Il regime israeliano di apartheid ordina la demolizione della scuola a Ein Samiya

28 agosto 2022 – Stop the wall

Mentre gli studenti in tutto il mondo aspettano la riapertura della scuola quelli palestinesi di Ein Samiya attendono con angoscia l’imminente demolizione della loro da parte di Israele. Se non si interviene per sventare questo piano per questi alunni i sogni di un futuro migliore attraverso l’accesso all’istruzione potrebbero finire sepolti dalle macerie della loro scuola se i bulldozer israeliani la abbatteranno.

All’inizio di questo mese il tribunale distrettuale israeliano a Gerusalemme, su richiesta dell’Amministrazione Civile dell’esercito di occupazione israeliano, ha emanato un ordine di demolizione contro la scuola di Ein Samiya. L’edificio è stato costruito nel gennaio 2022 su terreni privati donati da un palestinese di Kafr Malik (Ramallah).

Secondo Montaser Al- Malki, un attivista di movimenti di base a Ein Samiya: “Gli studenti della comunità beduina di Ein Samiya una volta andavano a piedi lontano, fino al villaggio di Kufr Malik, percorrendo strade insicure e fangose, specialmente in inverno. Erano spesso oggetto di attacchi dei coloni, sotto il sole d’estate e nei freddi inverni. La costruzione della scuola ha risparmiato agli alunni tutte queste traversie”. E aggiunge: “Noi crediamo che la sua presenza nella zona proteggerebbe i terreni dalla confisca e sarebbe uno dei fattori che rinforzerebbe la determinazione della comunità a resistere all’espansione delle colonie israeliane.”

La demolizione della scuola al servizio dell’espansione coloniale

La demolizione che incombe sulla scuola di Ein Samiya fa parte della sistematica pulizia etnica da parte di Israele dei palestinesi della zona e specialmente delle comunità beduine. Il sistema israeliano di apartheid sta usando politiche di apartheid contro gli studenti dell’Area C [in base agli accordi di Oslo sotto il pieno controllo israeliano, ndt]. Negare ai palestinesi uno dei diritti umani, quello all’istruzione, crea un contesto coercitivo per costringere i palestinesi ad andarsene dalle proprie terre e impossessarsene a favore dei coloni illegali.

La scuola Ras Al-Tin a Ein Samiya è l’esempio perfetto delle politiche israeliane di pulizia etnica attuata privando i palestinesi del loro diritto all’istruzione. La scuola Ras Al-Tin, edificata nel 2020, è stata utilizzata solo per un mese poiché poco dopo i bulldozer l’hanno ridotta in macerie. La distruzione, che ha coinciso ed è stata seguita dall’intensificarsi delle demolizioni di abitazioni e dalla sistematica violenza dell’esercito, si è conclusa nel 2022 con lo sfratto della comunità di Ras Al-Tin. Per il regime di apartheid di Israele i 120 palestinesi che ci vivevano erano stati per decenni un ostacolo all’espansione delle colonie israeliane.

Il valore economico di Ein Samiya l’ha resa vulnerabile a fronte dell’espansione delle colonie israeliane e delle strade di collegamento solo per ebrei. Ein Samiya è una zona agricola di 58.000 dunam [5.800 ettari]. Ha anche abbondanti risorse idriche grazie alle sei sorgenti che soddisfano le necessità delle migliaia di palestinesi residenti nei villaggi situati a nord del distretto di Ramallah.

Questo è il motivo per cui, come parecchie comunità beduine palestinesi nell’Area C, anche quella di Ein Samiya è vittima di varie pratiche e politiche israeliane di apartheid delle risorse idriche. Inoltre la comunità di Ein Samiya affronta continuamente la riduzione delle proprie terre, specialmente quelle da pascolo, come anche sistematici attacchi dei coloni.

Scuole in pericolo nell’Area C

Il caso della scuola di Ein Samiya non è l’unico di questo tipo.  Parecchie scuole nell’Area C sono minacciate da imminenti abbattimenti da parte delle autorità israeliane di occupazione.  Un totale di 51 edifici scolastici palestinesi sono costantemente minacciati di demolizione. Dal 2019 a oggi 43 scuole situate nell’Area C e 8 a Gerusalemme Est hanno ricevuto un ordine di demolizione parziale o totale.

Per esempio nella valle del Giordano cinque scuole ne hanno ricevuti parecchi e potrebbero essere rase al suolo in qualsiasi momento. Si stanno distruggendo edifici scolastici palestinesi a rischio nella valle del Giordano e un tendone sul terreno della scuola a Khirbet Al-Maleh. Questa sovraffollata scuola che va fino alla quarta elementare consiste di quattro aule per oltre 40 studenti di Khirbet Al-Maleh e delle due comunità beduine dei dintorni, Ein Al-Helweh e Al-Farsiya. 

Nel 2020 Stop the Wall ha lanciato, sul posto e internazionalmente, la campagna per il Diritto all’istruzione volta a sostenere il diritto all’educazione dei palestinesi nell’Area C. Nel corso del 2020 Stop the Wall ha operato per migliorare l’ambiente educativo e renderlo più adatto ai bambini nella scuola e nell’asilo del villaggio arabo di Al-Ka’abneh. Abbiamo anche ristrutturato e costruito altre scuole e asili nella valle del Giordano. 

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




New York Times e il podio del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite accusano Israele di apartheid

 PHILIP WEISS  

28 agosto 2022, Mondoweiss

Peter Beinart sul New York Times: le influenti organizzazioni ebraiche che denunciano come antisemiti i rapporti che accusano Israele di praticare l’apartheid sono una “minaccia alla libertà”.

Va da sé che nel dibattito pubblico degli Stati Uniti in merito alla questione israeliana le voci ebraiche abbiano un grosso peso e le voci sioniste un peso ancora maggiore. Ebbene, questa settimana, giovedì e venerdì, due influenti ex sionisti ebrei hanno dato il loro sostegno alle accuse di apartheid contro Israele – sul New York Times e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – ed entrambe le dichiarazioni hanno avuto ampia risonanza.

L’ex negoziatore israeliano Daniel Levy [presidente del US/Middle East Project, con sede a Londra e New York; ndt.] ha tenuto un discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite esortando le principali potenze a rendersi conto del fatto che la loro ipotesi di partizione è defunta. E “l’insieme sempre più consistente di accademici, giuristi e dell’opinione pubblica che accusa Israele di perpetrare l’apartheid nei territori sotto il suo controllo” sta guadagnando terreno tra le Nazioni di tutto il mondo.

E Peter Beinart [noto editorialista, giornalista e commentatore politico progressista statunitense, ndt.] ha pubblicato un editoriale sul New York Times che accoglie quasi completamente la definizione di apartheid data da Human Rights Watch e Amnesty International. L’articolo è un attacco alle organizzazioni ebraiche “influenti” che denunciano quei rapporti come presunti antisemiti, organizzazioni che rappresenterebbero una “minaccia alla libertà”. Beinart ha affermato che l’American Jewish Committee [dal 1906 una delle più antiche organizzazioni filosioniste degli USA, ndt.] e l’Anti-Defamation League [organizzazione mondiale nella lotta all’antisemitismo, ndt.] – e Deborah Lipstadt, incaricata di occuparsi di antisemitismo sotto Biden – stanno abbandonando il tradizionale impegno nei diritti umani per un cieco sostegno a Israele e si stanno schierando con i dittatori arabi per giustificare i crimini di Israele.

Entrambe le affermazioni hanno avuto un grande impatto. “Quando gli ex negoziatori israeliani come Daniel Levy parlano pubblicamente dell’apartheid in Israele non è forse ora che il Canada, che ha svolto un ruolo di primo piano a livello internazionale contro l’apartheid sudafricano, si alzi dalla panchina filo-israeliana e difenda i diritti umani in Israele e Palestina?” scrive un ex ambasciatore canadese.

I sionisti liberali sono infuriati e spingono per i due Stati. Independent Jewish Voices [rappresentanza degli ebrei canadesi impegnati per la giustizia sociale e i diritti umani, ndt.] stila una lunga lista di quanti sostengono l’accusa di apartheid. Khaled Elgindy [direttore del Programmma Palestina e Affari Israelo-Palestinesi del Middle East Institute di Washington, ndt.] dice dell’analisi di Levy secondo cui Israele non potrà mai raggiungere la sicurezza espropriando e opprimendo i palestinesi: “Che qualcosa di così ovvio e sensato debba essere affermato in modo così esplicito e ripetuto è sia sconcertante che inquietante”. J Street [associazione liberal americana che promuove la soluzione a due Stati, ndt.] sembra ignorare entrambe le affermazioni.

Questa la sezione centrale del monito di Levy. C’è solo uno Stato, ed è l’apartheid. Il futuro di Israele è a rischio. Sono notizie vecchie, ma nuove per il Consiglio di Sicurezza:

Sappiamo che alcuni sviluppi possono essere allo stesso tempo politicamente scomodi e politicamente rilevanti. L’insieme sempre più rilevante dell’opinione accademica, giuridica e pubblica che accusa Israele di perpetrare l’apartheid nei territori sotto il suo controllo è esattamente uno sviluppo di quel tipo.

La definizione data da studiosi e istituti palestinesi, successivamente esaminata e approvata dalla comunità israeliana per i diritti umani guidata da B’Tselem, è ora diventata la definizione legale per Human Rights Watch e quest’anno anche per Amnesty International. Ecco cosa risulta dall’incapacità di riconoscere le responsabilità e di lavorare per i due Stati.
Per quanto sia scomodo per alcuni, esorto quest’aula a non sottovalutare il significato a lungo termine e la direzione di ciò che sta accadendo. Lo scorso marzo a Ginevra agli incontri del Consiglio per i Diritti Umani, tutti gli Stati rappresentati nel gruppo africano, nel gruppo arabo e nel gruppo OIC [Organizzazione per la Cooperazione Islamica intergovernativa fondata nel 1969 da 57 Stati, ndt.], hanno fatto riferimento a questa situazione di apartheid.

Non sorprende che tutto ciò abbia eco e risonanza in quelle parti del mondo che hanno sperimentato l’apartheid e il colonialismo di insediamento e poi affrontato la decolonizzazione…

Deve essere un richiamo a reagire. Settantacinque anni fa le Nazioni Unite proposero la partizione come paradigma politico per la Terra Santa. Oggi quella terra è di fatto unita sotto un unico potere. In assenza di un’inedita azione di vasta portata per essere conseguenti con la partizione, i nostri successori in quest’aula dovranno discutere del compito di raggiungere l’uguaglianza in una realtà indivisa.

Ecco ora l’inizio dell’editoriale di Peter Beinart sul New York Times riguardo all’uso improprio dell’accusa di antisemitismo per difendere Israele. Israele è solo un altro governo “repressivo” che cerca di screditare i diritti umani.

Lo scorso aprile, quando Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto accusando Israele di “crimini di apartheid e persecuzione”, l’American Jewish Committee ha affermato che le argomentazioni del rapporto “a volte rasentano l’antisemitismo”. A gennaio, quando Amnesty International ha pubblicato il proprio studio in cui si afferma che Israele pratica l’apartheid, l’Anti-Defamation League ha predetto che “probabilmente porterà a un aumento dell’antisemitismo”. L’AJC e l’ADL hanno anche reso pubblica una dichiarazione insieme ad altri quattro noti gruppi ebraici americani che non solo hanno accusato il rapporto di essere parziale e impreciso, ma anche affermato che il rapporto di Amnesty “alimenta quegli antisemiti che in tutto il mondo cercano di minare l’unico Paese ebraico sulla Terra”.

I difensori dei governi repressivi spesso cercano di screditare le associazioni per i diritti umani che li criticano.

Il discorso di Beinart è degno di nota perché segna fino a che punto le organizzazioni ebraiche si sono dedicate ai diritti civili nel periodo precedente alla guerra del 1967. Da allora hanno abbandonato quell’impegno, nell’era di Israele militante e mentre la comunità ebraica organizzata è diventata sempre più conservatrice.

Ecco gli incisivi paragrafi sulle organizzazioni ebraiche che rappresentano una “minaccia alla libertà”.

Ora che qualsiasi critica allo Stato ebraico viene accolta con accuse di fanatismo anti-ebraico, importanti organizzazioni ebraiche americane e i loro alleati nel governo degli Stati Uniti hanno trasformato la lotta contro l’antisemitismo in mezzo non per difendere i diritti umani ma per negarli. La maggior parte dei palestinesi vive come cittadini di seconda classe all’interno dei confini di Israele o come non cittadini apolidi nei territori occupati da Israele nel 1967 o oltre i confini di Israele perché loro o i loro discendenti sono stati espulsi o fuggiti e non gli è stato permesso di tornare. Ma secondo la definizione di antisemitismo promossa dall’Anti-Defamation League, dall’American Jewish Committee e dal Dipartimento di Stato, i palestinesi sono antisemiti se chiedono la sostituzione di uno Stato che favorisce gli ebrei con uno che non discrimini in base all’etnia o alla religione.

Con amara ironia, la campagna contro “l’antisemitismo” condotta da influenti gruppi ebraici e dal governo degli Stati Uniti è diventata una minaccia alla libertà. Viene utilizzata come arma contro le organizzazioni per i diritti umani più rispettate al mondo e come scudo per alcuni dei regimi più repressivi del mondo. Abbiamo bisogno di un’altra lotta contro l’antisemitismo. Dovrebbe perseguire l’uguaglianza degli ebrei, non la supremazia ebraica, e includere la causa dei diritti degli ebrei in un movimento per i diritti umani in generale. Nello sforzo di difendere l’indifendibile in Israele, l’establishment ebraico americano ha abbandonato quei principi.

Beinart scredita anche Deborah Lipstadt come lacchè nelle relazioni di normalizzazione fra Israele e alcune dittature repressive.

A giugno la signora Lipstadt ha incontrato l’ambasciatore saudita a Washington e inneggiato a “i nostri obiettivi condivisi di superare l’intolleranza e l’odio”. Da lì è volata in Arabia Saudita, dove ha incontrato il Ministro degli Affari Islamici e ha riaffermato “i nostri obiettivi condivisi di promuovere la tolleranza e combattere l’odio”. Negli Emirati Arabi Uniti si è incontrata con il Ministro degli Esteri, che ha definito un “sincero partner nei nostri obiettivi condivisi” – avrete indovinato – “di promuovere la tolleranza e combattere l’odio”.

Tutto ciò non ha senso.

Il discorso di Levy è notevole perché ha messo in evidenza le recenti atrocità commesse da Israele, le uccisioni di bambini palestinesi e della giornalista Shireen Abu Akleh, e le incursioni fasciste contro sette organizzazioni palestinesi per i diritti umani con un pretesto infondato.

Dopo lo shock manifestato lo scorso anno dal Segretario Generale Guterres per il numero di bambini palestinesi uccisi e mutilati dalle forze israeliane, questo mese continuiamo a vedere la stessa tendenza e la sofferenza tra i giovanissimi a Gaza. Abbiamo assistito all’uccisione di chi riferisce e denuncia questi crimini, e Shireen Abu Akleh è stata l’ultima giornalista a pagare con la vita.

E ora questo attacco a coloro che documentano gli abusi e difendono i diritti umani, così come a chi fornisce servizi alla comunità, con le operazioni di Israele contro sei importanti organizzazioni della società civile palestinese… In seguito alla definizione da parte delle autorità israeliane delle sei ONG come terroriste, un certo numero di Paesi ha dichiarato che non erano state loro fornite prove convincenti. La scorsa settimana, gli uffici di quelle organizzazioni sono stati perquisiti e chiusi e i loro operatori interrogati.

Sono (come al solito) speranzoso che queste due affermazioni rappresentino un segno che l’establishment statunitense si stia finalmente rendendo conto della morte della soluzione dei due Stati e che il BDS guadagnerà prestigio politico. Come ha commentato insieme a me Donald Johnson, “Le cose sono cambiate a sufficienza perché i crimini israeliani non possano essere sempre cancellati o istericamente negati”.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Gaza: il carcere israeliano con un milione di minori è in emergenza riguardante la salute mentale

Omar Aziz

19 agosto 2022 – Palestine Chronicle

“Far del male durante un conflitto a qualsiasi bambino è fortemente inquietante”, ha affermato giovedì scorso Michelle Bachelet, l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, esprimendo allarme per il numero di minori palestinesi uccisi questo mese da Israele.

“L’uccisione e la mutilazione di così tanti minori durante questo anno è inaccettabile“, ha continuato.

Quindi cosa dire del fatto che Israele effettua ogni anno attacchi aerei con una tecnologia militare industrializzata all’avanguardia su un’enclave assediata composta per lo più da minori?

Il diritto umanitario internazionale è chiaro. È proibito lanciare un attacco che potrebbe uccidere o ferire accidentalmente civili, o danneggiare strutture civili, in modo sproporzionato rispetto ai concreti ed espliciti obiettivi militari. Tali attacchi devono cessare,” ha detto Bachelet.

Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese il 47% dei 2,2 milioni di abitanti di Gaza sono minorenni, altri collocano la percentuale oltre il 50%.

E la popolazione di Gaza è notoriamente ammassata soprattutto all’interno degli otto campi profughi ufficialmente riconosciuti dall’UNRWA, che sono considerati alcuni dei luoghi più densamente popolati al mondo. Eppure ognuno è ancora considerato un obiettivo legittimo da parte degli aerei da guerra israeliani.

Con questa consapevolezza ciò che diventa inequivocabilmente evidente è che ogni bomba che Israele sgancia sull’enclave assediata, crimine di guerra dopo crimine di guerra, viene sganciata con la consapevolezza che i minori sono le probabili vittime.

Che si tratti di minorenni massacrati come “danni collaterali” dei cosiddetti “attacchi di precisione mirati” o colpiti semplicemente per essere palestinesi, proprio come i cinque palestinesi uccisi il 7 agosto da un attacco missilistico mentre si trovavano sulla tomba del nonno nel cimitero di Al-Falluja, a est di Jabalya. Un crimine che l’esercito israeliano ha inizialmente negato di aver commesso, una bugia che le pubblicazioni dei principali organi di informazione occidentali hanno volutamente ripetuto a pappagallo senza esitazione nonostante la comprovata reputazione di Israele di diffondere bugie e disinformazione.

 Minori che non hanno altra scelta che subire ogni ferita inferta dallo sconvolgente potere distruttivo di Israele mentre si trovano imprigionati in questa minuscola striscia di terra.

Le cifre non sono più scioccanti, ma da incubo, distopiche. Una situazione difficilmente credibile per coloro che non hanno assistito in prima persona alla realtà o prestato attenzione alle testimonianze palestinesi.

L’accademico palestinese-americano Yousef Munayyer afferma che è ora di smettere di chiamare Gaza una “prigione a cielo aperto”, ma quello che è veramente: una camera di tortura.

Immaginate un po’: un ambiente progettato con cura per incubare e infliggere traumi psicologici, sofferenza fisica e privazione economica ha prodotto proprio questo. Che sorpresa.

Secondo Save the Children, oggi l’80% dei minorenni di Gaza dichiara di vivere con depressione, dolore e paura.

Nel corso dell’attacco a Gaza del 2014 Israele ha ucciso 547 minorenni palestinesi in sette settimane. Nel maggio 2021 ne ha ucciso 67. E questo mese a Gaza sono stati uccisi almeno 17 minori.

Ma queste non sono le uniche vittime di quell’età a Gaza.

In questo momento a Gaza c’è un milione di minori brutalizzati e traumatizzati da almeno 29 aggressioni militari dal 2003, ognuno con una voce da ascoltare, con una storia da raccontare e una vita che merita molto di più.

Gli ultimi tre giorni dell’attacco sono stati davvero tragici per me. Ho avuto molti flashback delle aggressioni vissute in precedenza.

Mi hanno fatto pensare molto a dove in realtà vivo, alla prigione in cui mi trovo, sapendo che potrei morire letteralmente da un momento all’altro mentre parlo con qualcuno, mentre sono seduto, mentre guardo la TV, mentre penso a qualcosa, perché questo è quello che è successo agli altri ragazzi”.

Ma mentre i minori palestinesi cercavano di riadattarsi alla “normalità” dell’assedio e dell’impoverimento in corso dopo gli attacchi, gli esperti militari israeliani si congratulavano via etere con il primo ministro israeliano Yair Lapid per la sua operazione “pulita”.

Lunedì 9 agosto, parlando alla stazione radio FM del quotidiano Maariv [giornale popolare israeliano, ndt.], il generale Amos Yadlin, ex capo della direzione dell’intelligence militare israeliana ed esperto ricercatore di Harvard, si rallegrava:

È stato un attacco ben riuscito. È stato davvero pulito, abbiamo colpito duramente l’ala militare di Hamas (in seguito si è corretto dicendo che intendeva la Jihad islamica), abbiamo colpito marginalmente degli innocenti e non militanti, neanche un israeliano è stato colpito, ritengo che sia un risultato eccezionale” (in ebraico).

Nel frattempo il giornalista di Haaretz [quotidiano israeliano progressista, ndt.] Amos Harel e Neri Zilber dell’Israel Policy Forum [organizzazione ebraica americana che lavora per una soluzione negoziata a due Stati al conflitto israelo-palestinese, ndt.] in un podcast di un’ora di valutazione degli attacchi del 10 agosto non hanno menzionato le morti di civili palestinesi, elogiando invece i “millimetrici” attacchi di Israele.

Era già noto in quel momento che almeno 15 minori palestinesi erano stati uccisi, mettendo in luce ciò che i palestinesi affermano da decenni: la cancellazione della Palestina e la disumanizzazione dei minori palestinesi sono le fondamenta grottesche su cui fioriscono l’apartheid e la colonizzazione israeliane.

Offrendo il punto di vista di una madre sull’educazione dei figli a Gaza, la scrittrice palestinese e madre di tre figli Rana Shubair racconta a Palestine Deep Dive [Approfondimenti sulla Palestina, rivista on-line palestinese, ndt.]:

Ho cercato di proteggere (i miei figli) dal vedere le immagini in TV, ma l’ambiente in cui vivono i nostri figli non è censurato, il che significa che ovunque andranno vedranno le immagini dei martiri.

Nell’ultima aggressione (del maggio 2021) una delle amiche di mia figlia che si trovava nella sua scuola è stata uccisa. Non credo che le mie figlie l’abbiano mai davvero dimenticata perché una di loro mi dice che la vede sempre nei suoi sogni, ed è molto difficile per loro afferrare semplicemente il concetto o la nozione di morte e tutto il resto. Tutti i bambini qui a Gaza sono molto eroici, va detto, perché sono più maturi della loro età e sono stati costretti ad assorbire cose di cui i bambini di altre parti del mondo non sanno nulla. Chiedete a qualsiasi bambino qui, vi dirà che tipo di aereo ci sta sorvolando, che si tratti di un drone o di un F-16. Conoscono tutta questa terminologia di guerra, ma come genitori, cerchiamo di trovare, credo, i modi giusti per affrontare il trauma dei nostri figli.

Dopo ogni aggressione e dopo ogni mese del continuo rigido assedio di Israele e della conseguente deprivazione economica, la salute mentale dei minori di Gaza continua inevitabilmente a deteriorarsi.

Ad esempio, nel 2018 il 60% di essi riferiva di sentirsi meno al sicuro lontano dai propri genitori ma, secondo Save the Children, poco prima dei recenti attacchi questa cifra ha raggiunto il 90%.

Nel 2018 il 50% dei minorenni riferiva di avere paura e il 55% di provare sentimenti di dolore e pochi mesi prima di questo attacco il 78% affermava di sentirsi spaventato e l’84% di provare sentimenti di dolore.

Si può solo immaginare come si sentono oggi.

Nel corso di una trasmissione di Palestine Deep Dive, il Dr. Yasser Abu Jamei, Direttore del Programma di salute mentale della comunità di Gaza, ha sottolineato la natura persistente degli eventi traumatici che pone un limite all’applicabilità [a Gaza, ndt.] del [termine ndt.] disturbo nel modo in cui viene inteso dalla psichiatria occidentale, come “Disturbo da stress post-traumatico”, rendendo così difficile la vera e propria guarigione.

In primo luogo, la condizione pre-traumatica non consiste in una vita facile, tranquilla, ecc. No, si tratta di un assedio, di un’occupazione, con più di due terzi della popolazione di Gaza nella situazione di rifugiati. E parliamo di decenni. (L’inizio) di ciò non risale solo al 1967, arriva anche al 1948. Ma oltre a questo, vivi sotto assedio, e non solo, ma all’interno di questo assedio sei soggetto ad operazioni su larga scala … e come se ciò non bastasse avverti continuamente dei segnali, cose che ti ricordano gli eventi traumatici che accadono intorno a te. Ascolti il ​​telegiornale e vedi come sia critica la situazione. Guardi il cielo e senti di continuo i rumori intensi dei droni e tutto ciò ti fa tornare alla mente i brutti ricordi.

Poi, nel periodo successivo… non c’è un vero ritorno alla vita normale. C’è di nuovo la vita come al solito sotto l’occupazione, sotto i droni, sotto il blocco ecc. Direi che la tradizionale nozione occidentale di disturbo da stress post-traumatico non è applicabile ad un posto come Gaza, ma direi che la situazione a Gaza è più grave di così. Non possiamo davvero descriverlo semplicemente come un disturbo da stress post-traumatico nel significato comune del termine. No, è molto di più“.

Nel 1991 Israele ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, che afferma che tutti i minorenni hanno i diritti fondamentali alla vita, alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla protezione dalla violenza e a un’istruzione che consenta loro di realizzare il proprio potenziale.

Eppure, sotto il suo [regime di] apartheid Israele viola impunemente questa convenzione in tutta la Palestina. Nello stesso Israele le scuole palestinesi o arabe ricevono spesso un finanziamento per ogni alunno quasi sei volte inferiore rispetto alle scuole per studenti ebrei poiché non possono essere ammesse al finanziamento da parte dell’istituzione sionista. Successivamente subiscono discriminazioni nel mercato del lavoro e sono anche soggetti alle 65 leggi razziste di Israele.

In Cisgiordania i minorenni palestinesi sono soggetti a leggi e pratiche discriminatorie. Viene loro regolarmente negato il diritto all’istruzione nel momento in cui vengono costretti ad aspettare ai posti di blocco e le loro lezioni possono essere interrotte in qualsiasi momento dall’esercito israeliano.

Secondo [l’Associazione] Defense for Children International, in Palestina ogni anno circa 500-700 minorenni palestinesi, alcuni dei quali di appena 12 anni, sono detenuti e perseguiti nei tribunali militari israeliani illegali. L’accusa più comune contro di loro è il lancio di pietre.

Il disprezzo di Israele per i diritti più fondamentali dei bambini palestinesi, incluso il diritto stesso alla vita, rivela il proposito di Israele di raggiungere una pace futura per ciò che è veramente, una palese bugia.

Ma non solo,: il travolgente silenzio della comunità internazionale mostra che la disumanizzazione dei bambini palestinesi si estende ben oltre l’apartheid di Stato di Israele.

All’indomani dell’ultimo attacco il presidente Biden ha elogiato Israele per aver “difeso il suo popolo” e i suoi sistemi militari per “aver salvato innumerevoli vite”.

Nel frattempo, questa settimana, i politici conservatori britannici in competizione per diventare il prossimo Primo Ministro, Rishi Sunak e Liz Truss, sembrano entrambi favorevoli al trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme.

Da parte dell’Occidente continua ad essere all’ordine del giorno l’istigazione in luogo delle sanzioni, senza che nulla venga proposto per scoraggiare, ogniqualvolta si verifichino, ulteriori brutali bombardamenti da parte di Israele. Le armi continuano ad affluire e la protezione diplomatica continua a fare scudo contro la giustizia.

Eppure i minori palestinesi, che saranno gli artefici di un futuro veramente stabile, dimostrano continuamente di desiderare ardentemente una vita migliore, libertà, e di niente di meno che una totale liberazione.

Con tassi di alfabetizzazione tra i più elevati a livello mondiale, formazione di compagnie di danza, società di parkour e produzione di artisti di talento come l’astro nascente rapper tredicenne MC Abdel, i minori palestinesi a Gaza stanno offrendo insegnamenti di vita al resto del mondo mentre camminano tra le macerie:

Mi piace sempre sottolineare quel lato positivo di noi che viviamo in una prigione a cielo aperto. Stiamo facendo del nostro meglio qui. Come ho detto, non abbiamo molte opportunità, ma dall’altra parte stiamo cercando di tirar fuori quelle opportunità da tutte le macerie tra cui viviamo da più di 15 anni”, dice Hind a Palestine Deep Dive.

Anche il dottor Yasser Abu Jamei illustra in maniera limpida su Palestine Deep Dive questa verità, raccontando come ha visto i bambini di Gaza indossare con orgoglio gli abiti dell’Eid [Eid Al Fitr, letteralmente “festa della rottura del digiuno”, che segna la fine del Ramadan, ndt.] che non erano stati in grado di indossare nel maggio 2021 a causa degli attacchi di Israele:

Era un abbinamento paradossale. Guidi la tua macchina o cammini per strada, vedi da un lato le macerie, le rovine e le case distrutte, e dall’altro bambini molto ben vestiti che, in mezzo alle macerie, cercano di andare a scuola e ottenere la licenza media ”.

Naturalmente, l’emergenza riguardo alla salute mentale a Gaza e le continue ingiustizie del brutale apartheid e della colonizzazione di Israele non si limitano ai minorenni, ma colpiscono i palestinesi di tutte le età.

Tuttavia ultimamente ciò che è diventato del tutto chiaro è che ogni bomba sganciata da Israele e ogni giorno che l’assedio di Gaza da parte di Israele continua, costituisceono un’ingiustizia intollerabile contro coloro che sono universalmente considerati i più innocenti: i minorenni.

Sotto l’assedio di Israele Gaza continua ad essere una prigione di un milione di minorenni e attendiamo da troppo tempo che i governi di tutto l’Occidente riconoscano finalmente questa verità per porre fine all’impunità di Israele, e che le istituzioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, agiscano senza esitazione contro questa situazione.

Omar Aziz è Direttore Associato di Palestine Deep Dive. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I bulldozer dei coloni abbattono negozi palestinesi nella Città Vecchia di Hebron

Basil Adra e Yuval Abraham 

1 agosto 2022, +972Magazine

Per vent’anni i coloni hanno saccheggiato e bruciato negozi palestinesi chiusi dall’esercito israeliano. Ora li stanno abbattendo per espandere una colonia.

Tareq al-Kiyal aveva una volta un negozio nella Città Vecchia di Hebron. Per più di 20 anni gli è stato impedito di accedervi dopo che l’esercito ne ha ordinato la chiusura e proibito ai palestinesi di entrare nell’area. Ora è in rovina: il mese scorso un colono israeliano ha distrutto il negozio con un bulldozer.

Il negozio di Al-Kiyal non è l’unico; il 6 luglio i coloni hanno distrutto quattro negozi palestinesi che l’esercito israeliano aveva inizialmente chiuso in seguito al massacro della moschea di Ibrahimi nel 1994, quando un colono israeliano uccise a colpi di arma da fuoco 29 fedeli musulmani. Sette anni dopo, al culmine della Seconda Intifada, l’esercito ha emesso un ordine formale di chiusura. Secondo i residenti palestinesi locali, anche altri due negozi sono stati parzialmente distrutti dai coloni.

I negozi si trovavano nell’area nota come mercato di Kiyal (detto anche “mercato dei cammelli”), a pochi metri dal complesso della colonia di Avraham Avinu, nel cuore di Hebron. In passato, i proprietari dei negozi palestinesi vendevano dolci, farina e formaggi. “Era la principale fonte di reddito per la mia estesa famiglia”, ha detto al-Kiyal. Abbiamo circa 20 negozi e magazzini in quest’area”.

Un funzionario dell’Amministrazione Civile – il ramo dell’esercito israeliano responsabile della vita quotidiana dei palestinesi nella Cisgiordania occupata – ha definito le azioni dei coloni “lavori di pulizia”, eseguiti secondo lui “senza autorizzazione e senza previo coordinamento”. Il portavoce dell’Amministrazione Civile ha affermato che, dopo l’intervento dell’esercito, “i lavori sono stati immediatamente sospesi, senza alcun danno alle cose”.

Ma la documentazione dei palestinesi nel giorno delle demolizioni mostra il bulldozer in azione e una visita al sito due settimane fa ha rivelato che gli edifici erano stati notevolmente danneggiati. “Nulla si muove nella Città Vecchia – e certamente nessun bulldozer entra e distrugge gli edifici – senza il via libera dell’esercito”, dice al-Kiyal.

Dalla Seconda Intifada, circa 2.500 negozi palestinesi sono stati chiusi nell’area conosciuta come H2, la parte del centro di Hebron sotto il controllo civile e militare israeliano, abitata da circa 35.000 palestinesi. Alcuni negozi sono stati chiusi su ordine militare, mentre altri sono stati abbandonati dai proprietari a causa delle severe restrizioni imposte dall’esercito alla circolazione dei palestinesi nell’area.

Quello che era il centro commerciale della Cisgiordania meridionale è diventato una città fantasma, comprese diverse strade quasi totalmente interdette ai palestinesi. Circa 800 coloni ebrei vivono nell’area sotto la piena protezione di un analogo numero di soldati e beneficiando dei diritti civili israeliani, mentre i loro vicini palestinesi vivono sotto il regolamento militare.

“In passato c’era lì un vivace mercato commerciale”, rammenta al-Kiyal. “Nel 2001 i negozi della mia famiglia sono stati chiusi su ordine militare. Negli anni successivi, i coloni hanno cercato di rimuovere le porte e trasformare il posto in un parcheggio per le loro auto. Ora hanno semplicemente distrutto i nostri negozi”. I familiari hanno sporto denuncia alla polizia, che ha precisato che “al ricevimento della denuncia è stata aperta un’indagine, ora in fase iniziale, nell’ambito della quale saranno svolte tutte le azioni necessarie per acquisire la verità.”

“L’obiettivo è ripulire la zona dai palestinesi”

Danneggiare gli edifici palestinesi chiusi non è un fenomeno nuovo. Hagit Ofran, direttore del programma Peace Now’s Settlement Watch [Osservatorio sulle colonie di Peace Now, ONG di patrocinio liberale e attivismo, ndt.] che monitora e fa campagne contro l’edilizia israeliana nella Cisgiordania occupata, ha descritto come ci si sente a camminare tra questi negozi in strade riservate solo agli ebrei: “Ci sono negozi dove sbircio dentro e vedo un ristorante con un calendario alla parete dove l’anno è ancora il 2001. Le sedie sono tirate su come si farebbe prima di pulire i pavimenti a fine giornata. Ci sono ancora le ricevute dei clienti sul tavolo.

“Un anziano palestinese, che aveva un negozio dove vendeva olio, mi ha detto che non è ancora in grado di entrarvi per svuotarlo della sua attrezzatura”, continua Ofran. “Ad oggi ha ancora dei costosi macchinari lì dentro.”

I coloni iniziarono a fare irruzione in questi negozi dopo la loro chiusura in seguito al massacro della moschea Ibrahimi, e soprattutto durante la Seconda Intifada. “Hanno fatto dei buchi nei muri e sono andati negozio dopo negozio, attraverso i muri, saccheggiando”, ha spiegato Ofran. “Ancora oggi, di tanto in tanto, irrompono in un altro negozio e prendono ciò che vi è rimasto.

Alcuni negozi sono diventati spazi ricreativi e in altri ci sono persone che oggi ci vivono. Hanno semplicemente preso possesso. Molti dei negozi sono diventati magazzini dei coloni. Vedo all’interno materassi, attrezzi da giardino e tavoli.”

Tawfiq Jahshan è direttore dell’ufficio legale del Comitato per la Costruzione di Hebron, un’organizzazione palestinese che lavora per lo sviluppo economico della Città Vecchia e la documentazione delle violazioni dei diritti umani nell’area. Ha detto a +972 che i palestinesi sul posto hanno chiamato la polizia mentre i coloni stavano distruggendo gli edifici. “Ci è stato detto al telefono che i coloni si muovevano per conto proprio, senza alcun collegamento con l’esercito, e che sarebbero andati ad arrestarli. E dopo infatti le demolizioni si sono interrotte e abbiamo sporto denuncia alla polizia”.

Secondo Jahshan, durante la Seconda Intifada l’esercito ha emesso 512 ordini di chiusura presumibilmente temporanea per i negozi nell’area di proprietà palestinese. Nella maggior parte dei casi, però, i titolari dei negozi abitano nelle vicinanze e aspettano ancora di riaprirli.

“Gli ordini di chiusura sono stati emessi con il pretesto della sicurezza, ma quello che è successo mostra che il vero obiettivo è ripulire l’area dai palestinesi e trasferire i terreni nelle mani dei coloni”, dice Jahshan. “I negozi che sono stati distrutti si trovano a 30-40 metri dalla colonia di Avraham Avinu. Li hanno distrutti in modo da poter espandere ulteriormente [la colonia]”.

“Hanno fatto di questo posto un museo dell’apartheid”

Secondo un rapporto redatto dall’Amministrazione Civile nel 2001 sul tema “Violazioni della legge – Ebrei” nella città di Hebron, i coloni agiscono secondo un metodo “sistematico e pianificato” per forzare gli edifici e i negozi palestinesi chiusi da ordini militari. In una serie di diapositive intitolate “Il Metodo”, vengono descritte tre fasi: i leader dei coloni “identificano un obiettivo” – un edificio o un negozio di proprietà palestinese; i giovani coloni irrompono, saccheggiano o danno fuoco alle attrezzature all’interno ed infine entrano nel “bersaglio” attraverso un foro praticato nel muro interno, attraverso un cortile, o attraverso uno stretto passaggio, con lo scopo di stabilirvisi. La presentazione contiene un lungo elenco di negozi di proprietà palestinese che i coloni hanno bruciato o saccheggiato in questo modo.

Nell’ultima diapositiva, l’Amministrazione Civile esprime preoccupazione per il danno all’immagine di Israele a seguito di queste azioni. “Le attività ebraiche a Hebron qui descritte, sono rappresentate, anche se in modo errato, come se fossero svolte sotto la copertura del governo israeliano”, si legge nella presentazione. “A Hebron lo Stato di Israele si presenta molto male rispetto allo stato di diritto.”

Imad Abu Shamsiyah, la cui casa si trova nella Città Vecchia di Hebron, ha documentato nel 2016 l’esecuzione di un aggressore palestinese disarmato da parte del soldato israeliano Elor Azaria. Da allora, Abu Shamsiyah è stato vittima di continue vessazioni da parte sia dei coloni che delle forze di sicurezza israeliane.

Oggi, Abu Shamsiyah guida un’organizzazione di volontariato chiamata Human Rights Defenders, i cui volontari documentano la dura realtà che li circonda e la postano su Facebook, compreso il video dei coloni che hanno demolito i negozi palestinesi alcune settimane fa. In un altro recente video caricato sulla pagina Facebook, si possono vedere coloni che prendono possesso di una casa palestinese nella Città Vecchia.

Mentre Abu Shamsiyah parlava dei negozi distrutti, i soldati stavano trattenendo un ragazzo palestinese al vicino posto di blocco. Nell’area H2, che rappresenta circa il 20% dell’area totale di Hebron, l’esercito israeliano ha allestito circa 20 posti di blocco, rendendovi i movimenti dei palestinesi difficili al punto da essere quasi impossibili. Alcuni giovani si sono avvicinati ai soldati e Abu Shamsiyah ha gridato loro di stare alla larga.

Spiega che i soldati consentono l’ingresso nell’area solo ai palestinesi di un elenco che si limita ai proprietari di appartamenti. “I miei genitori, per esempio, non possono venire a trovarmi. Non possono entrare nel quartiere passando per il posto di blocco. Sono fuori lista. Anche mio figlio non può venire a trovarmi. È stato arrestato più volte, quindi il suo nome è stato cancellato.

La distruzione dei negozi è una piccola parte di una grande ingiustizia”, continua Abu Shamsiyah. “Una volta, questo era il centro della città. Ricordo come prendevamo i taxi da qui per Jaffa, Yatta e Gaza. Ora è tutto deserto. Hanno trasformato questo posto in un museo dell’apartheid”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Accusare di apartheid non basta: un’intervista a Miloon Kothari, Alto Commissario ONU per i diritti umani 

David Kattenburg

25 luglio 2022 – Mondoweiss

Miloon Kothari, Alto Commissario ONU per i diritti umani chiarisce perché l’apartheid non basta a spiegare le cause alla radice della crisi palestinese.

Il viaggio di Joe Biden in Israele, nella Palestina occupata e in Arabia Saudita è finito in un lampo.

La Dichiarazione di Gerusalemme firmata da Biden e dal premier israeliano Yair Lapid cita le “ostilità con Hamas durate undici giorni nel maggio 2021,” e riafferma l’impegno di Washington a fornire a Israele, una potenza nucleare, 1 miliardo di dollari destinati alla difesa missilistica (oltre ai 3,8 miliardi che già riceve) e ad aiutare Israele a costruire “sistemi di armi laser ad alta energia” per difendersi da Iran e dai suoi “terroristi per procura.”

Nella Dichiarazione è degno di nota il riferimento al conflitto del maggio 2021 in cui furono uccisi oltre 250 gazawi, di cui 66 minori, e furono feriti migliaia di palestinesi. In seguito a quell’attacco il Consiglio ONU dei Diritti Umani (HRC) ha istituito una Commissione di Inchiesta per identificare “le cause profonde” degli undici giorni di violenza.

La Commissione ha presentato il suo primo rapporto al Consiglio ONU per i Diritti Umani il 7 giugno, probabilmente mentre si stilava la Dichiarazione di Gerusalemme di Biden e Lapid. A giudicare dal contenuto, il sostegno incondizionato che gli USA hanno sempre offerto a Israele sarà più complicato.

Il nome completo è lunghissimo e la dice lunga. Secondo Ia “Commissione d’Inchiesta indipendente e internazionale (COI) sui Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est e Israele”, “Israele” è effettivamente un unico Stato dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo], uno Stato chiaramente di apartheid, ma dove il problema fondamentale sono i coloni.

Navanethem (Navi) Pillay, giurista sudafricana con straordinarie credenziali (vedi sotto), presiede la Commissione, con l’australiano Chris Sidoti, consulente per i diritti umani, e Miloon Kothari, accademico e attivista indiano per i diritti umani e difensore del diritto alla casa.

Dopo il primo rapporto della Commissione, Mondoweiss ha intervistato Miloon Kothari. Le sue opinioni sono schiette e taglienti.

Un mandato sulle cause profonde

A differenza delle passate commissioni d’inchiesta dell’ONU sul “conflitto” in Medio Oriente, il mandato della Commissione Pillay non ha limiti temporali, non è soggetto a rinnovi annuali né a restrizioni nell’esame del conflitto che ha portato alla sua costituzione. Al contrario, le è stato detto di procedere con calma ed esaminare le “cause profonde sottostanti alle tensioni ricorrenti.”

E, in contrasto con le passate commissioni e i passati relatori speciali sui Territori Palestinesi Occupati (OPT), la Commissione è stata incaricata di esaminare la situazione sia nei Territori che in Israele “propriamente detto”, (“Israel itself,” come definito nel rapporto di giugno della Commissione).

“Quindi essenzialmente stiamo esaminando la situazione dei diritti umani dal fiume al mare,” dice Kothari a Mondoweiss. “Ci sono somiglianze dentro e fuori la Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndt.] e quindi bisogna fare dei collegamenti.”

Il rapporto di giugno della Commissione sottolinea questi collegamenti.

“L’impunità alimenta il crescente risentimento fra il popolo palestinese nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est e in Israele … La continua occupazione dei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est, il blocco di Gaza che dura da 15 anni e la pluriennale discriminazione entro i confini di Israele sono tutti intrinsecamente legati e non possono essere analizzati singolarmente” [corsivo aggiunto].

Miloon Kothari approfondisce il discorso.

“Ciò che è emerso nei territori occupati dal ’67 è già successo entro la Linea Verde fin dal ’48: i livelli di discriminazione, le leggi differenziate e lo spossessamento dei palestinesi in Israele,” dice Kothari a Mondoweiss. “Così io penso sia importante fare questa distinzione, ma anche tracciare dei parallelismi.”

Più facile a dirsi che a farsi. Israele non permetterà alla Commissione Pillay l’ingresso nello “Stato Ebraico” e l’Egitto non la lascerà entrare a Gaza (per ora). Quindi i commissari hanno incontrato palestinesi e israeliani ad Amman e in Europa. Una delegazione di trenta accademici ebrei israeliani, giornalisti ed ex diplomatici ha incontrato la Commissione a Ginevra.

Kothari dice a Mondoweiss: “In generale erano d’accordo con noi e ci hanno incoraggiato a continuare. L’ambasciatore israeliano non ha risposto a una richiesta di un incontro a Ginevra. Se pensano di avere qualcosa da dire dovrebbero lasciarci entrare e spiegare il loro punto di vista sull’intera situazione. Comunque non abbiamo perso la speranza. Continuiamo a provare. E a sperare che, prima o poi, ci permettano di entrare.”

Un’occupazione permanente

Una delle osservazioni più esplicite del primo rapporto della Commissione (limitato in questa fase alla revisione dei risultati delle precedenti commissioni ONU e dei relatori speciali) si riferisce all’apparente permanenza dell’occupazione israeliana.

“La Commissione nota la forza della prova indiziaria credibile che indica in modo convincente che Israele non ha intenzione di porre fine all’occupazione, attua chiaramente politiche per assicurare il controllo completo sui Territori palestinesi occupati e opera per alterare la demografia tramite il mantenimento di un contesto repressivo contro i palestinesi e favorevole ai coloni israeliani,” afferma il rapporto.

Come ha fatto notare Michael Lynk, ex relatore speciale ONU, un’occupazione belligerante “permanente” secondo il diritto internazionale è un ossimoro. Miloon Kothari va oltre.

“È stata illegale fin dagli inizi,” dice Kothari a Mondoweiss.

“Mi spingerei a sollevare la domanda sul perché (Israele è) membro delle Nazioni Unite. Perché… il governo israeliano non rispetta i propri obblighi come Stato membro dell’ONU. In realtà, sia direttamente che tramite gli Stati Uniti, cerca sempre di minare il funzionamento dell’ONU.”

E Kothari e gli altri commissari sostengono che Israele pratica il grave crimine di apartheid.

Citando osservazioni del Comitato ONU sui diritti Civili e Politici, la Commissione Pillay nota il “sistema a tre livelli sistema giuridico (israeliano) che concede uno stato civile, diritti e protezione legale differenziati a seconda che si tratti di cittadini ebrei israeliani, cittadini palestinesi di Israele e palestinesi residenti a Gerusalemme Est.”

Inoltre nel suo rapporto iniziale la Commissione sottolinea che “Israele applica una parte sostanziale della sua legislazione interna ai coloni israeliani in Cisgiordania, mentre i palestinesi sono soggetti alla legge militare israeliana.”

Limiti dell’apartheid

Ma la Commissione Pillay non è ancora pronta a uscire dal limbo dell’apartheid.

“L’apartheid è un paradigma/quadro per capire la situazione, ma non è sufficiente,” dice Kothari a Mondoweiss.

“Dobbiamo includere il colonialismo, temi generali come la discriminazione, l’occupazione e altre dinamiche per ottenere un quadro completo delle cause alla radice della crisi attuale… porre fine all’apartheid non porrà fine alla crisi dell’occupazione per il popolo palestinese … il tema dell’autodeterminazione richiede molti altri cambiamenti.”

Ma la Commissione Pillay “in futuro arriverà al tema dell’apartheid perché prenderemo in esame la discriminazione in generale, dal fiume al mare.” dice Kothari.

Nel frattempo la Commissione sta raccogliendo dati forensi per presentarli alla Corte Penale Internazionale (ICC) e alla Corte Internazionale di Giustizia.

“Il nostro lavoro consiste nel formare un archivio di tutte le testimonianze che riusciamo a raccogliere e poi, al momento appropriato, consegnarlo agli organi giudiziari che possono agire,” dice Kothari.

Documentare lo spossessamento

Il segretariato della Commissione Pillay ha a sua disposizione competenze in materia di indagine e consulenza legale, dice Kothari, ed è in contatto con la ICC. A giugno Kothari e i suoi colleghi si sono recati presso la Corte Penale Internazionale, dove hanno incontrato Nazhat Shameem Khan (nessun rapporto con il procuratore capo Karim Khan), la sostituta procuratrice e il suo team.

Mentre raccoglie testimonianze legali per futuri casi giudiziari, la Commissione Pillay progetta anche di individuare “la responsabilità di terzi” dalle “alte parti contraenti” della IV Convenzione di Ginevra. L’articolo 1 della Ginevra IV richiede loro di “rispettare e garantire il rispetto della convenzione in ogni circostanza.”

Fra i temi che la Commissione prenderà in esame con parti terze come USA, Canada e UE ci sono il trasporto di armi in Israele e il coinvolgimento delle loro imprese nell’occupazione a quanto pare permanente di Israele e l’impresa delle colonie, palesemente illegale.

“Speriamo di convincere questi Paesi ad andare oltre l’ideologia e la cieca fiducia in qualsiasi cosa faccia Israele,” dice Kothari.

La Commissione ha in mente di andare in Libano, Giordania, Egitto, Siria e Nord America, per parlare con la diaspora palestinese.

“Ci sono rifugiati che storicamente sono stati espropriati nei territori occupati,” dice Miloon Kothari a Mondoweiss.

Per documentarlo la Commissione userà dati geospaziali che “mostrano molto chiaramente… fino a che punto le dimensioni dell’occupazione si siano consolidate in Cisgiordania e i danni arrecati, per esempio, dal blocco di Gaza.”

Il rapporto della Commissione presenterà questi e altri risultati nel suo secondo rapporto all’Assemblea Generale dell’ONU nella terza settimana di ottobre 2022.

Pressioni politiche

Alcuni membri della Commissione andranno due settimane negli USA per partecipare a tavole rotonde in università e incontrare i parlamentari che siano interessati a incontrarla.

Kothari attira l’attenzione di Mondoweiss sull’Atto di Eliminazione della COI (Commissione di inchiesta). Appoggiato da 73 Repubblicani e 15 Democratici (inclusi Henry Cuellar, Josh Gottheimer e Ritchie Torres), la Risoluzione 7223 della Camera (dei Rappresentanti) chiede una riduzione del 25% degli stanziamenti USA per il Consiglio per i diritti umani che sembra corrispondere al lavoro della Commissione Pillay.

Niente fa arrabbiare gli alleati di Israele più della presidentessa sudafricana della Commissione. Navi Pillay è stata oggetto di attacchi al vetriolo dal momento della sua istituzione.

Le credenziali di Pillay sono notevoli. La prima donna ad aprire uno studio legale nella sua provincia natale di Natal, ha difeso attivisti anti-apartheid incarcerati a Robben Island, è stata giudice dell’Alta Corte del Sud Africa e poi del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda. Pillay al momento fa parte della Corte Internazionale di Giustizia, della Commissione Internazionale contro la pena di morte e del Consiglio Consultivo dell’Accademia Internazionale dei Principi di Norimberga. Presiede inoltre l’inchiesta para-giudiziaria sulla Detenzione nella Repubblica Popolare Democratica di Corea.

Le sue credenziali non fanno vacillare i suoi oppositori negli USA o in Canada. La [lobby filoisraeliana canadese] B’Nao Brith ha fatto pressione sul governo canadese per farla licenziare ed è stata consigliata (o almeno così dice) di parlare direttamente con Bob Rae, l’ambasciatore canadese.

“Su suggerimento di Rae,” riferisce la BBC, ha anche “richiesto l’aiuto della missione canadese a Ginevra.”

Global Affairs Canada (dipartimento del Governo canadese) a cui è stato chiesto se la BBC avesse veramente chiesto alla missione canadese a Ginevra di far licenziare la dott.ssa Pillay, “educatamente” mi ha detto che non hanno “nulla da aggiungere.”

Dopo il rapporto della Commissione del 7 giugno, quando la porta della stalla era spalancata e i buoi scappati, il Canada si è unito agli Usa e ad altri venti Paesi nella condanna del lavoro della Commissione. La loro lettera al Consiglio per i diritti umani esprime “profonda preoccupazione” circa il mandato “aperto” della Commissione senza “clausola di caducità, data finale o limiti precisi.”

“Nessuno è al di sopra del controllo,” sottolinea la lettera. “Dobbiamo lavorare per opporci all’impunità e promuovere il principio di responsabilità sulla base di criteri applicati in modo coerente e universale.”

Comunque, continua la lettera, “noi crediamo che la natura del COI… dimostri ulteriormente la lunga e sproporzionata attenzione verso Israele da parte del Consiglio… Noi continuiamo a credere che questo esame lungo e sproporzionato debba terminare e che il Consiglio debba affrontare tutti i temi riguardanti i diritti umani, indipendentemente dal Paese, in modo imparziale.”

Miloon Kothari concorda che ‘il Consiglio debba affrontare tutti i temi riguardanti i diritti umani, indipendentemente dal Paese, in modo imparziale”, ma respinge la “doppiezza” e il “doppiopesismo” contenuti nel resto della lettera.

“Quando si parla di Ucraina, il diritto internazionale diventa molto, molto importante,” ha detto a Mondoweiss. “E si procede a testa bassa facendo notare tutte le violazioni commesse dalla Russia. Ma le stesse violazioni di occupazione e spossessamento compiute da Israele non ricevono lo stesso trattamento.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Va tutto bene, tutti sono a favore dell’apartheid.

Hagai El-Ad

12 luglio 2022 – Haaretz

Non so perché il primo ministro Naftali Bennett abbia deciso di dare le dimissioni. Una cosa può e dev’essere subito chiara: la ragione che ha citato – l’impossibilità di far approvare il rinnovo delle disposizioni d’emergenza che estendono le leggi israeliane ai cittadini in Cisgiordania – è una narrazione di convenienza, ma non è nient’altro che questo. Non sono le disposizioni riguardanti Giudea e Samaria [definizione biblica della Cisgiordania, ndt.] che hanno fatto cadere il governo, non è riguardo ad esse che andremo a votare, e quello che è stato svelato è l’esatto contrario di quanto sostenuto: non è un dissidio che ha fatto sciogliere la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.], ma un consenso generalizzato.

Secondo la narrazione che prende a pretesto le disposizioni il 1 luglio 2022 avrebbe dovuto essere il giorno d’inizio del collasso dell’ordine pubblico nell’“area di Giudea e Samaria” e la demolizione dei legami tra Israele e quelle terre. Il primo giorno della “giungla”, del “caos” e dell’“anarchia” – tutte citazioni dal ministro della Giustizia Gideon Sa’ar alla Knesset. Il procuratore generale Gali Baharav Miara, che, per dirla in modo cortese, fa frequenti dichiarazioni pubbliche, non ha lesinato sforzi per descrivere l’abisso che si avvicinava nel conto alla rovescia da giugno a luglio. Un abisso con da una parte il beato ordine pubblico e dall’altra il minaccioso caos.

Dobbiamo finire nell’abisso o saremo salvati all’ultimo momento? Mai prima d’ora così tanti hanno atteso con il fiato così sospeso la decisione riguardo alle disposizioni, di cui la maggioranza non aveva mai sentito parlare. In ogni caso, possiamo stare tutti tranquilli. Prima di mezzanotte la Knesset si è sciolta e le disposizioni sono state automaticamente prorogate. Ma eravamo davvero sull’orlo del disastro?

Innanzitutto, disposizioni o meno, non sarebbe cambiato niente. Migliaia di prigionieri palestinesi non sarebbero usciti marciando da un lato all’altro della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndt.]. I coloni non sarebbero stati improvvisamente giudicati da tribunali militari e nessuna strenua muraglia dell’ordine pubblico si sarebbe sgretolata.

C’è un recente esempio di un’altra norma temporanea (certo, temporanea) che non si è riusciti a rinnovare: la legge razzista che vieta ai palestinesi di sposarsi a ovest della Linea Verde [cioè in Israele, ndt.] se uno di loro è residente a est di essa. La legge è scaduta nel luglio 2021. E poi cosa è successo?

Improvvisamente migliaia di coppie palestinesi hanno ottenuto uno status legale in Israele? Legge o non legge, la ministra degli Interni Ayelet Shaked ha continuato con la politica precedente. Dopo sei mesi l’Alta Corte di Giustizia ha detto qualcosa al riguardo, e due mesi dopo la legge è stata di nuovo approvata. Legge o non legge, i palestinesi non potrebbero, non possono e non potranno ottenere uno status legale qui. Disposizioni o non disposizioni, lo status degli ebrei nei territori non verrà declassato. In fin dei conti siamo i padroni della terra. Di tutta la terra.

Secondo, si noti la confusione concettuale che cerca di definire lo status quo (con le disposizioni) come “ordine” e opposto al disastro previsto (senza disposizioni) come “caos”. Com’è esattamente lo status quo, in cui milioni di sudditi vivono senza diritti da 55 anni: “ordine”? Perché un futuro non basato su disposizioni di apartheid è “caos”?

Una delle precondizioni fondamentali dello stato di diritto è l’uguaglianza davanti alla legge. Le disposizioni riguardanti Giudea e Samaria, come molti altri aspetti del regime di apartheid, sono l’esatto contrario dell’uguaglianza davanti alla legge. Pertanto sono una parte essenziale del caos, dell’anarchia morale, del disordine insito in un regime che privilegia un gruppo etnico-nazionale rispetto a un altro.

Terzo, tutto il teatrino riguardante le disposizioni su Giudea e Samaria non rivela alcun dissidio. Al contrario svela il consenso generalizzato tra l’opinione pubblica e il parlamento (eletto dalla parte dell’opinione pubblica titolare di diritti politici) riguardo al regime di supremazia ebraica sui palestinesi. Il consenso è così vasto e così solido che tutti sanno molto bene che non cambierà nulla. Questa è l’unica ragione per cui hanno voluto “giocare con il fuoco” con le disposizioni, in quanto il fuoco è ovviamente spento. Se fosse stata in gioco una questione fondamentale, non ci saremmo mai arrivati vicino.

Disposizioni o meno, quello che l’attuale vicenda (proprio come la legge sulla cittadinanza dell’anno scorso) rivela è che il regime è più potente di qualunque legge. E dato che ciò che conta sono i fatti fondamentali del regime, e non passeggere mosse politiche, non c’è niente di cui essere entusiasti.

Va tutto bene, tutti sono a favore dell’apartheid, tutti ne fanno parte (e grazie al governo del cambiamento per aver messo in chiaro questo punto). Se necessario gli aspetti formali prima o poi verranno risolti e i palestinesi continueranno a vivere secondo le leggi della giungla morale che abbiamo imposto loro. Quello che chiamiamo lo stato di diritto.

L’autore è il direttore generale di B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndt.]

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi]




La chiesa presbiteriana statunitense dichiara Israele ‘Stato di apartheid’ e crea il giorno del ricordo della Nakba.

Redazione di The New Arab

Giovedì 30 giugno 2022 –The New Arab

Durante la 225-esima assemblea generale la chiesa presbiteriana statunitense ha dichiarato Israele ‘Stato di apartheid’ e ha votato per inserire nel proprio calendario il giorno del ricordo della Nakba.

Martedì 28 giugno durante la 225-esima assemblea generale la chiesa presbiteriana statunitense ha votato per dichiarare Israele ‘Stato di apartheid’ e per inserire nel proprio calendario il giorno del ricordo della Nakba.

La chiesa dichiara di avere oltre 1,7 milioni di membri.

Secondo una dichiarazione presente sul sito web della chiesa presbiteriana la sua commissione per l’impegno internazionale ha approvato una risoluzione che riconosce che “le leggi, le politiche e le pratiche israeliane riguardo al popolo palestinese rispondono alla definizione del diritto internazionale di apartheid”.

La commissione ha anche invocato la fine dell’assedio di Gaza da parte dello Stato di Israele e ha affermato il “diritto di tutti i popoli a vivere e praticare la propria devozione in pace” a Gerusalemme.

Dei 31 membri votanti, 28 hanno approvato la risoluzione che afferma che lo Stato di Israele sta mettendo in pratica l’apartheid “istituendo due insiemi giuridici, uno per gli israeliani ed un altro per i palestinesi ,che concedono un trattamento preferenziale agli ebrei israeliani e un trattamento oppressivo ai palestinesi”.

È stata anche approvata una risoluzione che istituisce il 15 maggio come il giorno del ricordo della Nakba palestinese – che commemora la tragedia del 1948 in cui 750.000 palestinesi furono espulsi per la creazione dello Stato di Israele.

Questa risoluzione ha ricevuto nella commissione 31 voti a favore e nessuno contrario.

È stata approvata “con lo scopo di pregare per la pace” e “in solidarietà con quanti soffrono sotto occupazione”.

La risoluzione inoltre afferma che il ricordo deve essere incluso nel calendario annuale presbiteriano.

La risoluzione sollecita in modo specifico il governo statunitense ad “esortare immediatamente il governo di Israele a cessare tutte le azioni ostili che sono definite come “punizioni collettive” secondo il diritto internazionale … [e] a terminare l’assedio a Gaza”.

Le risoluzioni della chiesa presbiteriana riprendono le dichiarazioni di alcune organizzazioni per i diritti umani relative al trattamento dei palestinesi da parte di Israele.

La continua occupazione del territorio palestinese da parte di Israele e la sua persecuzione e violenza contro i palestinesi sono state definite come apartheid da Amnesty International e Human Rights Watch.

Anche l’inviato speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi ha pubblicato un rapporto che afferma che lo Stato di Israele ha imposto ai palestinesi una ‘situazione di apartheid’.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Chomsky sull’apartheid israeliano, le celebrità impegnate, il BDS e la soluzione dello Stato unico

Ramzy Baroud & Romana Rubeo

28 Giugno 2022 – The Palestine Chronicle

Questo è, secondo il socialista italiano Antonio Gramsci, l'”interregno” – il momento raro e sismico della storia in cui si verificano grandi cambiamenti, quando degli imperi crollano e altri nascono, con la conseguenza di nuovi conflitti e battaglie.

L'”interregno” gramsciano, tuttavia, non è un passaggio facile, perché questi profondi cambiamenti spesso incarnano una “crisi”, che “consiste proprio nel fatto che il vecchio sta morendo e il nuovo non riesce a nascere”.

“In questo interregno compare una grande varietà di sintomi morbosi”, scrisse l’intellettuale antifascista nei suoi famosi “Quaderni dal carcere”.

Anche prima della guerra Russia-Ucraina e del successivo aggravamento della crisi Russia-NATO il mondo stava chiaramente vivendo una sorta di interregno: la guerra in Iraq, la guerra in Afghanistan, la recessione globale, la crescente disuguaglianza, la destabilizzazione del Medio Oriente, la ‘primavera araba’, la crisi dei profughi, la nuova ‘spartizione dell’Africa’, il tentativo statunitense di indebolire la Cina, l’instabilità politica degli stessi USA, la guerra alla democrazia e il declino dell’impero americano.

Gli eventi recenti, tuttavia, hanno finalmente dato a questi cambiamenti sconvolgenti una maggiore chiarezza, con la Russia che si è mossa contro l’espansione della NATO e con la Cina e altre economie emergenti – le nazioni BRICS [associazione che vede riuniti al suo interno cinque Paesi caratterizzati da uneconomia in forte ascesa: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, con recente richiesta di adesione da parte di Argentina e Iran, ndt.].

Per riflettere su tutti questi cambiamenti e altro ancora abbiamo parlato con l’intellettuale “più citato” e rispettato al mondo, il professor Noam Chomsky del MIT [Massachusetts Institute of Technology, una delle più importanti università di ricerca del mondo, ndt.]

L’obiettivo principale della nostra intervista era di esaminare le sfide e le opportunità che la lotta palestinese deve affrontare durante questo “interregno” in corso. Chomsky ha scambiato con noi le sue opinioni sulla guerra in Ucraina e le sue vere cause profonde.

Tuttavia l”intervista si è concentrata in gran parte sulla Palestina, sulle opinioni di Chomsky riguardo il linguaggio, le tattiche e le soluzioni connesse alla lotta e alla questione palestinesi. Di seguito sono riportati alcuni dei pensieri di Chomsky su questi problemi, tratti da una conversazione più lunga che può essere visualizzata qui. 

Chomsky sull’apartheid israeliano

Chomsky crede che chiamare le politiche israeliane nei confronti dei palestinesi “apartheid” sia in realtà un “regalo per Israele”, almeno se per apartheid si intende l’apartheid in stile sudafricano.

Ho sostenuto per molto tempo che i Territori Palestinesi Occupati sono molto peggio del Sud Africa. Il Sudafrica aveva bisogno della sua popolazione nera, faceva affidamento su di loro”, dice Chomsky, aggiungendo: “La popolazione nera costituiva l’85% della popolazione. Era la forza lavoro; il paese non poteva funzionare senza quella popolazione e, di conseguenza, hanno cercato di rendere la loro situazione più o meno tollerabile da parte della comunità internazionale. (…) Speravano in un’approvazione internazionale, che non hanno ottenuto”.

Quindi, se i Bantustan [territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano nell’epoca dell’apartheid, ndt.] erano, secondo Chomsky, “più o meno vivibili”, lo stesso “non vale per i palestinesi nei Territori Occupati. Israele vuole solo sbarazzarsi delle persone, non le vuole. E le sue politiche degli ultimi 50 anni, con poche variazioni, hanno in qualche modo reso la vita invivibile, in modo che le persone vadano da qualche altra parte”.

Queste politiche repressive si applicano all’intero territorio palestinese: “A Gaza, (loro) [Israele, ndt.] li annientano e basta”, dice Chomsky. Ci sono oltre due milioni di persone che ora vivono in condizioni orribili, sopravvivono a malapena. Le organizzazioni di sostegno dei diritti internazionali affermano che probabilmente fra un paio d’anni non saranno nemmeno in grado di sopravvivere. (…) Nei Territori Palestinesi Occupati, in Cisgiordania, le atrocità (si verificano) ogni giorno”.

Chomsky pensa anche che Israele, a differenza del Sudafrica, non stia cercando l’approvazione della comunità internazionale. La sfrontatezza delle azioni israeliane è piuttosto sorprendente. Fanno quello che vogliono, sapendo che gli Stati Uniti li sosterranno. Bene, questo è molto peggio di quello che è successo in Sud Africa; non è un tentativo di accogliere in qualche modo la popolazione palestinese come forza lavoro subordinata, è solo [un tentativo, ndt.] di sbarazzarsene”.

Chomsky sulla nuova unità palestinese

Gli eventi del maggio 2021 e l’unità popolare tra palestinesi costituiscono, secondo Chomsky, “un cambiamento molto positivo”. Per prima cosa, ciò che ha gravemente ostacolato la lotta palestinese è il conflitto tra Hamas e l’OLP [le due principali organizzazioni politiche palestinesi che competono per garantirsi il controllo dei territori palestinesi, ndt.]. Se non viene risolto, ciò costituisce un grande regalo ad Israele”.

Secondo Chomsky i palestinesi sono comunque riusciti a superare la frammentazione territoriale: Inoltre, la divisione tra i confini legali” che separa Israele dall’”area larga della grande Palestina” è sempre stata un ostacolo all’unità palestinese. Ora questo viene superato, poiché la lotta dei palestinesi si sta trasformando nella stessa lotta. I palestinesi sono tutti nella stessa barca”.

Tuttavia la descrizione di B’tselem e Human Rights Watch [organizzazioni per i diritti umani, la prima israeliana, la seconda internazionale, ndt.] dell’intera regione come regione di apartheid – anche se non sono del tutto d’accordo con la definizione per i motivi che ho menzionato, perché penso che non sia abbastanza dura – è un passo verso il riconoscimento che c’è qualcosa di fondamentalmente in comune all’interno di tutta quest’area”.

Quindi penso che questo sia un passo positivo. È saggio e promettente per i palestinesi riconoscere che “siamo tutti sulla stessa barca”, comprese le comunità della diaspora. Sì, è una lotta comune”, conclude Chomsky.

Chomsky su uno Stato o due Stati

Sebbene negli ultimi anni il sostegno a uno Stato unico sia cresciuto in modo esponenziale, al punto che un recente sondaggio dell’opinione pubblica condotto dal Jerusalem Media and Communication Center (JMCC) [organizzazione no profit costituita da giornalisti e ricercatori palestinesi impegnata nella diffusione di informazioni e nella realizzazione di sondaggi su fatti e temi riguardanti la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e la Striscia di Gaza, ndt.] ha concluso che la maggioranza dei palestinesi in Cisgiordania è attualmente favorevole alla soluzione ad un unico Stato, Chomsky mette in guardia contro discussioni che non diano priorità alla questione più urgente riguardante l’obiettivo coloniale di Tel Aviv per un “grande Israele”.

Non dovremmo illuderci nel pensare che le cose stiano evolvendo verso la realizzazione di uno Stato unico o di una confederazione, come ora viene argomentato da parte della sinistra israeliana. Non ci si sta muovendo in quella direzione, non è nemmeno un’opzione per ora. Israele non la accetterà mai finché avrà l’opzione di un grande Israele. E, inoltre, nella comunità internazionale non c’è nessun sostegno per tale opzione, da parte di nessuno. Nemmeno degli Stati africani”.

“I due Stati, beh, possiamo parlarne, ma bisogna riconoscere che si deve lottare contro l’opzione attualmente in gioco di un grande Israele”. In effetti, secondo Chomsky, “gran parte della discussione su questo argomento mi sembra fuori luogo”.

È soprattutto un dibattito tra soluzione a due Stati o a uno Stato che tiene fuori l’opzione più importante, l’opzione in gioco, quella che viene perseguita, ovvero un grande Israele. La costituzione di un grande Israele, per cui Israele si impossessa di tutto ciò che vuole in Cisgiordania, schiaccia Gaza e annette – illegalmente – le alture del Golan siriano .., prende semplicemente ciò che vuole, impedisce le concentrazioni di popolazioni palestinesi in modo da non incorporarle. Non vogliono i palestinesi a causa di quello che viene chiamato lo Stato ebraico democratico, la pretesa di uno Stato ebraico democratico in cui lo Stato è lo Stato sovrano del popolo ebraico. Quindi, il mio Stato, ma non lo Stato di una manciata di abitanti di un villaggio palestinese”.

Chomsky continua: “Per mantenere questa pretesa, è necessario mantenere un’ampia maggioranza ebraica, per cui si può in qualche modo fingere l’assenza di repressione. Ma in tal modo la politica è quella di un grande Israele, in cui non ci sarà alcun problema demografico. Le principali concentrazioni di palestinesi sono emarginate in altre aree, in pratica vengono espulse”.

Chomsky su BDS e Solidarietà Internazionale

Abbiamo anche chiesto a Chomsky la sua opinione sulla crescente solidarietà con i palestinesi nella scena internazionale e sui social media e sul sostegno alla lotta palestinese da parte di molte personalità pubbliche e celebrità.

Non credo che le celebrità popolari significhino così tanto. Ciò che conta è ciò che sta accadendo tra la popolazione in generale negli Stati Uniti. In Israele, purtroppo, la popolazione si sta spostando a destra. È uno dei pochi Paesi che conosco, forse l’unico, in cui i giovani sono più reazionari dei più anziani”.

“Gli Stati Uniti stanno andando nella direzione opposta”, continua Chomsky, poiché “i giovani sono più critici nei confronti di Israele e sempre più favorevoli ai diritti dei palestinesi”.

Per quanto riguarda il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), Chomsky ha riconosciuto il ruolo significativo svolto dal movimento di base globale, sebbene abbia notato che il BDS “ha risultati non sempre positivi”. Il movimento dovrebbe diventare “più flessibile (e) più attento agli effetti delle azioni”, osserva Chomsky.

“Le basi ci sono”, conclude Chomsky. “È necessario pensare attentamente a come svilupparle”.

Il dottor Ramzy Baroud è un giornalista e caporedattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out” [La nostra visione per la liberazione: parlano i leader palestinesi e gli intellettuali coinvolti”. Baroud è ricercatore anziano associato presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA) [Centro no profit di ricerca sociale e politica sul mondo islamico, con sede ad Istambul, ndt.]. Il suo sito web è www.ramzybaroud.net

Romana Rubeo è una scrittrice italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito una master in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




90 organizzazioni sollecitano la Commissione Indipendente Internazionale di Indagine sulla Palestina dell’ONU a riconoscere e affrontare il colonialismo sionista di insediamento e l’apartheid quali cause alla radice delle continue violazioni di Israele.

Al Haq

28 giugno 2022 – Al-Haq, Defending Human Rights

Il 31 maggio 2022 Al-Haq e 90 organizzazioni palestinesi e internazionali hanno inviato alla Commissione Internazionale Indipendente di Indagine sulla Palestina delle Nazioni Unite (CoI) una richiesta congiunta di esame del colonialismo sionista di insediamento e dell’apartheid come cause alla radice delle perduranti violazioni dei diritti inalienabili del popolo palestinese. La richiesta congiunta è una risposta al mandato unico assegnato alla CoI istituita (dal Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, ndtr.) nel maggio 2021, il primo ente investigativo dell’ONU incaricato di esaminare le cause profonde alla radice della sistematica discriminazione e repressione dell’intera Palestina colonizzata, consentendo così di riconoscere che le violazioni israeliane in Palestina sono radicate nel progetto coloniale di insediamento storico e attuale e di considerare il popolo e il territorio palestinese come un insieme che si autodetermina, invece di un popolo e un territorio frammentati.

Le organizzazioni richiedenti riconoscono che lo specifico mandato della CoI è principalmente relativo alla popolazione palestinese sul campo che nel maggio 2021 si è mobilitata in una lotta collettiva di resistenza popolare. Questa resistenza popolare è una sfida a 73 anni di frammentazione imposta dalla colonizzazione israeliana di insediamento e apartheid con quella che è nota come Intifada/Rivolta dell’Unità.

Prima di analizzare il regime di colonialismo sionista di insediamento e di apartheid come cause alla radice delle perduranti violazioni di Israele, il documento spiega la necessità che sta dietro a questa impostazione, alternativa alla narrativa egemone riguardo alla Palestina, che dipinge ancora la situazione come “conflitto israelo-palestinese”, incentrato ‘solo’ sull’occupazione a partire dal 1967. Adottare l’impostazione basata sul colonialismo di insediamento e sull’apartheid consente di considerare la condizione del popolo palestinese nella sua complessità. Ciò sposta il discorso da un focus sulle cosiddette soluzioni politiche alla lotta per l’autodeterminazione, finalizzata a smantellare il regime israeliano di colonialismo di insediamento, invece di perseguire “modifiche” alle condizioni di vita sotto il dominio del sionismo, o una “uguaglianza liberale”.

Il documento congiunto approfondisce poi la storia del movimento sionista di colonialismo di insediamento, intendendo lo Stato coloniale israeliano come un prodotto di tale movimento. Il documento si occupa della nascita del movimento sionista alla fine del XIX secolo e di come esso abbia adottato insieme le ideologie di autoidentificazione razziale delle persone di fede ebraica e di colonialismo di insediamento, che comporta l’eliminazione della popolazione nativa e l’annessione delle sue terre a beneficio del gruppo razziale colonizzatore costituito ex-novo.

Le organizzazioni sottolineano come il movimento sionista abbia utilizzato un apparato proto-statale e sia stato complice delle potenze imperialiste per “creare una patria in Palestina garantita dal diritto pubblico per il popolo ebraico”. Il documento rileva il ruolo illegittimo della Gran Bretagna nel facilitare la colonizzazione sionista in Palestina, in violazione della Convenzione della Lega delle Nazioni che prevedeva il riconoscimento provvisorio dell’indipendenza del popolo palestinese ed il suo diritto all’autodeterminazione, e in violazione dell’obbligo della potenza mandataria di amministrare il territorio nell’interesse del popolo autoctono palestinese.

Inoltre il documento prende in esame la pianificazione del trasferimento e ricollocazione del popolo palestinese prima della Nakba da parte del movimento sionista di colonialismo di insediamento, analizzando il “Piano Dalet” [piano militare messo a punto dalla dirigenza sionista per espellere i palestinesi dal loro territorio, ndtr.) e la sua attuazione, che portò alla distruzione di almeno 531 villaggi palestinesi e all’espulsione della loro popolazione indigena, cosa che trasformò l’80% dei palestinesi in rifugiati e sfollati interni nel loro stesso Paese.(1) Quindi la creazione dello Stato di Israele sul 77% della Palestina fu il culmine del movimento sionista di colonialismo di insediamento, ma non ne fu la fine. Lo Stato coloniale israeliano adottò l’ideologia sionista del trasferimento e reinsediamento della popolazione palestinese autoctona, instaurò ed istituzionalizzò un regime di dominazione razziale ebraica e di oppressione del popolo palestinese che configura il crimine di apartheid.

Il documento esamina poi il regime di apartheid di Israele, prendendo in considerazione la serie di leggi e di politiche sviluppate da Israele fin dalla sua creazione, in particolare negli ambiti della terra, della pianificazione urbanistica, della nazionalità, residenza e immigrazione, operando una netta separazione tra la popolazione palestinese indigena e gli ebrei israeliani, in modo da legalizzare e legittimare i crimini commessi prima della Nakba e garantire la continuità dei trasferimenti e spoliazioni. Il documento spiega come queste politiche e piani di apartheid proseguano dopo l’occupazione bellica, per mantenere il dominio e la sottomissione dei palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [confini stabiliti dagli accordi di armistizio del 1949 tra Israele e i Paesi arabi, ndtr.).

Viene poi presa in esame la frammentazione strategica del popolo palestinese da parte di Israele, come strumento per consolidare il proprio regime di apartheid mediante il diniego ai rifugiati palestinesi del diritto al ritorno, l’imposizione di restrizioni alla libertà di movimento, alla residenza e all’ingresso e la negazione della vita familiare.

Il documento analizza l’intenzione di Israele di mantenere il proprio regime di apartheid annientando la resistenza palestinese attraverso il governo militare, le uccisioni deliberate, la repressione delle manifestazioni, la detenzione arbitraria, la tortura ed altri abusi e punizioni collettive, come anche tramite campagne diffamatorie contro associazioni e individui difensori dei diritti umani che cercano di sfidare il regime di apartheid.

In conclusione, le organizzazioni denunciano l’impunità di Israele ed il ruolo della comunità internazionale nel rendere possibile la colonizzazione della Palestina. Le organizzazioni apprezzano la CoI come promettente opportunità di riconoscere la situazione nella Palestina colonizzata per ciò che è e di agire in prospettiva della decolonizzazione, di una vera giustizia e di risarcimenti al popolo palestinese. 

    1. Ilan Pappe, The Ethnic Cleansing of Palestine, Oneworld, 2007 [La pulizia etnica in Palestina, Fazi, 2008].

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




15 anni di troppo

Al Mezan Center for Human Rights

14/06/2022 – Al Mezan Center for Human Rights

Una scheda informativa sugli effetti devastanti del blocco israeliano della striscia di Gaza

Centro per i Diritti Umani Al Mezan

Scheda informativa

14 giugno 2007 14 giugno 2022

Al Mezan Center for Human Rights è un’organizzazione per i diritti umani indipendente, apartitica e non governativa fondata nel 1999. Al Mezan si impegna a proteggere e promuovere il rispetto dei diritti umani, con particolare attenzione ai diritti economici, sociali e culturali, sostenere le vittime di violazioni del diritto internazionale attraverso iniziative legali e rafforzare la democrazia, la partecipazione della comunità e dei cittadini e il rispetto dello stato di diritto a Gaza come parte della Palestina occupata.

INTRODUZIONE E CONTESTO

  • Le condizioni di vita dei palestinesi nella Striscia di Gaza sono notevolmente peggiorate: nel 2021 i tassi di povertà e disoccupazione si sono attestati rispettivamente al 53% e al 47%, mentre il tasso di insicurezza alimentare è stato del 64%.Anche il settore dell’istruzione è stato colpito dalla chiusura prolungata della Striscia di Gaza. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 le forze israeliane hanno distrutto 536 scuole e 32 edifici universitari e allo stesso tempo hanno ostacolato la costruzione di nuove strutture educative, causando così il sovraffollamento scolastico. Oggi la dimensione media della classe in una scuola dell’UNRWA è di 41 studenti rispetto ai 39 delle scuole pubbliche. Molte strutture educative rimangono inadeguate per gli studenti con disabilità.
  • La realizzazione dei diritti culturali nella Striscia di Gaza è in peggioramento, principalmente perché le restrizioni imposte da Israele hanno precluso la ricostruzione delle biblioteche e delle istituzioni culturali distrutte durante gli attacchi militari israeliani, tra cui la biblioteca nazionale. L’inasprimento delle restrizioni ha anche aumentato le difficoltà di sviluppo e aggiornamento del patrimonio di libri e periodici dellIl 6 giugno 1967 le autorità israeliane dichiararono la Striscia di Gaza un’area militare chiusa in base a un ordine militare rimasto in vigore anche dopo la firma degli accordi di Oslo [serie di accordi politici ratificati il 13 settembre del 1993 come parte di un processo di pace che mirava a risolvere il conflitto arabo israeliano, ndt.]È significativo che le restrizioni israeliane verso la Striscia di Gaza siano iniziate già negli anni ’90, per mezzo di una serie di misure adottate dalle autorità israeliane, tra cui la riduzione della zona di pesca nelle acque territoriali palestinesi, il divieto per i lavoratori palestinesi di Gaza di lavorare in Israele e l’imposizione di restrizioni al movimento dei palestinesi attraverso il valico di Erez [valico di frontiera con Israele nel nord della Striscia di Gaza, ndt.].

    Con lo scoppio dell’Intifada di Al Aqsa o Seconda Intifada il 28 settembre 2000, e in particolare a partire dal 9 ottobre 2000, le forze israeliane dichiararono e imposero la chiusura della Striscia di Gaza e assediarono le aree residenziali vicino alle colonie israeliane allora presenti, come le aree di al-Mawasi e al-Syafa, chiusero la grande maggioranza dei valichi compromettendo il funzionamento di alcuni altri. Dopo il “disimpegno” israeliano da Gaza del 2005 [in base al piano dell’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon, applicato nell’agosto 2005 per rimuovere tutti gli abitanti israeliani dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti in Cisgiordania settentrionale, ndt.], le autorità israeliane chiusero la sezione merci del valico di Erez e del tutto i valichi di Sufa, Karni e Nahal Oz, che vennero sostituiti dal valico Karem Abu Salem, l’unico attraversamento commerciale di Gaza. Inoltre, prima dell’ottobre 2000, veniva utilizzato il valico di Rafah, controllato dalle autorità israeliane fino al 2005, che operava 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e chiudeva solo due giorni all’anno. Tuttavia, da allora, il valico ha funzionato per un numero limitato di ore e per alcuni giorni alla settimana. Ci sono stati anche periodi in cui Rafah è stato chiuso per mesi.

    Quando nel 2007 Hamas divenne l’autorità di governo della Striscia di Gaza le autorità israeliane inasprirono le misure di chiusura preesistenti, raddoppiarono le restrizioni alla libertà di circolazione e alle merci e il 21 giugno 2007 sospesero il codice doganale di Gaza. Inoltre il 18 settembre 2007 il Gabinetto di sicurezza israeliano dichiarò la Striscia di Gaza un'”entità ostile/nemica”, ponendo così ostacoli insormontabili all’accesso da parte dei palestinesi di Gaza alle cause civili nei tribunali israeliani.

    La chiusura e il blocco da parte di Israele della Striscia di Gaza, che costituisce una punizione collettiva, vietata dal diritto umanitario internazionale, è attuata nel contesto dell’occupazione coloniale da parte di Israele dei territori palestinesi occupati (TPO) e del suo sistema di discriminazione razziale, dominio e oppressione contro il popolo palestinese, aspetti che soddisfano la definizione di apartheid secondo il diritto internazionale.

    Durante 15 anni di chiusura e blocco della Striscia di Gaza da parte di Israele la libertà di movimento dei palestinesi è stata gravemente limitata, anche attraverso la creazione di aree militari interdette o zone cuscinetto sulla terra e sulle acque palestinesi note come “aree ad accesso limitato”. Inoltre dal 2007 Israele ha condotto contro la Striscia di Gaza quattro offensive militari su vasta scala, uccidendo in un periodo di 13 anni (2008-21) circa 4.041 palestinesi, di cui 1.005 minori e 461 donne, e distruggendo decine di migliaia di abitazioni, strutture industriali e commerciali e infrastrutture fondamentali per la sopravvivenza della popolazione civile, comprese reti elettriche, idriche, sanitarie e strade, deteriorando ulteriormente le condizioni umanitarie e facendo crescere i tassi di povertà e disoccupazione. Parallelamente, la popolazione di Gaza, che alla fine del 2006 ammontava a 1,5 milioni di palestinesi, ha raggiunto alla fine del 2021 i 2,1 milioni, rendendo la Striscia una delle aree più densamente popolate al mondo.

    Questa scheda informativa, supportata da cifre, presenta risultati e indicatori che mostrano l’entità delle violazioni israeliane nei 15 anni di chiusura e blocco che hanno reso la Striscia di Gaza invivibile per i suoi oltre due milioni di abitanti.

    • Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 gli attacchi militari israeliani hanno ucciso 5.418 palestinesi, il 23% dei quali minori e il 9% donne, e ferito migliaia di altri; distrutto 3.118 strutture commerciali, 557 fabbriche, 2.237 veicoli e 2.755 strutture pubbliche; distrutto 12.631 unità abitative e danneggiato parzialmente altre 41.780. Inoltre le autorità israeliane hanno inasprito le restrizioni all’ingresso all’interno della Striscia di Gaza di materiali da costruzione, impedendo così ai palestinesi di ricostruire le loro case distrutte.
    • Le forze israeliane hanno anche impiegato una forza eccessiva e letale contro i minori palestinesi che tentavano di attraversare la recinzione perimetrale e hanno ucciso 15 minorenni, ne hanno ferito sette e arrestato 204.
    • Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 le forze israeliane hanno effettuato circa 872 incursioni circoscritte nelle aree adiacenti la recinzione del confine orientale e settentrionale del territorio palestinese, spianando i terreni agricoli e distruggendo i raccolti. Nello stesso periodo, le forze israeliane hanno preso ripetutamente di mira i lavoratori agricoli palestinesi, uccidendone 136. Le forze israeliane hanno spianato e cosparso di pesticidi chimici 33.100 donum [3.310 ettari, ndt.] di terreni agricoli palestinesi.
    • La marina israeliana prende regolarmente di mira i pescatori palestinesi in mare aprendo il fuoco contro di loro, arrestandoli, sequestrando le loro attrezzature, perseguitandoli e ostacolando il loro lavoro. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 Al Mezan ha documentato 2.514 violazioni contro pescatori, che hanno provocato sette morti, 179 feriti e 750 arresti. Inoltre la marina israeliana ha sequestrato 237 pescherecci danneggiandone altri 131 oltre ad un grande quantità di attrezzature per la pesca e beni di prima necessità.
    • La marina israeliana ha ripetutamente ed estesamente impedito ai pescatori palestinesi di navigare nelle acque territoriali palestinesi e ha anche ripetutamente vietato le attività ittiche nella zona di pesca autorizzata.
    • Le autorità israeliane arrestano arbitrariamente i palestinesi che cercano di entrare in Israele attraverso Erez per raggiungere la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, o per viaggiare all’estero, utilizzando il valico come trappola. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 hanno arbitrariamente arrestato 204 palestinesi, tra cui 48 studenti di scuole superiori, dipendenti iscritti a corsi e scuole di formazione esterne e 85 commercianti.
    • Tra le restrizioni imposte dalle autorità israeliane c’è un sistema di permessi volubile e discriminatorio a cui devono sottostare tutti i palestinesi che desiderano lasciare Gaza via Erez. Una delle categorie più vulnerabili colpite dal regime vessatorio e macchinoso di permessi di Israele sono i pazienti clinici. Tra il 2010 e il febbraio 2022 le autorità israeliane hanno respinto o ritardato il 30% delle richieste di permesso dei pazienti. Inoltre le autorità israeliane hanno arrestato a Erez 43 pazienti palestinesi in possesso di referti medici e 28 dei loro accompagnatori dopo aver concesso loro i permessi di uscita. I dati di Al Mezan mostrano che negli ultimi 15 anni 72 pazienti, tra cui dieci minorenni e 25 donne, sono morti dopo che Israele ha negato o rinviato i loro permessi.
    • A seguito delle restrizioni israeliane imposte alla Striscia di Gaza il volume delle importazioni è drasticamente diminuito. Nel 2005 sono entrati a Gaza 111.480 camion di merci importate, per ridursi rapidamente a 26.838 nel 2008. Nel 2020 sono entrati nella Striscia di Gaza 96.651camion di merci importate, il che può essere spiegato considerando la crescita della popolazione e l’aumento della domanda di servizi.
    • Dopo l’imposizione della chiusura è diminuito anche il volume delle merci esportate. Mentre nel 2005 la Striscia di Gaza ha esportato 9.319 camion di merci, nel 2008 il volume delle esportazioni si è ridotto drasticamente a 33 camion. Nel 2020 la Striscia di Gaza ha esportato 3.118 camion di merci, che corrisponde a circa un terzo della quantità esportata prima della chiusura.
    • Dal momento dell’imposizione delle misure di chiusura le autorità israeliane hanno regolarmente vietato l’ingresso di carburante nell’unica centrale elettrica di Gaza, esacerbando ulteriormente la crisi elettrica esistente e spingendo le persone a ricorrere all’uso di candele, stufe a cherosene e generatori di corrente. Ciò ha causato molti incendi e incidenti dovuti ai generatori che solo nel 2012 hanno causato la morte di 35 persone, tra cui una donna e 28 minorenni, e il ferimento di altre 36, di cui 20 minori e sei donne.
    • Mentre a Gaza il fabbisogno di elettricità è stimato tra 600-660 MW, la fornitura disponibile non supera i 205 MW, il che ha portato negli ultimi 15 anni all’interruzione dell’elettricità ad orari determinati per più di 16 ore al giorno. La crisi della carenza di energia e il divieto da parte di Israele di introduzione di carburante hanno spinto molti comuni della Striscia di Gaza a rilasciare in mare liquami non trattati, causando un inquinamento delle acque. Nel 2021 un test effettuato dall’Autorità per la qualità dell’acqua e dell’ambiente ha mostrato che il 75% dell’acqua di mare lungo la costa di Gaza, che si estende per circa 40 km, è inquinata.
    • Anche gli abitanti di Gaza stanno attraversando una grave crisi per quanto riguarda la mancanza di acqua potabile sicura. Le autorità competenti affermano che il 96,2% dell’acqua estratta dalle falde acquifere di Gaza non soddisfa gli standard di qualità dell’acqua dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, soprattutto in termini di concentrazione di nitrati. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 le forze israeliane hanno attaccato e distrutto o danneggiato 292 pozzi idrici utilizzati sia per uso domestico che per terreni agricoli.
    • Le condizioni di vita dei palestinesi nella Striscia di Gaza sono notevolmente peggiorate: nel 2021 i tassi di povertà e disoccupazione si sono attestati rispettivamente al 53% e al 47%, mentre il tasso di insicurezza alimentare è stato del 64%.

      Anche il settore dell’istruzione è stato colpito dalla chiusura prolungata della Striscia di Gaza. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 le forze israeliane hanno distrutto 536 scuole e 32 edifici universitari e allo stesso tempo hanno ostacolato la costruzione di nuove strutture educative, causando così il sovraffollamento scolastico. Oggi la dimensione media della classe in una scuola dell’UNRWA è di 41 studenti rispetto ai 39 delle scuole pubbliche. Molte strutture educative rimangono inadeguate per gli studenti con disabilità.

      La realizzazione dei diritti culturali nella Striscia di Gaza è in peggioramento, principalmente perché le restrizioni imposte da Israele hanno precluso la ricostruzione delle biblioteche e delle istituzioni culturali distrutte durante gli attacchi militari israeliani, tra cui la biblioteca nazionale. L’inasprimento delle restrizioni ha anche aumentato le difficoltà di sviluppo e aggiornamento del patrimonio di libri e periodici della biblioteca e l’organizzazione di mostre librarie che coinvolgano editori esterni.

    CONCLUSIONI E RACCOMANDAZIONI

Sebbene il governo israeliano pretenda di giustificare la chiusura e le relative restrizioni con il pretesto di “sicurezza”, queste politiche dimostrano l’intenzione di Israele di separare e dividere i palestinesi e riprogrammare la demografia dell’intera popolazione palestinese per affermare il proprio dominio su di loro. In particolare, questa scheda informativa ha tenuto conto delle numerose violazioni del diritto internazionale perpetrate dalle autorità israeliane nel contesto di una continua chiusura e blocco, compreso l’uso eccessivo della forza e ricorrenti attacchi militari a civili e loro abitazioni, con uccisione di migliaia di persone; arresto e detenzione arbitraria di minori, pazienti, pescatori e altre categorie vulnerabili; e l’imposizione deliberata ai palestinesi di Gaza di condizioni di vita inadeguate. Come evidenziato da Al Mezan nel suo rapporto The Gaza Bantustan – Israeli Apartheid in the Gaza Strip[Il Bantustan Gaza – Apartheid israeliano nella Striscia di Gaza, ndt.], questi atti disumani soddisfano la definizione del crimine contro l’umanità dell’apartheid sia ai sensi della Convenzione internazionale del 1973 sulla Repressione e punizione del crimine di apartheid che dello Statuto di Roma del 1998 della Corte Penale Internazionale.

Di conseguenza, in questo triste quindicesimo anniversario, Al Mezan ribadisce il suo appello alla comunità internazionale perché faccia valere i suoi obblighi morali e giuridici nei confronti del popolo palestinese chiedendo con forza ad Israele di revocare immediatamente, completamente e incondizionatamente la sua chiusura e blocco, porre fine a tutte le relative restrizioni illegali imposte sulla circolazione di persone e merci da e verso la Striscia di Gaza e garantire responsabilità e giustizia per violazioni diffuse, gravi e sistematiche, compreso il crimine di apartheid, contro il popolo palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)