I palestinesi non vogliono antisemiti nei loro cortei

Kamel Hawwash

17 maggio 2021 – Middle East Monitor

Come presidente della Palestine Solidarity Campaign [Campagna di Solidarietà con la Palestina] in Gran Bretagna sono stato orgoglioso di lavorare con i nostri partner per organizzare sabato un corteo stimato in 150.000 partecipanti da Marble Arch [arco di trionfo nei pressi di Hide Park, ndtr.] di Londra all’ambasciata israeliana a Kensington. Con noi c’erano il Palestinian Forum in Gran Bretagna, i Friends of Al-Aqsa [Amici di Al-Aqsa], la coalizione Stop the War [Ferma la guerra, ndtr.], CND e l’associazione musulmana della Gran Bretagna.

Discorso dopo discorso abbiamo espresso il nostro rifiuto dei letali bombardamenti di Israele contro Gaza che hanno fatto seguito ai tentativi di compiere una pulizia etnica a Sheikh Jarrah a danno degli abitanti palestinesi e all’indicibile violenza inflitta ai fedeli nella moschea di Al-Aqsa. C’è stato anche un supporto unanime ai palestinesi che si sono uniti nella Palestina storica come mai prima d’ora. L’apartheid israeliano, il colonialismo di insediamento, il razzismo e l’occupazione colpiscono tutte le aree della Palestina sotto occupazione. Nessun luogo è risparmiato dall’aggressione e dall’ oppressione sioniste, compresi quei palestinesi che hanno la cittadinanza israeliana perché nel 1948 sono rimasti nella loro terra in quello che ora è Israele.

C’è stato anche ripudio nei confronti dei leader dalla cosiddetta comunità internazionale, che sono rimasti in silenzio riguardo alla violenza inflitta ai palestinesi a Sheikh Jarrah, a Bab El-Amoud (la Porta di Damasco) e all’interno del complesso di Al-Aqsa. Gli stessi dirigenti, compresi tra gli altri il presidente USA e i rappresentanti dei governi britannico, francese e tedesco, si sono affrettati a sincronizzare il loro orologio discriminatorio contro i palestinesi quando il primo razzo è stato lanciato da Gaza verso Israele.

Il loro discorso è stato semplicemente che Israele ha il diritto all’autodifesa. Non è stata fatta alcuna menzione al diritto dei palestinesi all’autodifesa – in effetti il nostro diritto legittimo di resistere all’occupazione israeliana – come se fossimo persone inferiori. Invece gli americani hanno sostenuto che solo Paesi o Stati hanno il diritto all’autodifesa. La Palestina ha chiesto il riconoscimento come Stato da decenni. Tuttavia i principali Paesi del mondo, come gli USA, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania, hanno ignorato questa richiesta, nonostante alcuni dei loro parlamenti abbiano approvato risoluzioni che impongono ai governanti di riconoscere lo Stato di Palestina.

Tuttavia questa è semantica e non dovrebbe essere utilizzata come scusa per negare al popolo palestinese il diritto all’autodifesa perché farlo sconvolgerebbe lo status quo favorevole a Israele. Cosa importante, la Corte Penale Internazionale ha accettato di avere giurisdizione sui Territori Palestinesi Occupati perché la Palestina è riconosciuta dall’ONU come Stato osservatore ed è stata ammessa allo Statuto di Roma. Quindi è uno Stato ed ha il diritto all’autodifesa.

Le persone possono avere diverse opinioni su cosa significhi autodifesa. Nel caso di Israele, sembra che utilizzerà ogni mezzo violento a disposizione per mettere in atto quello che considera il suo diritto. Tuttavia basta guardare alle distruzioni e devastazioni provocate a Gaza. Non c’è una giustificazione di “autodifesa” per il massacro di uomini, donne e bambini innocenti con quelle che dovrebbero essere armi intelligenti che costano milioni di dollari. Non ci sono scuse per la demolizione di grattacieli che ospitano centinaia di persone, indipendentemente dal fatto che l’esercito abbia o meno avvertito gli abitanti per telefono o con razzi “leggeri” che stava per privarli di una casa. Non ci sono scuse per aver fatto saltare in aria il grattacielo che ospitava gli uffici di mezzi di comunicazione come Al Jazeera, che ha informato del barbaro bombardamento. Non ci sono scuse per la distruzione di banche e altre infrastrutture della società civile. Israele ha fatto tutto ciò per “autodifesa”. Non sono sicuro che distruggere una banca o privare i palestinesi della propria casa possa rendere i cittadini israeliani più sicuri.

Questa è una violenza assolutamente folle contro una popolazione imprigionata, assediata, senza un posto in cui rifugiarsi nella zona più densamente popolata al mondo. Israele ha di nuovo traumatizzato un’intera generazione che crescerà pronta ad unirsi alla resistenza.

Né io né la PSC vogliamo vedere qualcuno ucciso o ferito a causa dell’insistenza di Israele nel negare ai palestinesi il loro diritto all’autodeterminazione nella loro patria e il legittimo diritto dei rifugiati di tornare a casa.

Né vogliamo la sorprendente solidarietà cui abbiamo assistito nelle strade di Londra, Brighton, Birmingham, Manchester e Newcastle e in molti altri luoghi in Gran Bretagna e altrove, segnata da alcuni come espressione di odio verso gli ebrei, che non hanno niente a che vedere con gli eventi che si sviluppano in Palestina, derivanti dalle ripugnanti politiche e pratiche di Israele.

In quanto antirazzista e anche presidente di un’organizzazione di solidarietà antirazzista, io e la mia organizzazione prendiamo le distanze da ogni tentativo di accusare gli ebrei britannici delle azioni di Israele. Quest’ultimo è guidato dalle politiche della sua dirigenza di estrema destra e dall’ideologia sionista che ha insediato Israele nella mia patria, la Palestina, con l’aiuto e la complicità della Gran Bretagna.

Né io la PSC o i nostri alleati vogliamo che i razzisti prendano parte alle nostre manifestazioni e raduni. Cosa ancora più importante, il popolo palestinese non vuole l’appoggio di razzisti che tentano di utilizzare la nostra causa per vomitare il proprio odio contro gli ebrei.

Quindi sono rimasto realmente scioccato e sconvolto quando ho visto un filmato ampiamente diffuso domenica sulle reti sociali in cui la bandiera della pace, la bandiera palestinese, copriva automobili in cui alcuni antisemiti hanno attraversato zone ebraiche a Londra e gridato oscenità razziste. Ciò non è stato fatto in nome dei palestinesi, lo condanno incondizionatamente e chiedo alle autorità di prendere ogni misura necessaria per fronteggiare questi razzisti.

Ho pubblicato immediatamente questo tweet:

“Questa gente non parla per i palestinesi e non abbiamo bisogno né vogliamo il loro appoggio. Il nostro problema riguarda il sionismo, non gli ebrei. Non voglio che partecipino alle nostre manifestazioni o cortei.”

Non è questo il momento per discutere sulla definizione di antisemitismo, ma rifiuto il tentativo di proteggere Israele attraverso nuove definizioni di questa piaga razzista. Per me è semplice: l’antisemitismo è l’odio contro gli ebrei perché sono ebrei. Detesto ogni forma di razzismo. Credo fermamente che noi, palestinesi britannici, stiamo fianco a fianco con gli ebrei britannici nel rifiuto di ogni forma di razzismo, esattamente come facciamo con ogni altra minoranza.

Sfileremo di nuovo a Londra il prossimo sabato e ci saranno cortei e marce in tutta la Gran Bretagna e nel mondo. La nostra rabbia sarà rivolta contro Israele, non contro gli ebrei britannici o di altri luoghi. Dico a quanti vengono alle manifestazioni: non portate cartelli con immagini antisemite o che fanno riferimento al nazismo. Non gridate slogan antisemiti. Contestate quelli che lo fanno, perché non li vogliamo ed essi non aiutano la nostra causa. Portate cartelli che appoggino i palestinesi e sventolate la bandiera palestinese.

Non vogliamo antisemiti nella nostra società e non vogliamo antisemiti nei cortei e nei raduni in solidarietà con i palestinesi o negli eventi filo-palestinesi. Per il bene dei nostri fratelli e sorelle palestinesi, rendiamo gli eventi palestinesi zone libere dall’antisemitismo e concentriamoci e facciamo pressione contro l’apartheid israeliano. Palestina libera.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




#NOTINOURNAMES

Siamo un gruppo di giovani ebree ed ebrei italiani.
In questo momento drammatico e di escalation della violenza sentiamo il bisogno di prendere la parola e dire #NotInOurNames, unendoci ai nostri compagni e compagne attivisti in Israele e Palestina e al resto delle comunità ebraiche della diaspora che stanno facendo lo stesso.
Abbiamo già preso posizione come gruppo quest’estate condannando il piano di annessione dei territori della Cisgiordania da parte del governo israeliano (https://www.joimag.it/contro-lannessione-una-voce…/) e il nostro percorso prosegue nella sua formazione e autodefinizione.
-gli sfratti a Sheikh Jarrah e la conseguente repressione della polizia
-gli ultimi episodi repressivi sulla Spianata delle Moschee
-il governo israeliano che pretende di parlare a nome di tutti gli ebrei, in Israele e nella diaspora
-i giochi di potere (di Netanyahu, Hamas, Abu Mazen) che non tengono conto delle vite umane
-i linciaggi e gli atti violenti che si stanno verificando in molte città israeliane
-il bombardamento su Gaza
-il lancio di razzi indiscriminato da parte di Hamas
-la riduzione del dibattito a tifo da stadio
-l’utilizzo strumentale della Shoah sia per criticare che per sostenere Israele
-le posizioni unilaterali e acritiche degli organi comunitari ebraici italiani
-gli eventi di piazza organizzati dalle comunità ebraiche con il sostegno della classe politica italiana, compresi personaggi di estrema destra e razzisti
-la narrazione mediatica degli eventi in Medio Oriente che non tiene conto di una dinamica tra oppressi e oppressori
-qualunque iniziativa e discorso che veicoli rappresentazioni islamofobe e antisemite
La situazione attuale rappresenta l’apice di un sistema di disuguaglianze e ingiustizie che va avanti da troppi anni: l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi e l’embargo contro Gaza incarnano l’intollerabile violenza strutturale che il popolo palestinese subisce quotidianamente. Condanniamo le politiche razziste e di discriminazione nei confronti dei palestinesi.
All’interno delle nostre società riteniamo necessaria ogni forma di solidarietà e mobilitazione, ma ci troviamo spesso in difficoltà. Pur coscienti che antisionismo non sia sinonimo di antisemitismo, osserviamo come un antisemitismo non elaborato, che si riversa più o meno consciamente in alcune delle giuste e legittime critiche alle politiche di Israele, rende alcuni spazi di solidarietà difficili da attraversare. Si tratta di una impasse dalla quale vogliamo uscire, per combattere efficacemente ogni tipo di oppressione.
Aliza Fiorentino
Sara De Benedictis
Daniel Damascelli
Bruno Montesano
Teodoro Cohen
Micol Meghnagi
Michael Blanga-Gubbay
Susanna Montesano
Michael Hazan
Beatrice Hirsch
Giorgia Alazraki
Bianca Ambrosio
Alessandro Fishman
Tali Dello Strologo
Giulia Frova
Sara Missio
Alessandro Dayan
Ruben Attias
Keren Strulovitz
Enrico Campelli
Jonathan Misrachi
Yael Pepe
Claudia Pepe
Daniel Disegni
Sara Buda
Dana Portaleone
Ludovico Tesoro
Viola Gabbai
Edoardo Gabbai
Benjamin Fishman
Lorenzo Foà
Alessandro Foà
Giulio Ambrosio
Gaia Fiorentino
Joy Arbib
Nathan De Paz Habib
Joel Hazan
Tami Fiano
Emanuel Salmoni



Perché la UE contribuisce ad etichettare come antisemite le critiche a Israele?

Ilan Baruch,

19 aprile 2021 – +972 MAGAZINE

Adottando la definizione dell’IHRA la UE prende parte al programma dei gruppi di sostegno a Israele che minano l’impegno della società civile contro l’occupazione.

Da quando l’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [Alleanza internazionale per la memoria dell’olocausto: organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 col fine di promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] nel maggio 2016 ha adottato la sua “definizione operativa di antisemitismo diverse organizzazioni israeliane – alcune delle quali con legami dichiarati con il governo israeliano – hanno promosso quella definizione con l’obiettivo di screditare e minare l’impegno della società civile che esige risposte da Israele sull’occupazione della Palestina.

Una di queste organizzazioni è NGO Monitor [ONG israeliana che monitora i dati relativi alla comunità internazionale delle ONG da una prospettiva filo-governativa e di destra, ndtr.] che è stata contestata per aver preso di mira le fonti di finanziamento di organizzazioni critiche nei confronti di Israele. Unaltra è l’International Legal Forum (ILF) [Foro giuridico internazionale, ndtr.] una rete giuridica nota per contrastare la pressione internazionale contro le politiche del governo israeliano. Negli ultimi anni entrambe le organizzazioni hanno preso parte ad una campagna più estesa che ha portato alla riduzione dello spazio civico per le iniziative a sostegno dei diritti umani nell’ambito della questione israelo-palestinese.

Per queste organizzazioni in difesa di Israele la definizione dell’IHRA è diventata un progetto importante. Nelle scorse settimane l’ILF, ad esempio, ha contribuito a stilare una lettera aperta di intellettuali a sostegno della definizione. La definizione occupa un posto di rilievo anche nel recente rapporto dell’ILF, “Antisemitism & De-Legitimization”. Il gruppo ha anche assegnato una pagina web alla promozione di un’analisi giuridica in cui si sostiene che la definizione “fornisce, per la prima volta nella storia (sic), uno standard oggettivo per identificare le motivazioni e gli intenti antisemiti dietro comportamenti discriminatori” e per “riconoscere e comprendere con chiarezza che cosa costituisca antisemitismo.”

Tuttavia la definizione dell’IHRA non rappresenta certo un criterio oggettivo. Come molti critici hanno evidenziato, la definizione manca di chiarezza e demarcazione, il che la rende vulnerabile a interpretazioni errate e manipolazioni. Ancora più suscettibili ad un uso arbitrario sono gli undici “esempi contemporanei di antisemitismo” allegati alla definizione IHRA, sette dei quali si riferiscono a Israele.

Questi esempi relativi a Israele sembrano essere uno dei motivi principali per cui organizzazioni come l’ILF stanno promuovendo con tale entusiasmo la definizione dell’IHRA. In effetti l’ILF non tratta la definizione dell’IHRA come una dichiarazione simbolica – pretende che sia applicata nel concreto da agenzie e funzionari governativi, tra cui polizia, pubblici ministeri e giudici.

Rendere operativa la definizione

Purtroppo la Commissione Europea ha condiviso gli obiettivi dell’ILF e dell’NGO Monitor quando, il 7 gennaio 2021, ha pubblicato un “Manuale per l’uso pratico della definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA”. Il manuale rappresenta un ambizioso piano d’azione per l’operatività e il rafforzamento della definizione dell’IHRA in molteplici aree politiche, dall’istruzione alla giustizia al finanziamento della società civile.

Una coalizione di ONG, sindacati e gruppi di solidarietà progressisti del Belgio, denominata “11.11.11”, ha risposto con un documento utile e istruttivo sollevando otto dubbi riguardo questo manuale, alcuni dei quali sono riassunti di seguito.

Benché pubblicato con il logo ufficiale della Commissione Europea, il manuale è stato di fatto scritto dalla RIAS (l’Associazione federale dei dipartimenti per la ricerca e l’informazione sull’antisemitismo), un ente finanziato dallo zar tedesco dell’antisemitismo, il dottor Felix Klein, che lavora per il Ministero dell’Interno del Paese. Klein è stato una forza trainante in Germania nel condurre la strumentalizzazione politica della lotta contro l’antisemitismo, in particolare contro i gruppi che sostengono il BDS, cosa che ha portato a delle richieste di dimissioni nei suoi confronti.

Secondo il manuale, per produrre i suoi contenuti la RIAS si è rivolta ad una serie di soggetti di interesse politicamente coinvolti. Uno dei collaboratori elencati è il direttore degli affari governativi del Simon Wiesenthal Center [ONG con sede a Los Angeles intitolata al famoso cacciatore di nazisti, ndtr.] che pubblica un elenco annuale dei “10 peggiori eventi antisemiti”.

Molte edizioni di questo elenco comprendono degli eventi che poco hanno a che fare con l’antisemitismo. Ad esempio, nel 2015 il Centro Wiesenthal ha elencato l’Unione Europea come antisemita per la sua decisione di etichettare i prodotti delle colonie israeliane. Nel 2016 la Francia è stata inserita nell’elenco per lo stesso motivo. Nel 2018, il centro ha riportato una banca tedesca come antisemita per aver aperto il conto di un’organizzazione ebraica che sostiene il BDS. Nel 2019 ha bollato l’ambasciatore tedesco delle Nazioni Unite Christoph Heusgen come antisemita per aver criticato Israele al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Tra gli altri collaboratori al manuale c’è il presidente del consiglio di IIBSA (l’Istituto internazionale per l’educazione e la ricerca sull’antisemitismo), un’organizzazione tedesca che nel 2018 ha pubblicato un rapporto che inquadra il movimento BDS come antisemita.

È interessante notare che il manuale della Commissione Europea non fa alcuna menzione esplicita del BDS. Tuttavia promuove come “esempi di buone pratiche” due risoluzioni approvate dai parlamenti francese e austriaco che associano il BDS all’antisemitismo. A vantaggio dei suoi autori, il manuale non fa riferimento alla storica sentenza della Corte di Giustizia Europea del giugno 2020 che sancisce il BDS come espressione della libertà di parola.

L’ambiguità del manuale va oltre il BDS. Non riconosce nessuna delle crescenti preoccupazioni sulla definizione dell’IHRA e sui modi in cui viene strumentalizzata, come sostenuto da innumerevoli studiosi e organizzazioni della società civile compresi i gruppi per le libertà civili. Persino Kenneth Stern, il principale redattore della definizione dell’IHRA, si è espresso contro l’impiego della definizione come arma lesiva della libertà di parola, in particolare nelle università.

Implicazioni di vasta portata

Gli effetti del manuale della Commissione Europea possono avere conseguenze concrete e pratiche su coloro che difendono i diritti dei palestinesi e criticano la politica israeliana. In primo luogo, facilita il progetto dell’ILF di attribuire un’efficacia quasi giuridica alla definizione dell’IHRA, compresi gli esempi relativi a Israele. Sebbene il manuale riconosca che la definizione è “non giuridicamente vincolante”, chiede alle autorità di contrasto di utilizzare la definizione per identificare, registrare, analizzare e classificare i crimini antisemiti e di aggiungere “riferimenti” alla definizione dell’IHRA nella “giurisdizione sui crimini d’odio e/o nella normativa contro l’antisemitismo.”

In secondo luogo, il manuale rappresenta un aiuto efficace per l’attuale campagna di NGO Monitor volta a pregiudicare finanziamenti internazionali alle ONG che critichino e accusino il governo israeliano. Esso propone che i governi e gli attori internazionali introducano riguardo ai loro finanziamenti delle condizioni basate sulla definizione dell’IHRA, suggerendo che “le iniziative e le organizzazioni che fondano le loro azioni sulla [definizione]” dovrebbero avere la priorità nel sostegno finanziario. Il manuale raccomanda inoltre che i governi e gli attori internazionali utilizzino la definizione come “meccanismo di controllo per evitare il finanziamento di organizzazioni e progetti antisemiti” – in altre parole, per escludere organizzazioni o progetti percepiti, sulla base di un’interpretazione politica, come in violazione della definizione dell’IHRA.

In tale contesto, il manuale tratta gli “esempi contemporanei di antisemitismo” come parte integrante della definizione IHRA. Ciò contraddice le precedenti dichiarazioni dell’UE, dalle quali gli esempi erano stati deliberatamente omessi. Ora, poiché il manuale li include, le sue raccomandazioni politiche per le autorità giuridiche di contrasto e per le condizioni ai finanziamenti si estendono efficacemente agli esempi relativi a Israele allegati alla definizione. Ciò potrebbe avere implicazioni di vasta portata.

Non ci è voluto molto perché NGO Monitor cogliesse l’opportunità offerta dal manuale. Appena 18 giorni dopo la pubblicazione del documento della Commissione Europea, NGO Monitor ha pubblicato un atto programmatico dal titolo “Implementing the IHRA Definition of Antisemitism for NGO Funding” [La messa in pratica della definizione dell’IHRA sull’antisemitismo nel campo dei finanziamenti alle ONG, ndtr.].

Ciò rivela fino a che punto l’Unione Europea si è invischiata con attori e programmi che utilizzano la definizione dell’IHRA come arma per motivi diversi dalla lotta all’antisemitismo. Questo è particolarmente preoccupante in un momento in cui il governo israeliano accusa la Corte Penale Internazionale di antisemitismo per aver inteso indagare su sospetti crimini di guerra commessi nei territori palestinesi occupati. Lo stesso governo israeliano, come era prevedibile, ha accolto con entusiasmo il manuale della Commissione Europea nel rendere la definizione dell’IHRA “uno strumento centrale” nella lotta all’antisemitismo.

L’ex ambasciatore Ilan Baruch presiede il Policy Working Group [Gruppo di lavoro politico, ndtr.], un collettivo di accademici, ex ambasciatori e difensori dei diritti umani israeliani di alto livello che sostengono e promuovono una trasformazione delle relazioni tra Israele e Palestina dall’occupazione ad una coesistenza basata su una soluzione a due stati.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




In Canada una mozione del NDP ottiene una vittoria a favore dei diritti dei palestinesi e della democrazia di base

Yves Engler

13 aprile 2021 – Palestine Chronicle

Sabato in Canada i membri del Nuovo Partito Democratico [NDP, di ispirazione socialdemocratica, uno dei quattro partiti presenti nel parlamento canadese, ndtr.] hanno ottenuto una vittoria a favore dei diritti dei palestinesi e hanno inferto un duro colpo alla lobby israeliana.

Oltre l’80% dei delegati del congresso [del NDP, ndtr.] ha votato a favore di una risoluzione che chiede “la cessazione di ogni cooperazione commerciale ed economica con le colonie illegali in Israele-Palestina” e “la sospensione del commercio bilaterale con lo Stato di Israele di tutte le armi e dei materiali connessi fino a quando non saranno rispettati i diritti dei palestinesi.”

Poche ore dopo il voto il notiziario della rete CBC News ha riferito che i membri dell’NDP “hanno votato a favore di sanzioni nei confronti di Israele contro la colonizzazione” e un video successivo sul loro sito era intitolato “Singh [Jagmeet Singh Jimmy Dhaliwal, segretario del NDP, ndtr.] adotterà la risoluzione dei delegati riguardante le sanzioni contro Israele come posizione [ufficiale] dell’NDP?” Numerosi organi di stampa hanno anche ripreso il rapporto della Canadian Press [agenzia di stampa nazionale canadese, ndtr.] secondo cui “è stata approvata con l’80% dei voti una risoluzione che chiede al Canada di sospendere il commercio di armamenti con Israele e di porre fine al commercio con le colonie israeliane”.

In risposta il Centre for Israel and Jewish Affairs [agenzia delle federazioni ebraiche del Canada, ndtr.] (CIJA) ha pubblicato un rozzo comunicato col titolo “La risoluzione dell’NDP evidenzia una persistente morbosa ossessione su Israele”.

Se qualcuno non avesse colto il messaggio dal titolo, il comunicato condanna “la morbosa ossessione su Israele”, la “preoccupazione patologica nei confronti di Israele” e la “preoccupazione ossessiva per Israele” del partito, che [il CIJA, ndtr.] etichetta come “vergognose”. Su Twitter il rabbino David Mivasair [rabbino canadese impegnato in politica come democratico progressista, ndtr.] ha irriso la dichiarazione del CIJA definendola un perfetto esempio di ipocrisia”, aggiungendo che “la lobby israeliana in Canada, la cui unica ragion d’essere è imporci Israele, afferma che l’NDP è “ossessionato da Israele””.

Il comunicato del CIJA successivo alla risoluzione e la reazione al congresso dell’NDP evidenziano nel modo più chiaro come Israele abbia perso i progressisti e come la sua lobby sia sempre più propensa ad intimidire coloro che sostengono i diritti dei palestinesi definendoli antisemiti. Più di un mese prima del congresso dell’NDP, il CIJA ha iniziato a fare pressioni pubblicamente sulla dirigenza del partito per impedire una risoluzione critica verso la definizione anti-palestinese di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA).

La feroce campagna rivolta a soffocare la possibilità che i membri dell’NDP discutessero un documento progettato per impedire il dibattito sui diritti dei palestinesi ha raggiunto lo scopo di intimorire il leader dell’NDP inducendolo a sopprimere la discussione sulla persistente oppressione dei palestinesi (la risoluzione dell’IHRA non è mai stata discussa).

Una settimana fa Jagmeet Singh è stato intervistato a The House [rubrica radiofonica settimanale di attualità politica, ndtr.] dalla CBC sulle risoluzioni presentate all’assemblea dell’NDP riguardo “le relazioni del Canada con Israele e il territorio palestinese”. Egli invece di rispondere alla domanda ha menzionato quattro volte l’“antisemitismo”. All’ulteriore domanda sulle “risoluzioni che in qualche modo condannano il modo in cui Israele tratta i palestinesi” Singh ancora una volta non ha menzionato la Palestina o i palestinesi. Ha invece parlato di “aumento dei crimini d’odio anche contro persone di fede ebraica”.

La disastrosa intervista ha generato un’ondata di critiche riguardo all’atteggiamento anti-palestinese della dirigenza del partito e ha dato slancio, in vista del congresso, agli schieramenti filo-palestinesi all’interno del partito. Con una significativa inversione di tendenza, la mattina dopo il voto dell’assemblea Singh ha difeso la risoluzione che la principale corrispondente politica della CBC, Rosemary Barton, ha descritto in questo modo: “Il tuo partito ha votato in modo schiacciante a favore di una imposizione di sanzioni nei confronti delle colonie e del divieto della vendita di armi a Israele”. Rimarcando la legittimità delle “organizzazioni per i diritti umani”, Singh ha affermato che è importante “fare pressione su Israele affinché rispetti i diritti dei palestinesi”. Pur restando un po’ ambiguo riguardo al pieno sostegno alla risoluzione sulla Palestina, Singh ha ribadito per tre volte l’importanza di applicare “pressioni” su Israele.

Una foglia al vento su questo tema, Singh va ovunque venga spinto. Questa è la situazione della maggior parte delle assemblee dell’NDP. Due giorni prima del convegno il deputato Charlie Angus ha twittato: “Continuo a essere citato da alcuni di quelli che vogliono che l’NDP si opponga alla definizione internazionale di antisemitismo. Questa non è la strada da percorrere. Sostengo le mozioni che chiedono giustizia per il popolo palestinese. Ma resto anche profondamente preoccupato per la crescente minaccia dell’antisemitismo “.

Per quel che ne so, nessuno ha detto che Angus abbia sostenuto la risoluzione contraria alla definizione dell’IHRA. Piuttosto è stato rimarcato che a gennaio un membro conservatore del parlamento dell’Ontario e un alto diplomatico israeliano hanno entrambi fatto uso della definizione dell’IHRA per attaccare Angus per aver condiviso un articolo del Guardian che critica il fatto che Israele non abbia vaccinato i palestinesi contro il Covid 19. Il nome di Angus è stato presentato come un esempio concreto di come la definizione dell’IHRA calpesti i diritti dei palestinesi. Ma Angus ha vigliaccamente gettato sotto il tritasassi della lobby israeliana quanti lo difendevano dalle diffamazioni.

Tuttavia, vale la pena riflettere sull’impostazione di Angus. Dal momento che il grosso della contro-reazione si è concentrata sulla risoluzione contraria alla definizione dell’IHRA, la dichiarazione sulla Palestina è apparsa accettabile. Le campagne su più fronti possono essere efficaci.

Ci sono voluti sforzi immensi da parte di un’ampia schiera di attivisti per arrivare alla partecipazione di più di 30 (Risoluzione sulla Palestina) e 40 (Risoluzione sull’IHRA) sezioni distrettuali del partito, oltre che di numerose altre organizzazioni, al fine di approvare queste risoluzioni, ma ne è valsa la pena. L’assemblea dell’NDP conferma che esiste un significativo sostegno popolare ai diritti dei palestinesi. I sondaggi hanno dimostrato che i canadesi sono ampiamente favorevoli a esercitare pressioni su Israele riguardo la sua politica di colonizzazione. Scommetto che la maggior parte del 15% dei delegati dell’NDP che ha votato contro la risoluzione sulla Palestina lo ha fatto in quanto preoccupata delle reazioni, non della sostanza della risoluzione.

Se da un lato la risoluzione sulla Palestina è stata una vittoria a favore dei diritti dei palestinesi e un duro colpo per la lobby israeliana, è stata anche una piccola vittoria per la democrazia di base e la prova che le persone si possono mobilitare sulla base di una richiesta di giustizia in politica estera.

  • Yves Engler è l’autore di Canada and Israel: Building Apartheid [Canada e Israele: la costruzione dell’apartheid, ndtr.] e numerosi altri libri. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Perché dobbiamo accogliere in modo critico la Jerusalem Declaration on Antisemitism

Tony Greenstein

1 aprile 2021 – Mondoweiss

La Jerusalem Declaration on Antisemitism [Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo], benché in parte carente e soggetta a critiche, non da ultimo per il suo sfortunato nome, dovrebbe essere accolta positivamente da quanti sono intenzionati a vedere la lotta contro l’antisemitismo come parte della lotta contro il razzismo piuttosto che contrapposta ad essa.

La JDA dovrebbe essere accolta positivamente anche da quanti sono arcistufi di vedere l’“antisemitismo” utilizzato come arma a favore di uno Stato “ebraico” che ha appena visto eleggere alla Knesset due nazisti ebrei [Itamar Ben-Gvir e a Bezalel Smotrich, ndtr.], uno dei quali potrebbe diventare ministro.

A differenza [della definizione] dell’IHRA, che etichetta l’opposizione al sionismo e al razzismo israeliani come antisemitismo, la JDA fa una chiara distinzione tra antisemitismo e antisionismo. La JDA afferma che quanto segue non è antisemita:

Criticare od opporsi al sionismo come forma di nazionalismo o sostenere una serie di accordi costituzionali tra ebrei e palestinesi nella zona tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Non è antisemita appoggiare accordi che attribuiscano piena uguaglianza a tutti gli abitanti “tra il fiume e il mare”, che si tratti di due Stati, di uno Stato bi-nazionale, di uno Stato unico democratico, di uno Stato federale o in qualunque altra forma.

Criticare Israele come Stato in base a prove concrete.”

La differenza tra l’errata definizione di antisemitismo dell’IHRA e quella della JDA è una differenza come tra il giorno e la notte.

Ovviamente la JDA avrebbe dovuto essere superflua. L’idea che sia necessario definire l’antisemitismo per opporvisi avrebbe dovuto essere insensata se non fosse per il cinico tentativo da parte di razzisti e imperialisti, compresi gli antisemiti, di utilizzare l’oppressione storica del popolo ebraico per appoggiare non solo lo Stato di Israele, ma l’imperialismo occidentale e le sue guerre in Medio Oriente.

Non è un caso che alcuni dei più violenti antisemiti e suprematisti bianchi, dall’ungherese Viktor Orban al polacco Mateusz Morawiecki e a Donald Trump, hanno tutti appoggiato la definizione dell’IHRA. In effetti nessun antisemita vero e proprio potrebbe contestare l’IHRA. Cosa c’è in essa che possa non piacerti se sei un razzista?

Rimango della stessa opinione del giudice Potter Stewart nella sua famosa considerazione sulla pornografia in una causa alla Suprema Corte [USA] del 1964 – non ho bisogno di una definizione dell’antisemitismo per riconoscerlo quando lo vedo. Quando mio padre e migliaia di ebrei come lui hanno preso parte alla “Battaglia di Cable Street” [a Londra, ndtr.] per impedire alla British Union of Fascists [Unione Britannica dei Fascisti, gruppi inglese di estrema destra e filonazista, ndtr.] di Moseley di sfilare nel quartiere ebraico dell’East End nel 1936, non avevano bisogno di una definizione di antisemitismo per capire quello contro cui stavano lottando. Tuttavia la situazione è questa e oggi il principale pregio di una onesta definizione dell’antisemitismo è che può essere utilizzata per sostituire la falsa e disonesta definizione dell’IHRA.

A differenza della definizione mistificante di antisemitismo dell’IHRA, la JDA si occupa di antisemitismo senza calunniare come “antisemiti” i palestinesi che lottano o chi si oppone al sionismo.

Ciò che è veramente spaventoso dell’IHRA è come molta gente mentalmente sana, che si considera intelligente e che normalmente lo è, ciononostante abbia sottoscritto una definizione di antisemitismo intellettualmente fallace, la versione accademica del trucco delle tre carte. L’IHRA è incoerente, disonesta e intrinsecamente contraddittoria in modo imbarazzante. In realtà in base alla sua stessa definizione l’IHRA è di per sé antisemita quando afferma da una parte che Israele è la rappresentazione collettiva di ogni ebreo e poi sostiene che è antisemita associare ogni ebreo ai crimini di Israele.

L’indeterminatezza e la confusione dell’IHRA sono in sé palesemente disoneste. È deliberatamente fumosa. In effetti una dichiarazione di oltre 500 parole non può, al di là di ogni immaginazione, essere definita una definizione e, come ha scritto Stephen Sedley [giurista inglese, ndtr.], quella dell’IHRA non può essere una definizione perché è indefinita.

La definizione centrale dell’IHRA in 38 parole, lasciando perdere i suoi 11 esempi centrati su Israele, non è altro che evasiva e vaga.

La definizione dell’IHRA è stata un esercizio di disonestà intellettuale ed è stata accolta entusiasticamente da razzisti come il rappresentante britannico dell’IHRA Lord Pickles, in quanto è un modo per calunniare e demonizzare gli antirazzisti. Chiunque creda realmente che sia una definizione dell’antisemitismo può solo essere definito come intellettualmente fallito. E la definizione dell’IHRA poggia sull’assunto che lo Stato di Israele sia uno Stato normale, democratico. Di conseguenza l’IHRA prende posizione nella lotta tra la supremazia ebraica e il sionismo da una parte e l’antisionismo dall’altra.

La definizione centrale di 38 parole dell’antisemitismo dell’IHRA all’inizio afferma che:

L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può manifestarsi come odio verso gli ebrei. Manifestazioni verbali e fisiche di antisemitismo sono dirette contro individui ebrei e non-ebrei e/o contro le loro proprietà, verso le istituzioni della comunità ebraica ed edifici religiosi.”

Benché ci venga detto che l’antisemitismo è “una certa percezione degli ebrei”, non ci viene mai detto quale sia questa percezione. Ci viene detto che l’antisemitismo “può manifestarsi come odio verso gli ebrei”, senza dire in quale altro modo si possa manifestare. Alzando la sbarra dell’antisemitismo al livello di odio, l’IHRA ignora ogni sorta di esempio di antisemitismo che sia offensivo o discriminatorio ma che non derivi dall’odio.

É assolutamente possibile che qualcuno infligga violenza a qualcun altro perché è ebreo non perché lo odi ma perché lo disprezza o lo teme. Secondo l’IHRA non è un antisemita! Analogamente chi si oppone al matrimonio del figlio o della figlia con un ebreo non perché lo odia ma perché crede che gli ebrei siano disonesti e indegni di fiducia, per non citare il fatto che siano meschini e avari, secondo l’IHRA non è antisemita. L’IHRA ha solo una funzione: proteggere lo Stato di Israele e il sionismo, non gli ebrei.

Il primo pregio della JDA è che formula una definizione dell’antisemitismo chiara e facilmente comprensibile: “L’antisemitismo è discriminazione, pregiudizio, ostilità o violenza contro gli ebrei in quanto tali (o contro istituzioni ebraiche in quanto tali)”. Le ultime 5 parole potrebbero essere state evitate, ma, in quanto basate sulla definizione dell’Oxford English Dictionary [monumentale dizionario inglese in 20 volumi, ndtr.], “ostilità nei confronti o pregiudizio contro gli ebrei” è assolutamente preferibile alla definizione dell’IHRA.

Ora abbiamo una definizione chiarissima ed utile di antisemitismo che distingue bene tra antisionismo e antisemitismo. La JDA non cerca di controllare il discorso politico nel modo in cui lo fa l’IHRA. Per esempio non suggerisce che se qualcuno critica Israele senza criticare nel contempo ogni altro Paese che violi i diritti umani (“doppio standard”) sia antisemita.

La definizione della JDA non descrive come antisemiti i paragoni tra lo Stato di Israele e le sue politiche e quelle della Germania nazista. È chiaro che oggi ci sono molti paralleli tra Israele e la Germania nazista come testimoniano i muri di via Shuhada a Hebron imbrattati dagli slogan dei coloni “Arabi nelle camere a gas”.

Come hanno evidenziato Neve Gordon e Mark Levin [due firmatari della Dichiarazione di Gerusalemme, ndtr.], in base all’IHRA due delle maggiori personalità ebraiche del XX secolo, entrambe profughe dalla Germania nazista, Albert Einstein e Hannah Arendt, dovrebbero essere definite antisemite! Nel 1948, quando il leader dell’Herut [partito sionista di destra, ndtr.] Menachem Begin visitò gli Stati Uniti, Einstein e Arendt firmarono con altre personalità ebraiche una lettera al New York Times affermando che l’Herut era:

nella sua organizzazione, nei suoi metodi, nella sua filosofia politica e nella sua azione sociale molto affine ai partiti nazista e fascista.”

Sono da accogliere in modo particolarmente positivo le linee guida 10-15. Sono una chiara affermazione di appoggio al fatto che il [movimento] BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndtr.] non ha niente a che vedere con l’antisemitismo e tutto a che vedere con una protesta non violenta contro Israele. È da approvare anche l’affermazione secondo cui la critica a Israele sulla base di prove non può essere antisemita. Allo stesso modo non è antisemita l’appoggio a uno Stato unitario della Palestina (e implicitamente in opposizione a uno Stato ebraico).

Tuttavia ci sono molte critiche che si possono fare anche alla JDA.

In primo luogo manca una qualunque prospettiva o apporto palestinese. Dato che la JDA è nata in conseguenza dei tentativi dell’IHRA di silenziare la libertà di parola sulla Palestina, avrebbe dovuto essere scontato che i palestinesi dovessero contribuirvi. Sfortunatamente la bozza della JDA è stata una questione tutta ebraica, nonostante il fatto che ci sia una sezione B tutta su “Israele e Palestina: esempi che, a ben vedere, sono antisemiti.”

Benché sia stata creata in opposizione alla definizione dell’IHRA, la JDA si concentra in modo decisamente eccessivo sulla narrazione e le preoccupazioni di Israele. Benché, dato il contesto, ciò sia comprensibile, gli autori sono timorosi di dire apertamente che la principale minaccia antisemita viene dall’estrema destra e dai gruppi fascisti, non dalla sinistra. Forse questa dichiarazione era troppo rivolta a persone come il professor David Feldman del Pears Institute for the Study of Anti-Semitism [Istituto Pears per lo Studio dell’Antisemitismo, con sede in Inghilterra, ndtr.].

Tuttavia va detto forte e chiaro che oggi la principale minaccia per gli ebrei viene da gente come Donald Trump e dai suoi sostenitori neo-nazisti suprematisti bianchi. Storicamente la sinistra ha sempre lottato contro l’antisemitismo e la Germania nazista, e l’opposizione all’antisemitismo e al nazismo sono venuti quasi solo dalla sinistra.

Ciò è particolarmente opportuno in quanto la cosiddetta Campagna contro l’Antisemitismo include l’affermazione secondo cui “nel 2019 il Barometro Antisemitismo della Campagna contro l’Antisemitismo ha mostrato che l’antisemitismo nell’estrema sinistra della politica britannica ha superato quello dell’estrema destra.” Ciò è basato su un’ingannevole “ricerca” condotta da Daniel Allington del King’s College e da altri.

Il Barometro dell’Antisemitismo 2019 della CCA ha introdotto sei nuove domande assurde sugli atteggiamenti antisemiti, basate esclusivamente sull’opinione nei confronti di Israele e del sionismo. Questa ridefinizione di cosa costituisca un’affermazione antisemita non ha nessun altro scopo che definire antisemiti gli oppositori al sionismo e allo Stato di Israele. D’ora in avanti gli zeloti israeliani potranno sostenere che i veri nemici degli ebrei non sono i loro amici neo-nazisti ma le persone di sinistra.

Per esempio, se non ti senti a tuo agio a passare del tempo con dei sionisti, allora ciò ti rende un antisemita! Confesso di non trovare la compagnia dei sostenitori del Sudafrica dell’apartheid particolarmente congeniale, ma non ho mai pensato che ciò facesse di me un razzista.

Qui di seguito ci sono tre nuove affermazioni “antisemite” che Allington, Hirsh e altri hanno elaborato:

1. “Israele e i suoi sostenitori hanno un’influenza negativa sulla nostra democrazia.”

2. “Israele può farla franca perché i suoi sostenitori controllano i media.”

3. “Israele tratta i palestinesi come i nazisti trattavano gli ebrei.”

E altre tre che dimostrano o suggeriscono “antisemitismo” se chi risponde non è d’accordo:

4. “Mi trovo a mio agio a passare del tempo con persone che appoggiano apertamente Israele.”

5. “Israele dà un contributo positivo al mondo.”

6. “Israele fa bene a difendersi contro quanti vogliono distruggerlo.”

Quali sono i problemi riguardo alla JDA?

Tuttavia la JDA non è priva di problemi e non deve essere vista come la parola finale su quello che è o non è antisemita. Qui c’è un esempio di antisemitismo.

La linea-guida n. 6 “Attribuire simboli, immagini e stereotipi negativi dell’antisemitismo classico allo Stato di Israele.”

Questa linea guida è strettamente legata al nono esempio dell’IHRA: “Utilizzare simboli e immagini associati all’antisemitismo classico (ad es., affermare che gli ebrei hanno ucciso Gesù o l’accusa del sangue [secondo cui gli ebrei userebbero sangue o carne di bambini cristiani nei loro riti, ndtr.]) per caratterizzare Israele o gli israeliani.”

L’inganno logico qui è sostituire “Israele o gli israeliani” a ebrei. Israele non è un ebreo. Uno degli stereotipi antisemiti tradizionali sugli ebrei nell’Europa medievale era l’avvelenamento dei pozzi dei non-ebrei. Un altro era l’uccisione di bambini non-ebrei per preparare il pane della Pasqua ebraica. Sono indubbiamente antisemiti.

Tuttavia questi esempi si riferiscono agli ebrei, non a Israele. È un fatto, confermato da prove d’archivio, che durante la guerra del 1948 Israele ha avvelenato le forniture di acqua di San Giovanni d’Acri per espellerne la popolazione. È un fatto anche che i coloni israeliani hanno regolarmente avvelenato l’acqua e i pozzi dei palestinesi in Cisgiordania. Ciò è quello che i coloni fanno alla popolazione indigena, indipendentemente dal fatto che siano ebrei o cristiani. Non può essere giusto definire antisemite affermazioni basate su fatti. Né può essere giusto associare stereotipi antisemiti tradizionali sugli ebrei a uno Stato razzista che tratta i palestinesi come untermenschen [subumani, termine usato dai nazisti per indicare i popoli inferiori, ndtr.].

Israele ha testato gas velenoso e armi chimiche sui palestinesi. Affermarlo non è antisemita. È un fatto che Israele ha espiantato organi umani rubati a palestinesi. Il governo cinese ha utilizzato organi di persone giustiziate. Una simile accusa non è razzista.

La linea guida n. 8 “Chiedere alle persone in quanto ebree di condannare pubblicamente Israele o il sionismo (per esempio, durante un raduno politico).”

Neppure questo è antisemita. È comprensibile, dato che il movimento sionista sostiene di parlare in nome di tutti gli ebrei (tranne che di noi odiatori di noi stessi!), ciò che rafforza tra la gente la confusione tra essere ebreo ed essere sionista.

Non può essere antisemita per i non-ebrei cadere nella propaganda sionista, ed è ancor più ragionevole per un palestinese chiedere che il popolo ebraico prenda le distanze dall’asserzione israeliana/sionista secondo cui essere ebreo significa appoggiare l’oppressione dei palestinesi. Se c’è una qualche forma di antisemitismo è da parte dei sionisti.

Trovo discutibile anche la linea guida 10:

Negare il diritto degli ebrei nello Stato di Israele di esistere e prosperare, collettivamente ed individualmente, come ebrei, in base al principio di uguaglianza.”

Io riconosco il diritto degli ebrei israeliani di vivere in Palestina/Israele. Tuttavia non riconosco che abbiano un qualche diritto collettivo come coloni e oppressori. I coloni non sono oppressi e di conseguenza quelli che dobbiamo riconoscere sono diritti individuali. Quindi io cancellerei le parole “collettivamente e individualmente”.

Tuttavia, salvo la linea guida n. 6, questi sono dissensi poco importanti. La JDA è un contributo decisamente positivo per disintossicare il dibattito su antisemitismo e tentativi truffaldini dei sostenitori antisemiti di Israele di confondere l’antisemitismo e l’antisionismo. Di conseguenza dovrebbe essere apprezzato come un contributo complessivamente positivo di demistificare la questione dell’antisemitismo e dell’antisionismo.

Dovremmo quindi sentirci liberi di utilizzare questa definizione e proporre che sindacati, università e partiti operai vengano incoraggiati ad abbandonare l’IHRA in favore della JDA. Dovremmo essere aperti ed espliciti. Quella dell’IHRA è una definizione appoggiata dagli antisemiti. Quella della JDA è una definizione per chi si oppone all’antisemitismo.

Dovremmo chiedere a ipocriti come la parlamentare Caroline Lucas [deputata inglese dei Verdi che ha bloccato una mozione del suo partito contro la definizione dell’IHRA, ndtr], che sostiene di appoggiare i palestinesi, di dimostrarlo. Se Lucas appoggia i palestinesi, allora dobbiamo continuare a chiederle perché sta sostenendo una definizione di antisemitismo che etichetta come antisemita la lotta dei palestinesi.

Sappiamo che razzisti come John Mann [deputato laburista molto attivo nella campagna contro l’antisemitismo all’interno del suo partito, ndtr.], Keir Starmer [attuale segretario del partito Laburista, ndtr.] ed Eric Pickles [politico conservatore filo-israeliano, ndtr.] si aggrapperanno alla definizione dell’IHRA, dato che il loro scopo principale è santificare l’appoggio dell’Occidente a Israele e legittimare le operazioni imperialiste nella regione. Tuttavia noi dobbiamo chiedere che i membri del Socialist Campaign Group [Gruppo della Campagna Socialista, ala sinistra del partito Laburista, ndtr.] adottino e appoggino la definizione della JDA, e che anche Momentum [fazione laburista dell’ex-segretario Corbyn, ndtr.] abbandoni quella dell’IHRA e adotti la JDA. Se questi gruppi rifiutano di rompere con il consenso razzista ed imperialista sul sionismo, allora dovrebbero essere ostracizzati come nemici della lotta palestinese per la liberazione e come razzisti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una critica della società civile palestinese alla Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo

La “Jerusalem Declaration on Antisemitism” (JDA), nonostante le sue carenze descritte di seguito, presenta un’ alternativa mainstream alla disonesta cosiddetta definizione IHRA di antisemitismo e una “valida guida ” nella lotta contro il reale antisemitismo, come lo definiscono molti gruppi ebraici progressisti – difendendo gli ebrei, in quanto ebrei, da discriminazione, pregiudizi, ostilità e violenza. Rispetta in larga misura il diritto alla libertà di espressione relativo alla lotta per i diritti dei palestinesi come stabilito dal diritto internazionale, anche attraverso il BDS, e alla lotta contro il sionismo e il regime israeliano di occupazione, colonialismo di insediamento e apartheid.

La JDA può essere utile nella lotta contro il maccartismo anti-palestinese e la repressione che i fautori della definizione IHRA, con i suoi “esempi”, hanno promosso e indotto, di proposito. Ciò è dovuto ai seguenti vantaggi della JDA:

  • Nonostante le sue problematiche linee guida incentrate su Israele, fornisce una definizione coerente e accurata di antisemitismo. I suoi autori rifiutano esplicitamente di codificarla in legge o di usarla per limitare il legittimo esercizio della libertà accademica o per “sopprimere il dibattito pubblico libero e aperto che sia entro i limiti stabiliti dalle leggi che regolano i crimini d’odio”. Ciò è utile per contrastare i tentativi della definizione IHRA di proteggere Israele dalla responsabilità nei confronti del diritto internazionale e di proteggere il sionismo da critiche razionali ed etiche.
  • Riconosce l’antisemitismo come una forma di razzismo, con la sua storia e la sua particolarità, in gran parte confutando l’eccezionalità che la definizione IHRA (con i suoi esempi) gli dà.
  • Riconoscendo che l’antisemitismo e l’antisionismo sono “categoricamente diversi”, non considera antisemita la difesa dei diritti dei palestinesi secondo il diritto internazionale e la fine del regime di oppressione israeliano di per sé. Quindi confuta le parti più pericolose e utilizzate come armi degli “esempi” della definizione IHRA. In particolare, la JDA riconosce come legittima libertà di parola i seguenti esempi: sostegno al movimento BDS non violento e alle sue tattiche; critica o opposizione al sionismo; condanna del colonialismo di insediamento o dell’apartheid di Israele; appello per pari diritti e democrazia per tutti ponendo fine a tutte le forme di supremazia e “discriminazione razziale sistematica”; e critiche alla fondazione di Israele e alle sue istituzioni o politiche razziste.
  • Afferma che “ritenere gli ebrei collettivamente responsabili della condotta di Israele o trattare gli ebrei, semplicemente perché sono ebrei, come agenti di Israele” è antisemita, una regola con cui siamo pienamente d’accordo. Chiediamo l’applicazione di questa regola su tutta la linea, anche quando Israele e sionisti, sia ebrei che cristiani fondamentalisti, sono colpevoli di violarla. I leader fanatici sionisti e israeliani, come Netanyahu, per esempio, spesso parlano a nome di tutti gli ebrei e incoraggiano le comunità ebraiche negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Francia e altrove a “tornare a casa” in Israele.
  • Teoricamente riconosce che il contesto è importante nel senso che situazioni particolari determinano se una certa espressione o azione può essere considerata antisemita o meno.

Tuttavia, i palestinesi, il movimento di solidarietà palestinese e tutti i progressisti sono invitati ad avvicinarsi alla JDA con una mente critica e una cautela a causa delle sue carenze, alcune dei quali sono connaturate:

  1. Con l’infelice titolo della JDA e con la maggior parte delle sue linee guida, si concentra su Palestina / Israele e sul sionismo, rafforzando ingiustificatamente i tentativi di accoppiare il razzismo antiebraico con la lotta per la liberazione palestinese, e quindi avendo un impatto sulla nostra lotta. Nonostante questo impatto, la JDA esclude le opinioni che rappresentano i palestinesi, un’omissione che parla abbastanza delle relazioni asimmetriche di potere e dominio e di come alcuni liberali cercano ancora di prendere decisioni che ci riguardano profondamente, senza di noi. Come palestinesi non possiamo permettere che qualsiasi definizione di antisemitismo sia impiegata per controllare o censurare la difesa dei nostri diritti inalienabili o la nostra narrazione delle nostre esperienze vissute e della storia basata sull’evidenza della lotta contro il colonialismo di insediamento e l’apartheid.
  2. La sua mal concepita omissione di ogni menzione della supremazia bianca e dell’estrema destra, i principali responsabili degli attacchi antisemiti, scagiona inavvertitamente l’estrema destra, nonostante una menzione passeggera nelle FAQ. La maggior parte dei gruppi di estrema destra, specialmente in Europa e Nord America, sono profondamente antisemiti eppure amano Israele e il suo regime di oppressione.
  3. Nonostante le garanzie sulla libertà di espressione nelle sue FAQ, le “linee guida” della JDA ancora cercano di mettere sotto controllo alcuni discorsi critici delle politiche e delle pratiche israeliane, non riuscendo a sostenere pienamente la necessaria distinzione tra ostilità o pregiudizio nei confronti degli ebrei da un lato e legittima opposizione alle politiche, all’ideologia e al sistema di ingiustizia israeliani dall’altro. Ad esempio, la JDA considera antisemiti i seguenti casi:

A. “Descrivere Israele come il male supremo o esagerare grossolanamente la sua effettiva influenza” come un possibile “modo codificato di razzializzare e stigmatizzare gli ebrei”. Mentre in alcuni casi tale rappresentazione di Israele o la grossolana esagerazione della sua influenza possono rivelare indirettamente un sentimento antisemita, nella maggioranza assoluta dei casi relativi alla difesa dei diritti dei palestinesi tale inferenza sarebbe del tutto fuori luogo. Quando i palestinesi che perdono i loro cari, case e frutteti a causa delle politiche israeliane di apartheid condannano pubblicamente Israele come “il male supremo”, per esempio, questo non può essere ragionevolmente interpretato come un attacco “codificato” contro gli ebrei.

Interpretare l’opposizione ai crimini israeliani e al regime di oppressione come antiebraica, come spesso fanno Israele e i suoi sostenitori di destra anti-palestinesi, rende effettivamente Israele sinonimo o coestensivo di “tutti gli ebrei”. Eticamente parlando, oltre ad essere anti-palestinese, questa equazione è profondamente problematica perché in effetti essenzializza e omogeneizza tutte le persone ebree. Ciò contraddice l’affermazione iniziale della JDA secondo cui è “razzista essenzializzare … una data popolazione”.

B. “Applicare i simboli, le immagini e gli stereotipi negativi dell’antisemitismo classico … allo Stato di Israele.” Come la stessa JDA ammette altrove, una generalizzazione così ampia è falsa in tutti i casi “basati sull’evidenza”. Si consideri, ad esempio, i palestinesi che condannano il premier israeliano Netanyahu come un “assassino di bambini”, dato che almeno 526 bambini palestinesi sono stati massacrati nella strage israeliana del 2014 a Gaza, su cui la Corte penale internazionale ha recentemente deciso di indagare. Può essere considerato antisemita? Sebbene le prove concrete siano irreprensibili, i palestinesi dovrebbero evitare di usare quel termine in questo caso semplicemente perché è un tropo antisemita e Netanyahu è ebreo? È islamofobo chiamare il dittatore saudita Muhammad Bin Salman – che si dà il caso sia un musulmano – un macellaio per aver orchestrato il raccapricciante omicidio di Khashoggi, per non parlare dei crimini del regime saudita contro l’umanità nello Yemen? Mostrare MBS in possesso di un pugnale insanguinato sarebbe considerato un tropo islamofobico, dato che le caricature islamofobiche spesso raffigurano uomini musulmani con spade e pugnali intrisi di sangue? Ovviamente no. Allora perché eccezionalizzare Israele?

C. “Negare il diritto degli ebrei nello Stato di Israele di esistere e prosperare, collettivamente e individualmente, come ebrei, in conformità con il principio di uguaglianza”. Il principio di uguaglianza è assolutamente fondamentale nella protezione dei diritti individuali in tutti gli ambiti, nonché nella salvaguardia dei diritti culturali, religiosi, linguistici e sociali collettivi. Ma alcuni possono abusarne per implicare uguali diritti politici per i colonizzatori e i gruppi colonizzati in una realtà di colonialismo di insediamento, o per i gruppi dominanti e dominati in una realtà di apartheid, perpetuando così l’oppressione. Dopo tutto, ancorato al diritto internazionale, il principio fondamentale di uguaglianza non ha come scopo, né può essere utilizzato per, assolvere crimini o legittimare l’ingiustizia.

Che dire del presunto “diritto” dei coloni ebreo-israeliani a sostituire i palestinesi nella terra vittima di pulizia etnica di Kafr Bir’im in Galilea o Umm al Hiran nel Naqab / Negev? Che dire del “diritto” apparente di imporre comitati di ammissione razzisti in decine di insediamenti per soli ebrei nell’attuale Israele, che negano l’ammissione ai cittadini palestinesi di Israele per motivi “culturali / sociali”? Inoltre, ai rifugiati palestinesi dovrebbe essere negato il diritto di tornare a casa stabilito dalle Nazioni Unite per non disturbare un presunto “diritto ebraico collettivo” alla supremazia demografica? Che dire della giustizia, del rimpatrio e delle riparazioni in conformità con il diritto internazionale e del modo in cui possono influire su alcuni “diritti” presunti degli ebrei-israeliani che occupano case o terre palestinesi?

Soprattutto, cosa ha a che fare tutto questo con il razzismo antiebraico?

1. Come recentemente rivelato da Der Spiegel, un rapporto della polizia in Germania, ad esempio, mostra che nel 2020 la destra e l’estrema destra sono state responsabili del 96% di tutti gli incidenti antisemiti in Germania attribuibili a un chiaro motivo. https://twitter.com/bdsmovement/status/1362411616638275586

Fonte: BNC

Traduzione di BDS Italia




La Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo

La Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo è uno strumento per identificare, confrontare e sensibilizzare sull’antisemitismo, per come si manifesta oggi nei vari paesi del mondo. La Dichiarazione include un preambolo, una definizione e 15 linee guida che forniscono indicazioni dettagliate per coloro che cercano di riconoscere l’antisemitismo al fine di elaborare risposte appropriate. È stata realizzata da un gruppo di studiosi nei campi della storia dell’Olocausto, degli studi ebraici e degli studi sul Medio Oriente, per affrontare quella che è diventata una sfida crescente: fornire una guida chiara per identificare e combattere l’antisemitismo proteggendo al contempo la libertà di parola. È stata sottoscritta da 200 firmatari.

Preambolo

Noi sottoscritti, presentiamo la Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo, prodotto di un’iniziativa nata a Gerusalemme. Includiamo nel novero dei firmatari studiosi internazionali che lavorano in studi sull’antisemitismo e campi correlati, inclusi studi sull’ebraico, l’Olocausto, Israele, la Palestina e il Medio Oriente. Il testo della Dichiarazione si è avvalso della consulenza di studiosi di diritto e membri della società civile.

Ispirati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, dalla Convenzione sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale del 1969, dalla Dichiarazione del Forum Internazionale di Stoccolma sull’Olocausto del 2000 e dalla Risoluzione delle Nazioni Unite sulla Giornata della Memoria del 2005, noi riteniamo che, sebbene l’antisemitismo abbia alcuni tratti distintivi, la lotta contro di esso è inseparabile dalla lotta globale contro tutte le forme di discriminazione razziale, etnica, culturale, religiosa e di genere.

Consapevoli della persecuzione storica degli Ebrei nel corso dei tempi e delle lezioni universali dell’Olocausto, e vedendo con allarme il riaffermarsi dell’antisemitismo da parte di gruppi che promuovono odio e violenza nella politica, nella società e su internet, cerchiamo di fornire una definizione di base dell’antisemitismo utilizzabile, coincisa e storicamente informata, insieme ad alcuni esempi.

La Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo è una risposta alla “Definizione IHRA”, il documento che è stato adottato nel 2016 dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto]). Poiché la Definizione IHRA è poco chiara in alcuni punti chiave e largamente aperta a differenti interpretazioni, ha causato confusione e generato controversie, indebolendo perciò la lotta contro l’antisemitismo. Notando che si auto-definisce “una dichiarazione operativa”, abbiamo cercato di migliorarla offrendo (a) una definizione di base più chiara e (b) un insieme coerente di linee guida. Speriamo che sia utile per monitorare e combattere l’antisemitismo, così come per scopi educativi. Proponiamo la nostra Dichiarazione non legalmente vincolante come un’alternativa alla Definizione IHRA. Le istituzioni che già hanno adottato la Definizione IHRA possono usare il nostro testo come uno strumento per interpretarla.

La Definizione IHRA include 11 “esempi” di antisemitismo, 7 dei quali incentrati sullo Stato di Israele. Poiché questo pone una sproporzionata enfasi su un ambito specifico, c’è un bisogno ampiamente sentito di chiarezza sui limiti di accettabilità di azioni e discorsi politici riguardanti il sionismo, Israele e la Palestina. Il nostro scopo è duplice: (1) rafforzare la lotta all’antisemitismo, chiarendo cos’è e come si manifesta, (2) proteggere lo spazio di un dibattito aperto sulla controversa questione del futuro di Israele/Palestina. Non tutti condividiamo le stesse opinioni politiche e non cerchiamo di promuovere una agenda politica di parte. Stabilire che una visione o un’azione controversa non è antisemita non implica né che la approviamo né che la disapproviamo.

Le linee guida che si concentrano su Israele-Palestina dovrebbero essere considerate nel loro insieme. In generale, quando si applicano queste linee guida, ognuna dovrebbe essere letta alla luce delle altre e sempre con un’analisi del contesto. Il contesto può includere l’intenzione dietro un enunciato, o un’espressione che evolve nel tempo, o anche l’identità di chi parla, specialmente quando l’argomento è Israele o il sionismo. Così, per esempio, l’ostilità verso Israele potrebbe essere un’espressione di ostilità antisemita, ma potrebbe essere anche una reazione alla violazione dei diritti umani, o il sentimento che una persona palestinese prova a causa dell’esperienza fatta trovandosi nelle mani di quello Stato. In poche parole, discernimento e sensibilità sono necessari nell’applicare queste linee guida alle situazioni concrete.

Definizione

Antisemitismo è discriminazione, pregiudizio, ostilità e violenza contro gli Ebrei in quanto Ebrei (o le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche).

Linee guida

A. Generali

  1. È razzista “essenzializzare” (trattare un tratto caratteriale come innato) o fare generalizzazioni negative indiscriminate su una data popolazione. Quel che è vero per il razzismo in generale è vero in particolare per l’antisemitismo.
  2. Quel che è peculiare nell’antisemitismo classico è l’idea che gli Ebrei siano legati alle forze del male. Questo sta al centro di molte fantasie antiebraiche, come l’idea di una cospirazione ebraica nella quale “gli Ebrei” possiedono un potere nascosto che usano per promuovere la loro agenda collettiva a spese degli altri popoli. Questo collegamento tra gli Ebrei e il male continua nel presente: nella fantasia che “gli Ebrei” controllino i governi con una “mano nascosta”, che possiedano banche, controllino i media, agiscano come “uno stato nello stato” e siano responsabili della diffusione di malattie (come il Covid-19). Tutte queste caratteristiche possono essere strumentalizzate da diverse (e anche antagonistiche) cause politiche.
  3. L’antisemitismo si può manifestare con parole, immagini e azioni. Esempi di antisemitismo a parole includono affermazioni del tipo: gli Ebrei sono ricchi, intrinsecamente avari o antipatriottici. Nelle caricature antisemite, gli Ebrei sono spesso rappresentati come grotteschi, con grandi nasi e sono associati alla ricchezza. Esempi di atti antisemiti sono: aggredire qualcuno solo perché ebreo/ebrea, attaccare una sinagoga, imbrattare con svastiche le tombe ebraiche, o rifiutare di assumere o promuovere qualcuno perché ebreo.
  4. L’antisemitismo può essere diretto o indiretto, esplicito o criptico. Per esempio, “I Rothschild controllano il mondo” è un’affermazione velata sul presunto potere degli “Ebrei” sulle banche e la finanza internazionale. Ugualmente, ritrarre Israele come il male supremo o esagerare grossolanamente la sua reale influenza può essere un modo criptico di ‘razzializzare’ e stigmatizzare gli Ebrei. In molti casi, identificare un discorso in codice è una questione di contesto e buonsenso, tenendo conto di questi esempi.
  5. Negare o minimizzare l’Olocausto sostenendo che il deliberato genocidio nazista degli Ebrei non ebbe luogo, o che non c’erano campi di sterminio o camere a gas, o che il numero delle vittime fu una piccola parte del totale reale, è antisemita.

B. Israele e Palestina: esempi che, a ben vedere, sono antisemiti

  1. Applicare i simboli, immagini e stereotipi negativi dell’antisemitismo classico (vedi gli esempi precedenti 2 e 3) allo Stato di Israele.
  2. Ritenere gli Ebrei collettivamente responsabili per la condotta di Israele o trattare gli Ebrei, semplicemente perché Ebrei, come agenti di Israele.
  3. Richiedere alle persone, perché Ebree, di condannare pubblicamente Israele o il sionismo (per esempio, in una riunione politica).
  4. Presumere che gli Ebrei non israeliani, semplicemente perché Ebrei, siano necessariamente più fedeli a Israele che non al proprio paese.
  5. Negare il diritto agli Ebrei dello Stato d’Israele di esistere e prosperare, collettivamente e individualmente, come Ebrei, secondo il principio di uguaglianza.

C. Israele e Palestina: esempi che, a ben vedere, non sono antisemiti (che si approvi o meno l’opinione o l’azione considerata)

  1. Sostenere la richiesta di giustizia e di piena concessione dei diritti politici, nazionali, civili e umani dei Palestinesi, come sancito dal diritto internazionale.
  2. Criticare o opporsi al sionismo come forma di nazionalismo, o schierarsi a favore di un qualche tipo di accordo costituzionale per Ebrei e Palestinesi nell’area tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Non è antisemita sostenere intese che accordino piena uguaglianza a tutti gli abitanti “tra il fiume e il mare”, sia che ciò avvenga con due stati, con uno stato binazionale, con uno stato democratico unitario, con uno stato federale o in qualsiasi altra forma.
  3. La critica, basata sull’evidenza, di Israele come Stato. Ciò include le sue istituzioni e i suoi principi fondanti. Include anche la sua politica e le sue pratiche, interne ed estere, come l’operato di Israele in Cisgiordania e Gaza, il ruolo che Israele gioca nella regione, o qualsiasi altro modo in cui, come Stato, influenza eventi nel mondo. Non è antisemita segnalare la sistematica discriminazione razziale. In generale, le stesse norme di dibattito che si applicano agli altri Stati e agli altri conflitti per l’autodeterminazione nazionale si applicano nel caso di Israele e della Palestina. Quindi, anche se polemico, non è antisemita, in sé e per sé, paragonare Israele ad altri esempi storici, tra cui il colonialismo di insediamento o l’apartheid.
  4. Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni sono forme comuni e nonviolente di protesta politica contro gli Stati. Nel caso di Israele non sono, in sé e per sé, antisemite.
  5. Il discorso politico non deve essere misurato, proporzionale, temperato o ragionevole per essere protetto dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani o dall’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e da altri strumenti legali. La critica che alcuni possono vedere come eccessiva o controversa, o come espressione di un “doppio standard”, non è, in sé e per sé, antisemita. In generale, il confine tra il discorso antisemita e quello che non lo è, è diverso dal confine tra il discorso ragionevole e quello irragionevole.

Firmatari:

Ludo Abicht, Professor Dr., Political Science Department, University of Antwerp

Taner Akçam, Professor, Kaloosdian/Mugar Chair Armenian History and Genocide, Clark University

Gadi Algazi, Professor, Department of History and Minerva Institute for German History, Tel Aviv University

Seth Anziska, Mohamed S. Farsi-Polonsky Associate Professor of Jewish-Muslim Relations, University College London

Aleida Assmann, Professor Dr., Literary Studies, Holocaust, Trauma and Memory Studies, Konstanz University

Jean-Christophe Attias, Professor, Medieval Jewish Thought, École Pratique des Hautes Études, Université PSL Paris

Leora Auslander, Arthur and Joann Rasmussen Professor of Western Civilization in the College and Professor of European Social History, Department of History, University of Chicago

Bernard Avishai, Visiting Professor of Government, Department of Government, Dartmouth College

Angelika Bammer, Professor, Comparative Literature, Affiliate Faculty of Jewish Studies, Emory University

Omer Bartov, John P. Birkelund Distinguished Professor of European History, Brown University

Almog Behar, Dr., Department of Literature and the Judeo-Arabic Cultural Studies Program, Tel Aviv University

Moshe Behar, Associate Professor, Israel/Palestine and Middle Eastern Studies, University of Manchester

Peter Beinart, Professor of Journalism and Political Science, The City University of New York (CUNY); Editor at large, Jewish Currents

Elissa Bemporad, Jerry and William Ungar Chair in East European Jewish History and the Holocaust; Professor of History, Queens College and The City University of New York (CUNY)

Sarah Bunin Benor, Professor of Contemporary Jewish Studies, Hebrew Union College-Jewish Institute of Religion

Wolfgang Benz, Professor Dr., fmr. Director Center for Research on Antisemitism, Technische Universität Berlin

Doris Bergen, Chancellor Rose and Ray Wolfe Professor of Holocaust Studies, Department of History and Anne Tanenbaum Centre for Jewish Studies, University of Toronto

Werner Bergmann, Professor Emeritus, Sociologist, Center for Research on Antisemitism, Technische Universität Berlin

Michael Berkowitz, Professor, Modern Jewish History, University College London

Louise Bethlehem, Associate Professor and Chair of the Program in Cultural Studies, English and Cultural Studies, The Hebrew University of Jerusalem

David Biale, Emanuel Ringelblum Distinguished Professor, University of California, Davis

Leora Bilsky, Professor, The Buchmann Faculty of Law, Tel Aviv University

Monica Black, Associate Professor, Department of History, University of Tennessee, Knoxville

Daniel Blatman, Professor, Department of Jewish History and Contemporary Jewry, The Hebrew University of Jerusalem

Omri Boehm, Associate Professor of Philosophy, The New School for Social Research, New York

Daniel Boyarin, Taubman Professor of Talmudic Culture, UC Berkeley

Christina von Braun, Professor Dr., Selma Stern Center for Jewish Studies, Humboldt University, Berlin

Micha Brumlik, Professor Dr., fmr. Director of Fritz Bauer Institut-Geschichte und Wirkung des Holocaust, Frankfurt am Main

Jose Brunner, Professor Emeritus, Buchmann Faculty of Law and Cohn Institute for the History and Philosophy of Science, Tel Aviv University

Darcy Buerkle, Professor and Chair of History, Smith College

John Bunzl, Professor Dr., The Austrian Institute for International Politics

Michelle U. Campos, Associate Professor of Jewish Studies and History Pennsylvania State University

Francesco Cassata, Professor, Contemporary History Department of Ancient Studies, Philosophy and History, University of Genoa

Naomi Chazan, Professor Emerita of Political Science, The Hebrew University of Jerusalem

Bryan Cheyette, Professor and Chair in Modern Literature and Culture, University of Reading

Stephen Clingman, Distinguished University Professor, Department of English, University of Massachusetts, Amherst

Raya Cohen, Dr., fmr. Department of Jewish History, Tel Aviv University; fmr. Department of Sociology, University of Naples Federico II

Alon Confino, Pen Tishkach Chair of Holocaust Studies, Professor of History and Jewish Studies, Director Institute for Holocaust, Genocide, and Memory Studies, University of Massachusetts, Amherst

Sebastian Conrad, Professor of Global and Postcolonial History, Freie Universität Berlin

Lila Corwin Berman, Murray Friedman Chair of American Jewish History, Temple University

Deborah Dash Moore, Frederick G. L. Huetwell Professor of History and Professor of Judaic Studies, University of Michigan

Natalie Zemon Davis, Professor Emerita, Princeton University and University of Toronto

Sidra DeKoven Ezrahi, Professor Emerita, Comparative Literature, The Hebrew University of Jerusalem

Hasia R. Diner, Professor, New York University

Arie M. Dubnov, Max Ticktin Chair of Israel Studies and Director Judaic Studies Program, The George Washington University

Debórah Dwork, Director Center for the Study of the Holocaust, Genocide and Crimes Against Humanity, Graduate Center, The City University of New York (CUNY)

Yulia Egorova, Professor, Department of Anthropology, Durham University, Director Centre for the Study of Jewish Culture, Society and Politics

Helga Embacher, Professor Dr., Department of History, Paris Lodron University Salzburg

Vincent Engel, Professor, University of Louvain, UCLouvain

David Enoch, Professor, Philosophy Department and Faculty of Law, The Hebrew University of Jerusalem

Yuval Evri, Dr., Leverhulme Early Career Fellow SPLAS, King’s College London

Richard Falk, Professor Emeritus of International Law, Princeton University; Chair of Global Law, School of Law, Queen Mary University, London

David Feldman, Professor, Director of the Institute for the Study of Antisemitism, Birkbeck, University of London

Yochi Fischer, Dr., Deputy Director Van Leer Jerusalem Institute and Head of the Sacredness, Religion and Secularization Cluster

Ulrike Freitag, Professor Dr., History of the Middle East, Director Leibniz-Zentrum Moderner Orient, Berlin

Ute Frevert, Professor of Modern History, Department of History, University of Zurich

Katharina Galor, Professor Dr., Hirschfeld Visiting Associate Professor, Program in Judaic Studies, Program in Urban Studies, Brown University

Chaim Gans, Professor Emeritus, The Buchmann Faculty of Law, Tel Aviv University

Alexandra Garbarini, Professor, Department of History and Program in Jewish Studies, Williams College

Shirli Gilbert, Professor of Modern Jewish History, University College London

Sander Gilman, Distinguished Professor of the Liberal Arts and Sciences; Professor of Psychiatry, Emory University

Shai Ginsburg, Associate Professor, Chair of the Department of Asian and Middle Eastern Studies and Faculty Member of the Center for Jewish Studies, Duke University

Victor Ginsburgh, Professor Emeritus, Université Libre de Bruxelles, Brussels

Carlo Ginzburg, Professor Emeritus, UCLA and Scuola Normale Superiore, Pisa

Snait Gissis, Dr., Cohn Institute for the History and Philosophy of Science and Ideas, Tel Aviv University

Glowacka Dorota, Professor, Humanities, University of King’s College, Halifax

Amos Goldberg, Professor, The Jonah M. Machover Chair in Holocaust Studies, Head of the Avraham Harman Research Institute of Contemporary Jewry, The Hebrew University of Jerusalem

Harvey Goldberg, Professor Emeritus, Department of Sociology and Anthropology, The Hebrew University of Jerusalem

Sylvie-Anne Goldberg, Professor, Jewish Culture and History, Head of Jewish Studies at the Advanced School of Social Sciences (EHESS), Paris

Svenja Goltermann, Professor Dr., Historisches Seminar, University of Zurich

Neve Gordon, Professor of International Law, School of Law, Queen Mary University of London

Emily Gottreich, Adjunct Professor, Global Studies and Department of History, UC Berkeley, Director MENA-J Program

Leonard Grob, Professor Emeritus of Philosophy, Fairleigh Dickinson University

Jeffrey Grossman, Associate Professor, German and Jewish Studies, Chair of the German Department, University of Virginia

Atina Grossmann, Professor of History, Faculty of Humanities and Social Sciences, The Cooper Union, New York

Wolf Gruner, Shapell-Guerin Chair in Jewish Studies and Founding Director of the USC Shoah Foundation Center for Advanced Genocide Research, University of Southern California

François Guesnet, Professor of Modern Jewish History, Department of Hebrew and Jewish Studies, University College London

Ruth HaCohen, Artur Rubinstein Professor of Musicology, The Hebrew University of Jerusalem

Aaron J. Hahn, Tapper Professor, Mae and Benjamin Swig Chair in Jewish Studies, University of San Francisco

Liora R. Halperin, Associate Professor of International Studies, History and Jewish Studies; Jack and Rebecca Benaroya Endowed Chair in Israel Studies, University of Washington

Rachel Havrelock, Professor of English and Jewish Studies, University of Illinois, Chicago

Sonja Hegasy, Professor Dr., Scholar of Islamic Studies and Professor of Postcolonial Studies, Leibniz-Zentrum Moderner Orient, Berlin

Elizabeth Heineman, Professor of History and of Gender, Women’s and Sexuality Studies, University of Iowa

Didi Herman, Professor of Law and Social Change, University of Kent

Deborah Hertz, Wouk Chair in Modern Jewish Studies, University of California, San Diego

Dagmar Herzog, Distinguished Professor of History and Daniel Rose Faculty Scholar Graduate Center, The City University of New York (CUNY)

Susannah Heschel, Eli M. Black Distinguished Professor of Jewish Studies, Chair, Jewish Studies Program, Dartmouth College

Dafna Hirsch, Dr., Open University of Israel

Marianne Hirsch, William Peterfield Trent Professor of Comparative Literature and Gender Studies, Columbia University

Christhard Hoffmann, Professor of Modern European History, University of Bergen

Dr. habil. Klaus Holz, General Secretary of the Protestant Academies of Germany, Berlin

Eva Illouz, Directrice d’etudes, EHESS Paris and Van Leer Institute, Fellow

Jill Jacobs, Rabbi, Executive Director, T’ruah: The Rabbinic Call for Human Rights, New York

Uffa Jensen, Professor Dr., Center for Research on Antisemitism, Technische Universität, Berlin

Jonathan Judaken, Professor, Spence L. Wilson Chair in the Humanities, Rhodes College

Robin E. Judd, Associate Professor, Department of History, The Ohio State University

Irene Kacandes, The Dartmouth Professor of German Studies and Comparative Literature, Dartmouth University

Marion Kaplan, Skirball Professor of Modern Jewish History, New York University

Eli Karetny, Deputy Director Ralph Bunche Institute for International Studies; Lecturer Baruch College, The City University of New York (CUNY)

Nahum Karlinsky, The Ben-Gurion Research Institute for the Study of Israel and Zionism, Ben-Gurion University of the Negev

Menachem Klein, Professor Emeritus, Department of Political Studies, Bar Ilan University

Brian Klug, Senior Research Fellow in Philosophy, St. Benet’s Hall, Oxford; Member of the Philosophy Faculty, Oxford University

Francesca Klug, Visiting Professor at LSE Human Rights and at the Helena Kennedy Centre for International Justice, Sheffield Hallam University

Thomas A. Kohut, Sue and Edgar Wachenheim III Professor of History, Williams College

Teresa Koloma Beck, Professor of Sociology, Helmut Schmidt University, Hamburg

Rebecca Kook, Dr., Department of Politics and Government, Ben Gurion University of the Negev

Claudia Koonz, Professor Emeritus of History, Duke University

Hagar Kotef, Dr., Senior Lecturer in Political Theory and Comparative Political Thought, Department of Politics and International Studies, SOAS, University of London

Gudrun Kraemer, Professor Dr., Senior Professor of Islamic Studies, Freie Universität Berlin

Cilly Kugelman, Historian, fmr. Program Director of the Jewish Museum, Berlin

Tony Kushner, Professor, Parkes Institute for the Study of Jewish/non-Jewish Relations, University of Southampton

Dominick LaCapra, Bowmar Professor Emeritus of History and of Comparative Literature, Cornell University

Daniel Langton, Professor of Jewish History, University of Manchester

Shai Lavi, Professor, The Buchmann Faculty of Law, Tel Aviv University; The Van Leer Jerusalem Institute

Claire Le Foll, Associate Professor of East European Jewish History and Culture, Parkes Institute, University of Southampton; Director Parkes Institute for the Study of Jewish/non-Jewish Relations

Nitzan Lebovic, Professor, Department of History, Chair of Holocaust Studies and Ethical Values, Lehigh University

Mark Levene, Dr., Emeritus Fellow, University of Southampton and Parkes Centre for Jewish/non-Jewish Relations

Simon Levis Sullam, Associate Professor in Contemporary History, Dipartimento di Studi Umanistici, University Ca’ Foscari Venice

Lital Levy, Associate Professor of Comparative Literature, Princeton University

Lior Libman, Assistant Professor of Israel Studies, Associate Director Center for Israel Studies, Judaic Studies Department, Binghamton University, SUNY

Caroline Light, Senior Lecturer and Director of Undergraduate Studies Program in Women, Gender and Sexuality Studies, Harvard University

Kerstin von Lingen, Professor for Contemporary History, Chair for Studies of Genocide, Violence and Dictatorship, Vienna University

James Loeffler, Jay Berkowitz Professor of Jewish History, Ida and Nathan Kolodiz Director of Jewish Studies, University of Virginia

Hanno Loewy, Director of the Jewish Museum Hohenems, Austria

Ian S. Lustick, Bess W. Heyman Chair, Department of Political Science, University of Pennsylvania

Sergio Luzzato, Emiliana Pasca Noether Chair in Modern Italian History, University of Connecticut

Shaul Magid, Professor of Jewish Studies, Dartmouth College

Avishai Margalit, Professor Emeritus in Philosophy, The Hebrew University of Jerusalem

Jessica Marglin, Associate Professor of Religion, Law and History, Ruth Ziegler Early Career Chair in Jewish Studies, University of Southern California

Arturo Marzano, Associate Professor of History of the Middle East, Department of Civilizations and Forms of Knowledge, University of Pisa

Anat Matar, Dr., Department of Philosophy, Tel Aviv University

Manuel Reyes Mate Rupérez, Instituto de Filosofía del CSIC, Spanish National Research Council, Madrid

Menachem Mautner, Daniel Rubinstein Professor of Comparative Civil Law and Jurisprudence, Faculty of Law, Tel Aviv University

Brendan McGeever, Dr., Lecturer in the Sociology of Racialization and Antisemitism, Department of Psychosocial Studies, Birkbeck, University of London

David Mednicoff, Chair Department of Judaic and Near Eastern Studies and Associate Professor of Middle Eastern Studies and Public Policy, University of Massachusetts, Amherst

Eva Menasse, Novelist, Berlin

Adam Mendelsohn, Associate Professor of History and Director of the Kaplan Centre for Jewish Studies, University of Cape Town

Leslie Morris, Beverly and Richard Fink Professor in Liberal Arts, Professor and Chair Department of German, Nordic, Slavic & Dutch, University of Minnesota

Dirk Moses, Frank Porter Graham Distinguished Professor of Global Human Rights History, The University of North Carolina at Chapel Hill

Samuel Moyn, Henry R. Luce Professor of Jurisprudence and Professor of History, Yale University

Susan Neiman, Professor Dr., Philosopher, Director of the Einstein Forum, Potsdam

Anita Norich, Professor Emeritus, English and Judaic Studies, University of Michigan

Xosé Manoel Núñez Seixas, Professor of Modern European History, University of Santiago de Compostela

Esra Ozyurek, Sultan Qaboos Professor of Abrahamic Faiths and Shared Values Faculty of Divinity, University of Cambridge

Ilaria Pavan, Associate Professor in Modern History, Scuola Normale Superiore, Pisa

Derek Penslar, William Lee Frost Professor of Jewish History, Harvard University

Andrea Pető, Professor, Central European University (CEU), Vienna; CEU Democracy Institute, Budapest

Valentina Pisanty, Associate Professor, Semiotics, University of Bergamo

Renée Poznanski, Professor Emeritus, Department of Politics and Government, Ben Gurion University of the Negev

David Rechter, Professor of Modern Jewish History, University of Oxford

James Renton, Professor of History, Director of International Centre on Racism, Edge Hill Universit

Shlomith Rimmon Kenan, Professor Emerita, Departments of English and Comparative Literature, The Hebrew University of Jerusalem; Member of the Israel Academy of Science

Shira Robinson, Associate Professor of History and International Affairs, George Washington University

Bryan K. Roby, Assistant Professor of Jewish and Middle East History, University of Michigan-Ann Arbor

Na’ama Rokem, Associate Professor, Director Joyce Z. And Jacob Greenberg Center for Jewish Studies, University of Chicago

Mark Roseman, Distinguished Professor in History, Pat M. Glazer Chair in Jewish Studies, Indiana University

Göran Rosenberg, Writer and Journalist, Sweden

Michael Rothberg, 1939 Society Samuel Goetz Chair in Holocaust Studies, UCLA

Sara Roy, Senior Research Scholar, Center for Middle Eastern Studies, Harvard University

Miri Rubin, Professor of Medieval and Modern History, Queen Mary University of London

Dirk Rupnow, Professor Dr., Department of Contemporary History, University of Innsbruck, Austria

Philippe Sands, Professor of Public Understanding of Law, University College London; Barrister; Writer

Victoria Sanford, Professor of Anthropology, Lehman College Doctoral Faculty, The Graduate Center, The City University of New York (CUNY)

Gisèle Sapiro, Professor of Sociology at EHESS and Research Director at the CNRS (Centre européen de sociologie et de science politique), Paris

Peter Schäfer, Professor of Jewish Studies, Princeton University, fmr. Director of the Jewish Museum Berlin

Andrea Schatz, Dr., Reader in Jewish Studies, King’s College London

Jean-Philippe Schreiber, Professor, Université Libre de Bruxelles, Brussels

Stefanie Schüler-Springorum, Professor Dr., Director of the Center for Research on Antisemitism, Technische Universität Berlin

Guri Schwarz, Associate Professor of Contemporary History, Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia, Università di Genova

Raz Segal, Associate Professor, Holocaust and Genocide Studies, Stockton University

Joshua Shanes, Associate Professor and Director of the Arnold Center for Israel Studies, College of Charleston

David Shulman, Professor Emeritus, Department of Asian Studies, The Hebrew University of Jerusalem

Dmitry Shumsky, Professor, Israel Goldstein Chair in the History of Zionism and the New Yishuv, Director of the Bernard Cherrick Center for the Study of Zionism, the Yishuv and the State of Israel, Department of Jewish History and Contemporary Jewry, The Hebrew University of Jerusalem

Marcella Simoni, Professor of History, Department of Asian and North African Studies, Ca’ Foscari University, Venice

Santiago Slabodsky, The Robert and Florence Kaufman Endowed Chair in Jewish Studies and Associate Professor of Religion, Hofstra University, New York

David Slucki, Associate Professor of Contemporary Jewish Life and Culture, Australian Centre for Jewish Civilisation, Monash University, Australia

Tamir Sorek, Liberal Arts Professor of Middle East History and Jewish Studies, Penn State University

Levi Spectre, Dr., Senior Lecturer at the Department of History, Philosophy and Judaic Studies, The Open University of Israel; Researcher at the Department of Philosophy, Stockholm University, Sweden

Michael P. Steinberg, Professor, Barnaby Conrad and Mary Critchfield Keeney Professor of History and Music, Professor of German Studies, Brown University

Lior Sternfeld, Assistant Professor of History and Jewish Studies, Penn State Univeristy

Michael Stolleis, Professor of History of Law, Max Planck Institute for European Legal History, Frankfurt am Main

Mira Sucharov, Professor of Political Science and University Chair of Teaching Innovation, Carleton University Ottawa

Adam Sutcliffe, Professor of European History, King’s College London

Aaron J. Hahn Tapper, Professor, Mae and Benjamin Swig Chair in Jewish Studies, University of San Francisco

Anya Topolski, Associate Professor of Ethics and Political Philosophy, Radboud University, Nijmegen

Barry Trachtenberg, Associate Professor, Rubin Presidential Chair of Jewish History, Wake Forest University

Emanuela Trevisan Semi, Senior Researcher in Modern Jewish Studies, Ca’ Foscari University of Venice

Heidemarie Uhl, PhD, Historian, Senior Researcher, Austrian Academy of Sciences, Vienna

Peter Ullrich, Dr. Dr., Senior Researcher, Fellow at the Center for Research on Antisemitism, Technische Universität Berlin

Uğur Ümit Üngör, Professor and Chair of Holocaust and Genocide Studies, Faculty of Humanities, University of Amsterdam; Senior Researcher NIOD Institute for War, Holocaust and Genocide Studies, Amsterdam

Nadia Valman, Professor of Urban Literature, Queen Mary, University of London

Dominique Vidal, Journalist, Historian and Essayist

Alana M. Vincent, Associate Professor of Jewish Philosophy, Religion and Imagination, University of Chester

Vered Vinitzky-Seroussi, Head of The Truman Research Institute for the Advancement of Peace, The Hebrew University of Jerusalem

Anika Walke, Associate Professor of History, Washington University, St. Louis

Yair Wallach, Dr., Senior Lecturer in Israeli Studies School of Languages, Cultures and Linguistics, SOAS, University of London

Michael Walzer, Professor Emeritus, Institute for Advanced Study, School of Social Science, Princeton

Dov Waxman, Professor, The Rosalinde and Arthur Gilbert Foundation Chair in Israel Studies, University of California (UCLA)

Ilana Webster-Kogen, Joe Loss Senior Lecturer in Jewish Music, SOAS, University of London

Bernd Weisbrod, Professor Emeritus of Modern History, University of Göttingen

Eric D. Weitz, Distinguished Professor of History, City College and the Graduate Center, The City University of New York (CUNY)

Michael Wildt, Professor Dr., Department of History, Humboldt University, Berlin

Abraham B. Yehoshua, Novelist, Essayist and Playwright

Noam Zadoff, Assistant Professor in Israel Studies, Department of Contemporary History, University of Innsbruck

Tara Zahra, Homer J. Livingston Professor of East European History; Member Greenberg Center for Jewish Studies, University of Chicago

José A. Zamora Zaragoza, Senior Researcher, Instituto de Filosofía del CSIC, Spanish National Research Council, Madrid

Lothar Zechlin, Professor Emeritus of Public Law, fmr. Rector Institute of Political Science, University of Duisburg

Yael Zerubavel, Professor Emeritus of Jewish Studies and History, fmr. Founding Director Bildner Center for the Study of Jewish Life, Rutgers University

Moshe Zimmermann, Professor Emeritus, The Richard Koebner Minerva Center for German History, The Hebrew University of Jerusalem

Steven J. Zipperstein, Daniel E. Koshland Professor in Jewish Culture and History, Stanford University

Moshe Zuckermann, Professor Emeritus of History and Philosophy, Tel Aviv University

https://jerusalemdeclaration.org/

Traduzione di Elisabetta Valento – AssoPacePalestina




Orizzonte Palestina: vincere la partita a lungo termine

Richard Falk

21 marzo 2021 – Global Justice in the 21st Century

Il bilancio palestinese: vittorie normative, delusioni geopolitiche

Vincere la partita a lungo termine

Nelle scorse settimane il popolo palestinese ha ottenuto importanti vittorie che potrebbero avere serie conseguenze per Israele se la legge e l’etica governassero il futuro politico. Invece a questi successi si contrappongono sviluppi geopolitici avversi dato che la presidenza Biden ha accolto alcuni dei peggiori aspetti dell’assoluta partigianeria di Trump riguardo a Israele/Palestina. La legge e l’etica incidono sulla reputazione, influenzano la legittimità di politiche contestate, mentre la geopolitica incide più direttamente sui comportamenti. La differenza è meglio compresa separando le politiche simboliche da quelle concrete.

Eppure le conquiste relative alla legittimità non dovrebbero essere scartate solo perché niente che importi sul terreno sembra cambiare, e a volte per vendetta cambia in peggio. Nella lunga partita del cambiamento sociale e politico, soprattutto nel corso degli ultimi 75 anni, il vincitore della guerra per la legittimazione, intrapresa per conquistare terreno sul piano legale ed etico e la ricompensa per l’intensità dell’impegno politico, alla fine lungo il percorso ha per lo più determinato il risultato della lotta per l’autodeterminazione nazionale e per l’indipendenza, superando gli ostacoli geopolitici e la superiorità militare. Finora la dirigenza israeliana, benché preoccupata delle battute d’arresto nel campo di battaglia della guerra per la legittimazione, non si è allontanata dalla strategia americana di concepire la sicurezza attraverso una combinazione di capacità militari e attività regionale, alleandosi contro l’Iran e sovvertendo nel contempo l’unità e la stabilità di Stati vicini potenzialmente ostili.

È fondamentale la grande lezione dell’ultimo secolo che non è stata appresa secondo la quale nella guerra del Vietnam gli USA erano superiori in quanto a potenza militare, eppure sono riusciti a perderla. Perché non è stata appresa? Perché se lo fosse stata, la necessità di un bilancio militare da permanente stato di guerra sarebbe svanita e l’ostinata convinzione mitica che ‘il nostro esercito ci garantisce la sicurezza’ avrebbe perso molta della sua credibilità.

Con il presidente Biden, che riprende una geopolitica conflittuale basata sulle alleanze, la prospettiva è quella di un peggioramento pericoloso e costoso delle relazioni tra le principali potenze economiche e militari mondiali, evitando il tipo di riallocazione delle risorse urgentemente necessaria per affrontare le sfide dell’Antropocene. Possiamo lamentare la disfunzionalità del militarismo globale, ma come possiamo raggiungere la forza politica per sfidarlo? Questa è la domanda che dovremmo fare ai nostri politici, senza distoglierli dall’affrontare le urgenze della politica interna che riguardano salute, rilancio dell’economia e attacchi al diritto di voto.

La lotta dei palestinesi prosegue e offre il modello di una guerra coloniale portata avanti in un’epoca post-coloniale, in cui un potente regime oppressivo sostenuto dal consenso geopolitico è necessario per consentire a Israele di andare controcorrente opponendosi alle potenti maree di libertà della storia. Israele ha dimostrato di essere uno Stato colonialista di insediamento pieno di risorse che ha portato a compimento il progetto sionista per tappe e con il fondamentale aiuto del potere geopolitico e che solo di recente ha iniziato a perdere il controllo del discorso normativo in precedenza controllato attraverso la drammatizzazione della vicenda degli ebrei perseguitati in Europa che meritavano un luogo sicuro, insieme al rifiuto negazionista delle rivendicazioni nazionali dei palestinesi di stare al sicuro nella loro stessa patria. I palestinesi, senza rapporti significativi con la storia dell’antisemitismo, hanno pagato i costi umani inflitti agli ebrei dall’Olocausto, mentre l’Occidente democratico assisteva nel più totale silenzio. Questo discorso unilaterale è stato rafforzato in nome dei benefici della modernità, insistendo sulla sostituzione della sordida arretrata stagnazione araba in Palestina con un’egemonia ebraica dinamica, moderna e fiorente, che in seguito è stata anche considerata come un avamposto occidentale in una regione ambita per le sue riserve di energia e più di recente temuta per il suo estremismo contro l’Occidente e per la rivolta islamista. Il conflitto per la terra e l’identità ideologica dello Stato emergente, sviluppata per un secolo, ha conosciuto molte fasi ed è stata interessata, quasi sempre sfavorevolmente, da sviluppi regionali e interventi geopolitici dall’esterno.

Come nel caso di altre lotte anticoloniali, il destino dei palestinesi prima o poi si invertirà se le lotte del popolo vittimizzato potrà durare più del molteplice potere congiunto dello Stato repressore e, come in questo caso, degli interessi regionali e strategici di attori geopolitici. Può il popolo palestinese garantirsi i diritti fondamentali attraverso la sua stessa lotta condotta contro un insieme di forze interne/esterne, basandosi sulla resistenza palestinese all’interno e sulle campagne di solidarietà internazionali dall’estero? Questa è la natura della partita di lungo termine palestinese e attualmente la sua traiettoria è celata tra le mistificazioni e le contraddizioni di una storia che si sviluppa a livello nazionale, regionale e globale.

Le vittorie normative dei palestinesi

Cinque anni fa nessuna persona sensata avrebbe previsto che B’Tselem, la più autorevole ong israeliana per i diritti umani, avrebbe reso pubblico un rapporto in cui si afferma che Israele ha formato uno Stato unico di apartheid che governa dal fiume Giordano al mare Mediterraneo, che include cioè non solo la Palestina occupata, ma lo stesso Israele. (This is Apartheid: A regime of Jewish Supremacy from the Jordan River to the Mediterranean Sea [Questo è apartheid: un regime di supremazia ebraica dal mare Giordano al mare Mediterraneo], B’Tselem: The Israeli Information Center for Human Rights in Occupied Territory, 12 Jan 2021).[cfr la versione italiana]

Attentamente analizzato, il rapporto mostra che le politiche e le prassi israeliane rispetto all’immigrazione, ai diritti sulla terra, alla residenza e alla mobilità sono state gestite in accordo con un contesto preminente di supremazia ebraica e, in base a questa logica, di sottomissione dei palestinesi (più precisamente dei non ebrei, inclusi i drusi e i cristiani non arabi). Tale assetto politico discriminatorio e di sfruttamento si qualifica come apartheid, come inizialmente instaurato in Sudafrica e poi reso universale come crimine a livello internazionale nella Convenzione Internazionale sull’Eliminazione e la Punizione del Crimine di Apartheid. Questa idea del carattere criminale dell’apartheid è stata portata avanti nello Statuto di Roma, che rappresenta il contesto nel quale la Corte Penale Internazionale dell’Aia svolge le proprie attività. L’articolo 7 dello Statuto di Roma, un trattato tra le parti che regola la CPI, elenca i vari crimini contro l’umanità su cui la CPI esercita la propria autorità giurisdizionale. Nell’articolo 7(j) l’apartheid è definito come tale, benché senza alcuna definizione che l’accompagni, e non c’è mai stata un’indagine della CPI per accuse di apartheid che abbia coinvolto i responsabili israeliani. È significativo che vedere l’‘apartheid’ come crimine contro l’umanità ridurrebbe, rispetto alle accuse di ‘genocidio’, l’onere della prova.

Poche settimane dopo il rapporto di B’Tselem, il 6 febbraio 2021 è arrivata la tanto attesa decisione della Camera preliminare della CPI. Con una votazione di 2 a 1 la decisione della Camera ha stabilito l’autorità di Fatou Bensouda, la procuratrice generale della CPI, di procedere con un’indagine per crimini di guerra commessi dal 2014 nei territori palestinesi occupati, come definiti geograficamente dai suoi confini provvisori del 1967.

Per raggiungere questo obiettivo la decisione ha dovuto fare due importanti affermazioni: primo, che la Palestina, benché priva di molte attribuzioni della statualità come definita dalle leggi internazionali, si configura come uno Stato per le finalità di questo procedimento della CPI, essendo stata accettata nel 2014 come Stato membro dello Statuto di Roma dopo essere stata riconosciuta dall’Assemblea Generale il 29 novembre 2012 come “Stato osservatore non-membro”; secondo, che la giurisdizione della CPI per indagare crimini commessi nel suo territorio, la Palestina è stata autorevolmente identificata come la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, cioè i territori occupati da Israele durante la guerra del 1967.

Con una decisione che intendeva dare l’impressione di autolimitazione giurisdizionale, è stato sottolineato che queste situazioni giudiziarie sono state limitate ai fatti e alle richieste presi in considerazione e non pretendono di giudicare in anticipo la statualità o le rivendicazioni territoriali di Israele o della Palestina in altri contesti. L’opposizione di lunga data a questa impostazione ha rifiutato questo ragionamento, basandosi prevalentemente sull’attuale vigenza degli accordi conclusi dalla diplomazia di Oslo che avrebbe modificato lo status dell’occupazione ed avrebbe la prevalenza, concludendo che la procuratrice generale non ha competenza giuridica per procedere con l’indagine (il futuro di questo procedimento giudiziario è incerto, dato che l’ incarico dell’attuale procuratrice termina nel giugno 2021 e subentra un nuovo procuratore, Karim Khan).

Andrebbe rilevato che questo procedimento preliminare ha insolitamente attirato un interesse generale in tutto il mondo sia per l’identità delle parti che per l’intrigante carattere delle questioni. I giuristi sono stati a lungo interessati alla definizione di statualità in relazione a diversi ambiti giudiziari, e hanno definito dispute legali affrontando questioni sollevate in territori senza confini stabiliti in modo definitivo e in mancanza di una chiara definizione dell’autorità sovrana. Un numero senza precedenti di memorie sono state presentate alla CPI da “amicus curiae” [parti terze che intervengono in un procedimento con considerazioni giuridiche presso un tribunale, ndtr.], anche di eminenti figure di entrambe le parti della controversia. (Io ne ho presentata una con la collaborazione del ricercatore di Al Haq [Ong palestinese per i diritti umani, ndtr.] Pearce Clancy. ‘The Situation in Palestine,’ amicus curiae Submissions Pursuant to Rule 103, ICC-01/18, 16 March 2020). Israele non è uno Stato membro dello Statuto di Roma e si è rifiutato di partecipare direttamente al procedimento, ma le sue posizioni sono state ben articolate da varie memorie di amicus curiae. (Ad esempio di Dennis Ross, che ha guidato i negoziati di pace all’epoca di Clinton tra Israele e Palestina (‘Observations on Issues Raised by Prosecution for a ruling on the Court’s territorial jurisdiction in Palestine,’ ICC-01/18, 16 March 2020).

Dal punto di vista palestinese questa decisione fa ben sperare, in quanto un’esaustiva indagine preliminare condotta dalla procura nel corso degli ultimi sei anni ha già concluso che ci sono molte ragioni per credere che in Palestina siano stati commessi crimini da parte di Israele e di Hamas, soprattutto in riferimento a questi tre contesti: 1) la massiccia operazione militare delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] nel 2014 a Gaza, nota come “Margine protettivo”; 2) l’uso sproporzionato della forza da parte delle IDF in risposta alle proteste per il diritto al ritorno nel 2018; 3) l’attività di colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme est.

Ora è stato stabilito dal punto di vista giuridico che la procura può procedere anche all’ identificazione di singoli responsabili che potrebbero essere imputati e chiamati a rispondere delle proprie azioni.

Se ciò avverrà dipende ora dall’approccio adottato da Khan quando in giugno assumerà il ruolo di procuratore, il che rimane un mistero nonostante alcune supposizioni.

Un’ulteriore vittoria dei palestinesi è la defezione di sionisti progressisti molto autorevoli e noti che, per così dire, non sono rinsaviti, ma ne hanno parlato apertamente e regolano l’accesso ai principali media. Peter Beinert è l’esempio più significativo nel contesto americano, ma il suo annunciato scetticismo sulla volontà da parte di Israele di trovare un accordo con i palestinesi su una qualunque base ragionevole è un’ulteriore vittoria nel campo della politica simbolica.

Delusioni geopolitiche

È stato ragionevole per la Palestina e i palestinesi sperare che la più moderata presidenza Biden avrebbe ribaltato le iniziative più dannose prese da Trump e che sembravano compromettere ulteriormente il potere negoziale palestinese, così come hanno violato significativamente i diritti fondamentali dei palestinesi e lo hanno negando l’autorità sia dell’ONU che delle leggi internazionali.

Il segretario di Stato di Biden, Antony Blinken, ha inviato segnali in merito alle questioni più significative che sono sembrati confermare e ratificare piuttosto che invertire o modificare l’attività diplomatica di Trump. Blinken ha affermato quello che Biden ha fatto intendere riguardo allo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e quindi si è unito a Trump nella sfida alla risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU del 2017 che affermava che questa iniziativa era “non valida” e priva di effetti giuridici. Blinken ha anche sostenuto l’annessione da parte di Israele delle Alture del Golan, che è un’ulteriore sfida alle leggi internazionali e all’ONU, che ha difeso un saldo principio, in precedenza sostenuto nella storica Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU riguardo all’occupazione israeliana dei territori palestinesi dopo la guerra del 1967. Questo testo confermò che un territorio estero non può essere acquisito con la forza ed ha previsto il ritiro israeliano sui confini del 1967 (modificati da negoziati relativi a trascurabili aggiustamenti di confine in accordo tra le parti).

E Blinken ha soprattutto appoggiato gli accordi di normalizzazione tra Israele e quattro Stati musulmani (EAU, Bahrain, Sudan, Marocco) raggiunti da Trump con metodi vessatori e il perseguimento di interessi personali. Ci sono state vittorie principalmente simboliche di Israele relative all’accettazione a livello regionale e a credenziali di legittimità, così come il contenimento regionale e prese di posizione di rifiuto contro l’Iran. Per molti aspetti esse ampliano precedenti sviluppi di fatto con un impatto minimo sulle dinamiche tra Israele e Palestina.

Valutare vittorie e sconfitte

Finora l’ira israeliana contro la CPI prevale sulle sconfitte geopolitiche palestinesi, essendo queste ultime ridotte probabilmente dalle chiare speranze persistenti di un rapporto parzialmente migliore tra l’ANP, gli Usa e i Paesi dell’UE. E ci sono state alcune giuste modifiche, compresa l’annunciata volontà di riaprire i centri di informazione dell’OLP negli USA, la ripresa dei contatti diplomatici tra Washington e l’Autorità Nazionale Palestinese, e qualche dichiarazione che suggerisce un ritorno alla diplomazia in contrasto con il tentativo di Trump di dettare i termini di una vittoria israeliana presentata come “l’accordo del secolo”.

Eppure le prime iniziative di Biden in questioni politiche meno controverse per rimediare il più possibile ai danni di Trump a livello internazionale, dal ritorno all’Accordo di Parigi sul Cambiamento Climatico, all’OMS e al Consiglio ONU per i Diritti Umani per esprimere l’intenzione di ribadire la cooperazione internazionale e un redivivo internazionalismo, contrastano con il fatto di lasciare immutati i peggiori aspetti del tentativo di Trump di infrangere le speranze dei palestinesi. Che ciò possa essere spiegato con la forza dell’appoggio bipartisan negli USA al rapporto incondizionato con Israele o da fattori strategici regionali è oggetto di congetture.

Forse la spiegazione più plausibile è il passato filoisraeliano dello stesso Biden, insieme al suo proclamato impegno per unificare l’America, lavorando il più possibile con i repubblicani. Il suo motto totemico sembra essere “insieme possiamo fare tutto”, che finora non ha ricevuto molto incoraggiamento dall’altro schieramento.

Ciò che potrebbe far sperare in parte i palestinesi è il livello in cui questi due sviluppi sono stati un terreno di scontro per quanti difendono Israele in ogni modo. Persino Jimmy Carter è stato umiliato come “antisemita” perché nel titolo il suo libro del 2007 suggerisce semplicemente che Israele deve fare la pace con i palestinesi o rischia di diventare uno Stato di apartheid. Si ricordi che l’osservazione piuttosto banale di John Kerry secondo cui Israele aveva ancora due anni per fare la pace con i palestinesi nel contesto di Oslo per evitarsi un futuro di apartheid ha incontrato una reazione talmente ostile che egli è stato portato a chiedere scusa per queste considerazioni, rinnegando più o meno ciò che sembrava così plausibile quando lo aveva affermato.

Nel 2017 uno studio accademico commissionato dall’ONU, che ho scritto insieme a Virginia Tilley e che confermava le accuse di apartheid, è stato denunciato al Consiglio di Sicurezza come un documento diffamatorio indegno di essere associato all’ONU. Le affermazioni critiche sono state accompagnate da velate minacce americane di ritirare finanziamenti all’ONU se il nostro rapporto non fosse stato sconfessato, ed esso è stato diligentemente tolto dal sito web dell’ONU per ordine del Segretario Generale [il socialista portoghese António Guterres, ndtr.]. Ormai nei contesti internazionali persino la maggior parte dei militanti sionisti preferisce il silenzio piuttosto che organizzare attacchi contro B’Tselem, una volta molto apprezzata dai sionisti progressisti come prova tangibile che Israele è “l’unica democrazia del Medio Oriente.”

Le reazioni alla decisione della CPI da parte di Israele raggiungono livelli apodittici di intensità. La furibonda risposta di Netanyahu è stata ripresa da tutto lo spettro della politica israeliana. Secondo la vergognosa calunnia contro la CPI: “Quando la CPI indaga su Israele per falsi crimini di guerra ciò è puro e semplice antisemitismo.” Ed ha aggiunto: “Lotteremo con tutte le nostre forze contro questa perversione della giustizia.” In quanto così smodati, questi commenti dimostrano che a Israele interessano molto le questioni di legittimità, e a ragione. Le leggi internazionali e l’etica possono essere sfidate come Israele ha fatto ripetutamente nel corso degli anni, ma è profondamente sbagliato supporre che alla dirigenza israeliana non interessino. Mi pare che i leader israeliani comprendano che il razzismo sudafricano è crollato in buona misura perché ha perso la guerra per la legittimità. Forse alcuni dirigenti israeliani hanno iniziato a capirlo. La decisione della CPI potrebbe risultare un punto di svolta proprio come il massacro di Sharpeville del 1965 [in realtà nel 1960. La polizia sudafricana uccise 70 persone e oltre 180 furono ferite, ndtr.]. Potrebbe essere così persino se, come è probabile, neppure un israeliano venisse portato davanti alla CPI per essere giudicato.

RICHARD FALK

Richard Falk è uno studioso di Diritto Internazionale e Relazioni Internazionali che ha insegnato per quarant’anni all’università di Princeton. Dal 2002 vive a Santa Barbara, California, ha insegnato Studi Globali e Internazionali nel campus dell’università della California e dal 2005 presiede il consiglio della Fondazione per la Pace nell’Epoca Nucleare. Ha iniziato questo blog in parte per festeggiare i suoi 80 anni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La CPI[Corte Penale Internazionale] avvia un’inchiesta per crimini di guerra in Palestina

Maureen Clare Murphy

3 marzo 2021 – Electronic Intifada

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che probabilmente nell’ambito dell’inchiesta della CPI verrà inquisito, ha definito la Corte “antisemita”.

Mercoledì la procuratrice capo Fatou Bensouda ha confermato che la Corte Penale Internazionale ha aperto un’indagine formale sui crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

L’annuncio di Bensouda è stato accolto dalle associazioni palestinesi per i diritti umani che hanno guidato questi tentativi come “una giornata storica nella pluridecennale campagna palestinese per la giustizia internazionale e la definizione delle responsabilità.”

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che probabilmente verrà sottoposto a indagine dalla CPI, ha definito l’inchiesta come “l’essenza dell’antisemitismo”.

L’annuncio di un’indagine da parte della CPI è giunto meno di un mese dopo che un collegio giudicante ha confermato che la giurisdizione territoriale della Corte si estende ai territori palestinesi sotto occupazione militare da parte di Israele.

Nel dicembre 2019 Bensouda ha concluso una lunga indagine preliminare affermando che i criteri per un’inchiesta per crimini di guerra in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza erano stati rispettati.

L’indagine della Corte Penale Internazionale riguarderà crimini commessi dal giugno 2014, quando la situazione in Palestina è stata presentata al tribunale internazionale.

Obbligato ad agire”

Bensouda ha affermato che il suo ufficio “definirà delle priorità” per l’inchiesta “alla luce dei problemi operativi che dobbiamo affrontare a causa della pandemia, delle risorse limitate a nostra disposizione e del pesante carico di lavoro attuale.”

Ha aggiunto che in situazioni in cui il procuratore definisce la fondatezza di un’indagine, l’ufficio della procura “è obbligato ad agire”.

Il prossimo passo della Corte sarà la notifica a Israele e alle autorità palestinesi, che consente a ogni Stato firmatario di condurre importanti indagini “su propri cittadini o altri che ricadano sotto la sua giurisdizione” riguardo a crimini di competenza della CPI.

In base al principio della complementarietà, secondo cui “gli Stati hanno la responsabilità primaria e il diritto di perseguire crimini internazionali”, la CPI rinvia a indagini interne del Paese, ove queste esistano.

Israele ha un sistema di auto-indagine, anche se esso è descritto da B’Tselem, principale organizzazione per i diritti umani del Paese, come un meccanismo di insabbiamento che protegge la dirigenza militare e politica dal rendere conto delle proprie azioni.

Alla fine del 2019 Bensouda ha affermato che “in questa fase” il giudizio del suo ufficio “riguardo alla portata e all’affidabilità” dei procedimenti interni di Israele “è ancora in corso”.

Tuttavia “ha concluso che i casi potenziali riguardanti crimini che si presume siano stati commessi da membri di Hamas e dei GAP (Gruppi Armati Palestinesi) sarebbero al momento ammissibili.”

Nella sua dichiarazione di mercoledì Bensouda ha detto che il giudizio sulla complementarietà “continuerà” e ha suggerito che la materia venga definita da un collegio giudicante in una camera preliminare.

Dato che il processo di colonizzazione della Cisgiordania da parte di Israele è indubitabilmente una politica statale sostenuta dai governanti al più alto livello, ciò sarà probabilmente uno dei principali obiettivi dell’indagine della CPI.

Come la questione della giurisdizione territoriale, la complementarietà sarà probabilmente un punto critico fondamentale dell’inchiesta della Corte sulla Palestina.

Massima urgenza”

Mercoledì, accogliendo positivamente l’annuncio di Bensouda, le associazioni palestinesi per i diritti umani hanno raccomandato “che non ci siano indebiti ritardi e che si proceda con la massima urgenza.”

Ma Bensouda ha previsto un procedimento tutt’altro che rapido, affermando che “le indagini richiedono tempo e devono essere fondate in modo oggettivo su fatti e leggi.”

Ha invitato alla pazienza “le vittime palestinesi e israeliane e le comunità colpite,” aggiungendo che “la CPI non è una panacea.”

Alludendo a un’argomentazione da parte di alleati di Israele secondo cui un’inchiesta danneggerebbe futuri negoziati bilaterali, Bensouda ha affermato che “il perseguimento della pace e della giustizia dovrebbero essere visti come imperativi che si rafforzano a vicenda.”

Mercoledì Bensouda ha affermato che la Corte concentrerà “la sua attenzione sui presunti colpevoli più noti o su coloro che potrebbero essere i maggiori responsabili dei crimini.”

Nella sua richiesta alla camera preliminare sulla giurisdizione territoriale Bensouda ha citato la promessa di Netanyahu durante la campagna elettorale [del 2020] di annettere territori in Cisgiordania.

I media hanno informato che il governo israeliano ha una lista di centinaia di personalità che potrebbero essere indagate e perseguite dalla Corte, che giudica individui e non Stati.

Fonti ufficiali israeliane affermano che alcuni Stati membri della CPI “hanno concordato di avvertire in anticipo Israele di ogni eventuale mandato di cattura” contro suoi cittadini al momento dell’arrivo nei rispettivi Paesi.

Far filtrare informazioni che potrebbero consentire a sospetti di sfuggire alle indagini o all’arresto violerebbe probabilmente l’obbligo che hanno gli Stati membri in base allo Statuto di Roma che ha fondato la CPI di collaborare con il lavoro della Corte.

Pressioni politiche

Mercoledì Bensouda ha detto che “contiamo sull’appoggio e sulla cooperazione delle parti (Israele e i gruppi armati palestinesi), così come su tutti gli Stati membri dello Statuto di Roma.”

Tuttavia la CPI verrà sottoposta a terribili pressioni politiche in quanto potenze come gli USA, il Canada e l’Australia si oppongono a qualunque inchiesta contro il loro alleato Israele.

Lo scorso anno il Canada ha minacciato in modo appena velato di ritirare l’appoggio finanziario alla CPI se dovesse procedere con un’inchiesta.

A Washington l’amministrazione Trump ha imposto sanzioni economiche e restrizioni dei visti contro Bensouda e membri del suo staff.

Queste misure estreme pongono il personale della Corte accanto a “terroristi e narcotrafficanti” o a individui e gruppi che lavorano a favore di Paesi sottoposti a sanzioni da parte degli USA.

Mentre il presidente Joe Biden ha firmato una raffica di ordini esecutivi che annullano misure prese dal suo predecessore, il nuovo leader USA ha consentito che rimangano in vigore le sanzioni contro la CPI.

Di fronte a pressioni per togliere le sanzioni, la Casa Bianca ha solo promesso di “analizzarle attentamente.”

Durante la sua prima telefonata con il presidente Biden, Netanyahu lo ha esortato a lasciare in vigore le sanzioni.

Nel contempo Israele ha rivolto il proprio livore contro i difensori dei diritti umani dei palestinesi, in particolare contro quanti sono coinvolti nelle istituzioni della giustizia internazionale come la CPI.

Le sue tattiche hanno incluso “arresti arbitrari, divieti di spostamento e revoca della residenza, così come attacchi contro organizzazioni palestinesi per i diritti umani, comprese irruzioni [nelle loro sedi].”

Mercoledì Balkees Jarrah, direttore aggiunto di Human Rights Watch [importante Ong internazionale per i diritti umani con sede a New York, ndtr.], ha affermato che “gli Stati membri della CPI dovrebbero essere pronti a difendere tenacemente il lavoro della Corte da ogni pressione politica.”

Jarrah ha aggiunto che “tutti gli occhi saranno puntati sul prossimo procuratore, Karim Khan, perché prenda il testimone e proceda speditamente dimostrando una salda autonomia nel cercare di chiedere conto delle loro azioni anche ai più potenti.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Facebook, dobbiamo parlarne”: sulla distinzione tra antisemitismo e antisionismo negli spazi pubblici

Benay Blend

22 febbraio 2021 – Palestine Chronicle

Nel gennaio 2021 Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, associazione di ebrei antisionisti, ndtr.] (JVP) ha annunciato la campagna internazionale “Facebook, we need to talk” [Facebook, dobbiamo parlarne] sull’indagine del gigante delle reti sociali per stabilire se le critiche contro il movimento sionista “rientrino all’interno della categoria ‘discorsi d’odio’ in base agli standard della comunità di Facebook.”

Nella sua forma corrente la discussione riguarda il fatto di obbligare università, piattaforme delle reti sociali e altri spazi pubblici ad adottare le norme dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, a cui aderiscono 31 Paesi, ndtr.] (IHRA), che definisce l’odierno antisemitismo includendo “la negazione del diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele sia un comportamento razzista” e “applicando un doppio standard” nei confronti di Israele, nel complesso una definizione che in pratica bloccherebbe qualunque critica dello Stato sionista.

Secondo Lara Friedman l’obiettivo delle organizzazioni sioniste che hanno fatto pressioni per questa iniziativa “non è quello di fare sì che Facebook escluda dalla piattaforma l’antisemitismo, ma le critiche a Israele.”

In risposta, centinaia di attivisti, intellettuali ed artisti di tutto il mondo hanno lanciato una petizione per evitare che Facebook non includa nella sua politica riguardante i discorsi di odio “sionista” come categoria protetta, cioè tratti “sionista” come un equivalente di “ebreo o ebraico”. Nelle prime 24 ore la lettera aperta ha raccolto oltre 14.500 firme, tra cui quelle di personalità come Hanan Ashrawi [nota politica palestinese, ndtr.], Norita Cortiñas [cofondatrice delle Madres de Plaza de Mayo in Argentina, ndtr.], Wallace Shawn [attore e commediografo statunitense, ndtr.] e Peter Gabriel [famoso cantante rock inglese, ndtr.].

La petizione sottolinea che “collaborare con la richiesta del governo israeliano danneggerebbe i tentativi di sradicare l’antisemitismo, priverebbe i palestinesi di uno spazio fondamentale per esporre al mondo il proprio punto di vista politico e contribuirebbe ad impedire che il governo israeliano debba rendere conto delle sue violazioni dei diritti dei palestinesi.”

Questi punti sono particolarmente importanti in quanto la Corte Penale Internazionale sta avviando un’indagine su Israele per crimini di guerra, e quindi ogni notizia su questa inchiesta sarebbe definita antisemita. Oltretutto il tentativo di utilizzare il termine “sionista” come sinonimo di popolo ebraico implicherebbe che ogni ebreo pensi allo stesso modo, il che di per sé è un’affermazione razzista, indipendentemente dal gruppo a cui si fa riferimento nell’argomentazione.

Affermazioni come “tutti i neri sono…,” “tutte le donne sono…” e via di seguito sono considerate ragionamenti che non consentono il libero arbitrio e in genere riducono la popolazione presa di mira ai peggiori luoghi comuni. Ciò banalizza l’antisemitismo reale, per cui quando viene evidenziata questa forma di fanatismo la risposta potrebbe essere il rifiuto di credere a una accusa simile.

Pertanto confondere il sionismo con l’ebraismo non contribuisce per niente a fa sì che il popolo ebraico sia più sicuro contro affermazioni razziste. Anzi, come sostiene la petizione,

quanti alimentano l’antisemitismo in rete continueranno a farlo, con o senza la parola “sionista”. Di fatto molti antisemiti, soprattutto tra i suprematisti bianchi e i cristiano-sionisti evangelici appoggiano esplicitamente il sionismo e Israele, impegnandosi nel contempo in discorsi e azioni che disumanizzano, insultano e isolano il popolo ebraico.”

Cosa altrettanto grave, opporsi all’iniziativa di Facebook solo sulla base della libertà di parola mette al centro i valori occidentali, mentre sono in effetti i palestinesi che sono privati dei loro diritti sotto l’occupazione [israeliana].

Ovviamente la libertà di sostenere la causa palestinese senza timore di intimidazioni da parte di organizzazioni sioniste o di rappresaglie da parte del governo è una questione importante. Nel passato il fatto di essersi concentrati sulla libertà di parola è stata una tattica da parte di gruppi progressisti che volevano coinvolgere un pubblico più ampio. Tuttavia ciò pone al centro preoccupazioni dei gruppi dominanti dei Paesi centrali, il nostro diritto alla libertà di parola, mentre ai palestinesi vengono negati nella loro vita quotidiana diritti molto più significativi.

Questo tentativo di soffocare l’antisionismo è parte di un modello emergente da parte di Israele e dei suoi sostenitori, ma finora ciò è stato limitato a censurare discussioni riguardo al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) sulla base dell’effettivo successo della campagna. Tuttavia pare che i tentativi di criminalizzare il discorso si siano estesi fino ad includere qualunque critica alle pratiche sioniste.

Secondo la petizione di JVP, questi tentativi “proibirebbero ai palestinesi di condividere con il resto del mondo le proprie esperienze e storie quotidiane, che sia una foto con le chiavi della casa persa dai loro nonni quando vennero attaccati da milizie sioniste nel 1948 o siano immagini in diretta di coloni sionisti che vandalizzano i loro ulivi nel 2021. E ciò impedirebbe agli utenti ebrei di discutere del proprio rapporto con l’ideologia politica sionista.”

Il fatto che Facebook ceda o meno alle pressioni,” nota Friedman, dipenderà da “se l’opinione pubblica, ebrea e non, finalmente riconoscerà che timori riguardo all’ antisemitismo sono sfruttati per favorire una ristretta agenda politica e ideologica mettendo a rischio la libertà di parola su Israele/Palestina e, di conseguenza, il discorso politico in generale.”

In base alla definizione di Steven Salaita [docente universitario statunitense licenziato per i suoi tweet contro sionismo e Israele, ndtr.], l’antisionismo è “una politica e un discorso, a volte una vocazione, al suo massimo anche una sensibilità, in sintonia con il disordine e la sovversione. È un impegno per possibilità inimmaginabili, cioè realizzare quello che agli arbitri di buon senso piace definire ‘impossibile.’”

Rimproverando quanti equiparano l’antisemitismo all’antisionismo, Salaita afferma che “(l’antisionismo) si oppone ad ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo. Questo principio di per sé condanna il sionismo.”

Se più persone abbandonassero la politica del “possibile” a favore dell’appello di Salaita, se più persone non solo firmassero la petizione di JVP ma organizzassero anche proteste davanti alle sedi locali di Amazon, sarebbe possibile far sentire la loro voce.

Oltretutto rovesciare la situazione utilizzando lo stesso mezzo di comunicazione che minaccia di censurare l’antisionismo per rendere edotta l’opinione pubblica della situazione dell’occupazione potrebbe portare proprio a ciò che i sionisti temono di più: uno Stato laico con diritti uguali per tutti.

Benay Blend ha ottenuto il dottorato in Studi Americani presso l’università del Nuovo Messico. Il suo lavoro di studiosa include: ‘Situated Knowledge’ in the Works of Palestinian and Native American Writers” [‘Saperi contestualizzati’ nel lavoro di scrittori palestinesi e nativi americani] (2017) in “’Neither Homeland Nor Exile are Words’” [Nè Patria né Esilio sono parole], curato da Douglas Vakoch e Sam Mickey.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)