In Germania l’antisemitismo è in aumento: quello di destra

Ali Abunimah

15 febbraio 2021 – Electronic Intifada

L’estrema destra tedesca è responsabile dell’aumento di episodi di antisemitismo e aggressioni contro musulmani e persone immigrate.

La polizia ha registrato un incremento degli incidenti di antisemitismo in Germania lo scorso anno.

Ma, contrariamente ai tentativi della lobby israeliana di incolpare i musulmani, la sinistra e il movimento di solidarietà con la Palestina, il fenomeno è originato quasi esclusivamente dalla destra.

La scorsa settimana il giornale Der Tagesspiegel [giornale più venduto a Berlino, ndtr.] ha informato che nel 2020 la polizia tedesca ha registrato 2.275 rapporti riguardanti episodi di antisemitismo, più di ogni altro anno dal 2001. Ciò include 55 delitti di violenza. I dati del 2020 rappresentano un incremento dell’11% rispetto all’anno precedente.

Eppure, nonostante il fatto che la polizia sia stata in grado di identificare quasi 1.400 sospetti, ci sono stati solo 5 arresti.

I dati sono stati forniti dal governo federale in risposta a un’interpellanza parlamentare da parte di Petra Pau, deputata di sinistra.

Più di 1.300 rapporti sono stati catalogati in base alle sospette motivazioni politiche dell’incidente.

Il quadro fornito dalle statistiche è chiarissimo: 1.247 sono stati definiti di destra; 9 di sinistra; 18 come “di ideologia straniera” e 20 motivati dalla religione. Altri 39 incidenti non si sono potuti classificare.

In base a queste cifre il 94% degli episodi di antisemitismo è stato motivato da ragioni politiche di destra.

Questi dati giungono mentre ci sono crescenti preoccupazione di infiltrazioni neonaziste nelle forze di polizia e nell’esercito tedesco.

Accusa fuorviante

Ciò contrasta con l’idea diffusa dalle associazioni della lobby israeliana che intendono mettere sotto accusa in modo fuorviante i sostenitori dei diritti dei palestinesi, così come le comunità musulmane e immigrate.

Questi avvertimenti sono stati evidenti dopo che nel 2015 la Germania ha iniziato ad accogliere centinaia di migliaia di rifugiati siriani e da altri Paesi.

Josef Schuster, presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, un’organizzazione comunitaria e un gruppo della lobby filoisraeliana, ha affermato che “molti dei rifugiati stanno scappando dal terrorismo dello Stato Islamico e vogliono vivere in pace e libertà, ma nel contempo arrivano da culture in cui l’odio e l’intolleranza verso gli ebrei ne sono parte integrante.”

E lo scorso anno il Congresso Ebraico Europeo ha pubblicato un rapporto stilato insieme a ricercatori dell’università di Tel Aviv in cui si attira l’attenzione sull’allarmante numero di aggressioni contro ebrei da parte di neonazisti e suprematisti bianchi nel 2019 e all’inizio del 2020.

Gli autori del rapporto non hanno potuto celare la realtà per cui la stragrande maggioranza di questo incremento è originato dall’estrema destra. Eppure il loro rapporto dedica molto spazio ad attaccare il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi e a cercare di associare senza fondamento i suoi sostenitori con l’aumento dell’antisemitismo.

Benché non ci siano prove che l’appoggio ai diritti dei palestinesi abbia alimentato il fanatismo antiebraico, nel documento di 17 pagine il BDS è citato addirittura 24 volte.

Il rapporto afferma anche pretestuosamente che in Germania “l’antisemitismo legato ad Israele, originato principalmente da studenti e personale musulmano, è già stato reso accettabile tra studenti e insegnanti.”

Questa narrazione falsa si è fatta strada anche nella destra americana, dove sostenitori di Israele, come Jonathan Tobin della National Review [quindicinale di destra, ndtr.], hanno cercato di scagionare l’estrema destra tedesca dall’accusa di essere antisemita.

Nel 2019 Tobin ha affermato che in Germania “la recente ondata di immigrati da Paesi musulmani e arabi ha creato un nuovo e vasto elettorato a favore dell’odio antiebraico.”

Ha anche lodato Alternativa per la Germania [AfD], un partito di estrema destra che include molti nazisti, perché “ha rotto con la sua tradizione affermando di sostenere Israele.”

Il tentativo di accusare i musulmani dell’antisemitismo tedesco nasconde come l’antisemitismo di destra derivi dallo stesso razzismo violento e reazionario che prende di mira i musulmani e gli immigrati.

Nel febbraio 2020 un estremista di destra si è messo a sparare all’impazzata nella città di Hanau. Ha preso di mira due shisha bar [locali in cui si fuma il narghilé, ndtr.] frequentati da membri della comunità turca in Germania e da altre comunità di immigrati, uccidendo nove persone, tutte di origine immigrata.

Questo è stato solo l’ultimo di una lunga serie di complotti e uccisioni da parte di neonazisti che hanno preso di mira musulmani e immigrati.

Definizione fuorviante di antisemitismo

Benché la destra nazionalista continui ad essere di gran lunga la principale fonte dell’antisemitismo tedesco, i politici concentrano sforzi esorbitanti per reprimere il movimento BDS.

Il loro falso pretesto è che criticare Israele e chiedere che venga chiamato a rispondere dei suoi crimini contro i palestinesi equivalga a odiare gli ebrei.

Questa oziosa e ingannevole equazione è intrinseca alla cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organismo intergovernativo a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] che Israele e la sua lobby stanno sollecitando governi e istituzioni in tutto il mondo ad adottare. Sette degli 11 “esempi” di antisemitismo allegati alla definizione dell’IHRA riguardano le critiche a Israele e al sionismo, la sua razzista ideologia di Stato.

Un manuale recentemente pubblicato dall’UE per promuovere questa definizione contiene menzogne assolute secondo cui alcune proteste riguardanti Israele in Europa sarebbero state motivate da animo antisemita.

Questo manuale è stato stilato di fatto dal RIAS, un ente ufficiale tedesco che pretende di documentare l’antisemitismo.

Attivisti per i diritti umani e sostenitori delle libertà civili hanno respinto questa definizione dell’IHRA, che vedono come uno strumento non per lottare contro il fanatismo ma per censurare l’appoggio ai diritti dei palestinesi.

La scorsa settimana il consiglio accademico dell’University College di Londra ha deciso di annullare [l’adozione della] definizione dell’IHRA e chiedere all’università di sostituirla con un’altra che “salvaguardi la libertà di espressione” e “protegga la libertà accademica”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Artisti come me vengono censurati in Germania perché sosteniamo i diritti dei palestinesi

 Brian Eno

4 febbraio 2021  The Guardian

Una risoluzione parlamentare del 2019 ha avuto un effetto raggelante sui critici della politica israeliana. Adesso il settore culturale si fa sentire.

Sono solo uno dei tanti artisti che sono stati colpiti da un nuovo Maccartismo che ha preso piede in un clima crescente di intolleranza in Germania. La romanziera  Kamila Shamsie, il poeta Kae Tempest, i musicisti Young Fathers e il rapper Talib Kwelli, l’artista visuale Walid Raad e il filosofo Achille Mbembe * sono tra gli artisti, accademici, curatori e altri che sono stati coinvolti in un sistema di interrogatori politici, liste nere ed esclusione che è ormai diffuso in Germania grazie all’approvazione di una risoluzione parlamentare del 2019. In definitiva, si tratta di prendere di mira i critici della politica israeliana nei confronti dei palestinesi.

Recentemente, una mostra delle mie opere d’arte è stata cancellata nelle sue fasi iniziali perché sostengo il movimento non-violento, guidato dai palestinesi, per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS). La cancellazione non è mai stata dichiarata pubblicamente, ma a quanto mi risulta, è stata la conseguenza del timore di operatori culturali in Germania che loro e la loro istituzione sarebbero stati puniti per aver promosso qualcuno etichettato come “antisemita”. Così funziona la tirannia: creare una situazione in cui le persone siano abbastanza spaventate da tenere la bocca chiusa e l’autocensura farà il resto.

Ma poiché la mia storia è relativamente minore, vorrei parlarvi della mia amica, la musicista Nirit Sommerfeld.

Nirit è nata in Israele e cresciuta in Germania, e da tutta la vita mantiene il suo legame con entrambi i luoghi, inclusa la sua famiglia allargata in Israele. Come artista, si occupa da più di 20 anni in canzoni, testi e performance del rapporto tra tedeschi, israeliani e palestinesi, dedicando tutti i suoi spettacoli alla comprensione internazionale e interreligiosa.

Eppure ora Nirit si ritrova impedita nello svolgere liberamente il suo lavoro culturale. Nel considerare la sua domanda di finanziamento artistico, i funzionari statali hanno detto a Nirit che dovevano controllare il suo lavoro; quando ha cercato di prenotare un luogo per un suo concerto a Monaco, la sua città natale, le è stato detto dagli organizzatori che lo spettacolo sarebbe stato cancellato a meno che non avesse confermato per iscritto che non avrebbe espresso alcun “sostegno per il contenuto, l’argomento e gli obiettivi” della campagna BDS. È stata ripetutamente bersaglio di campagne diffamatorie.

Perché è successo?

Perché ha parlato di ciò che ha visto con i suoi occhi: le leggi razziste di Israele contro i suoi stessi cittadini che sono palestinesi; i posti di blocco militari israeliani, le demolizioni di case, il muro di separazione, l’accaparramento delle terre, l’incarcerazione di bambini e i soldati israeliani che umiliano e uccidono palestinesi di tutte le età. È stata testimone dell’uso illegale di bombe al fosforo contro Gaza e dell’indifferenza – nella migliore delle ipotesi – di molti nella società israeliana.

Ho chiesto a Nirit come si sente riguardo a questa situazione: “Dopo essere tornata per due anni a Tel Aviv e molte visite nei territori palestinesi occupati, ho capito che Israele non è all’altezza dei suoi elevati standard morali che dichiara. La lezione appresa dall’Olocausto è stata ‘Mai più!’ Ma è inteso solo per proteggere noi ebrei? Per me ‘Mai più!’ Deve includere ‘mai più razzismo, oppressione, pulizia etnica ovunque – così come mai più antisemitismo’. “

La musica di Nirit celebra il suo passato e presente ebraico attraverso il canto. In qualità di artista, il cui nonno è stato assassinato nel genocidio nazista, trova “profondamente inquietante” il fatto di essere soggetta alla censura e al maccartismo inquisitorio da parte di funzionari e istituzioni pubbliche tedesche.

Secondo Nirit, “quando i difensori di Israele insistono sul fatto che queste politiche di occupazione e di apartheid sono fatte a nome di tutti gli ebrei nel mondo, alimentano l’antisemitismo. La lotta all’antisemitismo non dovrebbe e non può essere fatta demonizzando la lotta per i diritti dei palestinesi “.

L’esperienza di Nirit è un esempio della situazione kafkiana in cui siamo scivolati: una donna ebrea, il cui lavoro è incentrato sulla storia, la memoria, la giustizia, la pace e la comprensione, falsamente accusata di antisemitismo dalle istituzioni tedesche. L’assurdità dell’accusa rende chiara una cosa: non si tratta affatto di antisemitismo, ma di limitare la nostra libertà di discutere la situazione politica e umanitaria in Israele e Palestina.

Allora come si è verificata questa situazione?

Nel 2019 in Germania è stata approvata una risoluzione parlamentare vagamente formulata non vincolante, che falsamente equipara il movimento BDS all’antisemitismo. In un breve lasso di tempo, questa risoluzione ha aperto la strada a un’atmosfera di paranoia, alimentata da disinformazione e opportunismo politico.

Il BDS è un movimento pacifico che mira a fare pressione su Israele affinché ponga fine alle sue violazioni dei diritti umani palestinesi e rispetti il ​​diritto internazionale. È modellato sui precedenti del movimento per i diritti civili degli Stati Uniti e, soprattutto, del movimento contro l’apartheid in Sud Africa. Si rivolge alla complicità con un regime ingiusto e prende di mira le istituzioni, non gli individui o l’identità. Il BDS avverte la coscienza pubblica di uno status quo insostenibile e profondamente ingiusto e mobilita l’azione per porre fine a qualsiasi coinvolgimento nel sostenerlo.

Eppure i direttori di festival, coloro che fanno programmazione e istituzioni interamente finanziate con fondi pubblici stanno sottoponendo gli artisti a test politici, controllando se hanno mai criticato la politica israeliana. Questo sistema di sorveglianza e autocensura è nato perché le istituzioni culturali si trovano sotto attacco da parte di gruppi anti-palestinesi quando invitano un artista o accademico che ritiene inaccettabile per loro la visione dell’occupazione israeliana.

Per fare un esempio tra i tanti, il direttore del Museo ebraico di Berlino, Peter Schäfer, è stato costretto a rassegnare le dimissioni dopo che il museo ha twittato il collegamento a un articolo su un giornale tedesco relativo ad una lettera aperta di 240 studiosi ebrei e israeliani, inclusi i massimi esperti di antisemitismo, che era critico nei confronti della risoluzione anti-BDS.

Ma ora, con una mossa senza precedenti, i rappresentanti di 32 delle principali istituzioni culturali tedesche, incluso l’ Istituto Goethe, si sono espressi insieme, manifestando allarme per la repressione delle voci critiche e delle minoranze in Germania a seguito della risoluzione anti-BDS del parlamento.

La loro dichiarazione congiunta afferma: “Invocando questa risoluzione, le accuse di antisemitismo vengono utilizzate in modo improprio per mettere a tacere voci importanti e distorcere le posizioni critiche”. Pochi giorni dopo, più di 1.000 artisti e accademici hanno firmato una lettera aperta a sostegno della protesta delle istituzioni culturali.

In un momento in cui le eredità coloniali sono sempre più messe in discussione, discutere di questo particolare esempio di colonialismo in corso sta invece diventando tabù. Ma non è mai stato più urgente: la situazione per i palestinesi che vivono sotto l’apartheid e l’occupazione peggiora di settimana in settimana.

Dovremmo essere tutti allarmati da questo nuovo maccartismo. Gli artisti, come tutti i cittadini, devono essere liberi di parlare apertamente e intraprendere azioni significative, inclusi boicottaggi su questioni di principio, contro i sistemi di ingiustizia. Se lasciato incontrastato, il silenziamento del dissenso e l’emarginazione dei gruppi minoritari non si fermerà ai palestinesi e a coloro che li sostengono.

Brian Eno è un musicista, artista, compositore e produttore

Traduzione di Flavia Donati

da Palestinaculturalibertà




Come i media reprimono le critiche contro Israele

Nathan J. Robinson

10 febbraio 2021 – Current Affairs

Sono stato licenziato da giornalista dopo che ho ironizzato sull’aiuto militare USA a Israele su una rete sociale

È ampiamente riconosciuto che chi critica Israele, indipendentemente da quanto fondate siano le sue argomentazioni, è regolarmente punito sia da istituzioni pubbliche che private per quello che ha detto. L’American Civil Liberties Union [Unione Americana per le Libertà Civili, [ong USA impegnata a difendere la libertà di parola, ndtr.] (ACLU) ha documentato un modello per cui “quelli che intendono protestare, boicottare o criticare in altro modo il governo israeliano sono stati messi a tacere,” una tendenza che “si manifesta nei campus universitari, nei contratti statali e persino in leggi per cambiare il codice penale federale” e “sopprime il diritto di parola solo contro una parte della disputa su Israele/Palestina.” Il Center for Constitutional Rights [Centro per i Diritti Costituzionali, ong USA per il patrocinio legale, ndtr.] ha dimostrato che “organizzazioni, università, soggetti pubblici e altre istituzioni che appoggiano Israele” hanno preso di mira attivisti filo-palestinesi con una serie di tattiche “compresi la cancellazione di eventi, denunce giudiziarie senza fondamento, azioni disciplinari amministrative, licenziamenti e accuse false e provocatorie di terrorismo e antisemitismo” e conclude che c’è una “eccezione palestinese per quanto riguarda la libertà di parola.”

A volte, il tentativo di far tacere le critiche contro Israele ha preso la forma di esplicite azioni governative, c’è un’aperta campagna di criminalizzazione dei discorsi che criticano Israele e alcuni Stati hanno persino chiesto a dipendenti pubblici l’impegno a non boicottare Israele. Ma, come ha notato il giornalista israeliano Gideon Levy su Middle East Eye, ciò si è spesso manifestato nella forma di accuse senza fondamento (e offensive) in base alle quali le critiche a Israele sono per definizione antisemite. Negli Stati Uniti le critiche accademiche contro Israele hanno avuto come risultato la rescissione di offerte di lavoro o hanno impedito di insegnare, e la CNN [nota rete televisiva USA, ndtr.] ha licenziato il docente universitario Marc Lamont Hill per un appello a favore della liberazione della Palestina. In Gran Bretagna, c’è stata una assurda campagna durata un anno per calunniare in quanto antisemita l’ex segretario del partito Laburista (e critico verso le politiche del governo israeliano) Jeremy Corbyn. Human Rights Watch [importante ong per i diritti umani, ndtr.] ha evidenziato che il governo degli Stati Uniti ha scagliato accuse infondate di antisemitismo contro questa e altre organizzazioni per i diritti umani, come Amnesty e Oxfam, che hanno denunciato i pessimi dati di Israele in materia di diritti umani. All’interno di Israele, il diritto di parola dei palestinesi è brutalmente represso e persino gli ebrei che sostengono i diritti dei palestinesi sono regolarmente vessati dallo Stato. Lo scorso anno Abeer Alnajjar di OpenDemocracy [sito web di discussione di politica internazionale e cultura, ndtr.] ha scritto di come “i principali mezzi di comunicazione siano molto sensibili contro qualunque riferimento ai diritti dei palestinesi o alle leggi internazionali, e contro ogni critica a Israele o alle sue politiche.”

Personalmente non ho mai riflettuto sulla questione se potessi subire conseguenze per aver criticato il governo di Israele (e l’appoggio USA nei suoi confronti). Ho goduto di tutta la “libertà di parola” che si può avere in questo mondo. Tuttavia forse ci avrei dovuto pensare un po’ di più, perché, appena ho superato una linea invisibile, ciò mi è diventato subito chiaro. Appena ho dato fastidio ai difensori di Israele su una rete sociale, sono stato licenziato in tronco dal mio lavoro di editorialista.

Ho scritto per Guardian-USA dal 2017, prima come collaboratore e poi come editorialista a pieno titolo. Scrivo quasi esclusivamente di politica USA. Non ho mai scritto su Israele. Il mio caporedattore è sempre stato soddisfatto del mio lavoro, per cui ho continuato a ottenere richieste di articoli. Sono bravo a pubblicare rapidamente commenti politici acuti, con buone fonti e che richiedono poche modifiche. Per quanto posso ricordare, solo una volta un mio articolo è stato corretto, ed è successo quando ho criticato Joe Biden sui legami di Hunter Biden [figlio dell’attuale presidente USA, ndtr.] con casi di corruzione.

Ecco il contesto del mio licenziamento. Alla fine di dicembre il Congresso ha autorizzato un nuovo pacchetto di aiuti finanziari per il COVID. Nel contempo, ha anche approvato altri 500 milioni di dollari di aiuti militari a Israele. Per molto tempo Israele è stato uno dei maggiori beneficiari di aiuto militare USA, superato negli ultimi anni solo dall’Afghanistan (benché non come quantità di dollari pro-capite). Secondo il Servizio Ricerche del Congresso, è il “maggiore percettore complessivo dell’assistenza estera degli USA dalla Seconda Guerra Mondiale,” e l’aiuto USA rappresenta circa il 20% del bilancio israeliano per la difesa. Ecco una cartina del 2015 ripresa dalla CNN

È stato sconfortante vedere che, mentre il Congresso stava concedendo al popolo americano un aiuto troppo ridotto per il COVID, dava all’esercito più tecnologicamente avanzato al mondo altri missili da crociera. I difensori dell’accordo hanno evidenziato che tecnicamente i soldi a Israele per comprare armi non facevano parte della stessa legge sugli aiuti per il COVID, ma di una legge per stanziamenti approvata contemporaneamente, che è una valida risposta a quanti affermavano che il denaro era “parte della legge per gli aiuti contro il COVID”, ma ciò non giustifica affatto la spesa.

Personalmente ero allibito e depresso di vedere nuovi finanziamenti per missili israeliani approvati contemporaneamente a scarsissimi aiuti per il COVID. Israele è una potenza nucleare (una cosa che ufficialmente non conferma né smentisce, ma generalmente gli esperti la considerano vera e Benjamin Netanyahu una volta inavvertitamente l’ha ammesso). Ha un dominio praticamente totale sui palestinesi. Gli abbiamo già dato talmente tanti aiuti militari che non ne ha bisogno. Perché, durante la pandemia, il Congresso dirotta soldi per nuovi sistemi missilistici?

Sono, con mia grande vergogna, discretamente attivo su Twitter, così ho manifestato la mia rabbia con un tweet ironico. Sarcasticamente ho scritto due tweet collegati: (1) “Sapete che il Congresso non è in realtà autorizzato ad approvare nessuna nuova spesa finché una parte di essa non è destinata a comprare armi per Israele? Questa è la legge.” (2) “o se non proprio una legge scritta, comunque è talmente radicata nel costume politico da essere per il suo funzionamento indistinguibile da una legge.” Ovviamente il primo tweet era ironico (cosa comune su Twitter), ma per essere assolutamente sicuro che nessuno pensasse che fosse una sorta di legge realmente esistente, ho aggiunto un secondo tweet per rendere chiarissimo che stavo scherzando, che era al 100% una battuta, che non ci fosse posto per un’interpretazione errata riguardo a questa battuta. Non leggo le risposte su Twitter perché sono regolarmente piene solo di cose sgradevoli e non mi piace mettermi a discutere. Ma un collega mi ha detto che alcune persone mi avevano definito “antisemita”.

Mi sono messo a ridere perché era chiaramente assurdo, un esempio che più fumettistico non si può di una critica legittima definita fanatismo. Avevo solo evidenziato il fatto, assolutamente veritiero, che noi inviamo grandi quantità di aiuti militari a Israele, che noi privilegiamo con un appoggio speciale persino durante una pandemia. Una volta Nancy Pelosi ha detto: “Se Washington crollasse al suolo l’ultima cosa che resterebbe è il nostro appoggio a Israele,” e io le credo. Una volta Joe Biden ha detto che se non ci fosse Israele gli USA “dovrebbero inventarselo” per proteggere i nostri interessi. Come ha notato in un rapporto il Servizio Ricerche del Congresso, gli USA sono direttamente impegnati in un rapporto speciale con Israele che lo aiuterà a conservare una “superiorità militare qualitativa” su altri Paesi. Che Israele abbia un accesso prioritario alla tecnologia bellica USA è una politica esplicita del governo USA.

Quando twitti, soprattutto riguardo a qualcosa di discutibile, puoi aspettarti che qualcuno si arrabbi e ti insulti. Non avevo la minima idea di quanto rapidamente sarei stato licenziato.

Più tardi quel giorno ho ricevuto una mail da John Mulholland, direttore del Guardian USA. In precedenza non avevo mai ricevuto un messaggio da lui, dato che la maggior parte dei miei contatti con il Guardian passano dal caporedattore che si occupa del mio lavoro. Non lo citerò, perché è una persona corretta e non vorrei danneggiare la sua situazione. L’oggetto del messaggio di Mulholland era “privato e riservato”. Lo riproduco qui per intero:

Ciao Nathan.

Dato che tu ti presenti in parte come editorialista del Guardian permettimi di esprimere la mia preoccupazione quando fai un’affermazione come la seguente [link al tweet di Robinson, ndtr.]. Una legge simile non esiste, nel qual caso questa è, per così dire, una fake news, a prescindere dal successivo tweet in cui tu affermi che essa è “indistinguibile da una legge.” Non è una legge. Punto.

Dati i discorsi sconsiderati dell’anno scorso, e oltre, su come mitici “gruppi/associazioni ebraiche” detengano il potere su ogni forma di vita pubblica negli USA, non capisco come ciò possa contribuire al dibattito pubblico. E non capisco perché prendere di mira l’aiuto finanziario a Israele in un tweet e fuori da ogni contesto – senza parlare anche dell’aiuto ora o in passato ad altri Paesi– sia un utile contributo al dibattito pubblico.

Ovviamente sei libero di utilizzare Twitter in qualunque modo tu decida, ma mi sgomenta che qualcuno che si presenta come editorialista del Guardian possa fare un’affermazione così chiaramente sbagliata senza, come ho osservato, alcuna contestualizzazione/giustificazione.

Affermare che l’unico Stato ebraico controlla il Paese più potente al mondo è chiaramente antisemita. Il mito del ‘potere ebraico’ segnala un odio letale. Cancella e chiedi scusa.”

Ora, alcune cose dovrebbero colpirvi. Primo, il fatto che l’oggetto del messaggio di Mulholland sia “privato e riservato” significa che non voleva che altre persone sapessero quello che mi stava dicendo. Avrebbe preferito che le sue parole rimanessero segrete. L’avebbe preferito, ma definire una mail come privata è una richiesta, non un obbligo giuridico.

Secondo, la sua affermazione che il mio tweet sia una “fake news” che potrebbe ingannare delle persone è chiaramente senza senso. Il sarcasmo, come ho detto, è normale su Twitter e, nell’eventualità che qualcuno fosse così ottuso da credere che non stessi scherzando e che ogni nuova spesa richiedesse un nuovo aiuto a Israele, ho incluso un tweet allegato chiarendolo. Non c’è assolutamente nessuna possibilità che Mulholland mi mandasse questo messaggio se l’argomento non fosse stato Israele. Il suo problema non era che abbia utilizzato l’ironia. Se avessi detto “negli USA c’è una legge che impone al Congresso di approvare una legge di spesa solo se contiene una grande somma di inutili sprechi (non una vera legge, ma in pratica c’è),” nessuna persona ragionevole avrebbe potuto pensare che sarebbe stato richiamato dal direttore del Guardian.

No, questo è stato un pretesto. Il grosso problema è stato, come ho detto, che io avrei preso di mira l’unico Stato ebraico, criticandolo senza notare l’aiuto ricevuto da altri Stati. La sua mail sembra citare alla fine qualcuno che lo ha definito antisemitismo, benché non sia chiaro da dove sia ricavata la citazione.

Ciò che risultava chiaramente dal messaggio è che Mulholland era molto incazzato. Come ho detto, l’accusa è assurda:, non sono stato io ad aver privilegiato Israele, ma la politica USA! Io ho solo evidenziato che ciò è quello che facciamo e che lo facciamo intenzionalmente, perché crediamo che Israele abbia un particolare diritto a un “vantaggio militare qualitativo” che i suoi vicini non hanno. Ma ho rapidamente percepito che il mio lavoro poteva essere in pericolo. Così ho cancellato il tweet ed ho risposto a Mulholland scusandomi per aver fatto una cosa che potesse essere interpretato come compromettente per il giornale. Ho bisogno del mio stipendio, e, benché fosse profondamente frustrante per me che il Guardian sindacasse sui miei tweet, a malincuore mi sono reso conto che avrei dovuto accettare i nuovi limiti che mi aspettavo sarebbero stati posti al mio discorso pubblico. Sapevo che la censura sarebbe stata irritante, ma sembrava inevitabile e speravo che sarebbe stata limitata. Lavoro precario significa che il datore di lavoro esercita un potere coercitivo sulla libertà di parola dei dipendenti, anche fuori dal lavoro, e io, come chiunque altro, ho l’affitto da pagare.

Mulholland mi ha risposto, affermando che apprezzava le mie scuse e suggeriva di lasciarci alle spalle l’incidente. Il mio capo redattore mi ha scritto chiedendo informazioni sui tweet, affermando che il Guardian era dispiaciuto, ma mi ha detto di non preoccuparmi. L’ho interpretato come se ciò significasse che finché avessi tenuto la bocca chiusa riguardo a Israele su Twitter, il Guardian avrebbe continuato a pubblicare i miei articoli su altri argomenti. Un ignobile compromesso, sicuramente, che retrospettivamente non avrei dovuto neppure prendere in considerazione. È difficile giustificare il fatto di stare zitto riguardo all’aiuto militare degli Stati Uniti a un Paese che viola i diritti umani, solo perché hai bisogno di uno stipendio, ma chi scrive e dipende da quello che guadagna scrivendo deve affrontare scelte difficili quando il padrone ti dice quali opinioni hai il diritto di avere in pubblico. Eppure sul momento ho conservato la speranza che ci fosse un modo per cui avrei potuto continuare a scrivere. Mi sono detto che avrei fatto del mio meglio per affermare ciò che penso in modo onesto senza incorrere nella censura editoriale, benché temessi ciò che avrebbe potuto comportare.

Ma poi è successa una cosa strana. Nelle settimane successive il mio capo-redattore ha curiosamente smesso di comunicare con me. Gli ho mandato suggerimenti su suggerimenti per nuovi articoli. Nessuna risposta. Eppure avevo avuto la promessa che avrebbero parlato presto con me, senza conseguenze. Era molto strano, perché l’anno prima mi aveva sempre chiamato chiedendomi nuovo materiale per gli articoli. Improvvisamente, silenzio totale.

Finalmente lunedì 8 [febbraio] ho ricevuto una chiamata da lui. Mi ha detto che avrebbero voluto pubblicare i miei articoli, ma che le cose con Mulholland per il momento lo avevano reso impossibile e che dovevano avere un colloquio con lui per chiarire la situazione. Ho cercato ancora una volta di essere accomodante, ho detto che mi sarei adeguato alle nuove regole e che sarei stato felice di parlare con Mulholland per discutere delle sue aspettative.

Ormai era chiaro che mi stavano esplicitamente censurando per aver mandato un tweet critico nei confronti di Israele. Il mio capo-redattore ha chiarito che, se non fosse stato per il tweet, avrebbero accettato le mie proposte di articoli. Le garanzie di Mulholland, secondo cui chi scrive per il Guardian ha la “libertà” di esprimere le proprie opinioni erano chiaramente false. Sei libero, ma se te la prendi con Israele i tuoi suggerimenti finiscono nel cestino. Il mio editore lo ha ammesso esplicitamente con me, affermando che il rifiuto delle mie proposte di articoli era il diretto risultato del tweet.

Ma ho scoperto di non essere stato ignorato solo temporaneamente. Martedì il mio capo-redattore mi ha chiamato e mi ha detto che, dopo una conversazione con Mulholland, si era deciso di eliminare definitivamente la mia rubrica. Ho chiesto se sarebbe stato possibile per me parlare con Mulholland e trovare una soluzione. Il mio capo-redattore mi ha risposto di no e che Mulholland aveva deciso che il giornale non avrebbe più lavorato con me in futuro, intendendo che non dovessi neppure perdere tempo a mandare bozze di articoli occasionali come freelance. Hanno offerto di pagarmi due articoli come “liquidazione” che non avrebbe coperto lo stipendio di un mese. Non c’è stato neppure il tentativo di criticare il mio lavoro; in effetti il capo-redattore ha affermato esplicitamente che i miei suggerimenti per gli articoli sarebbero stati accettati se Mulholland non si fosse risentito per il mio tweet. Ciò mi è stato detto molto chiaramente: il tuo tweet su Israele ha fatto arrabbiare il direttore. Ora sei licenziato. Non farti più vedere.

*    *    *

Essere licenziato è orribile, soprattutto quando ciò avviene senza preavviso nel bel mezzo di una pandemia, quando è difficile trovare lavoro. Non guadagnavo molto dal mio lavoro al giornale (15.000 dollari [circa 12.000 euro] lo scorso anno), ma scrivere di politica a sinistra non è remunerativo e avevo bisogno di quei soldi. Avrei dovuto essere disposto ad accettare un qualche controllo sulle mie reti sociali da parte del Guardian nel disperato tentativo di conservare il mio lavoro. Ma quando si tratta di critiche contro Israele non c’è una seconda opportunità, indipendentemente da quanto sia giustificata la critica e per quanto ciò sia lontano dal vero antisemitismo. Non importa che abbia prontamente cancellato le mie parole. Hai superato il limite, sei fuori. Non è a causa di una vasta cospirazione, ma di una politica in base la quale un alleato degli Stati Uniti è considerato al di sopra di ogni critica (anche l’Arabia Saudita è spesso esente da critiche).

Il Guardian è probabilmente il più “progressista” tra igiornali importanti degli Stati Uniti, quindi in base al suo modo di fare c’è parecchio da parlare dei limiti riguardanti il discorso su Israele. Il giornale non è di destra e pubblica critiche contro Israele, che sicuramente porterebbe a dimostrazione del suo impegno a favore del libero dibattito. Non sto sostenendo che il Guardian non dia mai voce alle critiche contro Israele o alla politica USA nei confronti di Israele, ma che vuole controllare attentamente le affermazioni dei propri giornalisti sull’argomento ed essere sicuro che dicano solo quello che i direttori del giornale ritengono accettabile.

Oltretutto è chiaro che il Guardian non vuole che si sappia che censurerà i post sulle reti sociali dei suoi giornalisti riguardo a Israele. Mulholland non vuole che racconti a qualcuno quello che mi ha detto. Vuole sottolineare che io ero assolutamente libero di dire quello che volevo. Nessuno mi ha dato una serie di direttive su quello che potevo o non potevo dire, perché ciò sarebbe stato un esplicito riconoscimento che i giornalisti non sono liberi, che devono rispettare una certa direttiva riguardo a Israele e scrivere solo quello che è approvato dalla linea editoriale. Ho chiesto esplicitamente linee guida riguardo a cosa potessi o non potessi dire, ma, mentre il Guardian ha linee guida aziendali sul design e sullo stile, non ha un codice formale riguardo al contenuto, ne ha solo uno non scritto.

A lungo ho criticato quanti dipingono la sinistra come un gruppo di guerrieri totalitari “con una cultura della censura” che cercano di soffocare la libertà di parola. Questa immagine è l’esatto contrario. Reazionari e fanatici hanno in genere a disposizione grandi megafoni. D’altra parte attivisti del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) agiscono sotto la minaccia di denunce penali. Sono assolutamente a favore della libertà di parola, sia per ragioni di principio che pratiche, ma ho criticato alcuni dei discorsi a favore della libertà di parola che trattano la sinistra come la principale minaccia e non citano il modo in cui chi critica Israele possa essere licenziato per i propri discorsi. Per esempio, la lettera aperta della rivista Harper [storico mensile USA di cultura, politica e arte, ndtr.] a favore di un dibattito libero e aperto esprime nobili sentimenti, ma sembra più preoccupata della minaccia alla giustizia sociale che di quella agli attivisti filopalestinesi.

Il Guardian non è obbligato ad assumermi come editorialista, benché io sia un ottimo editorialista. Essendo io stesso direttore di una rivista, non pubblico tutti i punti di vista. Siamo selettivi. Facciamo delle scelte editoriali. Questa è una nostra prerogativa (benché io non pensi di avere mai criticato un giornalista per qualcosa che abbia twittato nel tempo libero e offrirei ai giornalisti la massima libertà d’azione con i loro tweet prima ancora di considerare che affermazioni sulle reti sociali possano compromettere l’assunzione di un giornalista da parte di Current Affairs). Non penso che il New York Times sbagli a dire di non voler pubblicare editoriali che chiedono la repressione militare contro i dissidenti. Non penso che una casa editrice debba pubblicare qualunque libro. Se la posizione del Guardian è che i suoi opinionisti possono avere solo una gamma limitata di opinioni o debbano essere controllati molto attentamente perché non la violino, pazienza. Il defunto antropologo David Graeber, un tempo collaboratore fisso del giornale, negli ultimi anni di vita si è rifiutato di averci a che fare affermando che il Guardian utilizzava la presenza di collaboratori di sinistra come copertura per portare avanti le sue pretestuose accuse di antisemitismo contro il partito Laburista di Jeremy Corbyn, e più di un critico ha affermato che il Guardian ha cinicamente brandito l’antisemitismo per difendere l’ala centrista del Labour contro la sinistra).

Ma ammettiamo che il Guardian abbia ragione riguardo a quello che fa e alle posizioni ideologiche che pretende dai suoi giornalisti. Ammettiamo che gli abbonati e i lettori del Guardian sappiano che se gli editorialisti del giornale oltrepassano il limite verranno licenziati, il che significa che i lettori non ascoltano necessariamente le opinioni che ascolterebbero se il giornale non esercitasse un controllo attivo sull’opinione degli editorialisti. A un certo punto il mio capo-redattore mi ha detto che il giornale considera quello che gli editorialisti dicono sui media sociali un continuo problema e sta cercando di trovare un modo per risolvere la questione. Suppongo che effettivamente sia difficile, perché il Guardian vuole avere il diritto di licenziare le persone se dicono qualcosa di sbagliato, continuando nel contempo a sostenere di non fare una cosa del genere e mantenendo la disciplina con mail “private e riservate” invece di stendere un vademecum.

In ogni caso sono fortunato. Ho la mia rivista, sulla quale posso parlare in modo assolutamente libero, dovendo rendere conto solo ai nostri abbonati. Se non avessi un modesto stipendio da un’altra parte, perdere questo reddito sarebbe ancora più disastroso. Ho molti dubbi che, considerando che ora sono stato licenziato da un quotidiano per presunto antisemitismo, sarò assunto da un altro giornale. Devo augurarmi che Current Affairs continui a sopravvivere. Non è sicuro. Siamo una piccola rivista indipendente finanziata esclusivamente dagli abbonati e da piccoli donatori. Invece il Guardian è finanziato da una grande fondazione con un contributo di 1 miliardo di sterline [1 miliardo 14 milioni di euro, ndtr.].

Ho notato che molte persone che sono esplicitamente a favore della libertà di parola hanno poco da dire quando chi critica Israele deve affrontare conseguenze professionali. Eppure il mio caso è relativamente banale e l’attenzione dovrebbe concentrarsi sui palestinesi che sono stati massacrati e mutilati dalle aggressioni dell’esercito israeliano. Le vite di questi palestinesi non valgono assolutamente niente per quanti hanno manifestato più indignazione riguardo al mio tweet che al concreto uso dei sistemi d’arma che stiamo vendendo a Israele.

Il vero problema con la censura ai danni di chi critica Israele è che rende più facile al governo di quel Paese continuare ad assassinare manifestanti e a mantenere un blocco che, secondo le Nazioni Unite, “nega fondamentali diritti umani contravvenendo alle leggi internazionali e che rappresenta una punizione collettiva.” Nel 2018 centinaia di palestinesi, compresi minori e medici, sono stati colpiti da cecchini israeliani durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno – secondo Middle East Monitor “in un solo giorno, il 14 maggio, l’esercito israeliano ha colpito e ucciso sette minorenni” e oltre 1.000 manifestanti sono stati colpiti da proiettili veri – ma Israele non ha mai dovuto renderne conto e gli Stati Uniti continuano a rifornirlo di armi.

Spero tuttavia che si possa vedere esattamente come funziona la repressione delle critiche a Israele. Dici la cosa sbagliata, perdi il posto. Non hai una seconda possibilità. Sarai tacciato di antisemitismo e perderai il tuo lavoro da un giorno all’altro. Questa è una delle ragioni fondamentali per cui Israele continua a cavarsela nonostante commetta crimini orribili. Parlare onestamente e francamente dei fatti rischia di portare a una immediata censura. Le violazioni dei diritti umani continuano impunemente. E quando i cecchini israeliani prendono di mira i minori palestinesi, il Guardian è suo complice.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Centotrentacinque docenti universitari israeliani nel Regno Unito e altrove esortano i senati accademici a respingere una definizione viziata di antisemitismo.  

Israeli Academics ,Regno Unito

11 gennaio 2021 israeliacademics uk

Gli accademici esprimono ferma opposizione alla imposizione da parte del governo della definizione “intrinsecamente viziata” ed esortano le università britanniche, fedeli al proprio impegno a favore della libertà accademica e della libertà di parola, a respingerla mentre continua incessante la loro lotta contro ogni forma di razzismo, antisemitismo compreso

Appello perché venga respinta la “definizione operativa di antisemitismo” dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 al fine di rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, n.d.tr.].

 

Destinatari: vicerettori, membri dei senati accademici, tutti gli altri docenti nonché studenti in Gran Bretagna & l’Onorevole Gavin Williamson, Segretario di Stato all’Istruzione

Oggetto: la “definizione operativa di antisemitismo” dell’IHRA

 

Noi, nella doppia veste di docenti universitari britannici e cittadini israeliani, siamo fermamente contrari all’imposizione sulle università inglesi da parte del governo della “definizione operativa di antisemitismo” dell’IHRA. Facciamo appello a tutti i senati accademici affinché respingano il documento dell’IHRA ovvero, qualora esso sia già stato adottato, si adoperino per revocarlo. 

Rappresentiamo un gruppo eterogeneo per ambito disciplinare, appartenenza etnica e fascia di età. Ci accomuna un’esperienza protratta di lotta al razzismo. Per tale motivo abbiamo espresso critiche ad Israele per le sue persistenti politiche di occupazione, espropriazione, segregazione e discriminazione nei confronti del popolo palestinese. La nostra prospettiva storica e politica è fortemente condizionata dai molteplici genocidi dei tempi moderni, in particolare dell’Olocausto, nel quale diversi di noi hanno perduto membri delle proprie famiglie estese. La lezione che siamo determinati a trarre dalla storia è l’impegno a combattere tutte le forme di razzismo.

 

È proprio in virtù di queste prospettive personali, accademiche e politiche che siamo sconcertati per la lettera che Gavin Williamson, Segretario di Stato all’Istruzione, ha inviato ai nostri vicerettori in data 9 ottobre 2020. Sotto l’esplicita minaccia di sospendere i finanziamenti, la lettera cerca di forzare le università ad adottare la controversa “definizione operativa di antisemitismo” proposta inizialmente dalla Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (IHRA). Combattere l’antisemitismo in tutte le sue forme è un’esigenza imprescindibile. Tuttavia il documento dell’IHRA è intrinsecamente viziato tanto da pregiudicare tale lotta. Inoltre esso rappresenta una minaccia nei confronti della libertà di parola e di insegnamento, oltre a costituire un attacco sia contro il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi sia contro la battaglia per la democratizzazione di Israele.

 

Il documento dell’IHRA è stato ampiamente criticato in numerose occasioni. Qui ci limitiamo ad accennare ad alcuni aspetti particolarmente negativi nell’ambito dell’istruzione universitaria. Il documento consiste di due parti. La prima, citata nella lettera di Williamson, è una definizione di antisemitismo articolata come segue:

L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o le loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”.

Tale formulazione è così vaga nel linguaggio oltre che carente nel contenuto da risultare inutilizzabile. Per un verso, essa si affida a termini poco chiari quali “una certa percezione” e “può essere espressa come odio”. Per contro, omette di menzionare elementi chiave quali “pregiudizio” e “discriminazione”. Ma soprattutto questa “definizione” è nettamente più debole e meno efficace dei regolamenti e delle leggi già in vigore o in via di adozione in ambito universitario.

Inoltre le pressioni esercitate dal governo sulle università perché adottino una definizione creata esclusivamente per un’unica forma di razzismo testimoniano un’attenzione esclusiva per le persone di origine ebraica, come se queste meritassero maggiore protezione di altri individui che subiscono regolarmente simili se non peggiori manifestazioni di discriminazione e razzismo.

 

La seconda parte del documento dell’IHRA presenta ciò che descrive come undici esempi di antisemitismo contemporaneo, sette dei quali si riferiscono allo Stato di Israele. Alcuni di questi “esempi” travisano la nozione di antisemitismo. Essi ottengono altresì un effetto dissuasivo nei confronti di quei docenti e studenti universitari che intendano legittimamente criticare l’oppressione esercitata da Israele sui palestinesi oppure che vogliano studiare il conflitto israelo-palestinese. Infine, interferiscono con il diritto che abbiamo in quanto cittadini israeliani di partecipare liberamente alle vicende politiche israeliane.

Per dare un’idea, un esempio di antisemitismo è “[affermare] che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo”. Un altro atto antisemita, secondo il documento, è “richiedere ad [Israele] un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro Stato democratico”. Sarebbe sicuramente legittimo, tanto più in ambito accademico, poter discutere se Israele, in quanto autoproclamato Stato ebraico, sia “un progetto razzistaoppure una “Nazione democratica”.

Attualmente la popolazione sotto il controllo di Israele comprende 14 milioni di persone, di cui quasi 5 milioni sono privi dei diritti fondamentali. Dei 9 milioni rimanenti il 21% (circa 1,8 milioni) sono stati sistematicamente discriminati da quando è stato fondato lo Stato israeliano. Questa discriminazione si manifesta in decine di leggi e politiche riguardanti i diritti di proprietà, l’istruzione e l’accesso alla terra e alle risorse. Tutte le persone che fanno parte dei 6,8 milioni a cui è negato l’accesso ad una piena democrazia sono non-ebrei. Un esempio emblematico è la “legge del ritorno”, che consente a tutti gli ebrei – ma solo agli ebrei – che vivono in qualsiasi parte del mondo di emigrare in Israele ottenendo la cittadinanza israeliana, diritto estendibile a coniugi e discendenti. Al contempo, si nega invece a milioni di palestinesi ed ai loro discendenti, sfollati o esiliati, il diritto di ritornare nella loro madrepatria.

Tali leggi e politiche statuali discriminatorie in altri sistemi politici contemporanei o del passato – si tratti di Cina, USA o Australia – vengono legittimamente e regolarmente passate al vaglio dagli specialisti e dall’opinione pubblica, criticate variamente come forme di razzismo istituzionalizzato e paragonate a certi regimi fascisti, compreso quello della Germania prima del 1939. In realtà, le analogie storiche sono uno strumento comune nella ricerca accademica. Tuttavia secondo il Segretario all’Istruzione soltanto quelle riguardanti lo Stato di Israele d’ora in poi vengono proibite agli studiosi e agli studenti in Inghilterra. Nessuno Stato dovrebbe essere al riparo da tali legittime discussioni accademiche.

 

Inoltre, mentre il documento dell’IHRA considera qualsiasi “accostamento della politica contemporanea israeliana a quella dei nazisti” una forma di antisemitismo, molti in Israele, sia al centro sia alla sinistra della scena politica, hanno fatto paragoni simili. Un esempio recente è una dichiarazione del 2016 di Yair Golan, membro della Knesset (il parlamento israeliano) ed ex vice-comandante dello stato maggiore dell’esercito israeliano. Un altro è il confronto fra Israele e il nazismo allo stadio iniziale fatto nel 2018 dall’illustre storico e politologo vincitore del premio Israele Zeev Sternhell, che è stato fino alla sua recente scomparsa uno dei massimi esperti di fascismo. Tali analogie vengono spesso fatte regolarmente anche negli editoriali dell’autorevole quotidiano israeliano Haaretz.

L’uso di tali analogie non è affatto nuovo. Per dare un’idea, alla fine del 1948 un illustre gruppo di intellettuali, fra cui Albert Einstein e Hannah Arendt, e rabbini ebrei pubblicò una lettera sul New York Times in cui accusò  Menachem Begin (futuro primo ministro di Israele) di essere alla guida di “un partito politico molto vicino per organizzazione, metodi, filosofia politica e mobilitazione della società ai partiti nazista e fascista.”

Con i suoi undici “esempi”, il documento dell’IHRA è già stato utilizzato per reprimere la libertà di parola e la libertà di insegnamento (vedi qui, qui, qui). È preoccupante che sia servito a bollare la lotta contro l’Occupazione e l’espropriazione da parte di Israele come “antisemita”. Come hanno dichiarato in una lettera al Guardian [quotidiano inglese di centro-sinistra, ndtr.]122 intellettuali arabi e palestinesi:

Crediamo che nessun diritto all’autodeterminazione debba includere il diritto di sradicare un altro popolo e impedirgli di tornare nella sua terra, o qualsiasi altro mezzo per garantire una maggioranza demografica all’interno dello Stato. La rivendicazione da parte dei palestinesi del loro diritto al ritorno nella terra da cui loro stessi, i loro genitori e nonni sono stati espulsi non può essere interpretata come antisemita… È un diritto riconosciuto dalle leggi internazionali come dichiarato nella risoluzione 194 del 1948 dell’assemblea generale delle Nazioni Unite….Rivolgere indistintamente l’accusa di antisemitismo contro chiunque consideri razzista l’attuale Stato di Israele, nonostante l’effettiva discriminazione istituzionale e costituzionale su cui si basa, equivale a garantire a Israele l’impunità assoluta.” [ cfr Zeitun  ndr]

 

In una recente lettera l’onorevole Kate Green [del Partito Laburista, ndtr.], Segretaria di Stato Ombra dell’Istruzione, ha approvato l’imposizione del documento dell’IHRA alle università inglesi, affermando: “Potremo [combattere l’antisemitismo] soltanto se ascolteremo e ci confronteremo con la comunità ebraica.” Ciononostante, in qualità di cittadini israeliani residenti in Gran Bretagna, molti di origine ebraica, insieme con altri appartenenti alla comunità ebraica britannica, chiediamo che anche la nostra voce venga ascoltata, e riteniamo che il documento dell’IHRA rappresenti un passo nella direzione sbagliata. Esso fa oggetto di attenzione esclusiva la persecuzione degli ebrei; inibisce la libertà di parola e di insegnamento; priva i palestinesi del proprio diritto di parola nello spazio pubblico britannico ed infine impedisce a noi, cittadini israeliani, di esercitare il nostro diritto democratico di contestare il nostro governo. Per questi ed altri motivi, persino il redattore originale del documento dell’IHRA, Kenneth Stern, ha ammonito:

Gruppi ebraici di destra hanno preso la “definizione operativa” che includeva alcuni esempi su Israele…, e hanno deciso di strumentalizzarla. … [Questo documento] non ha mai avuto l’intenzione di diventare un codice da utilizzarsi in ambito universitario contro i discorsi di incitamento all’odio… eppure [da parte della destra è stato usato come] un attacco contro la libertà di parola e di insegnamento, e non danneggerà soltanto i sostenitori della causa palestinese, ma anche l’università, gli studenti ebrei e lo stesso mondo della ricerca. …Sono sionista. Tuttavia nelle… università, la cui finalità è l’esplorazione delle idee, anche gli antisionisti hanno diritto di espressione. … Inoltre, all’interno della comunità ebraica si discute se essere ebreo si traduca necessariamente nell’essere anche sionista. Ignoro se ci sia una risposta a questo quesito, ma tutti gli ebrei dovrebbero temere il fatto che sia in pratica il governo a stabilire per noi quale sia la risposta. (The Guardian, 13 dicembre 2019).

  

Queste preoccupazioni sono condivise da molti altri, fra cui centinaia di studenti britannici, esperti di antisemitismo e razzismo, oltre a numerosi gruppi ed associazioni palestinesi ed ebraici impegnati nella difesa della giustizia sociale sia in Gran Bretagna sia in altre parti del mondo, quali l’Institute of Race Relations [istituto di ricerca antirazzista britannico, n.d.tr.], Liberty [ovvero Consiglio Nazionale per le Libertà Civili, organizzazione apartitica per i diritti fondamentali e le libertà nel Regno Unito, n.d.tr.], l’ex giudice della Corte di Appello Sir Stephen Sedley e il rabbino Laura Janner-Klausner.

 

Ci uniamo alla richiesta che le università britanniche rimangano fermamente ancorate alla libertà di parola e di insegnamento. Sollecitiamo le università britanniche a continuare a lottare contro ogni forma di razzismo, antisemitismo compreso. Il documento dell’IHRA è viziato e rende un cattivo servizio a tali obiettivi. Noi pertanto ci appelliamo a tutti i senati accademici affinché respingano i decreti governativi che ne impongono l’adozione, ovvero, qualora esso sia già stato adottato, si adoperino per revocarlo. 

 

Firmatari:

  1. Prof. Hagit Borer FBA, università Queen Mary di Londra
  2. Dr. Moshe Behar, università di Manchester
  3. Dr. Yonatan Shemmer, università di Sheffield
  4. Dr. Hedi Viterbo, università Queen Mary di Londra
  5. Dr. Yael Friedman, università di Portsmouth
  6. Dr. Ophira Gamliel, università di Glasgow
  7. Dr. Moriel Ram, università di Newcastle
  8. Prof. Neve Gordon, università Queen Mary di Londra
  9. Prof. Emeritus Moshé Machover, King’s College di Londra
  10. Dr. Catherine Rottenberg, università di Nottingham
  11. PhD Candidate Daphna Baram, università di Lancaster
  12. Dr. Yuval Evri, King’s College Londra
  13. Dr. Yohai Hakak, Brunel università di Londra
  14. Dr. Judit Druks, University College Londra
  15. PhD Candidate Edith Pick, università Queen Mary di Londra
  16. Prof. Emeritus Avi Shlaim FBA, università di Belfast
  17. Dr. Hagar Kotef, SOAS, università di Londra
  18. Prof. Emerita Nira Yuval-Davis, università di East London, Premio dell’Associazione internazionale di Sociologia del 2018 per eccellenza nella Ricerca e nella Prassi .
  19. Dr. Assaf Givati, King’s College Londra
  20. Prof. Yossef Rapoport, università Queen Mary University di Londra
  21. Prof. Haim Yacobi, University College Londra
  22. Prof. Gilat Levy, London School of Economics
  23. Dr. Noam Leshem, università di Durham
  24. Dr. Chana Morgenstern, università di Cambridge
  25. Prof. Amir Paz-Fuchs, università del Sussex
  26. PhD Candidate Maayan Niezna, università del Kent
  27. Prof. Emeritus, Ephraim Nimnie, Queen’s University Belfast
  28. Dr. Eytan Zweig, università di York
  29. Dr. Anat Pick, Queen Mary, università di Londra
  30. Prof. Joseph Raz FBA, King’s College di Londra, vincitore del Tang Prize per lo Stato di Diritto, 2018
  31. Dr. Itamar Kastner, università di Edinburgo
  32. Prof. Dori Kimel, università di Oxford
  33. Prof. Eyal Weizman MBE FBA, Goldsmiths, università di Londra
  34. Dr. Daniel Mann, King’s College di Londra
  35. Dr. Shaul Bar-Haim, università dell’Essex
  36. Dr. Idit Nathan, University of the Arts Londra
  37. Dr. Ariel Caine, università Goldsmiths di Londra
  38. Prof. Ilan Pappe, università di Exeter
  39. Prof. Oreet Ashery, università di Oxford, Turner Bursary 2020
  40. Dr. Jon Simons, in pensione
  41. Dr. Noam Maggor, università Queen Mary di Londra
  42. Dr. Pil Kollectiv, università di Reading, docente dell’HEA
  43. Dr. Galia Kollectiv, università di Reading, docente dell’HEA
  44. Dr. Maayan Geva, università di Roehampton
  45. Dr. Adi Kuntsman, università metropolitana di Manchester
  46. Dr. Shaul Mitelpunkt, università di York
  47. Dr. Daniel Rubinstein, Central Saint Martins, University of the Arts, Londra
  48. Dr. Tamar Keren-Portnoy, università di York
  49. Dr. Yael Padan, University College di Londra
  50. Dr. Roman Vater, università di Cambridge
  51. Dr. Shai Kassirer, università di Brighton
  52. PhD Candidate Shira Wachsmann, Royal College of Art
  53. Prof. Oren Yiftachel, University College di Londra
  54. Prof. Erez Levon, università Queen Mary di Londra
  55. Prof. Amos Paran, University College di Londra
  56. Dr. Raz Weiner, università Queen Mary di Londra
  57. Dr. Deborah Talmi, università di Cambridge
  58. Dr. Emerita Susie Malka Kaneti Barry, università di Brunel
  59. Dottorando Ronit Matar, università di Essex
  60. Dottorando Michal Rotem, università Queen Mary di Londra
  61. DR. Mollie Gerver, università di Essex
  62. Prof. Haim Bresheeth-Zabner, SOAS
  63. Dottorando Lior Suchoy, Imperial College di Londra
  64. Dr. Michal Sapir, Independente

Accademici israeliani che appoggiano nel resto del mondo:

  1. Prof. Amos Goldberg, The Hebrew University di Gerusalemme
  2. Dottorando Aviad Albert, università di Colonia
  3. Dr. Noa Levin, Centre Marc Bloch, Berlino
  4. Prof. Paul Mendes-Flohr
  5. Dr. Uri Horesh
  6. Prof. Roy Wagner, ETH di Zurigo
  7. Prof. Dmitry Shumsky
  8. Prof. Nurit Peled-Elhanan, Università Ebraica e David Yellin Academic College
  9. Prof. Arie Dubnov, università George Washington
  10. Prof. Natalie Rothman, università di Toronto
  11. Dr. Anat Matar, università di Tel Aviv
  12. Dr. Ido Shahar, università di Haifa
  13. Prof. Nir Gov, Weizmann Institute
  14. Prof. Emeritus Amiram Goldblum, Università Ebraica di    Gerusalemme
  15. Dr. Itamar Shachar, università di Gent, Belgio
  16. Prof. Emeritus Jacob Katriel, Technion – Israel Institute of Technology
  17. Dr. Eyal Shimoni, Weizmann Institute of Science
  18. Dr. Gilad Liberman, Harvard Medical School
  19. Prof. Emeritus Emmanuel Farjoun, Università Ebraica di   Gerusalemme
  20.  
  21. Prof. Avner Ben-Amos, università di Tel Aviv
  22. Dr. Alon Marcus, The Open University di Israele
  23. Dr. Uri Davis, università di Exeter, Exeter, università UK &       AL-QUDS
  24. Prof. Emeritus Avishai Ehrlich, The Academic College di Tel Aviv-      Giaffa
  25. Prof. Naama Rokem, università di Chicago
  26. Dr. Marcelo Svirsky, università di Wollongong
  27. Prof. Atalia Omer, università di Notre Dame
  28. Prof. Emeritus, Jose Brunner, università di Tel Aviv
  29. Dr. Michael Dahan, Sapir College
  30. Dr. Naor Ben-Yehoyada, Columbia University
  31. Dr. Shai Gortler, università del Western Cape
  32. Dr. Roni Gechtman, università Mount Saint Vincent, Halifax,     Canada
  33. Prof. Ivy Sichel, UC Santa Cruz
  34. Prof. Ofer Aharony, Weizmann Institute
  35. Prof. Outi Bat-El Foux, università di Tel-Aviv
  36. Dr. Elazar Elhanan, CCNY
  37. Dr .Ofer Shinar Levanon
  38. Prof. Emeritus Isaac Nevo
  39. Prof. Emerita Nomi Erteschik-Shir, università Ben-Gurion del Negev
  40. Prof. Yinon Cohen, Columbia University
  41. Dottorando Revital Madar
  42. Prof. Yael Sharvit, UCLA
  43. Prof.  Emeritus Isaac Cohen, università statle di San Jose
  44. Dr. Kobi Snitz, Weizmann Institute of Science
  45. Dr. Irena Botwinik, Open University, Israele
  46. Prof. Niza Yanay, università Ben Gurion
  47. Prof. Julia Resnik, Università Ebraica di Gerusalemme
  48. Prof. Charles Manekin, università di Maryland
  49. Prof. Jerome Bourdon, università di Tel Aviv
  50. Dr. Ilan saban, università di Haifa
  51. Dottoranda Netta Amar-Shiff, università Ben Gurion
  52. Prof. Emeritus Ron Kuzar, università di Haifa
  53. Dr. Yanay Israeli, Hebrew università di Gerusalemme
  54. Prof. Emeritus Avner Giladi, università di Haifa
  55. Prof. Emerita Esther Levinger, università di Haifa
  56. Prof. Emeritus Micah Leshem, università di Haifa
  57. Prof. Jonathan Alschech, università della Northern British Columbia
  58. Prof. Emeritus Yehoshua Frenkel, università di Haifa
  59. Prof. Yuval Yonay, università di Haifa
  60. Prof. Emerita Vered Kraus, università di Haifa
  61. Dr. Amit G., università israeliane
  62. Dr. Shakhar Rahav, università di Haifa
  63. Prof. Emeritus Yoav Peled, università di Tel Aviv
  64. Prof. Emerita Linda Dittmar, università del Massachusetts
  65. Prof. Emeritus Uri Bar-Joseph, università di Haifa
  66. Dr. Ayelet Ben-Yishai, università di Haifa
  67. Gilad Melzer, Beit Berl College
  68. Prof. Raphael Greenberg, università di Tel Aviv
  69. Prof. Emerita Sara Helman, università Ben Gurion
  70. Dr. Itamar Mann, università di Haifa
  71. Dr. Tamar Berger

 

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Il Ministro della Sanità israeliano paragona il suo obbligo di vaccinare i palestinesi a quello che hanno i palestinesi di prendersi cura dei “delfini del Mediterraneo”

Philip Weiss

24 gennaio 2021 Mondoweiss

Quando Andrew Marr, giornalista e presentatore della BBC, ha incalzato il Ministro israeliano della Sanità Yuli Edelstein chiedendogli perché Israele non estenda il suo piano di vaccinazione ai palestinesi che vivono nei territori occupati, Edelstein ha affermato che l’obbligo che Israele ha nei loro confronti è equivalente a quello del suo omologo palestinese “di prendersi cura dei delfini del Mediterraneo.” Sì, avete sentito bene. 

Ecco quello che si sono detti. Sorprende che i servizi sui media USA parlino delle percentuali israeliane di vaccinazione come qualcosa da prendere a modello. (uno per tutti, Richard Engel di NBC)

Marr: L’ONU ha dichiarato che siete legalmente tenuti ad assicurare un accesso rapido e paritario ai vaccini anti Covid-19 ai palestinesi che vivono sotto occupazione. Perché non lo fate?

Edelstein: Per quanto riguarda i vaccini, penso che l’obbligo di Israele valga prima di tutto nei confronti dei propri cittadini. Non pagano forse le tasse per questo? Ma ciò detto, ricordo pure che è nostro interesse – non un obbligo legale – che è nostro interesse fare in modo che i palestinesi abbiano il vaccino e non trasmettano il Covid-19.

Marr: Capisco, ma i palestinesi vi hanno chiesto i vaccini e voi non glieli avete dati, e secondo la Convenzione di Ginevra, la 4^ Convenzione di Ginevra, Israele ha l’obbligo di farlo. Posso leggerglielo. L’articolo 56 dice che Israele “deve adottare e fornire le misure di profilassi e prevenzione necessarie a combattere la diffusione di malattie ed epidemie in collaborazione con le autorità locali.” Ecco, questo significa il vaccino. Perché non gli fornite il vaccino?

Edelstein: Direi che prima di tutto dovremmo analizzare anche i cosiddetti Accordi di Oslo laddove si dice chiaro e tondo che i palestinesi devono badare loro alla propria salute.

Marr: Scusi se la interrompo nuovamente, ma l’ONU afferma che su questo la legge internazionale prevale sugli Accordi di Oslo.

Edelstein: Se è responsabilità del Ministro della Sanità israeliano prendersi cura dei palestinesi, allora quale è esattamente la responsabilità del Ministro della Salute palestinese? Prendersi cura dei delfini del Mediterraneo?

Marr: Scusi, lasci che le dica che anche molti dei vostri stessi cittadini pensano che dovreste fare di più. Duecento rabbini hanno dichiarato in una petizione: “Un imperativo morale dell’ebraismo richiede di non mostrarci indifferenti nei confronti delle sofferenze del prossimo, ma di mobilitarci e offrire il nostro aiuto nel momento del bisogno.” Hanno ragione i rabbini o no?

Edelstein: Direi che i rabbini hanno sempre ragione, ma aggiungo anche che è esattamente per questo motivo che quando i palestinesi e le loro unità mediche si sono rivolti a noi per questioni sanitarie, ho autorizzato la fornitura di qualche vaccino alle equipe mediche della Autorità Nazionale Palestinese che hanno in cura pazienti Covid. Come è chiaro da questa intervista, non l’ho fatto perché credo che abbiamo degli obblighi legali in tal senso, ma perché mi rendo conto che in questa fase ci sono medici ed infermieri che non ricevono il vaccino. 

 

Alcuni anni dopo un massacro israeliano a Gaza Jimmy Carter ebbe a dire che Israele tratta i gazawi come se fossero animali e per questo venne accusato di antisemitismo; stavolta il messaggio arriva direttamente da un israeliano.

Aggiungo che è impossibile immaginare che un giornalista di un’emittente USA sia duro come Marr nei confronti del Ministro della Sanità israeliano. Anche se quel giorno si avvicina.

La contraddizione fra le posizioni che prenderanno gli USA sui temi della diversità/parità e la loro relazione con il regime suprematista ebraico diventerà schiacciante nell’era Biden. Negli USA qualunque funzionario della sanità usasse un linguaggio simile a quello di Edelstein perderebbe il posto.

 

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




La risoluzione tedesca anti –BDS viola il diritto alla libertà d’espressione

Adri Nieuwhof

8 gennaio 2021 – Electronic Intifada

Alcune istituzioni culturali tedesche hanno criticato la risoluzione del parlamento tedesco contro il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [contro Israele, ndtr.] perché determina una zona d’ombra giuridica e minaccia il diritto alla libertà d’espressione.

La risoluzione del 2019 esorta le istituzioni e le pubbliche autorità tedesche a negare finanziamenti e strutture ad associazioni della società civile che supportino il movimento BDS.

Ma in dicembre importanti istituzioni artistiche ed accademiche tedesche hanno denunciato la risoluzione come “dannosa per la sfera democratica pubblica” e hanno messo in guardia dal suo impatto negativo sul libero scambio di opinioni.

Sempre in dicembre, ciò ha suggerito una ricerca da parte del dipartimento del servizio scientifico del Bundestag, un organismo consultivo del parlamento federale, che è arrivato a una conclusione simile, secondo cui la risoluzione anti-BDS non è giuridicamente vincolante e viola il diritto alla libertà di espressione, difeso dalla Costituzione tedesca.

Esperti dell’ONU, la Lega Araba, la società civile palestinese, artisti, studiosi e attivisti della solidarietà con la Palestina hanno protestato contro la risoluzione tedesca contro il BDS.

L’élite culturale interviene

L’iniziativa “Weltoffenheit GG 5.3” di dicembre da parte di responsabili di importanti istituzioni artistiche e accademiche tedesche, tra cui il Goethe Institute, il Museo Ebraico di Hohenems [comune austriaco, ndtr.], l’Humboldt Forum [museo berlinese, ndtr.] e il Centro per la Ricerca sull’ Anti-Semitismo dell’Università Tecnica [politecnico, ndtr.] di Berlino, ha visto intervenire nella contesa l’élite culturale tedesca.

Con questa iniziativa le istituzioni si sono unite per segnalare il clima nocivo determinato dalla risoluzione anti-BDS che impedisce la libertà di parola.

Weltoffenheit si può approssimativamente tradurre come “apertura al mondo”, e GG5.3 fa riferimento all’articolo della costituzione tedesca sulla libertà di opinione nelle arti e a livello accademico.

Durante una conferenza stampa dell’11 dicembre i responsabili delle istituzioni coinvolte hanno rivelato che a causa della risoluzione temono sempre più le conseguenze di lavorare con artisti o intellettuali che sono a favore del BDS o come tali sono percepiti.

L’iniziativa ha specificamente citato come esempio le calunnie di antisemitismo contro il professor Achille Mbembe, noto a livello internazionale.

Il filosofo camerunense era stato invitato a fare il discorso d’apertura del Ruhrtriennale Festival di Bochum [rassegna triennale di arte e cultura della Ruhr, ndtr.], ma i responsabili del festival hanno subito pressioni da politici perché ritirassero l’invito allo studioso africano a causa del suo presunto antisemitismo, per le critiche delle politiche israeliane.

Il festival è stato di fatto annullato in seguito alla pandemia di COVID-19.

Le preoccupazioni dell’élite culturale sono appoggiate da oltre 1.400 firme racconte da una lettera aperta di un gruppo di artisti internazionali e tedeschi in Germania o che lavorano con istituzioni tedesche.

Entrambe le iniziative contribuiscono a un intenso dibattito pubblico, che alla fine ha spinto il responsabile tedesco per l’antisemitismo Felix Klein a suggerire l’idea di chiedere al dipartimento per il servizio giuridico del parlamento tedesco un parere consultivo sull’argomento.

Klein è indicato come la persona che ha sollecitato la risoluzione anti-BDS, che equipara quest’ultimo all’antisemitismo e si basa sulla controversa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [organizzazione intergovernativa a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] (IHRA), “un grande segno di solidarietà con Israele.”

Opinione degli esperti: dare priorità al diritto alla libertà di parola

Il rapporto dell’organismo di consulenza dei servizi scientifici del parlamento non ha affrontato il modo in cui la definizione di antisemitismo dell’IHRA, la base della risoluzione anti-BDS, viene utilizzata per mettere a tacere e calunniare i palestinesi e i loro sostenitori.

Ma il rapporto ha confermato l’affermazione dell’iniziativa Weltoffenheit, secondo cui la risoluzione non è giuridicamente vincolante: è un’opinione politica.

Il parere dell’esperto afferma che, come legge, la risoluzione sarebbe una limitazione anticostituzionale del diritto alla libertà di espressione, che è protetta dalla costituzione tedesca.

Il rapporto ha rappresentato un rimprovero nei confronti dell’esperto berlinese di antisemitismo, il professor Samuel Salzborn, che in precedenza aveva sostenuto di essere “irritato e infastidito” dall’appello dell’élite culturale tedesca.

D’altronde Salzborn aveva molto tempo fa svelato le sue tendenze antipalestinesi quando aveva twittato di essersi sentito a disagio su un treno perché “la gente vicino a te inizia a parlare di ‘Palestina’ senza nessuna ragione apparente,” un tweet accompagnato dall’ hashtag, #anti-Semitism.

Spazio per voci palestinesi?

La Germania ha una consistente comunità di circa 250.000 persone di origine palestinese, 40.000 delle quali a Berlino.

Ma molti di loro affermano di aver paura di criticare Israele o l’occupazione israeliana.

Molti giovani palestinesi non osano impegnarsi,” ha detto al quotidiano tedesco Tageszeitung [giornale berlinese di estrema sinistra, ndtr.] l’ex-presidente di un’organizzazione palestinese che ha voluto rimanere anonimo. “Temono che ciò possa danneggiare la loro carriera professionale.”

L’attivista tedesco palestinese Amir Ali conferma che in Germania i palestinesi hanno paura di parlare liberamente.

Ali è uno dei Bundestag 3 for Palestine [3 del Buntestag per la Palestina] (BT3P) che hanno citato in giudizio il parlamento tedesco per la risoluzione anti-BDS quando è stata emanata.

In un video realizzato come parte di quella campagna parla di come alcuni amici gli hanno chiesto perché è pronto a rischiare il suo futuro personale con un’azione legale.

Lo faccio perché difendere i diritti umani in generale e quelli dei palestinesi in particolare è la cosa giusta da fare… So che in Germania molti palestinesi la pensano così, ma, poiché ciò mette in pericolo il loro futuro, non possono partecipare alla nostra azione legale.”

Majed Abusalama, un attivista palestinese che ha vissuto in Germania negli ultimi 5 anni, ribadisce questa sensazione.

Non c’è alcuno spazio per un palestinese che non faccia il discorso tedesco della soluzione a due Stati, o che citi il BDS,” dice a Electronic Intifada.

La Germania sta andando molto oltre nel traumatizzare la nostra comunità.”

Abusalama è stato uno dei tre militanti denunciati in Germania per aver disturbato all’università di Berlino un evento che ospitava un politico israeliano. Ci sono voluti tre anni perché un tribunale tedesco lo assolvesse.

Nel 2018, a causa della sua partecipazione alla protesta nell’università, è stato inserito in un rapporto dell’agenzia di intelligence interna dello Stato di Berlino nella sezione sull’antisemitismo.

Ciò a sua volta lo ha portato a comparire sul The Jerusalem Post [giornale israeliano di destra in lingua inglese, ndtr.] come “un attivista filo-BDS molto aggressivo”.

Un video dell’intervento di Abusalama all’evento rivela che la descrizione è palesemente inesatta.

Tutta la faccenda lo ha sconfortato.

È stato una grave intimidazione, persecuzione, diffamazione e distruzione della mia immagine, intesa non solo a far tacere me, ma a cancellare ogni segno di attivismo palestinese per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia in Germania,” dice Abusalama.

E più in generale, afferma, “è parte del razzismo antipalestinese in aumento” in Germania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Alcuni giuristi affermano che Williamson sbaglia a obbligare le università ad attenersi alla definizione di antisemitismo

Harriet Sherwood

7 gennaio 2021 – The Guardian

Una lettera accusa il ministro dell’Istruzione di “ingerenza indebita” dopo un ordine riguardante il testo dell’IHRA

Un gruppo di eminenti giuristi, tra cui due ex-giudici di Corte d’Appello, ha accusato Gavin Williamson, il ministro all’Istruzione, di “ingerenza indebita” a danno dell’autonomia universitaria e del diritto alla libertà di espressione.

Essi affermano che l’insistenza di Williamson perché le università adottino la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, ente intergovernativo a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] oppure debbano affrontare sanzioni è “illegale e immorale”. La loro dichiarazione giunge nel bel mezzo di una certa resistenza a livello accademico alla lettera inviata in ottobre da Williamson ai vice-rettori delle università, in cui minacciava: “Se entro Natale non avrò visto la stragrande maggioranza delle istituzioni [universitarie] adottare la definizione (dell’IHRA), allora interverrò.”

In questo mese docenti dell’University College di Londra dovrebbero decidere se chiedere all’organo direttivo dell’istituzione di annullare l’adozione, nel novembre 2019, della definizione dell’IHRA. Alcuni sostengono che ciò impedisce un libero dibattito su Israele.

Oxford e Cambridge sono tra le università che nelle scorse settimane hanno adottato la definizione dell’IRHA. Il ministero dell’Istruzione afferma che, dall’invio della lettera di Williamson, almeno 27 istituzioni l’hanno adottata.

Secondo un calcolo dell’Union of Jewish Students [Unione degli Studenti Ebrei] (UJS), un totale di 48 su 133 [università] hanno al momento adottato la definizione, compresa la grande maggioranza di quelle d’eccellenza che fanno parte del Russell Group [rete di 24 università in Gran Bretagna che ricevono i 2/3 dei finanziamenti alla ricerca, ndtr.]. L’UJS sostiene che le istituzioni che resistono a fare altrettanto starebbero dimostrando “disprezzo…nei confronti dei loro studenti ebrei.”

Invece la lettera dei giuristi, pubblicata dal Guardian, afferma: “Il diritto legalmente riconosciuto alla libertà di espressione viene minacciato dalla promozione di una ‘definizione operativa giuridicamente non vincolante’ di antisemitismo intrinsecamente incoerente. La sua promozione da parte di pubbliche istituzioni sta portando alla limitazione della discussione. Le università e altri enti che rifiutano l’indicazione… di adottarla dovrebbero essere appoggiate nel fare ciò.”

Essa cita la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo relativa alla libertà di espressione, che è inserita nel diritto del Regno Unito dalla legge sui diritti umani del 1998.

Williamson ha “sbagliato giuridicamente ed eticamente in ottobre a dare indicazioni alle università inglesi di adottare e mettere in pratica” la definizione di antisemitismo dell’IHRA. Questa minaccia di sanzioni “sarebbe un’indebita interferenza con la loro autonomia.”

La lettera aggiunge: “L’impatto sul dibattito pubblico sia dentro che fuori le università è già stato significativo.”

Tra gli otto firmatari ci sono Sir Anthony Hooper e Sir Stephen Sedley, entrambi giudici di Corte d’Appello in pensione.

L’opposizione accademica all’adozione generalizzata della definizione dell’IHRA si concentra sulla libertà di espressione, e in particolare sul fatto se verrebbero impedite le critiche al modo in cui Israele tratta il popolo palestinese.

La definizione dell’IHRA è di sole 40 parole.

Essa afferma: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”.

Ma essa è accompagnata da 11 esempi esplicativi, sette dei quali riguardano Israele.

Secondo il rapporto di un gruppo di lavoro istituito dal consiglio di facoltà della UCL, la definizione e gli esempi “spostano in modo sproporzionato il dibattito su Israele e Palestina nelle discussioni riguardo all’antisemitismo, confondendo potenzialmente antisionismo e antisemitismo…in modo da…rischiare di eliminare la legittima discussione e la ricerca accademica.”

Il rapporto afferma che la definizione non ha basi legali e c’è già “un vasto corpo di leggi esistenti nel Regno Unito e politiche coerenti dell’UCL che invece dovrebbero essere utilizzate come base di ogni meccanismo istituzionale per combattere l’antisemitismo.”

Le università hanno “l’esplicito obbligo statutario di proteggere la libertà di parola nel rispetto delle leggi,” dice il rapporto.

Come strumento educativo la definizione “potrebbe avere in effetti un potenziale valore, ma esso dovrebbe essere equilibrato contro effetti potenzialmente deleteri sulla libertà di parola, quali l’istigazione a una cultura della paura o all’autocensura nell’insegnamento o nella ricerca o nella discussione in aula di contenuti controversi.”

Il rapporto afferma: “La possibilità di tenere discussioni scomode o di sentirsi interpellati da idee in conflitto è al cuore del mandato dell’educazione superiore. Sono tempi in cui sentiamo la necessità di chiarire e illuminare queste tensioni invece di affrettarci ad accogliere le richieste di detrattori che potrebbero travisare questi esempi come atti di discriminazione, se dobbiamo difendere i valori della vita universitaria.”

Pur riconoscendo “prove inquietanti che incidenti di antisemitismo sono presenti nella nostra università,” il rapporto raccomanda all’organismo direttivo dell’UCL di annullare l’adozione della definizione dell’IHRA e di “prendere in considerazione alternative più coerenti.”

Il corpo docente dell’UCL avrebbe dovuto votare sulle raccomandazioni del rapporto prima di Natale, ma, data la sua importanza, ha deciso di approfondire la discussione nel nuovo anno.

Harry Goldstein, uno dei critici del rapporto, ha sostenuto che i suoi argomenti danno credito “proprio alle teorie cospirative che sono al centro dell’antisemitismo classico. Ci deve sempre essere un complotto per mettere a tacere le critiche a Israele.”

In un messaggio sul suo blog, Goldstein, che si definisce un sostenitore di Israele progressista di centro-sinistra, ha affermato che il rapporto confonde la distinzione tra critiche a Israele e antisionismo, utilizza un linguaggio tendenzioso e “non comprende la natura differente dell’antisemitismo rispetto ad altre forme di razzismo.”

Dave Rich, responsabile per le questioni politiche del Community Security Trust (CST), che assiste la comunità ebraica del Regno Unito sui problemi di sicurezza, afferma che la discussione accademica sulle definizioni di antisemitismo “perde di vista quello che realmente importa: il benessere e la sicurezza degli studenti ebrei nelle università britanniche.”

Un rapporto del CST, Campus Antisemitism in Britain 2018-20 [Antisemitismo nei campus britannici 2018-20] ha registrato un totale di 123 incidenti legati all’antisemitismo che nel corso dei due anni hanno coinvolto studenti in 34 città e cittadine.

Decisamente troppi studenti ebrei sperimentano pregiudizi e fanatismo nei campus, fuori dai campus e in rete. Ciò include l’antisemitismo dell’estrema sinistra, che mescola l’odio contro Israele con il sospetto nei confronti di ogni ebreo che non sia d’accordo con essa,” ha scritto lo scorso mese Rich.

James Harris, il presidente di UJS, ha sostenuto che la continua battaglia sulla definizione dell’IHRA è “inaccettabile”.

Ha aggiunto: “Abbiamo visto molteplici esempi di razzismo antiebraico ignorati dalle università che rifiutano sistematicamente di adottare questa definizione. Quando essa non viene usata, ciò dà la possibilità a quanti devono svolgere indagini di determinare arbitrariamente quello che ritengono costituisca antisemitismo.

La definizione dell’IHRA è la pietra angolare per garantire che l’antisemitismo, quando registrato, venga affrontato in modo tale per cui gli studenti ebrei possano aver fiducia.”

Un portavoce del ministero dell’Istruzione ha affermato: “Il governo si aspetta che le istituzioni abbiano un approccio di tolleranza zero verso l’antisemitismo, con la messa in pratica di severe misure per affrontare i problemi quando sorgono.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dal mondo della cultura italiano il sostegno alla lettera di 122 palestinesi e del mondo arabo

Pubblichiamo, ringraziando chi ha aderito, le 276 firme di sostegno alla lettera delle 122  personalità palestinesi del mondo dello spettacolo, accademico, artistico pubblicata da The Guardian il 29 novembre 2020, riguardante la definizione di antisemitismo dell’IHRA (e relativi allegati) e l’uso distorto che ne viene  fatto in Europa come negli Stati Uniti da istituzioni e Governi, volto a delegittimare la lotta per diritti e contro l’occupazione da parte dei movimenti di solidarietà con la Palestina.
Con la lettera che vedete qui sotto, abbiamo chiesto il sostegno a personalità italiane, dello stesso mondo dei 122 firmatari. Trovate insieme ai/lle primi/e firmatari/e, le firme raccolte entro il 3 gennaio, data di chiusura. Nel tempo, il passaparola ha fatto sì che si aggiungessero anche firme dell’associazionismo solidale con la Palestina.
RICHIESTA DI  APPOGGIO ALLA LETTERA PALESTINESE E DEL MONDO ARABO 21 Dicembre 2020
Chi scrive si occupa da anni di promuovere informazione e cultura relative alla Palestina, per contribuire alla loro conoscenza e valorizzazione. 
Per questo vi sottoponiamo una significativa lettera scritta da 122 artisti e intellettuali palestinesi, e di altri paesi arabi, pubblicata il 29 novembre da The Guardian.
La lettera riguarda la definizione di antisemitismo ed esprime preoccupazione sull’uso che in Europa e negli Stati Uniti, Governi e Istituzioni fanno della definizione di antisemitismo – e relativi allegati- dell’ International Holocaust Remembrance. Tale uso è volto a delegittimare la lotta contro l’oppressione dei palestinesi sotto occupazione e la negazione dei loro diritti.

Sono parole significative che pensiamo vadano sostenute anche da loro collegh* italian*.
La lettera dei/lle 122 Palestinesi ci sembra particolarmente importante in quanto mentre si esprime nettamente contro l’antisemitismo – purtroppo risorgente in occidente – ne mette in luce l’uso strumentale (uso peraltro criticato anche dal suo stesso estensore Kenneth Stern). Hanno dichiarato il loro appoggio ad essa anche un folto gruppo di ebrei di diversi paesi 
In precedenza già 40 gruppi di ebrei a livello mondiale avevano espresso la loro opposizione all’equazione antisemitismo = critica alla politica di Israele nei confronti dei palestinesi e degli stessi cittadini/e israeliani/e, ad esempio attraverso la legge sullo Stato nazione solo per ebrei.
Infine, la non distinzione tra critica delle politiche di Israele e antisemitismo rischia anche di oscurare la giusta lotta contro l’antisemitismo, che deve fondarsi su ben precisi principi.
Alessandra Mecozzi per Cultura è Libertà
Carlo Tagliacozzo per Zeitun
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Un gruppo di 122 accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi esprime le proprie
preoccupazioni sulla definizione dell’IHRA.
29 novembre 2020, The Guardian
Lettera
Noi sottoscritti accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi, dichiariamo le nostre opinioni riguardo la definizione di antisemitismo da parte dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) e il modo in cui questa definizione è stata presentata, interpretata e applicata in diversi Paesi d’Europa e del Nord America.
Negli ultimi anni la lotta contro l’antisemitismo è stata sempre più strumentalizzata dal governo israeliano e dai suoi sostenitori nel tentativo di delegittimare la causa palestinese e mettere a tacere i difensori dei diritti dei palestinesi. Sviare l’indispensabile lotta contro l’antisemitismo per favorire un tale programma minaccia di svilire questa battaglia e quindi di screditarla e indebolirla.
L’antisemitismo deve essere smascherato e combattuto. Indipendentemente dai pretesti, nessuna espressione di odio per gli ebrei in quanto ebrei dovrebbe essere tollerata in nessuna parte del mondo.
L’antisemitismo si manifesta attraverso generalizzazioni e stereotipi indiscriminati sugli ebrei, riguardanti in particolare il potere e il denaro, insieme a teorie del complotto e alla negazionedell’Olocausto.
Consideriamo legittima e indispensabile la lotta contro tali atteggiamenti. Crediamo anche che le lezioni dell’Olocausto, così come quelle di altri genocidi dei tempi moderni, debbano far parte dell’educazione delle nuove generazioni contro ogni forma di odio e pregiudizio razziale.
La lotta contro l’antisemitismo, tuttavia, deve essere affrontata in modo in termini di principi, onde evitare di vanificare il suo scopo. Attraverso gli “esempi” che fornisce, la definizione dell’IHRA fonde l’ebraismo con il sionismo partendo dal presupposto che tutti gli ebrei siano sionisti e che lo Stato di Israele nella sua condizione attuale incarni l’autodeterminazione di tutti gli ebrei. Siamo in profondo disaccordo con questo. La lotta contro l’antisemitismo non deve essere trasformata in uno stratagemma per delegittimare la lotta contro l’oppressione dei palestinesi, la negazione dei loro diritti e la continua occupazione della loro terra. A tale riguardo consideriamo fondamentali i seguenti
principi:
1. La lotta contro l’antisemitismo deve essere condotta nel quadro del diritto internazionale e dei diritti umani. Dovrebbe essere parte integrante della lotta contro tutte le forme di razzismo e xenofobia,compresi l’islamofobia e il razzismo anti-arabo e anti-palestinese. Lo scopo di questa lotta è garantire libertà ed emancipazione a tutte le categorie oppresse. Orientarlo verso la difesa di uno Stato oppressivo e rapace costituisce un profondo stravolgimento.
2. Esiste un’enorme differenza tra una condizione in cui gli ebrei vengono individuati, oppressi e soppressi come minoranza da regimi o organizzazioni antisemite e una condizione in cui l’autodeterminazione di una popolazione ebraica in Palestina / Israele è stata realizzata sotto forma di uno Stato etnico esclusivista e territorialmente espansionista. Così come esiste attualmente, lo Stato di Israele è fondato sullo sradicamento della stragrande maggioranza dei nativi – quella che palestinesi e arabi chiamano Nakba – e sulla sottomissione dei nativi che vivono ancora nel territorio della Palestina storica come cittadini di seconda classe o come popolo sotto occupazione, deprivati del diritto all’autodeterminazione.
3. La definizione di antisemitismo dell’IHRA e le relative misure legali adottate in diversi Paesi sono state utilizzate principalmente contro le organizzazioni di sinistra e quelle per i diritti umani che sostengono i diritti dei palestinesi e contro la campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento eSanzioni (BDS), mettendo da parte la reale minaccia per gli ebrei, proveniente dai movimenti nazionalisti bianchi di destra in Europa e negli Stati Uniti. La rappresentazione della campagna del BDS come antisemita è una grossolana distorsione di quello che è fondamentalmente un mezzo legittimo di lotta non violenta a favore dei diritti dei palestinesi.
4. L’affermazione della definizione dell’IHRA secondo cui un esempio di antisemitismo è “Negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele è un’iniziativa razzista” è piuttosto strana. Non si preoccupa di riconoscere che, in base al diritto internazionale, l’attuale Stato di Israele costituisce una potenza occupante da oltre mezzo secolo, come riconosciuto dai governi dei Paesi in cui viene accolta la definizione dell’IHRA. Non si preoccupa di considerare se questo diritto includa il diritto di creare una maggioranza ebraica attraverso la pulizia etnica e se debba essere bilanciato in rapporto ai diritti del popolo palestinese.
Inoltre, la definizione dell’IHRA potenzialmente scarta come antisemite tutte le visioni non sioniste del futuro dello Stato israeliano, come la difesa di uno Stato bi-nazionale o democratico laico che rappresenti allo stesso modo tutti i suoi cittadini. Un autentico sostegno al principio del diritto di un popolo all’autodeterminazione non può escludere la Nazione palestinese, né qualunque altra.
5. Crediamo che nessun diritto all’autodeterminazione debba includere il diritto di sradicare un altro popolo e impedirgli di tornare nella sua terra, o qualsiasi altro mezzo per garantire una maggioranza demografica all’interno dello Stato. La rivendicazione da parte dei palestinesi del loro diritto al ritorno nella terra da cui loro stessi, i loro genitori e nonni sono stati espulsi non può essere interpretata come antisemita. Il fatto che una tale richiesta crei ansie tra gli israeliani non prova che essa sia ingiusta, né antisemita. È un diritto riconosciuto dal diritto internazionale come dichiarato nella risoluzione 194 del 1948 dell’assemblea generale delle Nazioni Unite.
6. Rivolgere indistintamente l’accusa di antisemitismo contro chiunque consideri razzista l’attuale Stato di Israele, nonostante l’effettiva discriminazione istituzionale e costituzionale su cui si basa, equivale a garantire a Israele l’impunità assoluta. Israele può così deportare i suoi cittadini palestinesi, revocarne la cittadinanza o negare loro il diritto di voto, ed essere comunque immune dall’accusa di razzismo.
La definizione dell’IHRA e il modo in cui è stata applicata vietano qualsiasi discussione sullo Stato israeliano in quanto basato su una discriminazione etnico-religiosa. In tal modo viola la giustizia elementare e le norme fondamentali dei diritti umani e del diritto internazionale.
7. Crediamo che la giustizia richieda il pieno sostegno del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, inclusa la richiesta di porre fine all’occupazione internazionalmente riconosciuta dei loro territori, alla mancanza di uno Stato e alla deprivazione dei rifugiati palestinesi. La soppressione dei diritti dei palestinesi nella definizione dell’IHRA rivela un atteggiamento di sostegno ai privilegi anziché ai diritti degli ebrei in Palestina invece dei diritti ebraici, in Palestina e, invece della sicurezza ebraica, la
supremazia ebraica sui palestinesi. Crediamo che i valori e i diritti umani siano inseparabili e che la lotta contro l’antisemitismo debba andare di pari passo con la lotta a nome di tutti i popoli e gruppi oppressi per la dignità, l’uguaglianza e l’emancipazione.
Prime adesioni dall’Italia:
1. Cristina Alziati, Poetessa e traduttrice
2. Roberto Beneduce, Antropologo,Docente Universitario,
3. Luciano Canfora, Storico
4. Luciana Castellina, Giornalista e scrittrice
5. Alessandra Farkas, giornalista e scrittrice
6. Iaia Forte, Attrice
7. Giorgio Forti, Docente Universitario Emerito,
8. Luciana Galliano, Musicologa
9. Domenico Gallo, Magistrato
10. Giovanna Marini, Cantautrice,Musicista
11. Citto Maselli, Regista
12. Monica Maurer, regista
13. Tomaso Montanari,Storico dell’Arte
14. Alberto Negri, Giornalista
15. Moni Ovadia, Attore, Cantante, Musicista e Scrittore
16. Livio Pepino, Magistrato
17. Nicola Perugini, Docente Universitario
18. Marco Revelli, Docente Universitario
19. Annamaria Rivera, Antropologa, Docente Universitaria
20. Eric Salerno,Giornalista
21. Salvatore Settis, Archeologo e Storico dell’Arte
22. Giuliana Sgrena, Giornalista e scrittrice
23. Gianni Tognoni, Membro Agenzia del Farmaco e Segretario Tribunale dei Popoli
24. Carlo Rovelli, Fisico, scrittore, Université de Aix-Marseille.
25. Francesco Pallante, costituzionalista
26. Marco Paolini drammaturgo e attore
27. Daniele Sepe musicista
28. Simona Taliani, antropologa docente universitaria
29. Marco Martinelli, drammaturgo e regista
30. Ermanna Montanari, attrice e scenografa
31. Angelo D’Orsi, storico
32. Enrico Pugliese docente universitario emerito
33. Gabriele Usberti, docente universitario emerito
34. Rosita Di Peri, politologa, docente universitaria
35. Andrea Domenici, ricercatore universitario
36. Paola Rivetti, docente universitaria
37. Wasim Dahmash, docente universitario
38. Lorenzo Casini, Università Messina
39. Estella Carpi, University College London
40. Luisa Morgantini, già vice presidente del Parlamento Europeo
41. Angelo Baracca, prof. di Fisica
42. Prof. Nicola Franco Parise, Accademia dei Lincei,
43. Paola Manduca, Genetista , Genova, Italia
44. Giuseppe Cederna, attore
45. Marina Forti, giornalista e scrittrice
46. Silvia Balit comunicazione visuale
47. Andrea Anastasio
48. Luisa Moruzzi, insegnante
49. Manuela Bono, insegnante di inglese e bartender, Savona, Italia
50. Elisa Giunchi, docente universitaria
51. Enrico Calamai
52. Chiara Dimase
53. Franco Milanesi, saggista
54. Sancia Gaetani, nutrizionista
55. Alberto Clarizia, docente di Fisica
56. Fausto Gianelli, avvocato
57. Pasquale Martino, docente e saggista,Bari
58. Albertina Cuppini, Bologna
59. Maria Francesca Gulotta, docente liceale, Milano
60. Vesna Scepanovic, giornalista, Torino
61. Daniela Pioppi, docente universitaria
62. Karim Metref, educatore, giornalista.
63. Locatelli Pierluigi
64. Fabrice Olivier Dubosc, psicoanalista, etnoclinico
65. Ireo Bono, medico, Savona
66. Giovanna Lelli, ricercatrice, Università Cattolica di Lovanio, Belgio
67. Marlène Micheloni, sociologa in pensione (Università di Neuchâtel e Ginevra, Svizzera)
68. Dorys Contreras, psicologa
69. Gabriella Rossetti, Già docente universitaria antropologia
70. Miriam Garavaglia
71. Gianni Fossati
72. Fabio Cani, Direttore Ecoinformazioni
73. Giampaolo Rosso, Presidente Arci Como
74. Diego Ianiro, docente, Napoli
75. Luigi Lorusso editore, Bari
76. Daniele Barbieri, giornalista, Imola
77. Alchesay Rinaldi Castro
78. Daniela Dimase
79. Antonio Vermigli, direttore In Dialogo
80. Giuseppe Bruzzone
81. Franco Berardi, saggista
82. Loretta Mussi, dirigente medico di Sanità Pubblica
83. Michele Citoni, Roma
84. Francesco Masala, Cagliari, insegnante
85. Ada Sacchi, Roma
86. Angelo Orientale
87. Marina Collaci, giornalista, Roma
88. Francesco Andreini, insegnante
89. Susanna Sinigaglia, pubblicista, Milano
90. Marcella Saddi Cagliari
91. Yula Sambuy, Biologa, Roma
92. Stefano Pantezzi, Avvocato, Trento
93. Maria Teresa Messidoro vice presidente Lisangà culture in movimento
94. Ugo Usseglio, contro tutti i fascismi
95. Giuseppe Callegari Mantova
96. Filippo Bianchetti, medico Varese
97. Alessandro Gemmiti – Essere Umano
98. Simona Sermoneta
99. Carmela Ieroianni Milano
100. Giovanni Acquati Inzago
101. Gabriella Bernieri Milano
102. Claudia Berton verona, insegnante e scrittrice
103. Daniela Deho, Bergamo, insegnante
104. Rosanna Lauro Cagliari
105. Ettore Acocella, cooperante, Roma
106. Brunella Pepori
107. Antonia Sani, docente materie letterarie
108. Michele Perchiazzi
109. Slvano Rigotti . Torino
110. Giorgio Treves, regista
111. Piera Redaelli, traduttrice
112. Nadia Pagani, Università di Bologna
113. Allan Christensen, professore emerito, università John Cabot
114. Fiorenzo Fantaccini, docente Università di Firenze
115. Ugo Giannangeli, avvocato
116. Diego Bombardelli, insegnante
117. Pier Giorgio Righetti, Politecnico di Milano
118. Giovanni Mottura, sociologo, Università di Modena e Reggio Emilia
119. Serafina Esposito, Cagliari
120. Luigi Cazzato, docente Università di Bari
121. Roberto Bertilaccio, insegnante in pensione
122. Giusy Checola
123. Giulia Maria Gallotta
124. Raya Cohen, storica
125. Sergio Durante, musicologo, Unipd
126. Giuseppe Acconcia, giornalista e docente universitario
127. Robert Jennings, docente Università di Milano (in pensione)
128. Paolo La Spisa, Università di Firenze
129. Marco Ramazzotti Stockel, consulente x sviluppo rurale
130. Antonio Fantoni, Professore Emerito della Sapienza
131. Sandro Tripepi, Università della Calabria
132. Raffaele Porta, Biochimico, docente Università di Napoli Federico II
133. Paolo Ramazzotti, economista, Università di Macerata
134. Vincenzo Pezzino, docente universitario di Medicina in pensione,
135. Margherita Gaetan
136. Pietro Deandrea, Università di Torino
137. Aldo Lotta , traduttore
138. Antonella Picchio, IAFFE (International Association for Feminist Economics)
139. Giovanni Esposito
140. Marco Zannetti, docente universitario emerito
141. Marina Vitale, anglista (Napoli)
142. Marcello Albanello
143. Cristina Stevanoni, già docente all’Università di Verona.
144. Marina Premoli, traduttrice
145. Gabriele Noferi, psicologo
146. Luca Tranchini, docente universitario
147. Joan Haim, tutor, Milano
148. Federico Lastaria, docente universitario, Milano.
149. Federico Zanettin, docente universitario
150. Flavia Zucco, già dirigente di ricerca CNR
151. Stefano Morosetti, già docente della Sapienza
152. Gianni Bottigliero, O.S.S., Padova
153. Rodolfo Delmonte Università Ca’ Foscari
154. Lia Forti, Ricercatrice, Università dell’Insubria
155. Chiara Maritato, assegnista di ricerca, Università di Torino
156. Monica Zoppè, Ricercatrice Biologa, CNR, Milano
157. Paola Sacchi, antropologa, Università di Torino
158. Loris Campetti, giornalista e scrittore
159. Guido Viale, pubblicista
160. Paolo Pavan, architetto
161. Adel Jabbar, sociologo
162. Elana Ochse, docente universitaria
163. Margherita Caporusso, medico
164. Marco Ammar, docente universitario
165. Marco Buttino, storico
166. Gianni Piazza, sociologo
167. Jacopo Tolja, Sorano
168. Elena Mengheri
169. Francesco Giordano . Educatore
170. Bruno Bertolini, Roma
171. Rosa Virtù, educatrice
172. Miryam Marino, scrittrice
173. Marzia Casolari, storico, docente universitaria
174. Maria Nadotti, saggista
175. Mariateresa Crosta, ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Torino
176. Antonello Boassa, scrittore, Cagliari
177. Maria Perino, docente universitaria,Torino
178. Sandro Triulzi, storico
179. Lorenzo Girodo, musicista
180. Alessandro Portelli, Università La Sapienza, Roma
181. Anita Sonego Co presidente Casa delle Donne, Milano
182. Gianna Morgantini, insegnante, Milano
183. Manuela Pennasilico, insegnante
184. Cecilia Dalla Negra, giornalista
185. Vincenza Pezzuto, Presidente la Casa delle Artiste
186. Alberto Giasanti Docente universitario Milano Bicocca
187. Laura Morini
188. Floriana Lipparini
189. Silvana Magni
190. Gabriella Grasso, Parallelo Palestina
191. Alessandro Corsi, docente universitario, Torino
192. Elisabetta Visalberghi, ricercatrice
193. Andrea Balduzzi, ricercatore in pensione, Università di Genova
194. Francesco Vacchiano, ricercatore, Università Ca’ Foscari di Venezia
195. Silvia Tarantola, insegnante
196. Roberta Bono, insegnante, Savona
197. Maria Grazia Campari avvocata, Firenze
198. Mari Casalucci, attivista ecotransfemminista
199. Nada Pretnar, insegnante, Trieste
200. Enrico Campofreda, giornalista
201. Claudia Maria Tresso, docente, Università degli Studi di Torino
202. Giampiero Ruani, Dirigente di Ricerca
203. Angela Dogliotti, insegnante, Torino
204. Haidi Gaggio Giuliani, pensionata, Genova
205. Angelo Gaccione, scrittore, Milano
206. Grazia Cantoni medico in pensione
207. Guido Ortona, Università del Piemonte Orientale (in pensione)
208. Enzo Barone
209. Sergio Perri psicanalista, Milano
210. Mauro Corali , agente di Commercio Como
211. Anna Bruna Albanello, insegnante in pensione
212. Nicoletta Cerrani, psicologa, Milano
213. Nicola Melis, docente universitario, UniCa
214. Marina Cavallini, consulente
215. Cristiana Cavagna, traduttrice, Torino
216. Nicoletta Pirotta
217. Nadia De Mond, insegnante
218. Elena Medi, sociologa, fisioterapista di comunità (in pensione)
219. Anna Invernizzi, giornalista
220. Marina Medi, insegnante
221. Giorgio Rossi, pensionato, Chioggia
222. Maria De Ceglia
223. Cinzia Benelli
224. Ionne Guerrini, insegnante, Ravenna
225. Francesca Koch, ex insegnante
226. Chantal Meloni, professore di diritto penale internazionale, università Milano
227. Olivia Fiorilli, insegnante, Parigi
228. Luciana Negro
229. Gabriella Gagliardo, insegnante
230. Giusy Diquattro, insegnante
231. Enzo Mingione, professore di sociologia
232. Filomena Rosiello
233. Daniele Gaglianone, regista e sceneggiatore
234. Matilda Zacco, studentessa e attivista per i DDUU
235. Stefania Zacco, docente universitaria, Milano
236. Simonetta Jucker Medica Milano
237. Liana Borghi, ricercatrice
238. Giovanni Burali d’Arezzo, poeta scrittore
239. Massimo Squillacciotti, antropologo
240. Sergio Fergnachino documentarista
241. Dante Bedini, insegnante di storia e filosofia in pensione
242. John Gilbert, insegnante universitario, Firenze
243. Alessandra Algostino, costituzionalista, docente universitaria, Torino
244. Tiziana Morosetti, docente universitaria, Londra
245. Checchino Antonini, giornalista, Roma
246. Sandro Busso, docente universitario, Torino
247. Carla Consiglio, docente di storia , Roma
248. Giovanni Russo Spena, diritto amministrativo docente Un. Napoli
249. Silvana Magni, pensionata, Varese
250. Fiamma Arditi, giornalista, scrittrice
251. Sandro Manzo
252. Alfonso Gianni, pubblicista. IiiRoma
253. Franco Dinelli, ricercatore scientifico e docente universitario
254. Vittorio Agnoletto, medico, professore a contratto Università degli Studi, Milano
255. Luciana Poliandri,medico, Roma
256. Domenico Cecchini, urbanista, Roma
257. Angelo Stefanini, medico, docente (in pensione) Università di Bologna
258. Massimo Loche, giornalista
259. Laura Prevedello, pensionata, Venezia
260. Luca Tagliacozzo,Fisico Barcelona
261. Ettore Vicari, Fisico,Università Pisa
262. Pasquale Calabrese, Fisico, Trieste
263. M.Simonetta Pavan, pensionata, Milano
264. Marcello Dalmonte, ricercatore
265. Liliana Ellena, insegnante e ricercatrice storica, Torino
266. Marta Fin, giornalista, Bologna
267. Erminio Capitani, docente universitario
268. Adria Petani, insegnante in pensione
269. Miriam Silvestri, insegnante in pensione – Venezia
270. Erminia Romano docente/ Formatrice, Napoli
271. Enzo Ferrara, ricercatore EPR ed educatore, Torino
272. Marinella Sanvito Insegnante Milano
273. Renata La Rovere insegnante Napoli
274. Agata Spaziante, architetto, docente universitaria in pensione, Torino
275. Serenella Angeloni Cortesi insegnante in pensione



Una definizione di antisemitismo usata in modo strumentale

 

Se le università britanniche non adotteranno entro Natale la definizione di antisemitismo proposta dall’International holocaust remembrance alliance (Ihra) rischiano le sanzioni del governo di Londra e il taglio dei finanziamenti. L’aveva annunciato lo scorso ottobre il segretario all’istruzione Gavin Williamson, accusando le università britanniche di ignorare l’antisemitismo, dato che solo 29 istituti su 133 avevano adottato la definizione dell’Ihra. Con l’avvicinarsi della fine dell’anno, il dibattito si è acceso, e alla fine di novembre 122 accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi hanno pubblicato una lettera sul Guardian in cui esprimono le loro preoccupazioni.

Come si può leggere sul sito dell’organizzazione, l’International holocaust remembrance alliance è stata fondata nel 1998 e “unisce governi ed esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione, la ricerca e la memoria a proposito dell’olocausto”. Nel maggio del 2016, l’Ihra ha adottato una definizione operativa non giuridicamente vincolante di antisemitismo, considerato come “una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei”. Per chiarire la sua posizione, l’Ihra ha aggiunto undici esempi, tra cui “negare agli ebrei il diritto all’autodeterminazione, sostenendo che l’esistenza dello stato di Israele è una espressione di razzismo” e “applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico”.

Spianare la strada
Fin dall’inizio diversi osservatori ed esperti hanno espresso delle riserve su questa definizione, in particolare sul rischio degli usi politici della formulazione adottata dall’Ihra. In uno studio pubblicato dalla Rosa Luxemburg foundation nell’ottobre del 2019, il sociologo tedesco Peter Ullrich ha documentato che la vaghezza e la debolezza della definizione hanno spianato la strada alla sua “strumentalizzazione politica, per esempio per screditare moralmente con l’accusa di antisemitismo le posizioni di chi si trova dall’altra parte nel conflitto arabo-israeliano”. Secondo la studiosa Rebecca Ruth Gold, che a luglio ha pubblicato un lungo articolo su The Political Quarterly, “con il suo intenso focus sulla critica a Israele come segno di antisemitismo, la definizione dell’Ihra è stata pesantemente usata nella soppressione dei discorsi critici nei confronti di Israele negli ultimi anni”. A essere presi di mira, sostengono gli esperti, sono stati in particolare i sostenitori della causa palestinese.

Come sottolinea la lettera pubblicata dai 122 intellettuali arabi sul Guardian, “attraverso gli ‘esempi’ che fornisce, la definizione dell’Ihra fonde l’ebraismo con il sionismo presumendo che tutti gli ebrei siano sionisti e che lo stato di Israele nella sua realtà attuale incarni l’autodeterminazione di tutti gli ebrei”.

La lotta contro l’antisemitismo, continua la lettera, “non dovrebbe essere trasformata in uno stratagemma per delegittimare la lotta contro l’oppressione dei palestinesi, la negazione dei loro diritti e la continua occupazione della loro terra”.

Il terreno è particolarmente scivoloso in un contesto accademico, dove sono in gioco le libertà soprattutto delle persone che si occupano di questioni legate alla Palestina e alle politiche israeliane. Come spiega in un commento mandato per email Nicola Perugini, docente di relazioni internazionali all’università di Edimburgo, “se applicata in ambito universitario, questa problematica definizione di antisemitismo rischia di inibire e reprimere gli insegnamenti, le discussioni insieme agli studenti e alle studenti, e gli eventi accademici pubblici in cui si affrontano le politiche di Stato discriminatorie messe in atto da Israele nei confronti della popolazione palestinese che vive in Palestina e nella diaspora”.

Il terreno è particolarmente scivoloso in un contesto accademico in cui ci si occupa di questioni legate alla Palestina e alle politiche israeliane

A oggi la definizione dell’Ihra è stata adottata da venticinque paesi, tra cui Regno Unito, Germania, Belgio, Svezia e Italia (a gennaio di quest’anno). In molti paesi in cui non è stata formalmente adottata dal governo (compresi gli Stati Uniti), la definizione è stata comunque integrata da agenzie e istituzioni dello Stato, oltre che da consigli comunali, università, mezzi d’informazione, partiti politici e organizzazioni umanitarie. Ma essendo un documento che, come indica Rebecca Ruth Gold, abbonda in “inutili tautologie”, “condizionali” e “modelli di pensiero che non hanno necessariamente una correlazione con l’antisemitismo”, si presta particolarmente a “generare equivoci, applicazioni scorrette e, infine, abusi del suo intento dichiarato”.

Un passo indietro
In un articolo su Middle East Eye, Sai Englert, che insegna economia politica del Medio Oriente all’università di Leida, nei Paesi Bassi, sottolinea che invece di identificare i fattori strutturali e istituzionali che riproducono e amplificano l’antisemitismo e ogni altra forma di razzismo, la definizione dell’Ihra si concentra solo sui rapporti interpersonali, senza alcun riferimento al contesto internazionale né alla lotta globale per il rispetto dei diritti umani. Così facendo, rischia di essere inefficace e addirittura controproducente nella lotta all’antisemitismo, come denunciano anche gli autori della lettera. Secondo Englert, la definizione dell’Ihra è “non solo imprecisa e con deboli basi giuridiche”, ma è anche un “passo indietro nella lotta contro l’antisemitismo e il razzismo in generale”.

Inoltre non fa alcuna differenza tra una condizione di oppressione degli ebrei in quanto minoranza da parte di regimi o gruppi antisemiti e la condizione in cui l’autodeterminazione della popolazione ebraica in Israele è realizzata attraverso l’occupazione e l’esclusione di un altro popolo. Come indica anche la lettera pubblicata sul Guardian, nella sua forma attuale lo Stato d’Israele si basa sullo sradicamento della grande maggioranza della popolazione nativa. I palestinesi che ancora vivono all’interno dei suoi confini sono considerati come cittadini di seconda classe, mentre gli altri sono costretti a vivere sotto occupazione militare in Cisgiordania, sotto assedio nella Striscia di Gaza oppure all’estero. Qualunque diritto di autodeterminazione gli è negato dallo stesso Stato di Israele che lo rivendica per sé. In Israele sono in vigore più di 65 leggi discriminatorie nei confronti dei palestinesi, mentre dal luglio del 2018 è in vigore la legge sullo Stato nazione, che sancisce la supremazia dei cittadini ebrei su tutti gli altri. “Il paradosso”, sostiene Perugini, è che “nel nome della lotta al razzismo e all’antisemitismo la definizione dell’Ihra protegge il razzismo di Stato”.

La lettera degli intellettuali sottolinea anche che la definizione di antisemitismo dell’Ihra e le relative misure legali adottate in vari paesi sono state usate soprattutto contro gruppi di sinistra e per la difesa dei diritti umani che sostengono le rivendicazioni dei palestinesi, ignorando che la vera minaccia nei confronti degli ebrei viene dai movimenti nazionalisti bianchi di estrema destra in Europa e negli Stati Uniti.

In particolare il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), che ha lo scopo di esercitare una pressione politica ed economica su Israele per mettere fine all’occupazione, riconoscere i diritti fondamentali dei palestinesi e rispettare il diritto al ritorno dei profughi, è stato colpito da una campagna globale di delegittimazione e discredito. A novembre gli Stati Uniti hanno dichiarato il movimento “antisemita”, mentre il governo britannico ha cercato più volte di ostacolare la sua diffusione nel paese. “Rappresentare la campagna Bds come antisemita”, si legge nella lettera pubblicata sul Guardian, “è una grave distorsione di quello che è fondamentalmente uno strumento legittimo e non violento della lotta per i diritti palestinesi”.

Il dibattito è molto complesso e sicuramente andrà avanti nelle prossime settimane. Quello che non bisogna perdere di vista, conclude Perugini, è che “l’antisemitismo va combattuto insieme a tutte le forme di razzismo, nessuna esclusa”. La lettera degli intellettuali si chiude così: “Crediamo che i valori e i diritti umani siano indivisibili e che la lotta contro l’antisemitismo dovrebbe andare di pari passo con la lotta nel nome di tutti i popoli e i gruppi oppressi per la dignità, l’uguaglianza e l’emancipazione”.

 




Boicottaggio di Israele. La Francia cerca di aggirare le decisioni della giustizia europea

François Dubuisson

14 dicembre 2020 – Orient XXI

Con una recente sentenza la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato la Francia ed ha confermato la legalità degli inviti al boicottaggio dei prodotti israeliani. Invece di adeguarsi a questa decisione, Parigi tenta di aggirarla in spregio alle leggi.

Nel giugno 2020, pronunciando una sentenza che condanna la Francia nella causa Baldassi [militante del BDS condannato da un tribunale francese, ndtr.], la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha posto fine, in linea di principio, ad una lunga controversia giudiziaria sulla legalità degli inviti al boicottaggio dei prodotti che arrivano da Israele lanciati da diverse ong nel quadro della campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), avviata nel 2005 dalla società civile palestinese.

Le autorità francesi si sono distinte a livello mondiale, avendo spinto il potere giudiziario ad applicare agli inviti dei cittadini al boicottaggio di prodotti israeliani la legislazione penale relativa all’ “incitamento all’odio e alla discriminazione” (articolo 4, comma 8 della legge del 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa). Questa politica si è concretizzata il 12 febbraio 2010 con l’adozione della “circolare Alliot-Marie (dal nome dell’allora ministra della Giustizia Alliot-Marie) che chiedeva alle procure di equiparare gli appelli al boicottaggio a “istigazioni alla discriminazione” e di avviare sistematicamente delle azioni penali.

La giurisprudenza in materia si è rivelata piuttosto controversa, alcuni giudici hanno preferito in sostanza far prevalere la libertà d’espressione sui provvedimenti repressivi. La questione è stata regolamentata dalla Corte di Cassazione, che in una sentenza del 2015 ha confermato, con una motivazione piuttosto approssimativa, la sanzione penale nei confronti dell’appello al boicottaggio dei prodotti israeliani.

Libertà d’espressione

Avendo ricevuto un ricorso sulla questione, la CEDU ha ritenuto che la condanna di una serie di militanti per aver partecipato a un’azione di boicottaggio in un supermercato fosse contraria alla libertà d’espressione. La Corte ha rilevato che “secondo quanto interpretato e applicato nel caso specifico, il diritto francese vieta ogni appello al boicottaggio di prodotti in base all’origine geografica, qualunque sia il tenore di questo appello, i suoi motivi e le circostanze in cui si inscrive”, cosa che aveva portato il giudice nazionale a considerare “in linea generale che l’invito al boicottaggio costituisse un’esortazione alla discriminazione.” Ora, secondo la Corte Europea, nello specifico ci si trova in presenza di questioni relative “all’espressione politica e militante”, riguardante “un argomento di interesse generale, quello del rispetto del diritto internazionale pubblico da parte dello Stato di Israele e della situazione dei diritti dell’uomo nei territori palestinesi occupati”. Ciò implica “un notevole livello di protezione del diritto alla libertà d’espressione.”

La Corte ne ha concluso che “l’appello al boicottaggio”, anche se è “fonte di polemiche (…), non esclude l’interesse pubblico, salvo che esso degeneri in un appello alla violenza, all’odio o all’ intolleranza.” Per queste ragioni la CEDU ha stabilito che la Francia ha violato il diritto alla libertà d’espressione, in quanto il giudice nazionale non ha “applicato le norme conformi ai principi sanciti dall’articolo 10” e non si è “basato su una valutazione ammissibile dei fatti.

Parigi insiste e firma

Dopo questa sentenza ci si poteva aspettare che le autorità francesi abrogassero le circolari che raccomandavano di perseguire le azioni di boicottaggio e in cambio indicassero che in linea di principio esse sono protette dalla libertà d’espressione. Sarebbe stata così applicata la legge ordinaria riguardante ogni discorso politico: solo l’identificazione di affermazioni specifiche che degenerino nell’antisemitismo potrebbe portare all’avvio di un procedimento penale.

Invece è stata privilegiata un’altra via, che dà l’impressione che la Francia intenda minimizzare la sentenza della Corte e conservare, almeno in apparenza, il principio della perseguibilità dell’appello al boicottaggio dei prodotti israeliani. Infatti il 20 ottobre 2020 il ministro della Giustizia francese Éric Dupont-Moretti ha fatto diffondere una nuova circolare (una “nota”) “relativa alla repressione degli inviti discriminatori al boicottaggio dei prodotti israeliani” con la quale si riafferma la base giuridica delle azioni penali, semplicemente accompagnata dal requisito più stringente della “motivazione delle sentenze di condanna.” In modo piuttosto contorto questa circolare spiega che si dovranno avviare azioni penali solo se “i fatti, considerati in concreto, rappresentano un invito all’odio o alla discriminazione,” verificando come il “tenore” dell’appello al boicottaggio in questione, le sue “motivazioni” e le sue “circostanze” ne svelino la natura criminosa. Precisa inoltre che il “carattere antisemita dell’appello al boicottaggio” può derivare non solo da “parole, gesti e scritti” che l’accompagnino, ma si può altresì “dedurre dal contesto”.

La circolare conclude che “le azioni di boicottaggio dei prodotti israeliani sono, a queste condizioni, sempre suscettibili di rappresentare il reato di stampa di istigazione pubblica alla discriminazione nei confronti (…) di un gruppo di persone in base alla loro appartenenza ad una Nazione.”

Il ministro dunque della sentenza della CEDU non prende in considerazione che la necessità di motivare in modo più preciso le condanne, ma non mette in alcun modo in discussione più approfonditamente il principio stesso della repressione dell’invito al boicottaggio. Ora, come si è visto, la CEDU ha condannato precisamente l’interpretazione data dal diritto francese, che ha finito per vietare ogni appello al boicottaggio di prodotti “in base alla loro origine geografica”, motivata dal desiderio che il diritto internazionale venga applicato ad Israele, che beneficia di una protezione potenziata rispetto alla libertà d’espressione.

Da questo punto di vista la circolare non spiega affatto in cosa dovrebbero consistere gli elementi di contenuto o di contesto suscettibili di rendere “discriminatorio” o “antisemita” un appello al boicottaggio dei prodotti israeliani, che la Corte europea stima assolutamente leciti, essendo solo delle affermazioni o delle azioni diverse che possano farlo “degenerare” a causa della loro dimensione violenta, piena d’odio o intollerante.

Giocando costantemente sull’ambiguità, la direttiva ministeriale tenta di conservare immutata l’interpretazione riguardo all’intrinseca tendenza discriminatoria dell’appello al boicottaggio. Il giudice è semplicemente invitato ad esplicitare ulteriormente la sua motivazione.

Una definizione dell’antisemitismo al servizio della repressione

La circolare rinvia in particolare all’esame dei “motivi” e dell’“intenzione” dei militanti per valutare il carattere delittuoso dell’appello al boicottaggio. Nella sentenza Baldassi la Corte ha tuttavia constatato che la campagna BDS riguarda l’espressione di opinioni politiche che mirano al rispetto del diritto internazionale da parte di Israele, una questione di interesse generale. Si fa quindi fatica a comprendere quali motivi o intenzioni che animano normalmente i militanti potrebbero rendere discriminatorio l’invito al boicottaggio, o quale “contesto” lo renda antisemita, se non facendo riferimento a un giudizio generale sul movimento BDS come espressione di un soggiacente antisemitismo, sulla base della definizione di antisemitismo adottata nel 2016 da un’organizzazione internazionale, l’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (l’International Holocaust Remembrance Alliance, IHRA), che riunisce 34 Stati membri, principalmente europei. I problemi posti da questa definizione riguardo alla libertà di critica della politica d’occupazione israeliana sono stati sottolineati molto spesso, tenendo conto del fatto che una maggioranza di esempi citati come forma contemporanea di antisemitismo è legata allo Stato di Israele “percepito come una collettività ebraica”. Ciò non ha impedito che la definizione venisse adottata in diverse forme e con una certa ambiguità in particolare da diversi Stati, istituzioni europee (parlamento e consiglio) o da partiti politici.

In Francia la “risoluzione Maillard” “intesa a lottare contro l’antisemitismo” presentata all’Assemblea Nazionale il 20 maggio 2019 intendeva confermare l’idea secondo la quale “l’antisionismo è una delle forme moderne dell’antisemitismo.” Alla fine la risoluzione è stata adottata il 3 dicembre 2019, ma in una versione mitigata, che non cita più espressamente l’antisionismo; ma essa accoglie comunque la definizione “operativa” dell’IHRA, presentata come “uno strumento efficace di lotta contro l’antisemitismo nella sua forma moderna e rinnovata, in quanto essa ingloba le manifestazioni di odio nei confronti dello Stato di Israele giustificate dalla sola percezione di quest’ultimo come collettività ebraica,” e destinata a “sostenere le autorità giudiziarie e repressive nei tentativi che esse compiono per individuare e perseguire gli attacchi antisemiti in modo più efficiente ed efficace.”

Si può quindi temere che il ragionamento che si trova alla base della nuova circolare ministeriale consista nell’isolare in modo artificioso elementi del linguaggio che accompagnano la campagna o le azioni del boicottaggio per farle corrispondere a certi esempi forniti a illustrazione della definizione dell’IHRA, e individuare così una dimensione discriminatoria o motivata dall’odio dei discorsi in questione. Senza entrare in troppi dettagli, si possono menzionare alcuni elementi degli esempi della definizione dell’IHRA che potrebbero essere attivati per tentare di “rimettere sotto accusa” gli inviti al boicottaggio.

Il trattamento discriminatorio nei confronti dello Stato di Israele”

Il primo luogo, in termini molto generali, le spiegazioni date dall’IHRA riguardo alla sua definizione suggeriscono che, certo, “criticare Israele non può essere considerato antisemita,” ma a condizione che la critica sia espressa “come si criticherebbe qualunque altro Stato.” Questa esigenza estremamente vaga è illustrata da uno degli esempi citati di seguito, che definisce antisemita “il trattamento discriminatorio nei confronti dello Stato di Israele, al quale si chiede di adottare dei comportamenti che non sono né previsti né richiesti a qualunque altro Stato democratico.” Un altro esempio è quello che rinvia al fatto di affermare che “l’esistenza dello Stato di Israele è frutto di un’impresa razzista,” consapevoli del fatto che la campagna BDS è ispirata a quella messa in pratica contro il regime razzista del Sudafrica e fa riferimento al carattere di apartheid che rappresenterebbe la politica israeliana di occupazione e di gestione della popolazione palestinese.

Questi esempi della definizione dell’IHRA sono ampiamente utilizzati dai difensori dello Stato di Israele per definire antisemiti discorsi o campagne che si limitano invece a una critica perfettamente legittima delle politiche concrete che violano il diritto internazionale e i diritti della popolazione palestinese. Il movimento BDS è spesso accusato di antisemitismo sulla base della definizione dell’IHRA. In modo significativo nel maggio 2019 il Bundestag [parlamento tedesco, ndtr.] ha adottato a larga maggioranza una risoluzione che dichiara che “le argomentazioni ed i metodi del movimento BDS sono antisemiti” e condanna “ogni dichiarazione ed aggressione antisemita che sia formulata come presunta critica alla politica dello Stato di Israele, ma che in realtà sia un’espressione di odio nei confronti degli ebrei,” in riferimento alla definizione dell’IHRA. E ancor più di recente, nel novembre 2020, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha reso pubblico un comunicato che afferma: “Come abbiamo detto chiaramente, l’antisionismo è antisemitismo. Gli Stati Uniti s’impegnano quindi ad opporsi alla campagna mondiale BDS in quanto manifestazione di antisemitismo.

Una discussione legittima

Si constata così la tendenza di alcuni Stati a utilizzare la definizione dell’IHRA per equiparare ogni azione di boicottaggio contro Israele a una forma di antisemitismo. In Francia non è pertanto da escludere l’utilizzazione di un argomento simile nel tentativo di conservare una forma di criminalizzazione delle campagne BDS. Questa dialettica si ritrova nei discorsi di una serie di personalità o di associazioni che difendono in modo quasi incondizionato la politica dello Stato di Israele, come il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF).

Ed è in questa prospettiva che nell’ambivalenza della circolare del ministro della Giustizia si potrebbe vedere un invito a definire “discriminatori” o “mossi dall’odio” gli inviti al boicottaggio dei prodotti israeliani, considerando che si riferiscono al “razzismo” della politica di colonizzazione praticata da Israele, o che applicano nei suoi confronti un “doppio standard”, in quanto non chiedono il boicottaggio in altre situazioni di violazione del diritto internazionale nel mondo. In linea di principio la sentenza della CEDU dovrebbe aver comportato una chiara smentita di questi concetti, ma la circolare pubblicata nell’ottobre 2020 fa il possibile per instillare qualche dubbio.

Per il momento gli effetti prodotti dalla circolare ministeriale francese del 20 ottobre 2020 rimangono incerti. Scatenerà una nuova ondata di procedimenti penali contro le azioni di boicottaggio, attraverso un adeguamento della loro motivazione giuridica fondato se del caso sulla definizione di antisemitismo dell’IHRA? O il pubblico ministero opterà per la prudenza, tenendo conto delle indicazioni della sentenza Baldassi ed accettando il principio della legittimità e della legalità dell’invito al boicottaggio dei prodotti provenienti da Israele?

Sia chiaro, non è affatto escluso che possano esserci delle azioni o delle affermazioni effettivamente antisemite durante o con il pretesto di azioni BDS, ma la legge ordinaria permette facilmente di farvi fronte senza che ci sia bisogno di una circolare interpretativa arzigogolata. La CEDU aveva espressamente indicato che il limite da non oltrepassare non viene raggiunto che quando l’invito al boicottaggio “degenera in un appello alla violenza, all’odio o all’intolleranza.

In effetti è qui che si trova il limite che permette di conciliare la necessaria lotta contro l’antisemitismo e la critica alla politica di Israele, che rientra in un dibattito legittimo protetto dalla libertà d’espressione.

FRANÇOIS DUBUISSON

Professore di diritto internazionale all’università libera di Bruxelles (ULB).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)