Annettere gli acquiferi: Israele e la crisi idrica nella Palestina occupata

Fareed Taamallah

28 maggio 2020 – Palestine Chronicle

La scorsa settimana la Palestinian Water Authority [Autorità Palestinese per l’Acqua] ha duramente criticato Israele per aver ridotto in modo significativo la quantità di acqua destinata alla Cisgiordania. “Stiamo affrontando questa crisi mentre sta cominciando l’estate, un periodo dell’anno in cui la gente in genere ha bisogno di più acqua, non di meno,” secondo una citazione di quanto ha detto il capo della PWA Mazen Ghneim.

Nel mio quartiere a Ramallah ogni anno durante i mesi estivi non abbiamo quasi mai acqua nelle tubature. L’acqua scorre solo un giorno alla settimana. Quindi tutte le famiglie devono fare attenzione all’orario di distribuzione dell’acqua per pianificare le attività domestiche come fare il bucato e pulire la casa. Alcune comunità palestinesi in Cisgiordania sono collegale a reti idriche “allacciate” che riforniscono gli illegali coloni israeliani. Durante i mesi secchi estivi le valvole dell’acqua che portano alle vicine comunità palestinesi vengono normalmente chiuse dalle autorità israeliane in modo che i coloni non soffrano per la mancanza di acqua.

Nei territori palestinesi la carenza di acqua non è una crisi di carattere naturale, ma piuttosto il risultato dell’occupazione israeliana che sfrutta oltre l’85% delle risorse idriche.

Fatti e dati

Israele controlla i tre principali acquiferi transfrontalieri nei territori palestinesi occupati. Il primo e più grande è l’acquifero (montano) della Cisgiordania, che è alimentato dalle piogge e genera 679 milioni di m3 di acqua all’anno. Il secondo è il fiume Giordano, che fornisce a Israele circa 450 milioni di m3 all’anno. Ai palestinesi viene negato l’accesso e la fornitura delle loro acque. Il terzo è l’acquifero costiero, che produce 450 milioni di m3 d’acqua a Israele e 55 milioni di m3 a Gaza.

La Palestina ha un buon livello di precipitazioni. Ramallah, per esempio, ha un livello medio di piogge annuali di 615 millimetri, che è quasi tanto quanto i 620 mm di Londra.

Secondo il rapporto della Palestinian Water Authority del 2012, si stima che circa 784 milioni di m3 di piogge abbiano ricaricato le falde freatiche in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Tuttavia ai palestinesi vengono destinati solo 375 milioni di m3 di queste acque sotterranee, mentre Israele ne consuma annualmente 2.346 milioni di m3.

Gli accordi di Oslo

Il problema idrico è cominciato fin dall’inizio dell’occupazione israeliana della Palestina, ma è stato esacerbato nel 1995 dall’accordo provvisorio Oslo II tra l’OLP e il governo israeliano. Gli accordi di Oslo prevedevano “l’uso equo delle risorse idriche comuni da mettere in pratica durante e dopo il periodo transitorio.” Ma in realtà ciò non è mai avvenuto.

L’accordo che avrebbe dovuto essere di un periodo temporaneo di cinque anni limitò lo sviluppo delle risorse idriche palestinesi, e venne inquadrato nell’assunto che le necessità idriche palestinesi fossero di 70-80 milioni di m3 all’anno e che lo sviluppo provvisorio delle risorse idriche dovesse essere gestito da un meccanismo palestinese-israeliano. Gli argomenti riguardo agli “interessi comuni” (uno dei quali era l’acqua) sarebbero stati ulteriormente definiti in base ai negoziati per lo status permanente.

Il fallimento nel raggiungere un accordo definitivo ha significato l’iniqua distribuzione degli acquiferi della Cisgiordania, con il 15% destinato ai palestinesi e l’85% a Israele.

Come specificato negli accordi di Oslo, venne creata un Joint Water Committee [Comitato Congiunto per l’Acqua] (JWC) per sovrintendere a tutti i progetti relativi all’acqua e alle acque reflue in Cisgiordania. Il JWC è composto da un pari numero di rappresentanti rispettivamente di Israele e dell’Autorità Nazionale Palestinese, e le decisioni vengono prese di comune accordo. Ciò ha concesso ad Israele il potere di veto su tutti i progetti riguardanti le risorse idriche palestinesi e bloccato ogni richiesta dei palestinesi di scavare nuovi pozzi.

Pozzi costruiti o risistemati senza permessi rilasciati da Israele sono sistematicamente distrutti dalle forze di occupazione israeliane.

Apartheid idrico

Mentre le comunità palestinesi stanno affrontando la siccità e la carenza di acqua, le colonie israeliane – situate nella stessa area geografica – godono di abbondanti forniture idriche, consentendo ai coloni di riempire le loro piscine e di irrigare i loro prati e giardini. Il mancato accesso ad adeguate quantità d’acqua necessarie per l’allevamento di bestiame e per la produzione di alimenti rende beduini, allevatori e contadini particolarmente vulnerabili.

Le colonie agricole israeliane in Cisgiordania, soprattutto quelle della valle del Giordano, godono di una quantità di acqua fino a 6 volte superiore rispetto alle comunità palestinesi vicine. Nella città palestinese di Tubas il consumo quotidiano di acqua è di 30 litri a persona. Tuttavia secondo B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] gli abitanti della vicina colonia illegale israeliana di Beda’ot consumano circa 401 litri al giorno.

Mentre la popolazione palestinese è raddoppiata, la disponibilità di acqua è diminuita. Secondo il rapporto 2018 della Banca Mondiale, “con una popolazione della Cisgiordania e di Gaza di circa 4,8 milioni, che aumenta a un tasso medio annuale del 2,8%, si prevede che la differenza di forniture per uso domestico sia rispettivamente circa di 152 e di 135 milioni di m3.”

L’egemonia idrica israeliana ha lasciato i palestinesi con un disavanzo nell’allocazione idrica. Per compensare questo deficit sono stati obbligati a procurarsi da Israele circa un quarto delle forniture di acqua per uso domestico.

Secondo l’Ufficio palestinese di statistica il consumo quotidiano di acqua pro capite è attorno agli 88 litri. In confronto il consumo quotidiano di acqua pro capite in Israele è di 257 litri. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda almeno 100 litri di acqua a persona al giorno. Il consumo palestinese è inferiore al minimo.

Nella Striscia di Gaza la situazione idrica è persino peggiore. La gravissima carenza di acqua provocata dal 2007 dal brutale blocco israeliano ha portato a un pesante ricorso alla parte dell’acquifero costiero sottostante come unica fonte di rifornimento idrico di Gaza.

I due milioni di abitanti hanno estratto circa 180 milioni di m3 nel 2017, ma questa quantità è ottenuta con il pompaggio non sicuro che danneggia l’eco-sostenibilità della falda acquifera, mentre il ricarico totale è solo di un terzo di quanto viene estratto. Le conseguenze dirette dell’eccessivo pompaggio sono l’infiltrazione di acqua di mare e l’affioramento dell’acqua salmastra profonda. Di conseguenza il 97% dell’acqua non è potabile e non risponde agli standard di qualità delle linee guida riconosciute dell’OMS per le sorgenti di acqua potabile.

Piano di annessione

Israele controlla le due principali fonti idriche palestinesi in Cisgiordania (il bacino del fiume Giordano a est e l’acquifero montano occidentale) che forniscono annualmente a Israele circa 900 milioni di m3 di acqua.

Attraverso l’annessione delle zone della Cisgiordania prevista quest’anno, Israele intende impossessarsi degli acquiferi della Cisgiordania al di là dei nuovi confini israeliani conservando il controllo dei blocchi di colonie adiacenti ai bacini, in particolare la valle del Giordano e l’area di Salfit, dove si trova la mia città di origine, Qira.

Questa annessione perpetuerà gli alti livelli di consumo dell’acqua da parte di Israele negando le necessità fondamentali dei palestinesi e obbligandoli a dipendere da Israele per l’acqua, preservando così lo status quo di una drammaticamente ingiusta divisione delle risorse idriche, spegnendo ogni speranza di uno Stato palestinese e di una pace sostenibili nella regione.

Fareed Taamallah è un giornalista, agricoltore e attivista politico palestinese che vive a Ramallah. Ha fornito questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’accesso all’acqua potabile è un diritto dell’umanità. Perché in Palestina no?

Ramzy Baroud

15 aprile 2019, Middle East Monitor

Il libero accesso all’acqua potabile è un diritto fondamentale dell’umanità. Non si tratta solo di una asserzione dettata dal buon senso, ma di un vero e proprio obbligo legale sancito dal diritto internazionale. Nel novembre 2002 la Commissione ONU per i Diritti Economici, Sociali e Culturali adottò il “Commento Generale nr.15” riguardante il diritto all’acqua: “Il diritto umano all’acqua è indispensabile per condurre una vita di umana dignità. È un prerequisito per la realizzazione di altri diritti umani” (Articolo I.1)

Ma il dibattito sull’acqua come diritto dell’umanità si concluse solo anni dopo, con la Risoluzione 64/292 del 28 luglio 2010 dell’Assemblea Generale dell’ONU. Essa riconosceva esplicitamente “il diritto all’acqua potabile pulita e sicura come diritto umano essenziale per il pieno godimento della vita e di tutti gli altri diritti umani”.
Ha perfettamente senso: senza acqua non c’è vita. Tuttavia, come accade per qualunque altro diritto umano, sembra che alla Palestina venga negato anche questo.

La crisi idrica si sta abbattendo sull’intero mondo ma l’area più colpita è proprio il Medio Oriente. Le siccità legate al cambiamento climatico, le perturbazioni improvvise, la mancanza di una pianificazione centralizzata, i conflitti militari, tra le altre cose, hanno prodotto un senso di insicurezza idrica senza precedenti.

La situazione però si fa ancora più complicata in Palestina, dove la crisi idrica si collega direttamente al contesto politico più generale dell’occupazione israeliana: l’apartheid, gli insediamenti ebrei illegali, l’assedio e la guerra. Ma mentre è stata posta ragionevolmente molta attenzione sugli aspetti militari dell’occupazione israeliana, le politiche coloniali dello Stato in materia di acqua hanno attirato decisamente meno attenzione, nonostante siano un problema pressante e critico.

Secondo Ashraf Amra, il controllo totale dell’acqua è stata una delle prime politiche messe in atto da Israele dopo l’istituzione del regime militare a seguito dell’occupazione di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Striscia di Gaza nel giugno 1967. Le politiche discriminatorie di Israele, che usa e abusa delle risorse idriche palestinesi, può definirsi vero e proprio “apartheid idrico”.

Il consumo eccessivo di acqua di Israele, l’uso irregolare delle dighe, la negazione del diritto dei palestinesi ad avere la propria acqua o a scavare nuovi pozzi, hanno tutti conseguenze ambientali enormi e probabilmente irreversibili, danneggiando in maniera fondamentale l’intero ecosistema acquatico.

In Cisgiordania, Israele usa l’acqua per consolidare la dipendenza dei palestinesi dall’occupazione, usando una forma crudele di dipendenza economica per mantenere i palestinesi in un rapporto subalterno. Tale modello è supportato dal controllo delle frontiere, i checkpoint militari, la riscossione di tasse, le chiusure, i coprifuochi militari e la negazione dei permessi edilizi. La dipendenza idrica è parte integrante di questa strategia.

L’ “Accordo ad interim sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza”, conosciuto come l’Accordo di Oslo II, firmato nel settembre del 1995 a Taba, in Egitto, inasprì le iniquità di Oslo I firmato nel settembre 1993: oltre il 71% delle falde acquifere palestinesi furono messe a disposizione di Israele, mentre solo il 17% furono assegnate ai palestinesi.
Ancora più sconvolgente, il nuovo accordo incoraggiava un meccanismo volto a forzare i palestinesi a comprare la loro stessa acqua da Israele, rinforzando ancora di più il rapporto di sudditanza clientelare della Autorità Palestinese nei confronti dello Stato occupante. La compagnia idrica israeliana Mekorot, ente interamente governativo, abusa dei suoi privilegi per premiare o punire i palestinesi a suo piacimento. Nell’estate del 2016, ad esempio, l’intera comunità palestinese nella Cisgiordania occupata fu privata di acqua perché l’Autorità Palestinese non era riuscita a pagare le ingenti somme necessarie a ricomprare quell’acqua proveniente dalle stesse fonti naturali palestinesi.
Sconcertante, vero? Eppure c’è ancora chi si chiede come mai gli accordi di Oslo abbiano fallito nel tentativo di portare la tanto agognata pace nel territorio.

I numeri di questo apartheid idrico parlano chiaro: un palestinese in Cisgiordania usa in media 72 litri di acqua al giorno, un israeliano ne consuma dai 240 ai 300. Le responsabilità politiche di questa disuguaglianza nella distribuzione delle risorse d’acqua disponibili sono da attribuirsi non solo alla crudele occupazione israeliana ma anche alle politiche poco lungimiranti della leadership palestinese.
La situazione a Gaza è addirittura peggiore: il territorio sarà ufficialmente “inabitabile” entro il 2020, secondo un rapporto delle Nazioni Unite.
È letteralmente l’anno prossimo. La principale causa di questa sinistra previsione è proprio la crisi idrica di Gaza.

Secondo uno studio dellOxfam, “meno del 4% dell’acqua corrente [di Gaza] è potabile e il mare circostante è inquinato dagli scarichi fognari.” La ricerca dell’Oxfam si concludeva indicando la correlazione tra l’inquinamento idrico e il drastico aumento delle patologie renali nella Striscia di Gaza. La crisi idrico-sanitaria di Gaza si sta inasprendo anche per le frequenti chiusure dell’unica centrale elettrica operativa dell’enclave, demolendo qualsiasi speranza di trovare un rimedio.

La società statunitense RAND Corporation ha comprovato che un quarto di tutte le malattie diffuse nella zona assediata della striscia di Gaza hanno origine nella carenza di acqua. Altrettanto drammatiche sono le stime della RAND secondo cui, stando ai dati dell’Organizzazione Internazionale della Sanità, il 97% dell’acqua presente a Gaza è inadatta al consumo umano. Una situazione che in termini di sofferenza umana non può che definirsi orribile.

Gli ospedali della Striscia di Gaza stanno cercando di affrontare le grosse epidemie di malattie e patologie causate dall’acqua sporca, ma gli mancano strumenti adeguati, sono vessati dai continui tagli alla corrente elettrica e soffrono essi stessi dalla mancanza di acqua pulita. “L’acqua è spesso assente ad Al-Shifa, il più grande ospedale di Gaza” – prosegue il rapporto della RAND – “e anche quando l’acqua c’è, dottori e infermiere non riescono a sterilizzare le proprie mani per effettuare interventi chirurgici a causa della sua cattiva qualità”.
Secondo la piattaforma multimediale sull
ambiente Circle of Blue, dei due milioni di residenti a Gaza, solo il 10% ha accesso ad acqua pulita e potabile.
“I miei figli si ammalano perché manca l’acqua”, racconta a Circle of Blue Madlain Al-Najjar, madre di sei figli residente nella Striscia di Gaza, “soffrono spesso di vomito e diarrea. Spesso so riconoscere che l’acqua non è pulita, ma non abbiamo alternative”.

Il giornale inglese The Independent ha raccontato la storia di Noha Sais, madre ventisettenne di cinque figli residente a Gaza. “Nell’estate del 2017, tutti i figli di Noha si ammalarono improvvisamente, vomitando senza sosta, e furono ricoverati. Le acque putride del Mediterraneo di Gaza li avevano avvelenati”.

Il più giovane, Mohamed, un bambino di 5 anni vigoroso e in salute, contrasse un virus ignoto dal mare che si impadronì completamente del suo corpo e del suo cervello. Tre giorni dopo il viaggio, andò in coma. Dopo una settimana era già morto.”

Come Noha racconta al giornale, “I dottori dissero che l’origine dell’infezione era un germe proveniente dall’acqua di mare inquinata, ma che non potevano stabilire esattamente quale fosse. Dissero solo che se mai mio figlio si fosse ripreso, non sarebbe mai più stato lo stesso, che sarebbe stato un vegetale.”

Molti casi simili sono stati registrati in tutta Gaza, e non se ne vede la fine. Le politiche idriche di Israele sono solo una sfaccettatura di una ben più ampia guerra contro i palestinesi con l’intento di rafforzare il controllo coloniale.

A giudicare dalle testimonianze, i sionisti non hanno certo fatto “fiorire il deserto”, come afferma la propaganda israeliana. Da quando si è insediata sulle macerie di più di cinquecento città e villaggi palestinesi distrutti tra il 1947 e il 48, Israele ha fatto l’esatto opposto.

La Palestina contiene un potenziale di colonizzazione di cui gli arabi non necessitano né sono in grado di sfruttare”: queste sono le parole che il padre fondatore di Israele e primo Primo Ministro David Ben Gurion scriveva a suo figlio nel 1937. L’Israele sionista, tuttavia, ha fatto molto più che “sfruttare” quel “potenziale di colonizzazione”; ha anche assoggettato la Palestina storica a una estenuante e cruenta campagna di distruzione che non si è ancora conclusa, e che è probabile si protragga fin quando i sionisti prevarranno in Israele e nella Palestina occupata. È una ideologia razzista, egemonica e sfruttatrice. Se l’accesso all’acqua pulita è a tutti gli effetti un diritto dell’umanità, perché allora il mondo permette che Israele faccia della Palestina e dei suoi abitanti una eccezione?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Maria Monno)