decolonizzazione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

M Muhannad Ayyash

Professore di Sociologia alla Mount Royal University di Calgary, Canada.

Ayyash è l’autore di A Hermeneutics of Violence (UTP, 2019) e analista politico presso Al-Shabaka, il Policy Network Palestinese. È nato e cresciuto a Silwan, Al-Quds (Gerusalemme), prima di immigrare in Canada, dove ora è professore di sociologia alla Mount Royal University. Attualmente sta scrivendo un libro sulla supremazia del colonialismo di insediamento.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La definizione di antisemitismo dell’IHRA “reprime il sostegno ai palestinesi in Europa”

Areeb Ullah

6 giugno 2023 – Middle East Eye

Uno studio dell’European Legal Support Centre ha scoperto che le persone di colore e gli ebrei che appoggiano la Palestina sono stati colpiti in modo sproporzionato da una definizione “errata”.

Un’organizzazione europea per i diritti umani ha denunciato che la definizione operativa di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa cui aderiscono 34 Paesi, per lo più europei, ndt.] (IHRA) ha avuto un impatto sproporzionato sulle persone di colore e sugli ebrei che appoggiano la Palestina, facendo sì che alcuni perdessero il lavoro oppure affrontassero la censura o azioni giudiziarie per presunti reati.

Basandosi su 53 casi in Austria, Germania e Regno Unito, l’European Legal Support Centre [Centro Europeo per il Sostegno Legale, che si occupa di appoggiare i gruppi filopalestinesi in Europa, ndt.] (ELSC) afferma che tutti e tre i Paesi hanno applicato la discussa definizione “come se fosse una legge”, nonostante essa sia definita come “non giuridicamente vincolante”.

L’ELSC critica anche la Commissione Europea per aver ignorato le crescenti preoccupazioni riguardo alla definizione.

In seguito alla pubblicazione martedì di un rapporto intitolato Suppressing Palestinian Rights Advocacy through the IHRA Working Definition of Antisemitism [Repressione del sostegno ai diritti dei palestinesi attraverso la definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA], l’ELSC afferma in un comunicato che “tutti gli imputati sono stati presi di mira per il sostegno ai palestinesi e la denuncia delle prassi e delle politiche israeliane e/o per le critiche al sionismo come ideologia politica”.  

Quando sono state portate in tribunale, la maggior parte di queste accuse di antisemitismo sono state respinte in quanto senza fondamento.”

Il rapporto evidenzia casi di accademici, studenti e attivisti per i diritti dei palestinesi che sono stati penalizzati per aver espresso critiche a Israele.

Accuse di antisemitismo che fanno riferimento alla definizione operativa dell’IHRA nei casi documentati hanno colpito in modo assolutamente preponderante palestinesi, persone e organizzazioni ebraiche che sostengono i diritti dei palestinesi, suggerendo che la definizione dell’IHRA viene messa in pratica in modo discriminatorio,” segnala l’ELSC.

Sebbene la stragrande maggioranza dei ricorsi riguardanti la messa in pratica della definizione dell’IHRA abbia successo, le procedure disciplinari e le vertenze derivanti da false accuse di antisemitismo hanno prodotto un “effetto dissuasivo” sulla libertà di espressione e di riunione.”

L’ELSC afferma che tra le 53 persone intervistate per il rapporto 42 casi hanno preso di mira associazioni con “membri che sono di colore o individui che sono persone di colore, tra cui 19 palestinesi.

In 11 episodi sono stati presi di mira associazioni che si identificano come ebraiche o singoli ebrei, in particolare con opinioni antisioniste o simpatie nei confronti della lotta dei palestinesi per i diritti umani. Tutti i singoli individui e i gruppi che sono stati colpiti in questi episodi hanno manifestato simpatia per i diritti umani dei palestinesi,” nota l’ELSC.

Questi dati mostrano una potenziale discriminazione nel modo in cui la definizione dell’IHRA viene messa in pratica, suggerendo che i palestinesi e i loro alleati, ebrei, persone di colore o altri, sono i principali obiettivi di quanti utilizzano la definizione dell’IHRA per delegittimarli, calunniarli o sanzionarli.”

Aggiunge che alcuni dei partecipanti [alla ricerca] hanno perso offerte di lavoro o l’impiego e alcuni sono stati citati in giudizio da governi locali perché avrebbero violato la definizione dell’IHRA.

Eventi studenteschi legati all’Israeli Apartheid Week [Settimana contro l’Apartheid Israeliano] sono stati annullati per presunte violazioni della definizione dell’IHRA, compresa la conferenza di un sopravvissuto all’Olocausto presso l’università di Manchester.

La politica della Commissione Europea “dannosa per i diritti fondamentali”

Giovanni Fassina, direttore dell’ELSC, ha denunciato la Commissione Europea che ha promosso la definizione dell’IHRA attraverso un manuale sull’antisemitismo del 2021, affermando che l’ente ha “sistematicamente ignorato e respinto le crescenti preoccupazioni riguardo ai diritti umani relativi alla definizione dell’IHRA e non ha preso misure per impedire ogni suo impatto negativo su diritti fondamentali.

È tempo che la Commissione Europea riconosca e prenda in considerazione il fatto che la politica che ha promosso e implementato sulla base della definizione dell’IHRA, sia a livello di Unione Europea che di Stati membri, è estremamente dannosa per i diritti fondamentali e sta promuovendo il razzismo antipalestinese,” afferma Fassina in un comunicato.

La definizione dell’IHRA è stata formulata nel 2004 dall’esperto di antisemitismo Kenneth Stern in collaborazione con altri accademici per l’American Jewish Committee, un’organizzazione a favore degli ebrei fondata all’inizio del XX secolo e con sede a New York.

Stern ha affermato di aver formulato la definizione specificamente per ricercatori europei in modo da aiutarli a monitorare l’antisemitismo.

Ma chi la critica afferma che alcuni degli esempi che l’accompagnano confondono l’antisemitismo con l’antisionismo, o la critica a politiche del passato o attuali che portarono alla creazione dello Stato di Israele nel 1948, all’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle proprie case nell’attuale Israele e alle continue violazioni dei diritti umani contro i palestinesi e l’occupazione delle terre palestinesi da parte di Israele.

Il Regno Unito è stato il primo Paese europeo ad adottare la definizione dell’IHRA nel 2016, seguito dall’Austria nell’aprile 2017. Nel settembre 2017 il governo federale tedesco, allora una coalizione tra i conservatori della CDU-CSU e i socialdemocratici della SPD, appoggiò la definizione dell’IHRA per decisione del consiglio dei ministri. Anche istituzioni locali e organizzazioni associative hanno adottato o votato per adottare in modo indipendente la definizione dell’IHRA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli attacchi contro Roger Waters mettono in ridicolo la lotta contro l’antisemitismo

Yves Engler

29 maggio 2023 – Mondoweiss

I recenti attacchi contro Roger Waters sono l’ultimo esempio di false accuse di antisemitismo utilizzate come arma per difendere l’apartheid israeliano.

Di recente alcuni politici del fascistoide e apertamente suprematista ebraico governo israeliano hanno attaccato l’esibizione a Berlino del famoso musicista rock Roger Waters. In molti Paesi agenti antipalestinesi di Israele hanno amplificato l’imbarazzante delirio secondo cui Waters sarebbe un antisemita per aver inserito il nome di Anna Frank su un grande schermo vicino alla giornalista palestinese assassinata Shireen Abu Akleh. Lo spettacolo di Waters ha semplicemente messo a confronto i due nomi e questo non sarebbe stato improprio, ma di fatto i nomi di circa una decina di persone uccise da forze di sicurezza, come George Floyd negli USA, hanno lampeggiato sullo schermo durante l’esibizione. Il secondo elemento della loro cinica follia è stato lamentare che Waters abbia indossato un’uniforme fascista, modello SS. Ma Waters ha esibito per decenni delle varianti di questa parodia antifascista e antinazista.

Infine qualcuno ha sostenuto che lo spettacolo ha incluso un maiale con una stella di David, il che è assolutamente falso. In un comunicato Waters ha risposto:

“La mia recente esibizione a Berlino ha attirato attacchi in malafede da quanti vogliono calunniarmi e mettermi a tacere perché dissentono dalle mie opinioni politiche e dai miei principi morali. Gli elementi del mio spettacolo che sono stati messi in discussione sono molto chiaramente una presa di posizione contro il fascismo, l’ingiustizia e il fanatismo in ogni loro manifestazione. Il tentativo di ritrarli come qualcos’altro sono ipocriti e motivati politicamente. La rappresentazione di un folle demagogo fascista è stata una caratteristica dei miei spettacoli fin da The Wall dei Pink Floyd nel 1980.

Ho passato tutta la mia vita a denunciare l’autoritarismo e l’oppressione ovunque li abbia visti. Quando ero un bambino dopo la guerra il nome di Anna Frank veniva spesso citato in casa nostra, divenne un ricordo permanente di ciò che accade quando viene consentito al fascismo di scatenarsi. I miei genitori lottarono contro i nazisti nella Seconda Guerra Mondiale, e ciò costò la vita a mio padre. Indipendentemente dalle conseguenze degli attacchi contro di me, continuerò a condannare l’ingiustizia e tutti quelli che la perpetrano.”

Facendo seguito ai politici israeliani, i lobbysti canadesi a favore dell’apartheid hanno amplificato gli allarmi sull’antisemitismo. Su Twitter l’inviato speciale di Justin Trudeau [primo ministro canadese, ndt.] per la lotta contro l’antisemitismo Irwin Cotler, la parlamentare liberale Ya’ra Saks, l’ex presidente del Congresso Ebraico Canadese Bernie Farber e l’ex deputato Michael Leavitt hanno gridato all’antisemitismo. Così hanno fatto gli Amici del Centro Simon Wiesenthal, Honest Reporting Canada [ong che monitora i media alla ricerca di pregiudizi contro Israele, ndt.] e il Centro per gli Affari di Israele ed Ebraici, che ha twittato: “Siamo disgustati dalle azioni di Roger Waters nel concerto di ieri a Berlino. È già abbastanza grave tracciare paralleli scorretti con Anna Frank (soprattutto a Berlino), ma comparire sul palco vestito come un soldato nazista delle SS? E’ palese antisemitismo.”

Il finto scandalo è poco più che una cinica calunnia contro un personaggio importante che si rifiuta di ritirare il proprio appoggio ai palestinesi. Non sono riusciti a far annullare il recente concerto di Waters a Francoforte che nonostante i costanti attacchi continua ad organizzare concerti molto politicizzati in strutture di grandi dimensioni in tutto il mondo. Ora c’è un tentativo di annullare i suoi prossimi concerti e la polizia tedesca ha avviato un’indagine contro Waters per l’uniforme in stile nazista che ha indossato durante il concerto di Berlino.

Gli attacchi contro Waters sono l’ultimo esempio della continua utilizzazione dell’antisemitismo come arma da parte dei nazionalisti israeliani. Nel caso più nefasto, è stato messo in crisi il segretario di sinistra del partito Laburista Britannico Jeremy Corbyn, come ha accuratamente spiegato Asa Winstanley in un suo recente libro [2022, Weaponising Anti-Semitism – Usare l’antisemitismo come arma, ndt.]. I nazionalisti israeliani hanno talmente abusato del termine [antisemitismo] nella loro difesa dell’apartheid e delle violazioni del diritto internazionale che ogni accusa di antisemitismo è diventata sospetta persino quando potrebbe essere appropriata.

Nel 2016, prima di questi episodi, scrissi: “In Canada ‘antisemitismo’ è forse il termine più inflazionato. Quasi del tutto separato dalla sua definizione nel dizionario – ‘discriminazione o pregiudizio o ostilità contro gli ebrei’ – ora è invocato principalmente per difendere i privilegi degli ebrei e dei bianchi.” Aggiunsi che, se non ci sarà un intervento di qualche genere, i futuri dizionari potrebbero definire l’“antisemitismo” come “un movimento per la giustizia e l’uguaglianza”.

Sette anni fa, quando lo scrissi, venni violentemente attaccato, ma il recente scandalo costruito ad arte contro Roger Waters suggerisce che oggi questa affermazione è ancora più vera.

Che la lobby antipalestinese si vergogni per questo stato di cose.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In un comunicato inviato a Palestine Chronicle Spotify spiega perché una canzone popolare di Mohammed Assaf è stata censurata

Redazione di Palestine Chronicle

21 maggio 2023 – Palestine Chronicle

In un comunicato inviato a Palestine Chronicle un’agenzia di pubbliche relazioni che rappresenta Spotify MENA [acronimo inglese per Paesi del Medio Oriente e Nord Africa, ndt.] afferma che la ragione della rimozione di una canzone popolare del famoso artista palestinese Mohammed Assaf “non è stata decisa da Spotify ma dal distributore.”

Il comunicato di Spotify, inviato tramite Publicist Inc., sostiene anche che “anticipiamo che nel prossimo futuro verrà reinserita e ci scusiamo per ogni inconveniente provocato.”

Nel breve comunicato si legge:

Spotify intende offrire sulla propria piattaforma un’ampia gamma di musiche, ma la disponibilità può variare nel tempo e a seconda dei Paesi. La rimozione di alcuni contenuti di Mohammed Assaf non è stata decisa da Spotify ma dal distributore. Anticipiamo il suo reinserimento nel prossimo futuro e ci scusiamo per qualunque inconveniente provocato.”

In precedenza Palestine Chronicle e altre fonti avevano dato notizia che Spotify e Apple Music avevano deciso di eliminare la canzone “Ana Dammi Falastini” (Il mio sangue è palestinese) di Assaf accusandolo di antisemitismo.

Secondo Roya News [rete informativa giordana, ndt.], dopo aver scoperto che la sua canzone era stata eliminata da entrambe le piattaforme, il cantante palestinese ha condiviso la sua sorpresa in una intervista con Al-Araby al-Jadeed [Il Nuovo Arabo, sito web di notizie in arabo con sede a Londra, ndt.].

Assaf avrebbe detto di aver ricevuto una mail ufficiale in cui si menzionavano accuse di antisemitismo come ragione per la cancellazione della canzone.

Assaf, nato e cresciuto a Gaza, ha sottolineato su Instagram che la canzone è stampata nel cuore di qualunque persona onesta e libera.

Secondo Doha News [blog di notizie con sede in Qatar, ndt.], “la decisione da parte del gigante dello streaming di eliminare la canzone è arrivata dopo che una petizione organizzata dalla filo-sionista “We Believe in Israel” [Noi crediamo in Israele] (WBII) e dal Consiglio dei Deputati ha raccolto circa 4.000 firme.”

Per Israele cancellare la Palestina ed escludere il popolo palestinese dalla storia della sua stessa terra è sempre stato un comportamento strategico,” ha scritto in un recente articolo il giornalista ed editorialista palestinese di Palestine Chronicle Ramzy Baorud, commentando la decisione israeliana di impedire ad Assaf di tornare in Palestina.

La cultura palestinese è stata molto utile alla lotta del popolo palestinese. Nonostante l’occupazione e l’apartheid israeliane, essa ha dato ai palestinesi un senso di continuità e coesione, legandoli tutti a un senso collettivo di identità che ruota intorno alla Palestina,” aveva scritto Baroud.

Nota di redazione: aggiungiamo all’articolo di Palestine Chronicle il testo della canzone censurata da Spotify in modo che i lettori possano verificare quanto ci sia di antisemita.

Il mio sangue è palestinese

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

Siamo rimasti con te, nostra patria

Con il nostro orgoglio e identità araba

La terra di Gerusalemme ci ha chiamati

(Come) il suono della voce di mia madre che mi chiama

Palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

Oh madre, non preoccuparti

La tua patria è un castello fortificato

A cui sacrifico la mia anima

E il mio sangue, e le mie vene.

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

 Sono palestinese, figlio di una famiglia libera

Sono valoroso e vado a testa alta

Tengo fede al mio giuramento per la mia patria

Non mi sono mai piegato di fronte a nessuno

Palestinese, palestinese

Il mio sangue è palestinese.

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

(traduzione dall’inglese dell’articolo e del testo della canzone di Amedeo Rossi)




I media pubblicizzano il rapporto dell’ADL che equipara l’antisionismo all’antisemitismo

Michael Arria

24 marzo 2023 – Mondoweiss

La ricerca annuale dell’ADL sull’antisemitismo negli USA offre una visione distorta del problema perché l’organizzazione conteggia tra le azioni anti-semite le proteste antisioniste contro Israele.

Questa settimana l’Anti-Defamation League [Lega contro la Diffamazione, una delle principali associazioni della lobby filo-israeliana negli USA, ndt.] (ADL) ha reso pubblica la sua ricerca annuale sugli incidenti di antisemitismo negli Stati Uniti. Secondo i dati nel 2022 essi sarebbero aumentati del 36%, con un totale di 3.697 casi. È il numero più alto dal 1979, quanto l’ADL ha iniziato a raccogliere queste informazioni, e un incremento di circa il 500% negli ultimi dieci anni.

Tuttavia un rapido sguardo alla metodologia dell’associazione rivela immediatamente che le sue conclusioni sono discutibili. L’ADL attribuisce esplicitamente azioni e proteste antisioniste contro Israele all’antisemitismo, perché possono mettere a disagio studenti ebrei.

Dichiarazioni pubbliche di opposizione al sionismo, che spesso sono antisemite, sono incluse nella ricerca quando si può stabilire che esse abbiano avuto un impatto negativo su uno o più individui ebrei o associazioni ebraiche identificabili e localizzate,” spiegano gli autori del rapporto. “Ciò è più frequente nei campus dei college, dove alcuni studi hanno mostrato che l’opposizione accesa a Israele e al sionismo può avere un effetto intimidatorio sulla vita di studenti ebrei e aggrava le pressioni percepite da studenti ebrei in aggiunta agli incidenti di cui diamo conto in questa ricerca.”

Come prevedibile le “raccomandazioni” della ricerca includono l’adozione della controversa definizione di antisemitismo dell’IHRA, la promozione degli accordi di Abramo [tra Israele e alcuni Paesi arabi, ndt.] e la mobilitazione contro il movimento nonviolento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele, ndt.] (BDS).

Su Twitter la presidentessa della Foundation for Middle East Peace [Fondazione per la Pace in Medio Oriente] Lara Friedman presenta un istruttivo legame che riduce notevolmente i numeri gonfiati: 241 degli incidenti documentati sono relativi a critiche a Israele o al sionismo e di questi l’ADL ne attribuisce 70 a singole persone legate ad associazioni di attivisti antisionisti.

Friedman evidenzia che, anche accettando la distorta visione dell’ antisemitismo da parte dell’ADL, questi incidenti non costituiscono una parte considerevole dei fatti documentati. Ciononostante nel suo rapporto l’ADL dedica più parole a Israele che a qualunque altro argomento e gli concede uno spazio doppio rispetto a quello dedicato dal suprematismo bianco o alle aggressioni antisemite.

Così in sostanza l’ADL continua a utilizzare una definizione politicizzata di antisemitismo che demonizza la libertà di parola che critica Israele o il sionismo, e gonfia questi numeri molto discutibili dedicando uno spazio sproporzionato ad enfatizzare la minaccia rappresentata dalle critiche a Israele e al sionismo,” conclude Friedman.

Il contenuto del rapporto non è affatto sorprendente. Il direttore dell’ADL Jonathan Greenblatt ha ripetutamente dichiarato di considerare antisemita l’antisionismo. “Come ideologia l’antisionismo ha le sue radici nell’odio,” ha detto al pubblico dell’incontro nazionale dei dirigenti dell’ADL nel 2022. “Esso si basa su un concetto: la negazione di un altro popolo, un concetto alieno al discorso contemporaneo quanto il suprematismo bianco. Richiede una negazione deliberata della storia anche superficiale dell’Ebraismo e della lunga storia del popolo ebraico. E, quando un’idea deriva da una tale sconvolgente intolleranza, essa porta ad azioni sconvolgenti.”

L’ho già detto in precedenza e lo ripeto: l’antisionismo è antisemitismo,” ha affermato nel novembre 2021. “Negare il diritto degli ebrei, unico tra tutti i popoli del mondo, ad avere una patria è antisemitismo. Prendere di mira solo lo Stato ebraico per condannarlo ignorandone altri è un pregiudizio.”

I principali media hanno informato del rapporto, ma hanno ampiamente omesso di respingere le sue affermazioni o di fornire il contesto dell’ideologia politica dell’associazione.

Un servizio dell’NPR [principale rete radiofonica pubblica USA, ndt.] sulle conclusioni dell’organizzazione non cita affatto Israele, la Palestina o il sionismo, né lo fa l’informazione della CNN. L’articolo del New York Times sul rapporto menziona semplicemente che “include alcuni incidenti definiti come antisionisti o contro Israele,” ma accetta la (falsa) affermazione dell’ADL secondo cui “non confonde le critiche generali a Israele o l’attivismo anti-israeliano con l’antisemitismo.”

Greenblatt è stato invitato da PBS Newhour [notiziario televisivo serale USA, ndt.] a parlare del rapporto ed ha apertamente calunniato gli antisionisti senza smentite: “Quando vediamo accaniti attivisti antisionisti nei campus dei college intimidire apertamente, aggressivamente e quasi con gioia studenti ebrei, qualcosa di fondamentale si è rotto nella nostra società,” ha detto al conduttore Geoff Bennett.

Poi Bennett ha esplicitamente ripetuto il discorso dell’ADL chiedendo a Greeblatt di spiegare i falsi dati sui campus. “Ha colpito anche me leggere in questo rapporto dell’aumento del 41% di attività antisemite nei campus dei college e delle università,” ha affermato Bennett. “E continuando a leggere sull’argomento quello che ho imparato è che spesso studenti ebrei affermano che gli abusi sono spesso accentuati quando emergono critiche contro Israele. Dimmi qualcosa in più a questo proposito.”

Nella sua risposta Greenblatt è arrivato fino a suggerire che gli antisionisti sono indirettamente responsabili di scritte naziste.

Beh, vedi, non c’è sicuramente niente di sbagliato nel criticare le politiche dello Stato di Israele,” ha sostenuto Greeenblatt. “È una cosa frequente. Vivere in democrazia significa questo. Lo fa anche l’ADL. Ma l’instancabile ossessione contro lo Stato ebraico, le affermazioni secondo cui stia in qualche modo commettendo un genocidio contro i palestinesi o sia responsabile di suprematismo bianco, se pensi che un Paese, l’unico Stato ebraico al mondo, sia in qualche modo suprematismo bianco o stia commettendo un genocidio, ovviamente, tu – noi non dovremmo poi essere sorpresi quando compaiono svastiche sulla sede dell’associazione ebraica o quando le persone pensano che sia giusto prendere di mira e vittimizzare apertamente studenti ebrei.”

Gli attivisti hanno costantemente insistito perché le associazioni per i diritti umani smettano di lavorare con l’ADL a causa della lunga storia di opposizione ai diritti dei palestinesi e di collaborazione con le forze dell’ordine da parte dell’organizzazione. Nel 2020 una coalizione di associazioni (tra cui American Muslims for Palestine [Musulmani Americani per la Palestina], il Palestinian Youth Movement [Movimento Giovanile Palestinese], Adalah Justice Project [Progetto di Giustizia Adalah] e IfNotNow [SeNonOra]) hanno pubblicato una lettera aperta chiedendo di intervenire.

Benché l’ADL sia integrata nel lavoro di comunità su una serie di problemi, essa ha una storia e un costante comportamento aggressivo contro movimenti per la giustizia sociale guidati da comunità di colore, queer, immigrati, musulmani, arabi e altri gruppi emarginati, schierandosi nel contempo con polizia, dirigenti di destra e perpetratori della violenza di stato,” vi si legge. “Cosa ancora più indignante, spesso ha condotto questi attacchi sotto la bandiera dei ‘diritti civili’.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’arte dei bambini palestinesi mette in luce il genocidio culturale israeliano

Ramzy Baroud

7 marzo 2023 – Middle East Monitor

Il seguente messaggio di testo racconta l’intera storia di ciò per cui le comunità filo-palestinesi di tutto il mondo stanno combattendo e contro cui combattono i filo-israeliani: “Siamo lieti di annunciare che il Chelsea e il Westminster Hospital ha rimosso un’esposizione di opere d’arte disegnate da bambini provenienti da Gaza”.

Questo è il riassunto di una notizia pubblicata sulla homepage del gruppo lobbista filo-israeliano UK Lawyers for Israel [Avvocati Britannici per Israele, ndt.] (UKLFI). L’associazione è accreditata – se credito è la parola giusta – come lo schieramento che è riuscito a convincere l’amministrazione di un ospedale nella zona ovest di Londra a rimuovere alcune opere d’arte create dai bambini rifugiati nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Per spiegare la logica alla base della loro incessante campagna per la rimozione dell’arte dei bambini, UKLFI ha affermato che i “pazienti ebrei” in ospedale “si sentivano vulnerabili e colpevolizzati dall’esibizione”. Le poche opere d’arte raffiguravano la Cupola della Roccia nella Gerusalemme Est occupata, la bandiera palestinese e altri simboli che non dovrebbero realmente “colpevolizzare” nessuno. L’articolo dell’ UKLFI è stato successivamente modificato, con la rimozione del riassunto offensivo, sebbene sia ancora accessibile sui social media.

Per quanto ridicola possa sembrare questa storia, in realtà è l’essenza stessa della campagna anti-palestinese lanciata da Israele e dai suoi alleati in tutto il mondo. Mentre i palestinesi si battono per i diritti umani fondamentali, la libertà e la sovranità come sancito dal diritto internazionale, il campo filo-israeliano si batte per la totale cancellazione di tutto ciò che è palestinese.

Alcuni chiamano ciò genocidio o etnocidio culturale. Sebbene i palestinesi abbiano familiarità con questa pratica israeliana in Palestina sin dall’inizio dello stato di occupazione, i confini della guerra sono stati ampliati per raggiungere qualsiasi parte del mondo, specialmente nell’emisfero occidentale.

La disumanità dell’UKLFI e dei suoi alleati è abbastanza palpabile, ma l’associazione non può essere l’unica da biasimare. Quegli avvocati non sono che la continuazione di una cultura coloniale israeliana che osserva l’esistenza stessa di un popolo palestinese, inclusa l’arte dei bambini rifugiati, attraverso una visione politica, come una “minaccia esistenziale” per lo stato di occupazione.

Il rapporto tra l’esistenza stessa di un Paese e l’arte dei bambini può sembrare assurdo, – e lo è – ma ha una sua, seppur strana, logica: finché questi bambini profughi si riconosceranno come palestinesi continueranno a vedere se stessi, ed essere considerati da altri, come parte di un tutto più grande, il popolo palestinese. Questa autoconsapevolezza e il riconoscimento da parte di altri – per esempio, pazienti e personale di un ospedale di Londra – di questa identità palestinese collettiva, rende difficile, di fatto impossibile, per Israele vincere.

Per palestinesi e israeliani la vittoria significa due cose completamente diverse, che sono conciliabili. Per i palestinesi la vittoria significa libertà per il popolo palestinese e uguaglianza per tutti. Per Israele la vittoria può essere raggiunta solo attraverso la cancellazione dei palestinesi sul piano geografico, storico, culturale e sulla base di ogni altro aspetto che potrebbe costituire parte dell’identità di un popolo.

Purtroppo il Chelsea and Westminster Hospital assume ora una parte attiva in questa tragica cancellazione dei palestinesi, allo stesso modo in cui nel 2018 Virgin Airlines [compagnia aerea privata britannica, ndt.] ha ceduto alle pressioni quando ha accettato di rimuovere il “cuscus di ispirazione palestinese” dal suo menu. All’epoca questa storia sembrò un bizzarro episodio del cosiddetto “conflitto israelo-palestinese”, anche se in realtà la vicenda rappresentava il nucleo stesso di questo “conflitto”.

Per Israele la guerra in Palestina ruota attorno a tre finalità fondamentali: acquisire terra; cancellare le persone; riscrivere la storia. Il primo obiettivo è stato in gran parte raggiunto attraverso un processo di pulizia etnica e di folle colonizzazione della Palestina dal 1947-48. L’attuale governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu spera solo di portare a termine questo processo. Il secondo compito va oltre la pulizia etnica, perché anche la semplice consapevolezza della loro identità collettiva da parte dei palestinesi, ovunque si trovino, costituisce un problema. Da qui il processo attivo del genocidio culturale. E sebbene Israele sia riuscito a riscrivere la storia per molti anni, questo compito viene ora sfidato, grazie alla tenacia dei palestinesi e dei loro alleati e al potere delle reti sociali e digitali.

I palestinesi sono senza dubbio i maggiori beneficiari dello sviluppo dei media digitali. Questi hanno contribuito al decentramento delle narrazioni politiche e persino storiche. Per decenni la conoscenza da parte dell’opinione pubblica di cosa rappresentino “Israele” e “Palestina” nell’immaginario dominante è stata ampiamente controllata attraverso una specifica narrazione approvata da Israele. Coloro che deviavano da questa narrazione venivano attaccati ed emarginati, e quasi sempre accusati di “antisemitismo”. Sebbene queste tattiche siano ancora scatenate contro i critici di Israele, il risultato non è più garantito.

Ad esempio, un singolo tweet che descrive la “gioia” dell’UKLFI ha ricevuto oltre 2 milioni di visualizzazioni su Twitter. Milioni di britannici indignati e utenti di social media in tutto il mondo hanno trasformato quella che doveva essere una vicenda locale in uno degli argomenti riguardanti Palestina e Israele più discussi in tutto il mondo. Com’era prevedibile, non molti utenti dei social media hanno condiviso la “gioia” dell’ UKLFI, costringendo così il gruppo di pressione a riformulare l’articolo originale. Ancora più importante, in un solo giorno milioni di persone sono venuti a conoscenza di un argomento completamente nuovo su Palestina e Israele: la cancellazione culturale. La “vittoria” si è trasformata in un’assoluta figuraccia per la lobby filo-israeliana, forse addirittura una sconfitta.

Grazie alla crescente popolarità della causa palestinese e all’impatto dei social media, le iniziali vittorie israeliane quasi sempre gli si ritorcono contro. Un altro esempio recente è stato il licenziamento e la rapida reintegrazione dell’ex direttore di Human Rights Watch [una delle principali ong per i diritti umani, ndt.] (HRW), Kenneth Roth. A gennaio, il dottorato di Roth presso la Kennedy School dell’Università di Harvard è stata revocato a causa del rapporto di HRW che definisce Israele un regime di apartheid. Un’importante campagna avviata da piccole organizzazioni di media alternativi ha portato in pochi giorni alla reintegrazione di Roth. Questo e altri casi dimostrano che criticare Israele non determina più la fine di una carriera, come spesso accadeva in passato.

Israele continua ad impiegare tattiche obsolete per controllare il confronto e la narrazione sulla sua occupazione della Palestina. Sta fallendo perché quelle tattiche tradizionali non possono più funzionare in un mondo moderno in cui l’accesso alle informazioni è decentrato e dove nessuna censura può controllare il confronto. Per i palestinesi questa nuova realtà è un’opportunità per ampliare la loro rete di sostegno in tutto il mondo. Per Israele la missione è fragile, soprattutto quando le vittorie iniziali possono diventare in poche ore sconfitte totali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’UE afferma che è antisemita chiamare Israele Stato di apartheid.

Ali Abunimah  

23 gennaio 2023 – Electronic Intifada

Secondo l’Unione Europea dire che Israele sta perpetrando il crimine di apartheid contro il popolo palestinese è antisemita.

Ciò significherebbe che per Bruxelles importanti organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch, Amnesty International e l’israeliana B’Tselem, finanziata dall’UE, sono colpevoli di fanatismo antiebraico.

L’incredibile affermazione è giunta in risposta a un’interpellanza da parte di alcuni membri filoisraeliani del parlamento europeo rivolta all’organo esecutivo dell’UE, la Commissione Europea.

I parlamentari hanno affermato che il rapporto di Amnesty International dello scorso febbraio “sostiene che l’apartheid è intrinseco alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, costruito e conservato dai successivi governi israeliani.”

I deputati hanno chiesto se anche il responsabile per la politica estera dell’UE Josep Borrell considera Israele uno “Stato di apartheid”.

Intendevano anche sapere se Borrell considera “antisemita” il rapporto di Amnesty in base alla definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto] (IHRA) “dato che esso sostiene che l’esistenza dello Stato di Israele è un’iniziativa razzista (cioè uno Stato di apartheid).”

Non appropriata”

I parlamentari filoisraeliani dovrebbero essere pienamente soddisfatti dalla risposta scritta di Borrell resa pubblica il 20 gennaio:

La commissione considera che non sia appropriato usare il termine apartheid in relazione con lo Stato di Israele,” scrive Borrell.

Egli afferma che l’UE si basa sulla cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA e sottolinea: “Sostenere che l’esistenza dello Stato di Israele sia un’iniziativa razzista è tra gli esempi illustrativi inclusi nella definizione dell’IHRA.”

L’estremamente politicizzata definizione dell’IHRA, pesantemente promossa da Israele e dalla sua lobby, ha subito incontrato una vasta opposizione dovuta a preoccupazioni sul fatto che sarebbe stata utilizzata esattamente nel modo in cui l’ha fatto Borrell ora: etichettare falsamente legittime critiche contro Israele e i suoi crimini come fanatismo antiebraico.

Borrell non fornisce nessuna base concreta per smentire la meticolosa ricerca di molte associazioni per i diritti umani che dimostra come Israele perpetra l’apartheid, un grave crimine contro l’umanità previsto dallo Statuto di Roma, il trattato che ha istituito la Corte Penale Internazionale.

Ma egli prosegue riaffermando la rituale e vuota adesione dell’UE a “una soluzione negoziata a due Stati.”

Crimine contro l’umanità

In base al diritto internazionale il crimine di apartheid si configura come “azioni inumane commesse con lo scopo di creare e conservare la dominazione di un gruppo razziale di persone su qualunque altro gruppo razziale di persone e opprimerlo sistematicamente.”

Nel gennaio 2021 B’Tselem, l’associazione per i diritti umani appoggiata dall’UE, ha affermato che Israele mette in atto “un regime di supremazia ebraica dal fiume Giordano al mar Mediterraneo”, cioè tutta l’area che comprende Israele, la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza.

Questo è apartheid,” conclude B’Tselem.

Il nuovo governo israeliano si è insediato proclamando apertamente il proprio impegno a favore della supremazia ebraica e di conseguenza delle politiche di apartheid necessarie a conservarla.

Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile su ogni parte della Terra di Israele”, ha proclamato la nuova coalizione, promettendo di “favorire e sviluppare l’insediamento in ogni parte della Terra di Israele: nelle Galilee, nel Negev, sulle Alture del Golan e in Giudea e Samaria.”

Le Alture del Golan sono un territorio siriano occupato, mentre “Giudea e Samaria” sono i termini sionisti per la Cisgiordania occupata.

Dopo questa dichiarazione Borrell ha detto ai nuovi governanti israeliani di “guardare avanti per lavorare con voi per migliorare ulteriormente i rapporti UE-Israele.”

In altre parole l’impegno dell’UE nei confronti del regime di apartheid israeliano e della sua opposizione ai diritti dei palestinesi rimane solidissimo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Inventare il nuovo antisemitismo

Em Hilton

16 gennaio 2023+972 magazine

Israele ei suoi sostenitori hanno a lungo promosso l’agenda secondo cui l’antisionismo è una forma di razzismo antiebraico. Un nuovo libro mostra come questo sforzo sia avvenuto a spese sia dei palestinesi che degli ebrei della diaspora.

Whatever Happened to Antisemitism?: Redefinition and the Myth of the ‘Collective Jew,’” by Antony Lerman, Pluto Press, June 2022, pp. 336.

Antony Lerman, “Cosa accidenti è successo alll’antisemitismo? Ridefinizione e mito dell’ebreo collettivo’”, Pluto Press, giugno 2022, pp. 336.

Stiamo vivendo un momento particolarmente preoccupante nella lotta globale contro l’antisemitismo. In mezzo al risorgente autoritarismo di destra, le teorie antisemite del complotto vengono poste alla base delle campagne elettorali in tutto il mondo; gli attacchi violenti agli ebrei in Europa  sembrano in aumento e vanno di pari passo con gli attacchi ad altre minoranze; negli Stati Uniti i politici nazionalisti bianchi continuano a gettare la maschera, mentre personaggi pubblici con numeri enormi di follower professano il loro sostegno al nazismo.

Eppure nel frattempo la comprensione pubblica di ciò che costituisce antisemitismo è più confusa che mai. Le accuse di antisemitismo vengono regolarmente lanciate – molto spesso da Israele stesso – per mettere a tacere chi critica Israele  e per attaccare qualsiasi forma di difesa della Palestina come se fosse motivata esclusivamente dal razzismo antiebraico. Nel Regno Unito questa politicizzazione della questione dell’antisemitismo, che si esprime in gran parte come una battaglia di definizioni, ha ridotto a una partita di calcio politica e a stucchevoli politiche sull’identità la un tempo intellettualmente rigorosa ricerca per comprendere come si manifesti l’antisemitismo.

È in questo contesto che dobbiamo esaminare il nuovo libro dello scrittore britannico Antony Lerman, “Whatever Happened to Antisemitism?”. Offrendo un’esplorazione storica e analitica dei tentativi di ridefinire l’antisemitismo nel contesto moderno, il libro si concentra in particolare sullo sviluppo negli ultimi decenni del concetto di “nuovo antisemitismo” – un approccio politicizzato che mira a fondere le critiche a Israele e al sionismo con precedenti interpretazioni dell’antisemitismo che cercavano di fare una distinzione tra i due.

Il saggio di Lerman è completo e ben documentato. Il libro inizia con un riepilogo dei principali eventi relativi all’imbroglio dell’antisemitismo nel Partito Laburista durante tutto il periodo in cui Jeremy Corbyn ne fu il leader (2015-20): la confusione sulle definizioni di antisemitismo e l’uso e l’abuso della nozione di stereotipi antisemiti. Mentre i lettori potrebbero essere riluttanti a immergersi ancora una volta nei vari attacchi [all’interno del Labour, ndt.] di quella stagione politica – dall’evento di lancio del Rapporto Chakrabarti sull’antisemitismo, che l’ex deputata laburista ebrea Ruth Smeeth lasciò in lacrime, al commento di Corbyn, secondo cui i sionisti britannici  “non capiscono l’ironia inglese” –, il libro mostra l’acume dell’analisi di Lerman nel collocare quella che è nota come la “crisi dell’antisemitismo laburista” all’interno della più ampia strategia internazionale della destra per ridefinire l’antisemitismo in funzione della propria agenda politica piuttosto che lanciarsi in una nuova controversia autonoma su un terreno già battuto.

Il libro quindi passa a una rivisitazione storica della costruzione del “nuovo antisemitismo” da parte delle organizzazioni sioniste e dei successivi governi israeliani. Ciò è avvenuto in gran parte come risposta al cambiamento del clima politico seguito all’inizio dell’occupazione israeliana nel 1967, e in particolare all’ormai famosa risoluzione 3379 delle Nazioni Unite, approvata nel novembre 1975 e poi revocata, che dichiara che “il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale”. Come sostiene Lerman, la mossa simboleggiava una crescente ostilità verso Israele sulla scena internazionale, che costrinse il governo israeliano e gli accademici sionisti a elaborare una nuova strategia per puntellare la legittimità dello Stato.

La loro soluzione fu cercare di dimostrare come la critica a Israele sia, di fatto, un attacco al popolo ebraico in tutto il mondo, sostenendo che lo Stato [di Israele] rappresenta “l’ebreo collettivo” nella famiglia delle Nazioni. I fautori di questo “nuovo antisemitismo”, spiega Lerman, hanno suggerito che [secondo gli oppositori di Israele, ndt] “il diritto di stabilire e conservare uno Stato sovrano e indipendente è prerogativa di tutte le Nazioni, tranne che di quella ebraica”.

Lerman si affretta a sottolineare che l’intervento di Israele nei tentativi precedentemente condotti da organizzazioni ebraiche di tutto il mondo per affrontare l’antisemitismo nei propri Paesi non ha tenuto molto conto della sicurezza degli ebrei che vi vivono; l’esempio di Israele che vende armi alla giunta militare argentina che ha fatto sparire 20.000 dissidenti politici – 2.000 dei quali ebrei – tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 chiarisce bene questo punto.

Sancire che la critica a Israele è antisemitismo

In questo contesto Lerman esamina lo sviluppo della miriade di organizzazioni, istituzioni e organizzazioni no-profit dedicate all’identificazione e alla risposta all’antisemitismo contemporaneo che hanno adottato la premessa del “nuovo antisemitismo” e l’hanno incorporata nella loro difesa [degli ebrei, ndt.] e nei loro sforzi educativi. Questi organismi, sostiene, hanno compiuto un notevole sforzo, spesso in collaborazione con il governo israeliano o istituzioni affiliate, per ridefinire il modo in cui il fanatismo antiebraico è inteso a livello politico e socioculturale, lavorando per sancire fermamente che la critica a Israele o al sionismo è la versione moderna di un odio classico.

Questo era e continua ad essere chiaramente un progetto internazionale: gruppi come l’Anti-Defamation League e l’American Jewish Committee negli Stati Uniti, il World Jewish Congress (precedentemente con sede a Ginevra, ora a New York) e il Community Security Trust nel Regno Unito hanno convogliato e sviluppato risorse e analisi dell’antisemitismo che hanno spinto per il riconoscimento del “nuovo antisemitismo”. Altre organizzazioni, come il Britain Israel Communications and Research Center e il Canadian Institute for the Study of Antisemitism, sono state istituite sulla scia della Seconda Intifada e, secondo Lerman, si sono “concentrate su ‘nuovo antisemitismo’ e ‘antisionismo antisemitico.'”

Sebbene sia importante comprendere la natura interconnessa di questi problemi, Lerman entra nel merito con una quantità estremamente densa di informazioni sulle discussioni tra i vari gruppi ebraici storici, il che rischia di enfatizzare eccessivamente la rilevanza di dibattiti che potrebbero non aver avuto un impatto oltre la ristretta cerchia della politica o del discorso intracomunitario. Si potrebbe anche sostenere che a volte Lerman insiste troppo sull’idea che le organizzazioni ebraiche britanniche abbiano scarso interesse per il benessere e la sicurezza delle comunità che servono, e siano puramente motivate dal loro rapporto con Israele. È forse più giusto suggerire che il loro desiderio di sostenere Israele e il sionismo come pilastro cruciale dell’identità ebraico-britannica abbia avuto la priorità rispetto alle minacce materiali contro le comunità che vivono nel Regno Unito.

Tuttavia il livello di approfondimento di questa sezione del libro mette in evidenza gli ampi sforzi delle istituzioni accademiche israeliane e delle istituzioni governative – come il Ministero degli Affari Strategici, recentemente rimesso in funzione, responsabile della campagna internazionale di Israele contro il movimento BDS – per distogliere l’attenzione dall’ antisemitismo che colpisce principalmente le comunità ebraiche al di fuori di Israele e concentrarsi sul presunto pericolo che la delegittimazione di Israele rappresenterebbe per l’ebraismo globale. Lerman non sottovaluta l’impatto di questo sforzo e le considerevoli risorse che Israele vi ha riversato: non solo ha generato confusione nell’opinione pubblica su cosa sia l’antisemitismo, ma è anche servito a restringere la discussione pubblica su come comprenderlo e, cosa più importante, su come affrontarlo quando si presenta.

E’ inquietante l’ipotesi che la lotta contro l’antisemitismo dalla fine del XX secolo fosse invischiata con e subordinata agli interessi del sionismo in modo tale che le interpretazioni contrastanti dell’antisemitismo contrapponessero la sicurezza e il benessere degli ebrei in tutto il mondo alla forza di uno Stato-Nazione. Ma, come mostra Lerman, queste sono le inevitabili conseguenze della politicizzazione della lotta all’antisemitismo.

Abbiamo visto questa competizione manifestarsi in modo più netto dall’inizio del nuovo secolo: dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che afferma abitualmente di parlare a nome di tutto il popolo ebraico mentre si allinea con alcuni dei leader più antisemiti del mondo; all’ex primo ministro Naftali Bennett, che sfrutta l’orribile sparatoria nella sinagoga di Pittsburgh per giustificare l’aggressione israeliana contro i palestinesi a Gaza; a Yair Lapid, che critica come antisemita il rapporto, sostenuto da prove inequivocabili, di Amnesty International sull’apartheid israeliano. Interventi come questi da parte dei leader israeliani hanno ulteriormente alimentato la confusione e lo scetticismo sull’antisemitismo come fenomeno reale, distogliendo l’attenzione e le risorse dall’effettivo antisemitismo che si manifesta ovunque. Lerman mostra come, anteponendo gli interessi del suo progetto nazionale agli interessi degli ebrei di tutto il mondo,  i tentativi di Israele di ridefinire l’antisemitismo per adattarlo ai suoi obiettivi politici stiano attivamente rendendo gli ebrei meno sicuri.

IHRA: Il nuovo gold standard sull’antisemitismo

Negli ultimi anni la guerra sulle definizioni di antisemitismo ha portato questo tema al centro del dibattito pubblico. Lo sviluppo della definizione operativa dell’Osservatorio dell’Unione europea sul razzismo e la xenofobia nei primi anni 2000, che in seguito si è trasformata nella definizione operativa dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto] (IHRA), è stato un tentativo di generare una definizione unificante di antisemitismo, ma così facendo ha incluso varie critiche a Israele come esempi di tale sentimento antiebraico.

La definizione dell’IHRA è stata propagandata come il gold standard sull’antisemitismo, consentendo ai suoi sostenitori di screditare e respingere qualsiasi comprensione alternativa di come funziona l’antisemitismo. Il successo del sostegno all’IHRA è evidente nel contesto britannico: quasi tutti i principali partiti politici del Regno Unito l’hanno adottata, insieme a numerosi istituti di istruzione superiore e persino organizzazioni sportive come la Football Association. Eppure la definizione dell’IHRA è stata assente dalle risposte a incidenti antisemiti di alto profilo nella vita pubblica del Regno Unito, come il licenziamento dell’ex accademico dell’Università di Bristol David Miller [sociologo cacciato per aver sostenuto che Israele cerca di imporre la propria volontà al resto del mondo, ndt.]. Con questo in mente Lerman vuole che comprendiamo non solo l’inutilità del tentativo di creare una definizione universalmente accettata di antisemitismo, ma anche che i tentativi dei sostenitori dell’IHRA di espandere la comprensione del razzismo antiebraico per includervi le critiche a Israele o al sionismo in realtà rende gli ebrei più vulnerabili.

Negli ultimi due anni gruppi di studiosi hanno tentato di combattere l’influenza dell’IHRA producendo definizioni alternative di antisemitismo, tra cui la Definizione Nexus e la Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo (JDA), che non vedono l’antisionismo come necessariamente equivalente all’antisemitismo. Per Lerman, tuttavia, queste non sono riuscite a rappresentare una “sfida decisiva” all’IHRA, proprio perché tali iniziative sono viste come un tentativo politico piuttosto che accademico.

In questo contesto, Lerman descrive come parti dell’accademia che si dedicano allo studio degli ebrei, dell’antisemitismo e del razzismo siano state a volte reclute volontarie nella battaglia per difendere il sionismo e proteggere Israele dalle critiche. “Non esento lo studio accademico dell’antisemitismo contemporaneo dall’essere afflitto e dal contribuire allo stato di confusione intorno alla comprensione dell’antisemitismo… e dal ridurre tutte le critiche a Israele all’antisionismo antisemita”, scrive. L’impatto di questo sviluppo è stato duplice.

In primo luogo, è sempre più ovvio, in particolare nel contesto britannico, come il manto della ricerca accademica sia utilizzato per legittimare le motivazioni politiche alla base della definizione dell’IHRA. In effetti, gli sviluppi successivi alla pubblicazione di “Whatever Happened” hanno ulteriormente esemplificato le intenzioni di coloro che insistono, attraverso studi accademici, sul fatto che l’antisionismo è antisemitismo.

L’istituzione, alla fine del 2022, del London Centre for the Study of Contemporary Antisemitism (LCSCA) illustra il punto di vista di Lerman. Sul suo sito web la LCSCA dichiara sua missione “sfidare le basi intellettuali dell’antisemitismo nella vita pubblica e affrontare l’ambiente ostile per gli ebrei nelle università”. Tuttavia uno sguardo più attento rivela ciò che sta alla base di questa missione, poiché l’organizzazione definisce esplicitamente l’antisionismo come “un’ideologia antiebraica”. Oltre a fornire credenziali accademiche per il perseguimento della ridefinizione dell’antisemitismo per includervi la critica a Israele, iniziative come queste promuovono anche l’idea che l’antisemitismo sia un’ideologia radicata nella politica di sinistra (molti degli oratori invitati all’evento di lancio dell’LCSCA, che è stato rinviato in seguito alla morte della regina Elisabetta II, erano accaniti critici del partito laburista di Corbyn).

Questi sforzi ad ampio raggio per politicizzare la lotta all’antisemitismo nel discorso pubblico britannico hanno avuto conseguenze significative. Lerman si concentra sul trattamento degli ebrei di sinistra nel partito laburista – alcuni dei quali sono stati espulsi per il loro sostegno a figure laburiste accusate di antisemitismo – da quando Keir Starmer ha sostituito Corbyn, e li cita come i principali obiettivi di questa strategia nel Regno Unito. Ma questi sforzi vanno oltre le fazioni del Labour. Stimati studiosi dell’antisemitismo che non aderiscono alla politica del “nuovo antisemitismo”, come il professor David Feldman, direttore del Birkbeck Institute for the Study of Antisemitism di Londra, sono stati ampiamente attaccati dall’establishment ebraico-britannico per aver criticato la definizione dell’IHRA e la strategia che la guida e sottolineato come pregiudichi la nostra comprensione e capacità di affrontare l’antisemitismo. (Feldman è uno dei firmatari della JDA.)

Allo stesso modo, i sostenitori della definizione dell’IHRA hanno preso di mira gli accademici il cui lavoro riguarda la Palestina, tentando di restringere ulteriormente i parametri del legittimo discorso accademico. Alla fine del 2021, Somdeep Sen, autore di diversi libri sulla politica palestinese, si è ritirato da un seminario all’Università di Glasgow dato che gli era stato ordinato di divulgare in anticipo il materiale delle sue lezioni ed era stato ammonito di non violare le leggi nazionali antiterrorismo dopo che l’Associazione Ebraica dell’università aveva espresso preoccupazione per il suo invito. E l’anno scorso, l’accademica palestinese residente nel Regno Unito Shahd Abusalama è stata sospesa dalla sua posizione di docente presso la Sheffield Hallam University dopo che sono emersi post sui social media in cui difendeva uno studente che aveva fatto un cartello con scritto “Ferma l’Olocausto palestinese” – il che, secondo il suo datore di lavoro, violava l’IHRA.

Come attesta Lerman, questa repressione dei discorsi critici nei confronti di Israele nel mondo accademico sono possibili grazie all’ambiguità della definizione dell’IHRA sull’identificazione dell’antisemitismo, che alla fine crea un effetto intimidatorio. In effetti l’ambiguità è il punto che fa leva sul desiderio delle persone più ragionevoli di non essere percepite come antisemite. Questa indeterminatezza è ciò che rende la definizione dell’IHRA così efficace non solo nel generare confusione su cosa sia l’antisemitismo, ma anche nel deviare il discorso dal danno che Israele perpetra quotidianamente contro i palestinesi. La decisione del Tower Hamlets Council [consiglio distrettuale di quartiere, ndt.] di Londra di cancellare “The Great Bike Ride for Palestine” nel 2019 per paura di essere considerato antisemita ne è un esempio.

Il secondo impatto che Lerman identifica sottolinea ulteriormente come la politicizzazione della lotta all’antisemitismo diminuisca e cancelli le esperienze vissute di molti ebrei, compresi quelli che hanno effettivamente sperimentato l’antisemitismo. Espandere la definizione di ciò che costituisce l’antisemitismo rischia di indebolirla, rendendo in ultima analisi inutili questi tentativi. Citando il filosofo ebreo britannico Brian Klug, Lerman sostiene: “Se tutto è antisemitismo, allora niente è antisemitismo”.

Lerman dà il meglio di sé nel capitolo sul mito dell'”ebreo collettivo”, che analizza come il tentativo di ritrarre Israele come l’ebreo nella famiglia delle Nazioni abbia alla fine minato la lotta per smantellare l’attuale antisemitismo. Sostiene che questa distorsione dell’antisemitismo per consentire a Israele di agire impunemente è avvenuta non solo (e in modo più pertinente) a scapito dei diritti umani e delle libertà dei palestinesi, ma anche  della sicurezza e del benessere del popolo ebraico in tutto il mondo.

Le affermazioni di Lerman sono viscerali e piuttosto caustiche. Dissezionare questo processo alla fine mette a nudo l’assurdità quasi comica dell’attuale clima politico, e come la cinica strumentalizzazione dell’antisemitismo da parte di Israele e della sua industria dell’hasbara [gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt.] significhi che la sicurezza ebraica è passata in secondo piano rispetto al desiderio di affermare un progetto di supremazia etnica tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Forse il punto più prezioso di questo libro per gli attivisti progressisti è lo studio di come il nazionalismo ci renda tutti meno sicuri, sostenendo con vigore l’importanza di proteggere i valori universali e di incrementare la solidarietà collettiva di fronte all’eccezionalismo e all’ipernazionalismo

Respingere la definizione di “nuovo antisemitismo”

Il problema che Lerman identifica in “Whatever Happened” è enorme nella misura in cui può sembrare insormontabile. La diffusione del concetto di “nuovo antisemitismo” è sofisticata e dotata di adeguate risorse. È comprensibile che quando si tratta di tentare di sfidare l’identificazione tra Israele ed ebrei – e tra antisemitismo e antisionismo – Lerman sia deluso, come quando descrive gli accenni di resistenza ebraica dopo l’Operazione Piombo Fuso, l’attacco di Israele a Gaza nel 2008 -2009, come “di breve durata”. Sebbene Lerman comprenda l’urgenza e la necessità di respingere queste tendenze, rimane chiaramente scettico sulla nostra capacità collettiva di farlo. Ma gli ostacoli alle lotte di liberazione sono stati quasi sempre percepiti come insormontabili, finché non lo sono più stati.

Anche se Lerman forse non vede come suo compito offrire una visione di ciò che potrebbe essere, il suo libro è anche un intervento contro lo status quo, benché ridotto rispetto a quanto descrive. Ora c’è un’opportunità per valutare le prove presentate da Lerman e invitare coloro che lavorano per combattere il concetto di “nuovo antisemitismo” a riunirsi e identificare ulteriori punti con cui respingerla.

Quindi il valore fondamentale di questo libro per la comprensione del dibattito politico del nostro tempo è il fatto che dimostra non solo che lo sviluppo del progetto del “nuovo antisemitismo” è essenzialmente una questione politica piuttosto che accademica, ma anche che Israele, i suoi sostenitori e altre figure politiche di destra al fine di servire la propria agenda politica hanno sfruttato i timori delle comunità ebraiche di tutto il mondo per confondere le acque rispetto al compito vitale di smantellare l’antisemitismo. “Whatever Happened” fornisce una storia e un contesto di valore inestimabile per coloro che cercano di dare un senso a come la battaglia sulle definizioni di antisemitismo sia stata al centro di un processo per tentare di legare l’identità ebraica a un progetto nazionalista, sia tra gli ebrei che nella società in generale.

Em Hilton è una scrittrice e attivista ebrea che vive tra Tel Aviv e Londra. È la co-fondatrice di Na’amod: British Jews Against Occupation e fa parte del comitato direttivo del Center for Jewish Non-Violence.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




C’è una ragione per cui la Germania sta prendendo di mira gli intellettuali post-coloniali

Hebh Jamal


12 dicembre 2022 – Al Jazeera

Il postcolonialismo minaccia la percezione che lo Stato tedesco ha della propria identità nazionale e di quella di Israele

All’inizio di quest’anno, documenta quindici, quindicesima edizione della principale mostra di arte contemporanea in Europa che si svolge ogni cinque anni nella città tedesca di Kassel, si è trovata al centro di un acceso dibattito sui presunti legami tra l’antisemitismo e il pensiero postcoloniale.

Tutto ciò è iniziato con Ruangrupa, il collettivo di artisti con sede a Giacarta che ha curato l’edizione di quest’anno e che ha scelto di centrare la mostra, della durata di 100 giorni, su artisti del Sud globale e sul loro lavoro che chiede uguaglianza, condivisione, sostenibilità e, cosa fondamentale, liberazione dall’oppressione colonialista.

L’esposizione non era affatto concentrata sulla Palestina, con pochi collettivi palestinesi invitati a presenziare alla mostra, che dura vari mesi. Tuttavia la loro partecipazione, insieme all’appoggio reso pubblico di Ruangrupa al movimento palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), è bastata ai media tedeschi per etichettare l’esposizione di quest’anno come “antisemita”. Numerosi giornalisti hanno contestualizzato le accuse di antisemitismo contro documenta quindici anche come un processo al postcolonialismo.

Per esempio, commentando la cosiddetta “débacle” di documenta, un giornalista tedesco ha scritto che “finché lo Stato di Israele è un problema per il postcolonialismo, il postcolonialismo deve rimanere un problema per l’Occidente.” Un altro ha sostenuto che, poiché il libro dell’intellettuale palestinese Edward Said Orientalismo può essere considerato uno dei testi fondativi del pensiero postcoloniale, l’argomento “presta il fianco al tradizionale e antiisraeliano antisemitismo e nasce con un’ossessione nei confronti di Israele.”

Il dibattito sul presunto antisemitismo del pensiero postcoloniale non è rimasto circoscritto solo alla sfera dei media. A luglio, durante un incontro della commissione Cultura e Media del Bundestag [il parlamento tedesco, ndt.] sulle accuse di antisemitismo relative a questa edizione di Documenta, il partito di destra AfD ha chiesto in nome della lotta contro l’antisemitismo che nessun finanziamento federale venisse concesso a progetti di ricerca in settori culturali o educativi “che cerchino di diffondere contenuti ideologici postcoloniali”. E in ottobre l’Università della Ruhr a Bochum ha ospitato una conferenza intitolata “Antisemitismo postcoloniale tra Desmond Tutu e Documenta”, che, secondo la descrizione ufficiale, intendeva “comprendere le peculiarità dell’antisemitismo postcoloniale e le sue argomentazioni utilizzando come esempio la figura di Desmond Tutu.”

Come dimostra la menzione in questo contesto del famoso attivista per la giustizia razziale e premio Nobel per la Pace arcivescovo Desmond Tutu, in Germania il dibattito sul cosiddetto “antisemitismo postcoloniale” non è iniziato con documenta quindici.

In effetti nel 2020 lo studioso camerunense Achille Mbembe, considerato all’avanguardia nel campo del pensiero postcoloniale, era già stato accusato di “relativizzare l’Olocausto” e etichettato come antisemita dai media tedeschi per aver definito Israele uno Stato di apartheid e aver appoggiato il movimento BDS.

Tali accuse nei confronti di pensatori, artisti e attivisti postcoloniali che criticano Israele sono una diretta conseguenza dell’impegno dello Stato e del sistema politico tedeschi ad appoggiare incondizionatamente lo Stato di Israele come un modo per fare ammenda dei passati crimini della Germania contro il popolo ebraico.

Dalla caduta del Terzo Reich e dalla formazione di Israele la Germania ha concepito la difesa di Israele e dei suoi interessi come parte della propria ragion di stato. E oggi non si tratta solo di fornire appoggio politico, finanziario e morale a Israele, ma anche di accettare come un dato di fatto le affermazioni di Israele secondo cui qualunque critica allo Stato ebraico, o azione a sostegno della lotta per la liberazione dei palestinesi, sia intrinsecamente e indiscutibilmente antisemita.

Per esempio nel 2019 il parlamento tedesco ha approvato una risoluzione che etichetta il movimento BDS come entità che utilizza tattiche antisemite per raggiungere i suoi obiettivi politici e ha chiesto al governo di “non fornire spazi e strutture gestite dal Bundestag a organizzazioni che si esprimono in termini antisemiti o mettono in dubbio il diritto di Israele ad esistere.”

In effetti la Germania è riuscita a rendere quanto meno tabù, se non criminale, qualsivoglia appoggio alla liberazione dei palestinesi e discorso contro l’occupazione israeliana. Quanti sono fortemente determinati a mettere a tacere le voci palestinesi in nome della “lotta contro l’antisemitismo” hanno vietato proteste da parte dei palestinesi, annullato eventi palestinesi, etichettato come razzisti intellettuali palestinesi e cacciato giornalisti palestinesi dal loro lavoro.

Le aggressioni contro gli studi postcoloniali sono state per varie ragioni il passo successivo naturale di questa falsa lotta contro l’antisemitismo.

Il postcolonialismo, lo studio critico accademico dell’eredità culturale, politica ed economica del colonialismo, minaccia la percezione dello Stato tedesco dell’identità nazionale propria e di Israele in vari modi.

Primo, esso interpreta i genocidi come intrinsecamente connessi al colonialismo, e quindi vede l’Olocausto non come un’eccezione nella storia, un crimine diverso da ogni altro, ma solo come un altro sottoprodotto orripilante del colonialismo tedesco.

Quarant’anni prima dell’Olocausto i tedeschi furono responsabili di un altro genocidio, contro gli Herero e i Nama,” ha spiegato nel 2017 lo storico Jürgen Zimmerer. “Nell’Africa del Sudovest tedesca nacque uno Stato razzista, c’era un’ideologia, c’erano leggi, c’erano strutture militari e burocratiche adeguate e finalizzate a questo obiettivo. Trovo totalmente inverosimile non vedere alcun rapporto con i crimini del ‘Terzo Reich’ avvenuti in seguito.”

Questa idea secondo cui le precedenti atrocità colonialiste in Africa prepararono la strada all’Olocausto evidenzia l’indifferenza della Germania riguardo ai suoi crimini al di fuori dell’Europa e richiede una resa dei conti che con cui lo Stato tedesco non sembra affatto pronto a fare i conti.

Secondo, il postcolonialismo svela somiglianze tra soggetti statali violenti, e quindi evidenzia alcune scomode verità su Israele che la Germania preferirebbe piuttosto non affrontare.

Come hanno evidenziato molti studiosi del colonialismo, subendo per questo una marea di accuse di antisemitismo, Israele ha molto in comune con le violente, oppressive e razziste colonie di insediamento del passato: separa con violenza dai suoi coloni la popolazione indigena della terra che occupa, condiziona la cittadinanza e i diritti fondamentali allo status di coloni, impone blocchi per soffocare ogni resistenza al suo potere e sostiene di fare tutto ciò per controllare la violenza e la barbarie della popolazione locale.

Negli ultimi anni le critiche postcoloniali a Israele hanno conquistato una nuova attenzione globale in seguito alle proteste internazionali di Black Lives Matter [movimento antirazzista nato negli USA contro la violenza della polizia razzista nei confronti degli afro-americani, ndt.] che ha puntato i riflettori non solo sul razzismo istituzionalizzato nell’Occidente, ma anche sulle lotte anticoloniali in corso in tutto il mondo.

In Germania, dove difendere ad ogni costo Israele è visto come un dovere nazionale, tutto ciò ha portato a capillari tentativi di demonizzare le voci a favore dei palestinesi e a mettere in secondo piano i tentativi di una vera decolonizzazione. Documenta quindici è stata la più recente, ma sicuramente non l’ultima, vittima di questa sinistra campagna di diffamazione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono solo dell’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Hebh Jamal


Hebh Jamal è universalmente considerata una oppositrice della disuguaglianza educativa, dell’islamofobia e dell’occupazione della Palestina. Si è messa in evidenza su molte tribune mediatiche come il NYTimes, TeenVogue, Netflix documentary Teach Us All e molte altre. Attualmente Hebh frequenta l’ultimo anno al City College di NY. Lavora al NYU Metro Center [Centro Metropolitano per la Ricerca sull’Uguaglianza e la Trasformazione delle Scuole] come collaboratrice nelle politiche per i giovani in quanto continua a lottare contro la segregazione nelle scuole. È stata anche presidentessa degli Studenti per la Giustizia in Palestina del college.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)