So che Israele pratica l’apartheid perché ho contribuito ad imporla

Rafael Silver

28 Marzo 2022Mondoweiss

Rafael Silver ha lasciato Israele perché non poteva più far parte di un sistema che pratica l’apartheid contro il popolo palestinese. “L’ho vista esercitare sotto i miei occhi”, scrive. “L’ho applicata durante il mio servizio militare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e l’ho sostenuta in quanto contribuente israeliano”.

Sono un ebreo. Sono un cittadino israeliano. Sono un veterano di un’unità di combattimento dell’esercito israeliano. Ho lasciato Israele nel 2001 e sono immigrato in Canada dove sono diventato cittadino canadese perché sentivo che non potevo più far parte di un sistema che pratica l’apartheid contro il popolo palestinese. Non uso la parola apartheid alla leggera, ma con riluttanza. Scelgo di usare questa parola per descrivere la realtà che il popolo palestinese sta sopportando da generazioni perché l’ho vista praticare con i miei occhi. L’ho applicata durante il mio servizio militare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e l’ho sostenuta in quanto contribuente israeliano.

Le strade riservate agli ebrei che i palestinesi in Cisgiordania non possono utilizzare. L’intera gamma di leggi e protezioni concesse dallo Stato israeliano ai coloni ebrei in Cisgiordania, ma negate ai palestinesi che vivono letteralmente proprio accanto a loro. In Cisgiordania la sottomissione ai regolamenti militari riguarda solo i palestinesi. Ciò significa che le restrizioni ai viaggi, l’accesso limitato all’acqua, l’arresto e la detenzione arbitraria di civili, la confisca di terreni, la demolizione di case e l’applicazione di punizioni collettive si applicano solo ai palestinesi e non agli ebrei. L’uso frequente della forza letale da parte delle forze di sicurezza israeliane esclusivamente contro i civili palestinesi è un evento abituale. Anche un diritto umano fondamentale riconosciuto in tutto il mondo, quello del ricongiungimento familiare, è negato solo ai palestinesi.

Anche all’interno dello stesso Israele il sistema dell’apartheid fa parte della struttura dello Stato e riguarda quasi tutti gli aspetti della vita. Lo so perché ho beneficiato di un tale sistema di apartheid all’interno di Israele come cittadino ebreo che godeva di diritti che non erano concessi ai cittadini palestinesi dello stesso Paese. Essendo un ebreo nato al di fuori di Israele mi è stata concessa la cittadinanza il giorno del mio arrivo nel Paese in base alla Legge del Ritorno che si applica esclusivamente agli ebrei. I palestinesi che sono stati cacciati dalle loro terre durante le guerre del 1948 e del 1967 non hanno tale diritto al ritorno. Persino i cittadini palestinesi di Israele non possono tornare nei loro villaggi che sono stati distrutti a causa di quelle guerre, ma devono invece trovare un alloggio altrove. In quanto ebreo, anche se non cittadino, ho il diritto di acquistare un alloggio ovunque all’interno dello Stato; tuttavia, a un cittadino palestinese di Israele non è consentito acquistare immobili se si trovano su un terreno sotto il controllo del Fondo Nazionale Ebraico [ente non profit dell’Organizzazione sionista mondiale nato per comprare e sviluppare terra nella Palestina per l’insediamento degli ebrei, ndtr.]. In quanto cittadino ebreo di Israele, sono protetto grazie alla legge contro la discriminazione, che si tratti di alloggi, lavoro o opportunità educative. I cittadini palestinesi di Israele non hanno tali protezioni. In quanto facente parte del popolo ebraico, ho alle spalle il peso giuridico dello Stato per consentirmi di esprimere i miei diritti e bisogni all’interno della collettività e della nazione. I cittadini palestinesi di Israele non hanno tale riconoscimento nazionale o collettivo. Anche la mia lingua ancestrale, l’ebraico, è riconosciuta come l’unica lingua ufficiale in Israele. L’arabo, la lingua del popolo palestinese, non lo è.

Un sistema che riserva leggi e pratiche ad un gruppo di persone ma le nega a un altro gruppo definito esclusivamente su basi etniche è per definizione apartheid. E’ stato il caso del Sud Africa in passato ed è il caso di Israele oggi. Il primo passo per correggere un torto storico è riconoscere la realtà di fronte a noi. Nessuna società, nessuno Stato in cui la giustizia è negata ad alcuni mentre ad altri è concessa può pretendere di sostenere la democrazia e i diritti umani universali. Israele non fa eccezione a questa regola.

Independent Jewish Voices of Canada [Voci ebraiche indipendenti, organizzazione per i diritti umani che si batte per una giusta soluzione del conflitto israelo-palestinese, ndtr.] ha recentemente avviato una campagna di sensibilizzazione pubblica chiamata Together Against Apartheid [Insieme contro l’apartheid, ndtr.] per informare ed educare il pubblico canadese sulla realtà che milioni di palestinesi devono affrontare. Solo attraverso una maggiore consapevolezza e una più ampia conoscenza delle iniquità e delle ingiustizie sistematiche che i palestinesi devono affrontare i canadesi possono iniziare a influenzare le politiche e le azioni del nostro governo. Vi esorto a unirvi a questa campagna come ho fatto io, a qualsiasi titolo possiate. Rimanere in silenzio è complice e consente il protrarsi di discriminazione, oppressione e ingiustizia. Alzate la voce e fate la differenza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il relatore speciale delle Nazioni Unite accusa Israele di apartheid nel suo rapporto al Consiglio per i Diritti Umani

Zainab Iqbal, New York

23 marzo 2022. – Middle East Eye

“Israele ha imposto alla Palestina una condizione di apartheid in un mondo post-apartheid”, afferma Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati.

Il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati ha presentato un rapporto al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC), concludendo che la situazione in Israele e nei territori occupati si configura come apartheid.

In un rapporto di 19 pagine presentato martedì all’organismo, Michael Lynk afferma che ebrei israeliani e palestinesi vivono “sotto un unico regime che differenzia la sua distribuzione di diritti e benefici sulla base di un’identità nazionale ed etnica e che garantisce la supremazia di un gruppo a detrimento dell’altro”.

“Il sistema politico di governo radicato nel territorio palestinese occupato che conferisce a un gruppo razziale-nazionale-etnico sostanziali diritti, benefici e privilegi mentre sottopone intenzionalmente un altro gruppo a vivere dietro muri, posti di blocco e sotto un governo militare permanente… soddisfa gli standard probatori prevalenti per l’esistenza dell’apartheid”, ha aggiunto.

Lynk ha affermato che, sebbene la situazione in Israele e nei territori palestinesi occupati sia diversa da quella in Sud Africa, si tratta comunque di apartheid.

L’apartheid è un termine legale definito dal diritto internazionale che si riferisce all’oppressione sistematica da parte di un gruppo razziale su un altro.

“Nel regime di ‘apartheid’ israeliano nei territori palestinesi occupati esistono connotati specifici disumani che non venivano praticati nell’Africa meridionale, come autostrade separate, alti muri ed estesi posti di blocco, una popolazione assediata, attacchi missilistici e bombardamenti di carri armati su una popolazione civile, e l’abbandono del benessere sociale dei palestinesi nelle mani della comunità internazionale.

“Sotto gli occhi ben aperti della comunità internazionale, Israele ha imposto alla Palestina una realtà di apartheid in un mondo post-apartheid”.

Lynk dovrebbe rilasciare formalmente il suo rapporto giovedì prima di un dibattito sul punto 7 dell’agenda, il punto permanente dell’UNHRC riservato alle violazioni israeliane dei diritti umani contro palestinesi e altri arabi.

Nel rapporto l’accademico canadese afferma che Israele sta perseguendo una strategia di “frammentazione strategica del territorio palestinese in aree separate di controllo della popolazione, con Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est fisicamente divise l’una dall’altra”.

Israele usa Gaza, ha detto Lynk, come il “deposito informale di una popolazione indesiderata di due milioni di palestinesi”.

Il rilascio di migliaia di permessi di lavoro per i lavoratori palestinesi in Cisgiordania e a Gaza per lavorare in Israele equivale allo “sfruttamento del lavoro di un gruppo razziale”, afferma il rapporto.

Abbiamo bisogno di azione e responsabilità

Il mese scorso Amnesty International ha etichettato Israele come uno Stato di apartheid, diventando l’ultima associazione a unirsi a un elenco di organizzazioni per i diritti umani che hanno usato il termine per descrivere il trattamento riservato da Israele ai palestinesi.

“Le risultanze del relatore speciale sono un’importante e tempestiva integrazione al crescente consenso internazionale sul fatto che le autorità israeliane stanno commettendo un’apartheid contro il popolo palestinese”, ha affermato Saleh Higazi, vicedirettore di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa.

“Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani da anni chiamano la situazione apartheid e questo rapporto costituisce un momento fondamentale di riconoscimento della realtà vissuta da milioni di palestinesi”.

Nonostante il numero crescente di organizzazioni per i diritti umani che etichettano le politiche israeliane come equivalenti all’apartheid, gli Stati Uniti e gli altri alleati occidentali di Israele si sono astenuti dal fare tale tipo di dichiarazioni.

Beth Miller, principale responsabile degli affari amministrativi di Jewish Voice for Peace-Action [Voce ebraica per le azioni di pace, organizzazione statunitense che sostiene il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, ndtr.] ha affermato che il rapporto riprende ciò che le organizzazioni internazionali per i diritti umani stanno affermando da anni, che “Israele sta commettendo il crimine dell’apartheid”.

“Per [il presidente degli Stati Uniti Joe] Biden e il Congresso, il compito è chiaro: porre fine a tutti i finanziamenti militari statunitensi a questo violento regime di apartheid”.

NYC Solidarity with Palestine [Solidarietà di New York con la Palestina, ndtr.], un’organizzazione impegnata ad aprire ampi spazi di resistenza, ha detto a MEE: “Diamo il benvenuto a queste varie organizzazioni internazionali che finalmente dicono e confermano pubblicamente ciò che il popolo palestinese urla da anni con il sangue.

“E, detto questo, l’apartheid è solo un meccanismo e uno strumento della colonizzazione da insediamento e dell’occupazione illegale. Il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione impone responsabilità che includono la fine dell’occupazione con ogni mezzo. I doppi standard devono cessare”.

Ahmad Abuznaid, il direttore esecutivo della Campagna statunitense per i diritti dei palestinesi, ha detto a MEE che “mentre sempre più istituzioni internazionali affermano ciò che i palestinesi dicono da anni, speriamo di vedere finalmente cosa farà la comunità internazionale riguardo all’apartheid israeliano.

“Ora abbiamo bisogno di azione e responsabilità.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rifugiati dell’apartheid: perché Israele deve parlare del ritorno dei palestinesi

Yaara Benger Alaluf

17 marzo 2022 – +972 magazine

Il rapporto bomba di Amnesty e la crisi dei rifugiati ucraini sono un’opportunità perché gli israeliani ripensino il rifiuto al ritorno dei palestinesi nella loro patria.

In Israele il dibattito, se c’è stato, sul recente “rapporto sull’apartheid” è consistito nei soliti tre giudizi riguardo a ciò che esso significherebbe: qualcuno lo ha liquidato come un’accusa del sangue antisemita [secondo cui gli ebrei berrebbero sangue umano durante i loro riti, ndtr.]; alcuni lo hanno bollato come un’affermazione di ciò che è ovvio; altri ancora hanno riflettuto sull’eventualità che si tratti di una novità con concrete conseguenze giuridiche. Ciò che nel frattempo è mancato e continua a mancare è una discussione onesta sulle nostre responsabilità come ebrei israeliani, non solo riguardo al passato ma anche al futuro del nostro Paese.

Pubblicato all’inizio di febbraio, il rapporto di Amnesty International è sistematico e approfondito, ma non offre nuove informazioni significative e le sue raccomandazioni sono limitate. Le prove delle violazioni delle leggi internazionali da parte di Israele elencate nel rapporto risulteranno ben poco sorprendenti a qualunque israeliano abbia mai prestato attenzione alle notizie, per non parlare degli attivisti di sinistra. La sua importanza e rilevanza pratica risiede piuttosto nei suoi due meta-argomenti. Il primo è che la variante israeliana dell’apartheid non è limitata ai territori occupati o a una qualunque specifica componente della popolazione palestinese, ma è parte integrante della stessa frammentazione del territorio e della popolazione in unità con differenti status giuridici.

Il secondo meta-argomento è che la negazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alle terre e case da cui furono espulsi nel 1948 è il meccanismo che sta al cuore di questo principio politico.

La decisione di fare riferimento ai rifugiati palestinesi in un rapporto sulle attuali responsabilità di Israele e sui passi necessari per un futuro di giustizia, uguaglianza e riconciliazione è senza precedenti, e irrompe negli angusti confini del dibattito politico tra gli ebrei israeliani. All’interno di questo discorso il diritto al ritorno è in genere affrontato in termini che hanno la loro origine nella macchina propagandistica israeliana: da “c’era una guerra e loro l’hanno persa” all’affermazione secondo cui il ritorno dei rifugiati palestinesi è sinonimo di fine dell’esistenza degli ebrei in Israele. Leggere il “rapporto sull’apartheid” offre l’opportunità di capire che è vero il contrario: è impedire il ritorno dei rifugiati che costituisce una continua minaccia esistenziale.

1948: mossa iniziale

Il rapporto afferma che la politica di apartheid di Israele è stata messa in atto esplicitamente e coerentemente fin dal primo giorno. Una delle sue principali argomentazioni è che prima della fondazione dello Stato di Israele nel 1948 erano state predisposte tutte le condizioni per una supremazia demografica ebraica e per massimizzare il controllo ebraico su terre e risorse naturali. I numeri precedenti alla guerra del 1948 chiariscono bene questo punto: fino a quell’anno i palestinesi rappresentavano il 70% degli abitanti del Paese, e possedevano circa il 90% della sua terra, mentre gli ebrei erano meno del 30% della popolazione e detenevano meno del 7% della terra. Due iniziative prese dal nuovo Stato gli consentirono di ribaltare completamente questa situazione: la decisione del 1948 di impedire ai rifugiati di tornare e la legge del 1950 sulle Proprietà degli Assenti [1].

Nel maggio 1948, mentre la guerra stava infuriando, venne creata una commissione speciale per esaminare il modo in cui trasformare la fuga dei palestinesi “in un fatto compiuto” [2]. La commissione raccomandò alla dirigenza israeliana di distruggere le località palestinesi, impedire la coltivazione della terra, insediare ebrei nei villaggi spopolati, approvare leggi per congelare la situazione di quel momento e investire nella propaganda [3]. Le raccomandazioni vennero religiosamente messe in pratica: già in un incontro del governo il 16 giugno venne annunciato che Israele non avrebbe consentito il ritorno di alcun rifugiato; unità militari furono inviate a far saltare in aria villaggi o incendiarli (601 villaggi vennero distrutti, in maggioranza nella prima metà del 1949); nuovi immigrati ebrei furono ospitati nelle case disabitate dei palestinesi (350 dei 370 nuovi insediamenti ebraici fondati nel 1948-53 vennero costruiti su terre dei rifugiati); i palestinesi che cercarono di tornare per recuperare alcuni dei loro beni, procurarsi del cibo o riunirsi con la famiglia rimasta indietro furono sommariamente fucilati [4].

Gli impedimenti al ritorno non terminarono con l’armistizio nel 1949. Continuano fino ad ora, in violazione delle leggi internazionali, senza nessuna giustificazione relativa alla sicurezza e spesso persino senza una giustificazione demografica [5]. Inoltre la legge sulle Proprietà degli Assenti autorizzò lo Stato a impossessarsi dei beni di chiunque fosse assente durante il primo censimento del Paese nel novembre 1948, che fosse o meno all’interno dei confini dello Stato. Ciò consentì a Israele di impossessarsi della maggior parte della terra coltivabile del Paese, di decine di migliaia di abitazioni ed edifici commerciali, di veicoli e macchinari agricoli e industriali, di conti bancari, di mobili e tappeti, di circa un milione di animali da allevamento, e via di seguito.

Benché la legge fosse pensata per essere provvisoria, e anche se al Custode delle Proprietà degli Assenti venne vietato di rivendere i beni espropriati, nel corso degli anni furono approvate leggi e norme aggiuntive per consentire a Israele di espropriare terreni palestinesi di proprietà di privati su entrambi i lati della Linea Verde [che separa Israele dalla Cisgiordania, ndtr.] e destinarli a uso militare, ai coloni ebrei o come parchi e strutture riservate, in quasi tutti i casi, a ai cittadini ebrei di Israele e a favorirne il benessere.

Rafforzare il controllo, annientare la resistenza

Da allora la supremazia spaziale e demografica della popolazione ebraica è stata rafforzata e mantenuta dividendo i palestinesi in status giuridici differenti: rifugiati in Paesi non arabi, in Paesi arabi, quelli rimasti all’interno dello Stato di Israele, compresi gli sfollati interni, gli abitanti di Gerusalemme est, gli abitanti dei villaggi beduini “non riconosciuti” nel Naqab/Negev e gli abitanti della Cisgiordania occupata e della Striscia di Gaza assediata. Come rileva Amnesty [6]:

L’esistenza stessa di questi regimi giuridici separati […] è uno dei principali strumenti attraverso i quali Israele frammenta i palestinesi e impone il suo sistema di oppressione e dominazione, e, come notato dalla Commissione Economica e Sociale dell’ONU per l’Asia Occidentale (ESCWA), ‘[…] per eliminare qualunque forma di dissenso contro il sistema che ha creato [7]’.”

Il rapporto enumera le forme di oppressione esercitate sotto ogni regime giuridico, come arresti di massa, torture, furto di terre, massacri, limitazioni negli spostamenti, negazione dell’accesso alle risorse, distruzione della vita familiare e via di seguito. Ciò è già stato fatto in precedenza. Ma la questione più importante è l’avvertimento del rapporto che l’opposizione alle caratteristiche specifiche dell’oppressione senza riferimento al fatto stesso della frammentazione in sé è funzionale al sistema di oppressione. Per esempio, concentrarsi unicamente sui crimini israeliani nei territori occupati nasconde le ulteriori violazioni delle leggi internazionali relative ai rifugiati, occultando nel contempo la discriminazione dei palestinesi che rimangono al di là della Linea Verde e a Gerusalemme est, o quanto meno li rappresenta erroneamente come parte del discorso sui diritti delle minoranze in una società liberale [8].

Gli autori del rapporto affermano che il contesto concettuale dell’apartheid consente una comprensione coerente della metalogica delle varie forme di oppressione: il tentativo di conservare un sistema di controllo, instaurando e conservando nel contempo l’egemonia ebraica. Questo è specificamente il senso di quanto i palestinesi hanno voluto definire “Nakba che continua”. Oltretutto apartheid è un termine radicato anche nelle leggi internazionali, e comporta quindi usualmente delle sanzioni. Il riferimento all’obiettivo del controllo, piuttosto che solo ai metodi, chiarisce anche che il problema non è, e non è mai stato, riducibile a un “gruppo di estremisti”. La responsabilità del problema risiede in tutte le istituzioni statali e parastatali, come l’Organizzazione Sionista Mondiale, in ogni governo dello Stato indipendentemente dall’affiliazione di partito, nel sistema giudiziario, nel Custode delle Proprietà degli Assenti, nel Fondo Nazionale Ebraico.

La chiave del problema

Impedire il ritorno dei rifugiati, dal 1948 al 1967 fino ai nostri giorni, è presentato nel rapporto come un meccanismo importantissimo della versione israeliana dell’apartheid. Il diritto al ritorno è citato più di 50 volte nel rapporto, e ne guida l’analisi giuridica, storica e spaziale. In termini giuridici una conseguenza della negazione del ritorno è che il controllo israeliano non è limitato ai confini israeliani, ma riguarda anche i palestinesi che sono stati sradicati nel corso degli anni, dato che la loro assenza è essenziale per conservare la maggioranza ebraica [9]. Non meno importante è l’implicazione che l’apartheid prevarrà necessariamente finché ai rifugiati verrà impedito di tornare [10].

Storicamente l’espulsione e l’impedimento al ritorno rappresentano la logica esplicita delle iniziative di Israele, persino dopo il 1948. Nell’immediato dopoguerra Israele impose un governo militare sull’85% dei palestinesi che restarono sul suo territorio, nonostante il loro status formale di cittadini. Per non meno di 18 anni Israele negò loro i diritti fondamentali, come quello di proprietà, di libertà di parola e di movimento, confiscando le loro terre e altre proprietà e stabilendo un intricato sistema di monitoraggio e supervisione che limitò la loro possibilità di organizzarsi politicamente e di plasmare il loro futuro. Il rapporto afferma, in base a documenti ufficiali, che il governo militare venne abolito nel 1966 solo dopo che ci fu la sicurezza sufficiente che i rifugiati non erano più in grado di tornare, soprattutto dopo che quasi tutti i villaggi palestinesi vennero distrutti e coperti da alberi [11].

Anche l’occupazione della Cisgiordania iniziò proprio l’anno dopo, la re-imposizione del governo militare sull’altro lato della Linea Verde non può essere compresa separatamente dalla politica israeliana di spopolamento. Nel corso della guerra del 1967 più di 350.000 palestinesi, metà dei quali rifugiati della guerra del 1948, furono cacciati [12]. Alcuni vennero obbligati ad andarsene in convogli diretti verso la Giordania, compresi migliaia provenienti dai villaggi di Imwas, Yalu e Beit Nuba [13]. Altri furono obbligati a fuggire in vario modo, con massicci bombardamenti e demolizioni, come nel campo profughi di Iqbat Jaber, a sud di Gerico, il più grande del Medio Oriente finché il 90% dei suoi abitanti fu deportato in Giordania [14]. Anche ai rifugiati del 1967 vennero negati i diritti garantiti dalle leggi internazionali.

Un’opportunità per la società ebraica

Sono tutti argomenti sostenuti dalla società palestinese per oltre settant’anni, ed è positivo che la comunità internazionale abbia iniziato a dare loro credito, sia in linea di principio che attraverso ricerche e diffusione di informazioni.

Ma cosa dire della società ebraica in Israele? Il rapporto di Amnesty International rappresenta un ulteriore opportunità perché questa società, o almeno quella parte che crede nei principi umanitari e nell’uguaglianza, riconosca la centralità della questione dei rifugiati palestinesi nella storia dell’esistenza sionista di Israele. Tuttavia farlo significherebbe dover abbandonare vari miti persistenti:

Fu una conseguenza non voluta.” Di fatto, fin dagli inizi, la colonizzazione sionista in Israele cercò di acquisire quanto più territorio possibile a unico vantaggio degli ebrei. Anche se non tutti i pensatori e dirigenti politici sionisti erano d’accordo con questa interpretazione del sionismo, questa era l’ideologia che venne effettivamente messa in atto. Ci sono prove che fino a 57 villaggi palestinesi vennero sradicati prima del 1948, così come spiegazioni che minano l’affermazione secondo cui la terra da cui vennero cacciati era stata comprata con mezzi legali.

Hanno cominciato loro”. Il 1948 non fu l’inizio ma il culmine di un processo di spopolamento sistematico. Anche la narrazione secondo cui la dirigenza sionista accettò il Piano di Partizione dell’ONU del 1947, migliaia di ebrei danzarono per le strade di Tel Aviv e gli arabi iniziarono la guerra è propaganda menzognera. Fonti storiche mostrano che la dirigenza sionista non aveva assolutamente alcuna intenzione di accontentarsi del territorio assegnato allo Stato ebraico in base a vari piani di partizione. Sia il primo ministro israeliano David Ben Gurion che altri dirigenti sionisti affermarono in termini inequivocabili che accettare il piano era una mossa diplomatica intesa ad accelerare il ritiro britannico e facilitare l’occupazione di quanto più territorio possibile [15].

Persino i rapporti di forza sul terreno non riflettevano una situazione in cui gli ebrei erano sulla difensiva contro un’offensiva araba, come cercò di dimostrare la narrazione dei “pochi contro molti” o “Davide contro Golia”. Alla fine del 1947 la comunità ebraica in Palestina aveva una forza militare organizzata di circa 40.000 miliziani per affrontare solo 10.000 combattenti palestinesi non addestrati e poco organizzati e volontari da Paesi arabi, la maggior parte dei quali senza esperienza militare. Persino nel maggio 1948, quando la guerra si estese includendo eserciti arabi, Israele aveva il doppio vantaggio di maggiori risorse e miglior armamento [16].

Cosa ci puoi fare? La guerra è una cosa terribile.” Anche solo per le sue dimensioni, la deportazione e la spoliazione dei palestinesi non può essere liquidata come una parte necessaria della lotta. In questa guerra circa 750.000 donne e uomini divennero rifugiati e i loro beni vennero espropriati. Circa metà di essi fu obbligata a fuggire o espulsa prima che gli eserciti arabi si unissero alla guerra [17]. Dal punto di vista giuridico anche la distinzione tra “fuga” e “deportazione” è falsa: i civili tendono a sfuggire alle guerre e ad altri disastri cercando un rifugio temporaneo con l’intenzione di tornare a casa dopo che le ostilità si sono placate, e il diritto internazionale riconosce loro questo diritto. In effetti ciò avvenne durante la guerra del 1948, insieme ad esempi documentati di sradicamento forzato [18]. In entrambi i casi impedire il ritorno è ingiustificabile e assolutamente non correlato alla questione della responsabilità per lo scoppio della guerra.

Le cose vanno così.” La condizione di rifugiati dei palestinesi è spesso associata ad altri casi storici di pulizia etnica che servono a giustificarla. Nessuna deportazione è mai giustificata e i crimini di altri non giustificheranno mai i propri. Anche gli ebrei vennero sradicati e deportati con grande crudeltà e questa è una delle ragioni per cui il mondo riconobbe il loro diritto a uno Stato sovrano. In molti casi (compresi gli attuali discendenti della Spagna medievale e della Germania nazista) gli eredi dei criminali hanno chiesto scusa dopo il fatto, pagato compensazioni, eretto monumenti, sviluppato programmi di studio e consentito a vittime di seconda e terza generazione di ottenere la cittadinanza e rivendicare proprietà. Nel contesto palestinese non è stato avviato nessuno di questi passi e oltretutto l’oppressione continua senza sosta.

Mettiamoci una pietra sopra.” La convinzione che le conseguenze della guerra del 1948 debbano essere separate da tutto quello che era avvenuto prima e avvenne dopo e che Israele può semplicemente “andare avanti” è basata sulla supremazia ebraico-sionista che non ha giustificazioni politiche, giuridiche né morali. Mentre dal 1948 la superiorità demografica ebraica è stata garantita, la politica israeliana di pulizia etnica non si è limitata al periodo bellico [19]. Secondo, un simile approccio cancella completamente i palestinesi: la catastrofe è tutt’altro che finita per i palestinesi, cui viene negato persino il diritto di visitare le rovine dei loro villaggi, alle famiglie separate non è possibile gioire e piangere insieme, a un abitante di Giaffa [in Israele, ndtr.] la cui sorella è assediata a Gaza o a un abitante di Hebron [in Cisigordania, ndtr.] è impedito di sposare la persona amata di Haifa [in Israele, ndtr.].

È giunto il momento di parlare del ritorno

Ciò che afferma il rapporto di Amnesty International, come hanno sempre fatto i palestinesi, è che ogni soluzione che conservi il sistema di diritti separati e non protegga le libertà di tutto il popolo palestinese – nella diaspora, in Israele, in Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza – non fornirà una soluzione sostenibile alla continua ingiustizia. “Smantellare questo sistema crudele di apartheid è fondamentale per i milioni di palestinesi che continuano a vivere in Israele e nei territori occupati, così come il ritorno dei rifugiati palestinesi […] in modo che possano godere dei loro diritti umani liberi da discriminazioni” [20]. Lo smantellamento del regime di supremazia ebraica è essenziale anche per milioni di ebrei dentro e fuori Israele – non perché lo dica Amnesty, ma perché fare così porterà a un futuro migliore per tutti noi.

La storia dimostra che le società fondate su una ideologia suprematista ed esclusivista sono necessariamente razziste e militariste. In effetti questa è la direzione verso la quale sta andando la società israeliana. Riconoscere i diritti dei rifugiati, fondati sulle leggi internazionali, è un prerequisito per porre fine al regime di supremazia ebraica e quindi per la riconciliazione, la democrazia e l’uguaglianza. Tale riconoscimento consentirà di stabilire una politica migratoria equa che beneficerà la società, la cultura e l’economia e promuoverà anche la giustizia all’interno della società ebraica in Israele.

È vero, mettere in pratica il diritto al ritorno richiederà che gli ebrei rinuncino ai propri privilegi. Ma qual è il prezzo di conservare uno “Stato ebraico”? Finora, nonostante abbia giustificato la propria legittimazione attraverso le promesse di pluralismo e appelli ai diritti universali con il diritto all’autodeterminazione, questo Stato ha interpretato in modo ottuso e rigido la legge ebraica, creando diseguaglianze ed esclusioni (esemplificate in modo chiarissimo dalla legge sui matrimoni e dalla politica sull’immigrazione) che contraddicono qualunque nozione di liberalismo o universalismo. La definizione dello Stato di Israele come ebraico danneggia in primo luogo i non ebrei, ma estorce un costo considerevole anche a molti ebrei, soprattutto neri, LGBTQ e donne che non possono ottenere il divorzio (agunot). Danneggia la stessa vita degli ebrei, imbrigliandola sia nel progetto sionista che nella legge ortodossa ashkenazita, impedendo quindi uno sviluppo indipendente e spontaneo della tradizione come è avvenuto e ancora avviene nella diaspora. In contrasto con la vita sottoposta a istituzioni su base comunitaria, gli ebrei in Israele sono obbligati a finanziare e ad essere soggetti al monopolio del rabbinato sui servizi religiosi.

Inoltre il costante timore della “minaccia demografica” continua a giustificare la destinazione di risorse alle esigenze militari e alle colonie illegali nei territori occupati invece che alla sanità pubblica, all’edilizia e all’educazione. La necessità di giustificare la costante ansietà e la posizione di difesa impone a sua volta un sistema educativo profondamente razzista e militarista. Il futuro promesso da questo percorso non è quello che voglio io. Non c’è niente di coraggioso nel cercare la sicurezza totale fuori dal costante timore di una presunta minaccia esistenziale. Possiamo e dobbiamo liberarci della concezione secondo cui la liberazione degli ebrei deve avvenire a spese di altri. Dobbiamo iniziare a prenderci la responsabilità del nostro futuro.

Chiunque si impegni per la giustizia e l’uguaglianza, chiunque si opponga al razzismo, chiunque semplicemente non voglia partecipare a un crimine contro l’umanità e chiunque voglia anche solo che le cose vadano meglio qui deve osare riflettere e parlare seriamente del ritorno. Un primo passo positivo sarebbe dare ascolto agli stessi rifugiati e alle organizzazioni della società civile palestinese, e scoprire che il ritorno non significherebbe la deportazione degli ebrei fuori dal Paese [21]. Al-Awda, la Coalizione Palestinese per il Diritto al Ritorno, che è la più grande associazione globale non partitica che promuove la messa in pratica del diritto al ritorno, ha chiaramente evidenziato che “i rifugiati palestinesi nel loro complesso accettano che esercitare il loro diritto al ritorno non sarebbe fondato sulla cacciata dei cittadini ebrei ma sui principi di eguaglianza e sui diritti umani.” Allo stesso modo BADIL, Centro Risorse per la Permanenza dei Palestinesi e il Diritto al Ritorno, spiega:

Ciò che avvenne nel 1948 è storia. Non si torna indietro. Il diritto al ritorno, tuttavia, non significa tornare indietro nel tempo. Il ritorno riguarda molto di più il futuro. Riguarda iniziare realmente a vivere, rispondere al profondo senso di appartenenza alla terra da cui i rifugiati furono strappati decenni fa e riguarda la costruzione di rapporti tra palestinesi ed ebrei basati sulla giustizia e sull’uguaglianza.”

Questa posizione cambierà una volta che sia cambiato il rapporto di potere? Forse. Qualcuno definisce l’omofobia come “la paura che uomini gay ti trattino come tu tratti le donne.” La fobia del ritorno sarebbe la paura che i rifugiati palestinesi ti tratteranno come il sionismo ha trattato loro. Io scelgo di non vivere con la paura, ma ho invece fiducia nelle persone che credono nei diritti umani e nell’uguaglianza. Scelgo di fidarmi dei rifugiati come Isma’il Abu Hashash, cacciato da Iraq al-Manshiyah e che oggi vive in Cisgiordania e dice:

Non dobbiamo ripetere gli errori degli israeliani e condizionare la nostra presenza sulla nostra terra alla non-presenza del popolo che ora vi vive. Gli israeliani, o gli ebrei, pensavano che avrebbero potuto vivere in Palestina solo se non lo avessero potuto fare gli altri. Non è quello che crediamo noi. Vediamo il diritto al ritorno come la richiesta di un diritto individuale e collettivo sulla terra da cui siamo stati espulsi. Non vogliamo dire a loro di andarsene, né vogliamo dividere il loro Paese.”

Si può anche stare a sentire dagli ebrei che appoggiano il ritorno perché essi credono che ciò sarebbe positivo anche per gli ebrei di questo Paese. Si scoprirà che, per quanto la questione del ritorno sia estremamente controversa ed emotiva nella società israeliana, negli anni scorsi si è scritto molto sull’argomento [22]. In seguito possiamo continuare con una discussione più pragmatica. Salman Abu Sitta è un geografo palestinese che ha dedicato la propria vita ad analizzare gli aspetti concreti del ritorno. I suoi studi indicano che, tra le altre cose, la grande maggioranza della terra a cui i rifugiati intendono tornare attualmente è disabitata. Il Documento di Città del Capo, un progetto per il ritorno formulato insieme da Zochrot, un’associazione israeliana che promuove il diritto al ritorno, e Badil, un’organizzazione palestinese per i diritti dei rifugiati, offre un quadro giuridico per la realizzazione del ritorno. Ci sono anche molte informazioni sui rifugiati che nel resto del mondo tornano ai loro Paesi d’origine e sulle sfide e opportunità poste dal ritorno volontario, per esempio nel numero dell’ottobre 2019 di Forced Migration Review [Rivista delle Migrazioni Forzate].

Se c’è qualcosa che gli ebrei israeliani possono imparare dal rapporto di Amnesty è che il tentativo di slegare gli eventi del 1948 dall’esistenza dei palestinesi nel 2022 è artificioso e cinico, e che la richiesta di riconoscerlo non pretende empatia ma riparazione, in quanto la Nakba è un tentativo deliberato e continuo di cancellare il popolo palestinese dalla sua terra, a nome nostro e con la nostra partecipazione. È importante opporsi alla demolizione delle case e accompagnare i pastori palestinesi della Valle del Giordano. È importante chiedere acqua ed elettricità per chi è sottoposto all’occupazione, monitorare la costruzione delle colonie in Cisgiordania e parlare di pace. Tuttavia mettere in pratica il diritto al ritorno dei rifugiati è l’unica iniziativa che riconosca onestamente l’ingiustizia fondamentale che ha creato la relazione di oppressione tra ebrei e palestinesi che continua fino ad oggi. È l’unica iniziativa che risponda alla reale volontà delle vittime che comporti giustizia e riparazione. Spaventa, ma è anche esaltante. È complicato e ci vorrà tempo. È proprio per questo che dobbiamo iniziare a prenderlo sul serio.

_______________________

[1] Ogni riferimento al rapporto di Amnesty è ricavato dalla versione completa in inglese.

[2] Il divieto al ritorno è discusso, tra le altre, nelle pagine 14-15, 61, 64, 72, 75, 81 e 93-94; sull’appropriazione dei beni dei palestinesi attraverso la legge sulle proprietà degli assenti e sulla acquisizione delle terre del 1953 vedi tra le altre pp. 22-23, 114-116, 119-121, 124.

[3] Memorandum di Y. Weitz, E. Sasson e E. Danin a Ben-Gurion, “Retroactive Transfer: A Scheme for Resolving the Arab Question in the State of Israel,” June 5, 1948 [Trasferimento Retroattivo: uno schema per risolvere la questione araba nello Stato di Israele, 5 giugno 1948], citato in Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem Revisited (Cambridge: Cambridge University Press) [Esilio. Israele e l’esodo palestinese 1947-1949, Rizzoli, 2004], pp. 314-316.

[4] Noga Kadman, “Erased from Space and Consciousness: Israel and the Depopulated Palestinian Villages of 1948” [Cancellati dallo spazio e dalla coscienza: Israele e i villaggi palestinesi spopolati nel 1948] (Bloomington: Indiana University Press, 2015), Introduzione; Oren Yiftachel e Alexandre (Sandy) Kedar, “On Power and Land: The Israeli Land Regime,” [Su potere e terra: il regime territoriale israeliano] Theory and Criticism 16 (2000): p. 77 (in ebraico).

[5] Le considerazioni demografiche non spiegano i passi compiuti per impedire il ritorno di sfollati interni come gli abitanti di Saffuriyya or Kafr Bir’im, la maggioranza dei quali vive ancora sul territorio israeliano.

[6] Pp. 74-81.

[7] P. 17.

[8] Ad es. pp. 62, 75.

[9]  Pp. 62, 81.

[10] Pp. 33, 47, 93-94, 220, 259-260, 276.

[11] Pp. 105-106.

[12] Pp. 41, 76-77, 81.

[13] “Chiesero di tornare al villaggio e dissero che avremmo fatto meglio ad ucciderli […] Non abbiamo consentito loro di andare al villaggio a prendere i loro averi perché l’ordine era che non vedessero come era stato demolito il loro villaggio.” Testimonianza del defunto scrittore israeliano Amos Keinan, che combatté durante la guerra, in “Report on Village Demolition and Refugee Deportation, June 10, 1967,” [Rapporto sulla distruzione di villaggi e la deportazione di rifugiati, 10 giugno 1967] citato in Sedeq 2 (2007): 96-97 (in ebraico).

[14] Nur Masalha, The Politics of Denial: Israel and the Palestinian Refugee Problem [La politica della negazione: Israele e il problema dei rifugiati palestinesi] (London: Pluto Press, 2003), pp. 203-205.

[15] Fin dal marzo 1937 il dirigente sionista e futuro presidente di Israele Chaim Weizmann disse all’alto commissario britannico per la Palestina: “Anche se ogni tanto subiamo delle battute d’arresto, in ultima istanza siamo obbligati a impossessarci di tutto il paese, salvo che il paese sia diviso in due e venga tracciato un limite alla nostra espansione […] Anche se venisse approvato il piano di partizione, siamo obbligati in definitiva a espanderci su tutto il paese […]. Questo non è altro che un accordo per i prossimi 25-30 anni.” Moshe Sharett, Yoman Medini, Vol. 2, p. 67 (in ebraico), citato in Alexander B. Downes, “Targeting Civilians in War” [Prendere di mira i civili in guerra] (Ithaca: Cornell University Press, 2011), p. 187.

[16] Benny Morris, “1948: A History of the First Arab-Israeli War” (New Haven: Yale University Press, 2008) [1948: Israele e Palestina tra guerra e pace, Bur, 2014], pp.  81-93, pp. 197-207.

[17]  Documenti interni dell’intelligence confermano che “l’espulsione di circa il 70% degli arabi durante questo periodo dovrebbe essere attribuito a operazioni militari da parte delle forze ebraiche, mentre gli ordini da parte dei dirigenti arabi hanno influito sullo spostamento solo per il 5%.”

[18] Quelli che seguono sono solo alcuni dei molti esempi. Il soldato ebreo Amnon Neumann testimoniò: “Circondammo il villaggio da varie direzioni, iniziammo a sparare in aria, tutti si misero a urlare e li cacciammo.” Gli ordini operativi del piano D (marzo 1948) esigevano di “ripulire” e “distruggere” villaggi. Agli abitanti di Ramle e Lydda vennero distribuiti volantini che ordinavano loro di andarsene a piedi, e le truppe israeliane spararono sopra le loro teste finché i convogli di rifugiati arrivarono in territorio giordano. A Majdal il trasferimento venne effettuato utilizzando camion militari.

[19] Nel 1950 2.500 palestinesi che erano rimasti nella città di Majdal (oggi Ashkelon) vennero deportati; nel 1956 più di 20.000 beduini palestinesi che erano rimasti nel Negev [Naqab in arabo, ndtr.] furono cacciati, e nel solo 1956 circa 5.000 palestinesi furono espulsi da zone smilitarizzate nel nord di Israele. Come detto, anche la guerra del 1967 ebbe la sua parte di espulsioni, e il fenomeno continua fino ad oggi sia in Israele che in Cisgiordania. Continuano anche ad essere utilizzati vari metodi di emigrazione forzata.

[20] P. 33.

[21] È difficile fare una scelta tra le varie pubblicazioni di palestinesi sul ritorno. Ecco una selezione molto ridotta. Potete leggere alcune brevi citazioni di rifugiati che parlano del ritorno; leggete l’articolo di Abir Kopty “Without Return, Palestine Will Not Be Free” [Senza ritorno la Palestina non sarà libera], del 15.5.2013; vedete il corto di Firas Khouri “Three Returning Bouquets” [Tre mazzi di fiori di ritorno] e ascoltate come alcuni adolescenti descrivono il loro desiderio di tornare; vedete “Internally displaced Palestinians plan their return” [Palestinesi sfollati interni progettano il proprio ritorno]; immaginate, insieme a Umar al-Ghubari e altri, possibili futuri del ritorno e la vita in comune raccontata nel libro “Adwa”, passeggiate nei luoghi immaginati dalla coalizione per il ritorno Al-Awda e da BADIL, Centro Risorse per la Permanenza dei Palestinesi e i Diritti dei Rifugiati.

[22] In inglese: Peter Beinart, A Jewish case for Palestinian refugee return [Una causa ebraica per il ritorno dei rifugiati palestinesi], The Guardian, 18.5.2021; Alma Biblash, Who’s afraid of the right of return? [Chi ha paura del diritto al ritorno?], +972 Magazine, 15.5.2014; Tom Pessah, Yes, the right of return is feasible. Here’s how [Sì, il diritto al ritorno è praticabile. Ecco come], +972 Magazine, 7.11.2017; Moran Barir, I have a dream — to see the Palestinian refugees return, [Ho un sogno: vedere il ritorno dei rifugiati palestinesi], 2012; Henriette Chacar, The Jewish Israelis helping make Palestinian return a reality [Gli ebrei israeliani che contribuiscono a rendere possibile il ritorno dei palestinesi], +972 Magazine, 29.5.2020.

In ebraico: Alma Biblash, It’s Time to Talk about Return as a Practical Option [E’ tempo di parlare del ritorno come un’opzione praticabile], Local Call, 5 maggio 2014; Rachel Beit Arie, We Have Grown Used to Viewing the Return as a Threat Rather than a Hope [Siamo cresciuti abituati a vedere il ritorno dei profughi come una minaccia piuttosto che una speranza], Local Call, 2 dicembre, 2018; Tom Pessah, Time for a Serious Discussion on the Right of Return [E’ tempo di una discussione seria sul diritto al ritorno], Haokets, 5 novembre 2017; Tom Pessah, The Right of Return: Not What You Thought [Il diritto al ritorno: non è quello che pensi], Sicha Mekomit, 18 aprile 2018; Joint Meeting on the Ruins of the Village Mighar [Incontro insieme sulle rovine del villaggio Mighar], Israel Social TV, 7 novembre 2017; una serie di servizi della Israel Social TV sul diritto al ritorno, con interviste, tra gli altri, ad Avi-Ram Tzoreff, Jessica Nevo, Yossef(a) Mekyton e Moran Barir.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cosa c’entra l’Ucraina con la Palestina?

Ali Abunimah

18 marzo 2022 – THE ELECTRONIC INTIFADA

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina alla fine del mese scorso, non sono mancati i confronti con la situazione in Palestina.

Per molti dei sostenitori dei diritti dei palestinesi è istintiva l’identificazione con l’Ucraina in quanto Paese sotto attacco che si difende da una forza molto più potente.

Nessuno può restare indifferente di fronte alle scene di civili che vivono l’orrore della guerra e allo sconvolgimento delle vite di milioni di persone quando divengono rifugiati.

Gli attivisti per i diritti dei palestinesi hanno anche notato i parallelismi – e le risposte molto diverse e ipocrite – tra gli appelli al boicottaggio di Russia e Israele, nonché nell’applicazione selettiva del diritto internazionale.

Mentre la Russia è stata praticamente tagliata fuori dal mondo, Israele continua a godere dell’impunità mentre occupa e colonizza la terra dei palestinesi e impone loro un brutale regime di apartheid.

Siamo come voi

Naturalmente, l’identificazione dell’Ucraina con la difficile situazione dei palestinesi è una cosa che i leader ucraini rifiutano con insistenza. Identificano sé stessi con Israele e i loro nemici russi, presumibilmente, con i palestinesi.

A dicembre, ad esempio, il presidente Volodymyr Zelensky ha affermato che Israele è preso “spesso ad esempio dall’Ucraina” e ha affermato che “sia gli ucraini che gli ebrei apprezzano la libertà“.

“Sappiamo cosa vuol dire non avere un [proprio] Stato”, ha aggiunto Zelensky. Sappiamo cosa significa difendere un proprio Stato e la propria terra con le armi in mano, a costo della propria vita”.

Secondo il Jerusalem Post, Zelensky ha anche proclamato “nel difendere la nostra patria dovremmo comportarci come Israele”.

E’ risaputo che lo scorso maggio il leader ucraino ha dipinto Israele come vittima mentre i suoi aerei bombardavano Gaza massacrando dentro le loro case intere famiglie palestinesi.

A febbraio, prima dell’invasione russa, i funzionari ucraini si sono persino lamentati del fatto che Israele trattasse il loro paese “come Gaza” non fornendo loro abbastanza sostegno, il che implica che tali presunti maltrattamenti dovrebbero essere riservati ai palestinesi, non agli ucraini.

I funzionari ucraini hanno insistito su questa identificazione con Israele sin dall’inizio dell’invasione russa.

Penso che il nostro esercito sia uno dei migliori al mondo. Forse dopo l’esercito israeliano”, ha detto a Jerusalem Post [testata quotidiana in lingua inglese, ndtr.] Markiyan Lubkivskyi, un consigliere del ministro della Difesa ucraino. L’esercito è molto forte grazie all’esperienza e il morale è molto elevato, la motivazione è ottima. Siamo come voi”.

Lo stesso giornale ha riportato che Vitali Klitschko, sindaco della capitale ucraina Kiev, “afferma che i suoi modelli su come vincere contro ogni previsione sono Israele – un paese che ha visitato e ammira – e le IDF [esercito israeliano]”.

“Dobbiamo imparare da Israele come difendere il nostro Paese, con ogni cittadino”, ha detto Klitschko.

Intrecciate

Secondo il professore della Columbia University Joseph Massad, da qualunque parte si esamini l’argomento le connessioni esistenti con la questione palestinese sono più profonde.

“La Russia e l’Ucraina hanno entrambe relazioni e vicende che fanno parte della storia della regione che l’Occidente ha finito per chiamare Medio Oriente”, ha detto Massad a Rania Khalek questa settimana nel suo programma BreakThrough News Dispatches [Approfondimento delle notizie, organo d’informazione online no profit e indipendente con sede negli USA ndtr.].

Massad ha osservato che l’Ucraina meridionale e la Crimea erano ex regioni ottomane conquistate dagli zar russi tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo.

La città coloniale ucraina di Odessa sul Mar Nero, un tempo la città ottomana di Haci Bey, fu il luogo in cui nacque all’inizio del XIX secolo il nazionalismo greco anti-musulmano e alla fine dello stesso secolo il sionismo ebraico colonialista, ha detto Massad.

“In effetti, i primi coloni ebrei che vennero a colonizzare la Palestina nel 1880 furono ebrei ucraini dell’insediamento coloniale di Odessa”.

La Crimea è stata persino identificata durante il periodo sovietico come un potenziale sito per una repubblica ebraica autonoma, un piano che venne abbandonato a causa della forte resistenza della popolazione tartara della Crimea.

Nei tempi attuali “Sia l’Ucraina che la Russia hanno politiche che sono intrecciate con il Medio Oriente”, ha osservato Massad.

L’Ucraina, ad esempio, ha fornito il terzo più consistente contingente militare per partecipare nel 2003 all’invasione e all’occupazione illegale dell’Iraq sotto la guida degli Stati Uniti.

“Per quanto riguarda la Russia, ovviamente [il presidente Vladimir] Putin ha anche avuto ottimi rapporti con Israele, allo stesso tempo è intervenuto in Siria contro gli jihadisti nemici del regime e sostenuti dagli americani e dagli Stati del Golfo”, ha detto Massad.

Tuttavia il suo intervento in Siria ha continuato a permettere agli israeliani di bombardare la Siria, ma non gli jihadisti”.

Massad ha anche sollevato la questione degli ebrei ucraini, a cui Israele chiede “di emigrare in Israele in modo da trasformarli in coloni sulla terra dei palestinesi”.

La conversazione di Massad con Khalek fornisce una grande quantità di dettagli e informazioni sulla situazione in Ucraina e sulle risposte occidentali, inclusa un’intensa ondata russofobica che rispecchia i precedenti attacchi di xenofobia che si accompagnano regolarmente alle guerre e interventi all’estero dell’America.

Informazioni che toccano anche il conformismo del pensiero e la censura nelle democrazie liberali occidentali e altri temi che Massad ha recentemente affrontato in un articolo per Middle East Eye.

È una discussione affascinante che puoi guardare nel video in cima a questa pagina.

Ali Abunimah

Co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [la battaglia per la giustizia in Palestina, ndtr.], ora uscito per Haymarket Books.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Carrefour si unisce a chi trae profitto dalle colonie israeliane

Ali Abunimah

14 marzo 2022 – Electronic Intifada

Durante il fine settimana l’hashtag #boycottcarrefour ha fatto tendenza sulle reti sociali francesi. È stato suggerito da notizie secondo cui il gigante della distribuzione ha deciso di ritirare prodotti russi dai suoi punti vendita per protestare contro l’invasione dell’Ucraina.

Una foto che ha avuto ampia circolazione su Twitter mostra chiaramente un cartello presso un supermercato Carrefour a Nizza. Vi si legge: “Cari consumatori, in seguito agli attuali avvenimenti ogni prodotto russo è stato ritirato dai nostri scaffali per appoggiare l’Ucraina.”

Molti utenti delle reti sociali hanno manifestato rabbia nei confronti di Carrefour, in quanto da anni i sostenitori dei diritti dei palestinesi hanno avviato una campagna perché la catena commerciale smetta di vendere prodotti israeliani, tra cui quelli provenienti da colonie nella Cisgiordania occupata.

In Francia alcuni attivisti sono stati persino perseguitati penalmente per aver chiesto il boicottaggio dei prodotti israeliani in quanto questo appello sarebbe razzista.

Nel 2020 la Corte Europea dei Diritti Umani ha annullato la condanna di 11 attivisti che avevano protestato in negozi Carrefour chiedendo il boicottaggio di prodotti israeliani. I giudici hanno stabilito all’unanimità che le condanne violavano i diritti politici degli attivisti e il diritto di espressione.

Tuttavia né sui suoi account nelle reti sociali né sulle pagine di notizie dell’impresa la francese Carrefour sembra aver annunciato alcun bando nei confronti dei prodotti russi.

È possibile che il ritiro dei prodotti russi in alcuni negozi di Carrefour sia stata un’iniziativa locale, benché in tutta Europa alcuni supermercati lo stiano facendo come politica aziendale.

Ciò avviene nel bel mezzo della frenesia a stigmatizzare qualunque cosa sia russa che va molto oltre il tipo di boicottaggio mirato di prodotti israeliani e di istituzioni complici che i palestinesi hanno sollecitato per anni.

Rifornire l’esercito israeliano

Ma, con l’attenzione concentrata sulla guerra in Ucraina, la scorsa settimana Carrefour ha fatto un annuncio che è passato inosservato.

Carrefour gestisce migliaia di supermercati e minimarket in tutto il mondo, ma finora non in Israele.

Ciò cambierà, in quanto il gigante della distribuzione sta iniziando una collaborazione con l’impresa israeliana Electra Consumer Products e la catena di supermercati che essa gestisce, Yenot Bitan.

“Questa collaborazione vedrà insegne di Carrefour in Israele prima della fine del 2022 e consentirà a tutti i negozi di Yenot Bitan, al momento più di 150, di aver accesso ai prodotti Carrefour prima dell’estate,” ha affermato Carrefour.

In base all’accordo Carrefour aprirà in Israele anche “negozi in franchigia”.

Ciò significa che Carrefour si assocerà a imprese che sono direttamente coinvolte nell’occupazione israeliana e nella colonizzazione della Cisgiordania – crimini di guerra.

Yenot Bitan gestisce negozi all’interno di colonie nella Cisgiordania occupata, comprese i grandi insediamenti di Ariel e Maaleh Adumim.

In base agli annunci di Carrefour, prima della fine di quest’anno l’impresa francese trarrà quindi profitto dalla vendita dei suoi prodotti all’interno di colonie.

Electra Consumer Products, proprietaria di Yenot Bitan, è parte di un consorzio di imprese che utilizza il marchio Electra in Israele. Esse condividono la stessa società madre, ELCO.

I marchi Electra sono profondamente coinvolti nella colonizzazione israeliana della terra palestinese occupata.

Secondo Who Profits, un’associazione che monitora le aziende complici della colonizzazione israeliana, Electra Consumer Products “ha installato condizionatori in edifici pubblici nelle colonie di Modiin Illit, Maaleh Adumim e Givat Zeev, in Cisgiordania.”

Varie altre aziende di Electra sono ancor più coinvolte nella costruzione di colonie, delle loro infrastrutture e nell’assistenza all’esercito israeliano.

Per esempio una consociata, FK Electra, ha fornito generatori almeno a un posto di controllo israeliano nella Cisgiordania occupata e, afferma Who Profits, “generatori all’esercito israeliano durante l’attacco militare contro Gaza del 2014 [Operazione “Margine protettivo”, ndtr.]”.

In seguito a ciò Electra è stata inserita nella banca dati dell’ONU delle imprese coinvolte nelle colonie all’interno dei territori palestinesi.

Parole vuote

Come altri membri dell’Unione Europea, la Francia sostiene di opporsi all’occupazione israeliana della Cisgiordania e ritiene che le colonie israeliane lì siano illegali.

Il governo francese mette persino in guardia: “Transazioni finanziare, investimenti, acquisti, approvvigionamenti e altre attività economiche nelle colonie o che favoriscano le colonie implicano rischi giudiziari ed economici legati al fatto che, in base alle leggi internazionali, le colonie israeliane sono state costruite su territori occupati e non sono riconosciute come parte del territorio di Israele.

Come minimo Carrefour approvvigionerà le colonie e ne beneficerà quando i prodotti del suo marchio arriveranno nei negozi di Yenot Bitan nelle colonie.

Che una grande azienda internazionale come Carrefour abbia preso la decisione non solo di associarsi con aziende che traggono profitto dalle colonie, ma di fare una qualunque attività commerciale in uno Stato di apartheid è un indicatore dell’impunità di cui godono Israele e i suoi complici.

Di fatto, guidati dalla Francia, che attualmente detiene la presidenza di turno della UE, gli Stati europei stanno cercando sempre più “opportunità di cooperazione” con Israele.

In questo contesto i dirigenti di Carrefour sanno sicuramente che, qualunque cosa dicano il governo francese o la UE a proposito delle colonie, sono solo parole vuote.

Mentre i cosiddetti oligarchi russi sono privati dei loro beni in base al semplice sospetto di legami con il presidente Vladimir Putin, gli oligarchi francesi possono godere della loro redditizia collaborazione con quanti sono coinvolti in crimini di guerra contro i palestinesi.

Ma il tempo dirà se i festeggiamenti di Carrefour sono giustificati.

Grazie agli sforzi degli attivisti solidali con la Palestina in tutto il mondo negli ultimi anni altre importanti imprese francesi, in particolare Orange [impresa di telecomunicazioni, ndtr.] e Veolia [multinazionale che opera nei settori dell’acqua, dei rifiuti e dell’energia, ndtr.], sono state obbligate a porre fine alla loro complicità con i crimini israeliani.

Gli attivisti prenderanno sicuramente in considerazione la decisione di Carrefour di trarre profitti dalla colonizzazione e dall’apartheid israeliani.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’interdizione di Israele verso i coniugi palestinesi diventa legge definitiva: un trionfo per lo “Stato ebraico”

Jonathan Ofir

11 marzo 2022 – Mondoweiss

Come riportato da Reuters, ieri il parlamento israeliano ha approvato una legge che nega la cittadinanza per naturalizzazione ai palestinesi della Cisgiordania occupata o di Gaza sposati con cittadini israeliani, costringendo migliaia di famiglie palestinesi a emigrare o vivere separate.

La legge definitiva, che vieta l’acquisizione della nazionalità, è stata approvata con 45 voti a favore e 15 contrari, una maggioranza di tre quarti dei voti, trasversale alle componenti della coalizione (solo la metà dell’intero parlamento ha votato sulla legge). Due partiti che fanno parte della coalizione di governo hanno votato contro la legge: il partito sionista di sinistra Meretz e il partito islamista di destra Ra’am. Il resto della coalizione di governo, compresi i laburisti, ha votato a favore della legge razzista, unendo le forze con i politici di estrema destra del parlamento israeliano.

Il parlamentare del partito sionista religioso di destra Simcha Rothman, che ha contribuito a portare il partito kahanista Jewish Power [partito estremista di destra, fondato su un fondamentalismo religioso, ndtr.] in parlamento (con Itamar Ben Gvir, l’ammiratore del terrorista ebreo Baruch Goldstein, in qualità di membro della Knesset), è stato uno dei principali apripista per tale approvazione. Rothman ha esultato già prima del voto di ieri, quando è risultato chiaro che la legge sarebbe stata approvata:

Lo Stato di Israele è ebraico e tale rimarrà… Oggi, se Dio vuole, lo scudo difensivo di Israele risulterà notevolmente rafforzato,

L’altra principale portabandiera di questo provvedimento è un membro di spicco del governo, la ministra dell’Interno Ayelet Shaked, del partito Yamina (di destra) di Naftali Bennett. Con le sue parole di ieri al plenum è stata molto chiara sul suo successo:

Simcha Rothman ha subito compreso il danno che sarebbe derivato in seguito allo scadere della legge e ha lavorato con me per redigere una versione accettabile per entrambe le parti. Dimostrando grande responsabilità, l’opposizione ha contribuito a far approvare la legge.

Lo scorso luglio era scaduta una legge temporanea che vietava l’acquisizione della nazionalità da parte dei coniugi palestinesi, ma da allora Shaked ha incaricato l’amministrazione di continuare ad agire come se fosse in vigore. Poi, a gennaio, in seguito ad una petizione di organizzazioni per i diritti civili, l’Alta Corte le ha ordinato di porre fine al divieto:

Le regole di base del diritto amministrativo non consentono l’applicazione di una legge che non è più in vigore”, ha scritto la giudice Dafna Barak-Erez. Tuttavia, è stata solo questione di poco tempo perché questo problema” legale potesse essere ancora una volta risolto. Come un funzionario vicino a Shaked, citato da The Times of Israel, ha dichiarato:

La ministra intende riesaminare la legge nelle prossime settimane. Si spera che l’opposizione che in precedenza ha fatto decadere la legge non agisca contro lo Stato”.

Ecco cosa è successo ieri. E cosa ne pensano i centristi del governo, parlamentari che per i sionisti progressisti degli Stati Uniti sono degli eroi? Il parlamentare Ram Ben Barak, del partito Yesh Atid (C’è un futuro) [partito centrista e laico, ndtr.] di Yair Lapid, che guida la commissione per gli affari esteri e la difesa, ha approvato la legge “a malincuore”:

Approvo la legge a malincuore e senza gioia. Vorrei che arrivasse un momento in cui non avremo bisogno di questa legge… ma nell’attuale realtà riguardo la sicurezza non possiamo fare altro che difenderci.

Questa legge non è affatto nuova. La novità è che è stata consolidata come legge definitiva. Ha seguito un iter storico di ordinamento temporaneo, di emergenza, che doveva essere rinnovato ogni anno.

Ed è una legge di apartheid. Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ndtr.], nel suo rapporto di 213 pagine dello scorso anno su apartheid e oppressione israeliane, ha dedicato una sezione a questo problema:

«La legge sulla cittadinanza del 1952 autorizza anche la concessione della cittadinanza per naturalizzazione. Tuttavia, nel 2003 la Knesset ha approvato la legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele (ordinamento temporaneo), che vieta la concessione della cittadinanza israeliana o dello status legale a lungo termine ai palestinesi della Cisgiordania e di Gaza che sposino cittadini o residenti israeliani. Con poche eccezioni questa legge, rinnovata da allora ogni anno e confermata dalla Corte Suprema israeliana, nega ai cittadini ebrei e palestinesi e agli abitanti di Israele che scelgono di sposare palestinesi il diritto di vivere con il loro partner in Israele. Questa restrizione, basata esclusivamente sull’identità del coniuge come palestinese della Cisgiordania o di Gaza, evidentemente non si applica quando gli israeliani sposano coniugi non ebrei della maggior parte delle altre nazionalità straniere. Questi possono ricevere lo status immediato e, dopo diversi anni, richiedere la cittadinanza.

Nel 2005, nel commentare un rinnovo della legge, il primo ministro dell’epoca, Ariel Sharon, disse: Non c’è bisogno di nascondersi dietro argomenti sulla sicurezza. C’è la necessità dell’esistenza di uno Stato ebraico”. Benjamin Netanyahu, che era allora il ministro delle finanze, disse in quella circostanza nel corso delle discussioni: “Invece di rendere le cose più facili per i palestinesi che vogliono ottenere la cittadinanza, dovremmo rendere le procedure molto più difficili, al fine di garantire la sicurezza di Israele e la presenza in esso di una maggioranza ebraica. “Nel marzo 2019, questa volta come primo ministro, Netanyahu ha dichiarato: “Israele non è uno Stato di tutti i suoi cittadini”, ma piuttosto “lo Stato-nazione del popolo ebraico e solo il loro”.

La legge è simile al famigerato Muslim ban” di Trump [Il bando sui viaggi da paesi a maggioranza musulmana emesso da Donald Trump nel 2017 con il presunto pretesto di prevenire il terrorismo, ndtr.]

E che dire della situazione di sicurezza” che ha spinto Ben Barak a votare tanto a malincuore a favore della legge?

Il Times of Israel [quotidiano online principalmente in lingua inglese, con sede in Israele, ndtr.] riferisce che lunedì lo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, ha consegnato un rapporto al parlamento in cui si afferma che tra il 1993 e il 2003 130.000 palestinesi hanno ricevuto la cittadinanza o la residenza attraverso il ricongiungimento familiare e che tra il 2001 e il 2021 48 di questi sono stati coinvolti in attività terroristiche”.

Il Times of Israel non analizza né si interroga su queste cifre, ma penso che ci siano buone ragioni per esaminarle. 48 su 130.000 costituisce uno su 2.708, ovvero lo 0,03%. Consideriamo ora ciò che Israele definisce terrorismo”. L’anno scorso abbiamo appreso che queste persone potrebbero essere membri di importanti organizzazioni per i diritti umani, come Al Haq [organizzazione palestinese indipendente per i diritti umani con sede nella città di Ramallah, ndtr.], o chissà, forse loro segreti sostenitori o simpatizzanti (come me).

Possono essere persone che hanno condiviso qualche generico messaggio sui social media che “si adatta al profilo” di un possibile “sostenitore del terrorismo”, o qualcuno che condivide poesie sulla resistenza, come Dareen Tatour [poetessa, fotografa e attivista palestinese,ndtr.] o la componente del Consiglio legislativo palestinese Khalida Jarrar, ripetutamente incarcerate senza accusa (detenzione amministrativa).

Attenzione, non sto nemmeno parlando di persone che lanciano bottiglie molotov, qualcosa per cui al giorno d’oggi l'”Occidente” sembra avere una grande comprensione quando si tratta della resistenza ucraina all’occupazione russa. Quindi il punto è che la definizione israeliana di “attività terroristiche” è una definizione molto, molto ampia. Lo Shin Bet comunque controlla chiunque entri o si muova attraverso Israele e tra i territori che occupa ecc. Non c’è bisogno di emanare punizioni collettive anche a livello di unificazione familiare solo per rendere le cose più difficili per i palestinesi e più facili per lo Shin Bet, a discapito di un diritto umano fondamentale come il diritto alla vita familiare.

E così il centrista Ram Ben Barak dice che semplicemente non ha altra scelta che difendersi” da questi terroristi. Siede in parlamento con Itamar Ben Gvir [del partito sionista religioso di estrema destra Otzma Yehudit, ndtr.] che idolatra l’autore del massacro di Hebron, Baruch Goldstein, che nel 1994 uccise 29 fedeli musulmani nella moschea di Al-Ibrahimi, e deve difendersi dai terroristi con questa legge. Se il parlamentare israelo-palestinese Ahmad Tibi, o Ayman Odeh [ambedue membri della Lista Comune arabo israeliana, ndtr.] possedessero dei poster di palestinesi che avessero perpetrato massacri simili di ebrei (come Ben Gvir aveva un poster di Goldstein), non sappiamo come andrebbe a finire.

il quadro inverso è impossibile da immaginare. Possiamo pensare che qualcuno suggerisca di vietare agli ebrei il ricongiungimento familiare in quanto sembrerebbe che molti di loro compiano azioni terroristiche contro i palestinesi? Magari di limitare l’unificazione familiare dei coloni della Cisgiordania, dal momento che sembrano avere un ruolo più prominente in quello che può solo essere descritto come terrorismo ebraico, cresciuto negli ultimi anni? E Ayelet Shaked, ministra dell’Interno e porta bandiera di questa legge che mette al bando i coniugi palestinesi, è mai stata incarcerata per il post del 2014 con cui sosteneva un vero e proprio genocidio dei palestinesi, comprese donne e bambini? Le ha forse ciò precluso l’investitura di parlamentare e addirittura di ministra della giustizia (2015-19)?

Dopo l’approvazione della legge, Shaked si è vantata in un tweet:

Uno Stato democratico ebraico – 1

Uno Stato di tutti i suoi cittadini – 0

E quest’ultimo tweet rappresenta l’intera faccenda in poche parole. Quello che Shaked chiama uno “Stato democratico ebraico” non è democratico, è uno Stato di supremazia ebraica dal fiume al mare, proprio come lo chiama l’israeliana B’Tselem [ONG israeliana per i diritti umani nei territori occupati, ndtr.] nel suo rapporto sull’Apartheid dello scorso anno.

Quello che Shaked chiama “uno Stato di tutti i suoi cittadini” è in realtà quello che normalmente chiameremmo uno Stato democratico, in cui sono assicurati i diritti fondamentali come il ricongiungimento familiare. Chiunque sia ingannato dalle argomentazioni da parte di Israele sulla sicurezza e sul “terrore”, dovrebbe leggere di nuovo il testo dell’ultimo tweet di Shaked. Se si vuole riassumerlo ulteriormente, in realtà dice proprio “Uno Stato democratico – 0”.

H/t Ofer Neiman

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli ucraini fuggiti in Israele si trasformeranno da un giorno all’altro in coloni e colonizzatori

Azad Essa

10 marzo 2022 – Middle East Eye

Non si può permettere a Israele di strumentalizzare il conflitto Russia-Ucraina per consolidare la propria ‘superiorità demografica’ nella Palestina storica.

I pogrom cominciarono prima che il fumo si dissolvesse e i morti della Prima Guerra Mondiale fossero sepolti. 

Gli ebrei, bloccati nella guerra civile che dal 1918 dilagò nell’impero russo, furono oggetto di almeno mille pogrom. Furono incolpati della Prima Guerra Mondiale e della rivoluzione russa del 1917. Furono accusati di ammassare cibo e ricchezze. Furono vessati e picchiati nelle loro case, aggrediti sessualmente in strada e, in centinaia di occasioni, messi in fila e ammazzati.

Gli storici stimano che entro il 1921 furono uccisi più di 100.000 ebrei ucraini. I pogrom contro di loro ebbero parecchie conseguenze per l’Europa e gli ebrei nel resto del mondo.

Nel suo nuovo libro In the Midst of Civilised Europe: The Pogroms of 1918-1921 and Onset of the Holocaust [Nel cuore della civile Europa: i pogrom 1918-1921 e l’inizio dell’Olocausto], ed. Metropolitan Books, lo storico di Chicago Jeffrey Veidlinger sostiene che la febbrile violenza inflitta agli ebrei in Ucraina agli inizi degli anni ’20 rappresentò un precedente della brutalità degli anni che seguirono.

Nonostante la lunga storia della persecuzione contro gli ebrei in Europa, la spudorata violenza contro gli ebrei nei pogrom dopo la Prima Guerra Mondiale fu un’anticipazione dell’Olocausto vent’anni dopo nella Germania nazista. In altre parole gli assassini di massa approvata dallo Stato con Adolf Hitler ebbero come precedenti parecchi massacri di dimensioni minori per mano di persone comuni e degli eserciti che combattevano i bolscevichi.

Comunque i pogrom contro gli ebrei ucraini ebbero un altro effetto a catena. 

Una patria ebraica

Essi nutrirono la necessità di creare una patria ebraica che divenne estremamente possibile quando, durante la Prima Guerra Mondiale i britannici, subentrarono agli ottomani in Palestina.

I profughi ucraini in Israele, quello stesso popolo appena sfuggito oggi a guerra, fame e occupazione straniera, si trasformeranno da un giorno all’altro in coloni e colonizzatori.

Sumaya Awad e Annie Levin in Palestine: A Socialist Introduction [Palestina: un’introduzione socialista] (ed. Haymarket Books), scrivono che la dichiarazione di Balfour [ministro degli Esteri britannico che impegnò l’impero a favorire un “focolare ebraico” in Palestina, ndtr.] nel 1917 fu “il primo riconoscimento ufficiale delle colonie sioniste”. Il sostegno britannico a una patria ebraica affrettò il trasferimento di migliaia di emigranti ebrei nella Palestina occupata dalla Gran Bretagna.

Fra il 1921 e il 1923 circa 40.000 ebrei ucraini si diressero in Palestina come coloni e colonizzatori

L’arrivo dei profughi ebrei rese permanenti le tensioni con i nativi palestinesi che si videro strappare via la propria terra da sotto i piedi. Catalizzò una serie di schermaglie fra le due comunità, la più conosciuta delle quali fu quella di Giaffa nel 1921, durante la quale furono uccisi 48 palestinesi e 47 ebrei. 

 Il sionismo, come altri progetti coloniali, era fondato sulla disumanizzazione degli indigeni palestinesi. Per gli ebrei fuggiti dall’Ucraina e altrove la Palestina era loro e perciò deserta, e, ove abitata da palestinesi, non civilizzata.

Veidlinger scrive che gli ebrei ucraini erroneamente tracciano paralleli fra la resistenza palestinese alla colonizzazione delle loro case e le persecuzioni subite in Europa.

 Veidlinger afferma: “Nonostante le numerose differenze fra le rivolte in Palestina e i pogrom in Ucraina, non ultima l’elevato numero di morti arabi, che stavano a indicare scontri letali più che pogrom, l’idea che la violenza nella Terra Santa fosse solo un altro pogrom fu alla base di un mito che finì per caratterizzare l’ala destra del movimento sionista”. 

Con l’avvento della Germania nazista negli anni ’30 e poi con la Seconda Guerra Mondiale l’emigrazione ebraica in Palestina diventò ancora più “urgente”, anche perché altri Paesi, come gli USA, limitavano l’immigrazione ebraica.

Si stima che i nazisti massacrarono 17 milioni di persone, fra cui ebrei, russi, polacchi, rom, gay, disabili. E anche se, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, i sionisti cooperarono con i nazisti tedeschi, l’Olocausto diventò il più importante attestato della legittimità di Israele. 

Il giornalista australiano Anthony Lowenstein scrive: “I nazisti uccisero sei milioni di ebrei e i leader sionisti, con a capo (David) Ben-Gurion, videro l’opportunità unica di sfruttare le sofferenze degli ebrei per ottenere la simpatia del mondo e fondare una patria ebraica”.

Rifugiati ebrei ucraini 2.0

A pochi giorni dall’invasione russa dell’Ucraina alla fine di febbraio 2022, poco più di un secolo dopo i pogrom in Ucraina, il governo israeliano ha invitato gli ebrei ucraini a fare aliyah, cioè a emigrare nella Terra Santa.

L’hanno chiamata “Operazione Israele garantisce” (Arvut Yisrael), fondata sulla Legge israeliana del ritorno che garantisce agli ebrei di ogni parte del mondo la cittadinanza automatica in base alla loro religione.

Come durante la Seconda Guerra Mondiale non sono solo gli ebrei ad affrontare la calamità della guerra in Europa orientale. Tutti i 44 milioni di abitanti dell’Ucraina stanno affrontando una minaccia esistenziale mentre l’esercito russo attacca con truppe di terra e terrificanti bombardamenti aerei.

In 12 giorni sono sfollati più di 2 milioni di ucraini. “Noi chiediamo agli ebrei in Ucraina di immigrare in Israele, la vostra casa,” ha detto il ministro israeliano per la Aliyah e l’integrazione. Anche il primo ministro Naftali Bennett ha descritto lo Stato di Israele come “un rifugio per ebrei in pericolo”.

“Questa è la nostra missione. Noi compiremo anche questa volta la nostra sacra missione,” ha detto Bennett.

Con perfetto tempismo la sezione per le colonie dell’Organizzazione sionista mondiale (OSM) ha detto che avrebbe costruito abitazioni temporanee per coloro che scelgono di compiere il viaggio. Anche Pnina Tamano-Shata [del partito di centro-destra Blu e Bianco e prima etiope a ricoprire un ruolo di governo, ndtr.], ministra israeliana per l’Immigrazione e l’Integrazione, ha detto che i destini degli ebrei in Israele e di quelli della diaspora sono “intrecciati”.

Quando la decisione del governo verrà approvata i membri del dipartimento per le colonie sono in grado di metterla immediatamente in atto,” dice Yishai Merling a capo della divisione colonie dell’OSM.

E aggiunge: “I combattimenti in corso in Ucraina e l’incertezza richiedono allo Stato di Israele di prepararsi in funzione dell’assorbimento degli immigrati dall’Ucraina. Israele deve prendersi la responsabilità delle comunità ebraiche che vivono là. È quello che Israele ha fatto in passato ed è quello che lo Stato ebraico deve fare oggi.”

Da rifugiati a coloni

In base all’ultimo calcolo almeno 467 ebrei ucraini hanno compiuto il viaggio verso Israele come fecero i loro compatrioti un secolo fa.

Le stime variano, ma secondo parecchie fonti ci sono circa 40.000 persone in Ucraina che si considerano ebrei, incluso il presidente Volodymyr Zelensky. Ce ne potrebbero essere quattro volte tante di origine ebraica e che quindi hanno diritto all’aliyah.

Ayelet Shaked, ministra degli Interni israeliana, questa settimana ha detto che circa 100.000 ebrei ucraini potrebbero arrivare nel Paese e diventare cittadini.

Agli ebrei ucraini, in fuga da guerra e caos in Ucraina, verrà ora dato rifugio, cibo e protezione e chiesto di vivere su terre prese ai palestinesi. Alcuni potrebbero vivere su terre sottratte di recente, note come colonie illegali nei territori palestinesi occupati in violazione del diritto internazionale.

Secondo la divisione colonie dell’OSM i nuovi arrivati saranno collocati in colonie sulle alture del Golan occupato, nel Negev, ad Arava [sul confine sud tra Israele e la Giordania, ndtr.], nella Valle delle Sorgenti e nella valle del Giordano [in Cisgiordania, ndtr.].

Alcune famiglie si sono già spostate a Nazareth Illit (ora Nof Hagalil), su terre sottratte negli anni ’50 alla vicina città di Nazareth, parte di un più vasto tentativo di “ebraizzare” e soffocare lo sviluppo e la crescita palestinese nella regione. All’epoca la zona era prevalentemente abitata da palestinesi.

Altre potrebbero spostarsi in terre precedentemente rubate ed edificate sui villaggi oggetto di pulizia etnica quando Israele fu creato nel 1948 nella Palestina storica. Circa 750.000 palestinesi furono espulsi nel 1948 per far posto allo Stato di Israele.

E come i loro predecessori giunti un secolo fa, si impregneranno del credo sionista secondo cui la terra era vuota e che i palestinesi cacciati nel 1948, di cui circa cinque milioni languono ancora in campi profughi o che vivono in zone diverse del mondo e sono impossibilitati a ritornare alle proprie case o che stanno vivendo come dei prigionieri nella Gaza soggetta a blocco, sono minacce alle loro esistenze di ebrei.

Non un gesto umanitario

In altre parole le stesse persone che sono appena fuggite da guerra, fame e occupazione straniera oggi si trasformeranno in un batter d’occhio in coloni. Semplicemente si inseriranno nel sistema israeliano di segregazione istituzionalizzata e discriminazione conosciuto come apartheid.

Non fraintendetemi: gli ucraini stanno pagando il prezzo di una guerra fra due fragili imperi in lotta per dominio e potenza. 

Ma anche in questo momento di emergenza globale in cui vanno intentate azioni immediate per salvare vite civili in Ucraina non c’è assolutamente motivo per far pagare ai palestinesi i costi di questo conflitto.

Non si può permettere a Israele di strumentalizzare il conflitto Russia-Ucraina per popolare la terra palestinese con altri ebrei per consolidare quello che Lana Tatour, docente di colonialismo e diritti umani alla University of New South Wales a Sydney, descrive come “superiorità demografica”.

Assorbire ebrei da tutto il mondo non è un gesto umanitario, è una politica strategica. Rafforza Israele come patria ebraica.Ma allora, dopo un secolo, chi stiamo prendendo in giro?

Israele è sopravvissuto ed è prosperato come Stato coloniale di insediamento e ha costruito la propria legittimità e credibilità come democrazia liberale nonostante le sue politiche razziste perché, fin dall’inizio, Gran Bretagna, Francia e in particolare gli USA non hanno mai riconosciuto i palestinesi come importanti o persino come esseri umani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Azad Essa

Azad Essa, giornalista esperto di Middle East Eye, vive a New York. Dal 2010 al 2018 ha lavorato per l’edizione in inglese di Al Jazeera occupandosi dell’Africa meridionale e centrale. È l’autore di The Moslems are Coming [Arrivano i musulmani] (Harper Collins India) e Zuma’s Bastard [Il bastardo di Zuma] (Two Dogs Books). 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un premier espansionista, violento e razzista si reca in Russia per verificare se Putin è sano di mente

Jonathan Ofir

9 marzo 2022, Mondoweiss

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett si è recato a Mosca sabato scorso e dopo un incontro di tre ore con Vladimir Putin ha dato questo responso:

[Putin] non sta teorizzando il complotto e non è fuori di senno, né soffre di attacchi di collera…”

È abbastanza comico. Mi chiedo cosa avrebbe detto Bennett se Putin avesse affermato “Ho ucciso molti ucraini nella mia vita, e non c’è nessun problema”.

Questa è ovviamente la frase sugli “arabi” che Bennett ha pronunciato nel 2013, e che da allora ha cercato di ammorbidire (con l’aiuto di gruppi di apologeti israeliani) quando è diventata scomoda.

Immaginate se Putin durante l’incontro avesse detto: “Quando ancora gli ucraini si arrampicavano sugli alberi, noi qui avevamo già uno Stato”.

Avrebbe potuto cambiare il giudizio di Bennett: sarebbe stato evidente che chiamava subumani gli ucraini. Eppure questa è semplicemente la battuta di Bennett sui palestinesi, indirizzata al deputato israelo-palestinese Ahmad TIbi nel 2010.

Se Putin avesse detto che gli ucraini sono come “schegge nel sedere” (come ha detto Bennett a proposito dei palestinesi), allora Bennett avrebbe potuto concludere che Putin ha seri problemi di collera e dopo tutto potrebbe non essere così equilibrato. 

Bennett e Putin condividono una quantità inquietante di teorie complottiste e, in fondo, sono molto simili nel negare che i loro presunti nemici – rispettivamente palestinesi e ucraini – siano persone vere che meritano un vero Stato. Come ha scritto ieri Peter Beinart nel suo ottimo articolo su Jewish Currents “Giustificazioni alla distruzione di un popolo”: “Gli argomenti utilizzati dal governo russo per disumanizzare gli ucraini sono sorprendentemente simili a quelli che il governo israeliano usa per disumanizzare i palestinesi.”

Detto questo, c’è una differenza cruciale tra il pensiero israeliano e russo rispettivamente ai palestinesi e agli ucraini. Beinart: “Il discorso ufficiale russo e quello israeliano differiscono in almeno un aspetto importante. Putin sostiene che gli ucraini sono in realtà russi, che devono essere sottomessi e integrati. [Golda] Meir e [Benjamin] Netanyahu non hanno mai sostenuto che i palestinesi siano veramente israeliani o ebrei. Sostenevano invece che i palestinesi siano genericamente arabi, che Israele potrebbe quindi incoraggiarli a reinsediarsi altrove nel mondo arabo. Nonostante questa differenza, i leader israeliani definiscono l’identità palestinese non solo come falsa, ma manipolata dai nemici di Israele, che è ciò che Putin dice dell’identità ucraina.”

Quindi, cosa ha fatto Bennett con Putin per tre ore, oltre a valutare se lo stato mentale di Putin sia o no equilibrato? A quanto pare, non molto. Il Times of Israel riferisce: “Una fonte diplomatica citata nel rapporto ha affermato che Bennett è stato prudente con Putin, visto che il leader russo ‘non è interessato a un cessate il fuoco o ai corridoi umanitari’ “.

Certo, non si vorrà fare pressione su una persona perché accetti una soluzione così radicale come i corridoi umanitari …

In un altro articolo, The Times of Israel cita due esperti russi che si mostrano preoccupati di come Putin stia usando persone come Bennett per guadagnare tempo per riorganizzarsi. Uriel Epshtein della Renew Democracy Initiative di Gary Kasparov afferma semplicemente che “non c’è nessuno spazio, assolutamente nessuno per un contributo di Israele a por fine alla guerra, e che “l’idea che Israele sarà il fulcro del processo decisionale di Putin per arrivare in qualche modo a un accordo tra Russia e Ucraina, o Russia e Occidente, è un’illusione”.

In questo articolo viene citata anche Anna Borshchevskaya, esperta russa del Washington Institute for Near East Policy (uno spin-off del gruppo di lobby israeliano AIPAC [Comitato Americano per gli Affari Pubblici Israeliani, che sostiene le politiche filo-israeliane al Congresso, ndtr.]) Putin “non considera l’Ucraina un vero paese”, ha detto Borshchevskaya. “È abbastanza chiaro che Putin è davvero convinto della sua guerra in Ucraina. In effetti, nonostante gli annunciati corridoi di cessate il fuoco, la Russia continua a bombardare i civili… È difficile per me vedere come funzionerà concretamente la mediazione israeliana in questo momento, in questa fase”.

I due esperti concordano sulle due ragioni del gioco diplomatico di Putin, come riassume Times of Israel: “prendere tempo per riorganizzare la strategia e acquistare legittimità presso i leader mondiali”. Quanto alla legittimità: “Uno degli obiettivi finali di Putin è la legittimità. Vuole essere percepito come legittimo. Sembra essere una delle sue insicurezze più profonde”, ha detto Epshtein.

E questo ci porta in Israele, perché anche Israele vuole legittimità, e questa è anche una delle sue insicurezze di fondo.

Anche Israele cerca legittimità

Bennett è concentrato sulla negazione di uno Stato palestinese, su cui è veramente esplicito. La sua dichiarazione sulle “schegge nel sedere” risale al 2013 quando era ministro dell’Economia e del Commercio nel governo di Netanyahu, . Parlando al consiglio dei coloni di Giudea e Samaria si espresse così: “Vi racconterò una breve storia. Ho un amico che si chiama Yoav. Ha prestato servizio nella Brigata Golani dell’IDF [Forze di difesa israeliane], e in uno scontro una scheggia gli è rimasta conficcata nel sedere. Sono andato a trovarlo in ospedale e lui mi ha detto: ‘Guarda, ho questa scheggia. … Secondo i medici ho due possibilità: o farmi operare per rimuovere la scheggia, correndo il rischio di restare handicappato o paralizzato a vita, oppure lasciarla lì, anche se di tanto in tanto, al cambio di stagione, potrebbe farmi un po’ male.’… Così, decise di continuare a conviverci. … Ci sono situazioni in cui la ricerca ingannevole della perfezione rischia di causare un disastro.”

E se la morale non fosse stata chiara, ha aggiunto: “Il tentativo di istituire uno Stato palestinese nella nostra patria è finito; è arrivato a un punto morto.”

La rozza valutazione di Bennett è una chiara ammissione della sua irremovibile posizione; ora come Primo Ministro Bennett “rifiuta fermamente” la creazione di uno Stato palestinese. I satelliti di sinistra che adornano la coalizione di Bennett non si fanno illusioni, non esiste una tale prospettiva con Bennett.

Ma Bennett è anche un convinto sionista, quindi vuole a tutti i costi uno Stato ebraico. E qual è il risultato di governare le persone negando loro il diritto a una nazione? Avete indovinato, apartheid. Fa parte della logica che ha portato una ampia schiera di organizzazioni per i diritti umani – palestinesi, israeliane e internazionali – a giudicare Israele uno Stato di apartheid.

E gli Stati di apartheid vogliono legittimità per il loro apartheid. Al giorno d’oggi l’apartheid non è considerato legale, poiché è un crimine contro l’umanità secondo solo al genocidio, quindi Israele cerca principalmente di negare il suo apartheid, anche se il cammino intrapreso e i suoi discorsi sono esattamente questo.

Il doppio gioco

Così ora Israele cerca di fare il doppio gioco: essere uno Stato di aggressivo apartheid, e tuttavia presentarsi come un agente di civiltà e pace. Così, il ministro degli Esteri israeliano “progressista” di centro Yair Lapid, che in passato aveva sostenuto l’esecuzione senza processo di palestinesi anche se si limitavano a tenere in mano “un cacciavite” e sostenuto il “massimo numero di ebrei sulla massima estensione di terra in massima sicurezza e con un minimo di palestinesi”, ora si erge a condannare l’invasione russa: “L’attacco della Russia all’Ucraina è un massiccio attacco all’ordine mondiale… Le guerre non sono il modo giusto per risolvere i conflitti. Possiamo fermarlo (l’attacco) e tornare al tavolo dei negoziati per una soluzione pacifica.”

Nel suo articolo su Haaretz “Il bollitore israeliano e la pentola russa” il giornalista israeliano Gideon Levy l’ha definito “sostegno comico”, chiedendosi anche: “Può essere che l’autocoscienza [di Lapid] sia così bassa, o forse il cinismo, l’ipocrisia e il doppio standard hanno raggiunto nuove vette?”

Secondo quanto riferito, Lapid ha incaricato il vice ambasciatore alle Nazioni Unite Noa Furman di trasmettere il suo messaggio, al fine di evitare che lo pronunciasse l’attuale ambasciatore Gilad Erdan, un sostenitore del Likud di Netanyahu noto per essere un falco. Furman ha fatto eco a Lapid sulla “grave violazione dell’ordine internazionale” e ha esortato la Russia “a prestare ascolto agli appelli della comunità internazionale di fermare l’attacco e rispettare l’integrità territoriale e la sovranità dell’Ucraina”.

Israele ha fatto il doppio gioco anche all’ONU, cosa che ha seriamente infastidito i funzionari statunitensi. Israele ha rifiutato di sostenere una risoluzione degli Stati Uniti contro l’invasione della Russia al Consiglio di sicurezza dell’ONU (con il pretesto che la Russia avrebbe comunque posto il veto), ma in seguito ha approvato la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che condannava l’invasione, per mostrare di non stare dalla parte della Russia (141 paesi hanno votato a favore, 5 contrari e 35 si sono astenuti). Le risoluzioni dell’Assemblea generale hanno un significato più simbolico delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, che sono considerate più come leggi.

L’alleanza strategica di Israele con la Russia ha in gran parte a che fare con il beneplacito russo ai bombardamenti israeliani di obiettivi affiliati all’Iran in Siria.

Ma può darsi che Israele non potrà reggere ancora a lungo questo doppio gioco, dal momento che il suo maggior patron dopo tutto sono gli Stati Uniti, i cui funzionari si stanno seriamente irritando. L’ex segretario alla Difesa degli Stati Uniti William Cohen (repubblicano) ha dichiarato:Ora si tratta di: sei con i russi o sei con gli Stati Uniti e l’Occidente? Devono prendere una decisione in merito.”

Israele non solo ha un’alleanza strategica con la Russia sulla Siria, ha anche fornito alla Siria armi informatiche con cui effettuare attacchi contro oppositori politici, come riferito ieri da Eitay Mack su Haaretz, in un articolo intitolato “Guerra in Ucraina: come Israele sta aiutando Putin a reprimere le proteste in Russia contro la guerra”. C’è voluta un’enorme pressione da parte degli attivisti israeliani per i diritti umani per fermare le vendite, ma i prodotti continuano a fare il loro lavoro. Dice Mack: “Dopo che 80 attivisti israeliani per i diritti umani hanno presentato una petizione contro sia al Ministero della Difesa israeliano che a Cellebrite per revocare la licenza di esportazione di Cellebrite in Russia, la società ha annunciato nel marzo dello scorso anno che avrebbe smesso di fornire servizi alla Russia, ma si è rifiutata di impegnarsi a disabilitare tutte le apparecchiature già consegnate al Comitato Investigativo (russo).”

Israele ha sempre fatto questo doppio gioco: la sua natura di Stato di apartheid colonialista e ebreo-suprematista lo colloca naturalmente tra i regimi più regressivi del pianeta. Purtroppo, cerca di presentarsi come un “avamposto di civiltà contro la barbarie”, come scrisse il fondatore sionista Theodor Herzl nel suo libro Der Judenstaadt (Lo Stato ebraico, 1896). Il modo in cui questa presunta “barbarie” dev’essere respinta è sempre scusato come forse infelice ma necessariamente violento, per preservare l’occidente illuminato di cui Israele sarebbe un “avamposto”.

Questi trucchi propagandistici vengono ora alla superficie con Putin e le sue intenzioni di “denazificazione” come pretesto per l’invasione dell’Ucraina. L'”Occidente” non se la beve.

E questo porta a un’altra preoccupazione per Israele: che la hasbara, la propaganda israeliana progettata per respingere le critiche e ogni condanna allo Stato possa essere vista come simile a quella russa. Se ciò accadesse, c’è anche il pericolo per Israele che la campagna BDS di boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni, intesa a far pagare a Israele un prezzo per le sue sistematiche violazioni, possa essere legittimata dal caso ucraino. Con l’Ucraina vediamo che l’Occidente non solo mostra approvazione per una politica totale di boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni, ma anche comprensione per la resistenza armata civile ucraina con bombe molotov e tutto il resto, e si parla direttamente di armare l’Ucraina.

Anche quello che Israele ha proclamato “il primo fan di Israele”, il senatore della Carolina del Sud Lindsey Graham sta criticando Israele per non aver partecipato alla campagna di invio di armi: “Hanno chiesto a Israele – nessun fan di Israele più convinto di Lindsey Graham – degli Stinger [armi antiaeree] e a quanto pare Israele ha detto di no. Quindi parlerò al telefono con Israele – sai, sosteniamo Israele sulll’Iron Dome, e Putin è un delinquente, è un criminale di guerra, sta distruggendo una nazione sovrana… E se non facciamo bene con l’Ucraina i cinesi occuperanno Taiwan e gli iraniani verranno fuori con una bomba e dunque è nell’interesse di tutti.”

Graham, nella sua presunta grandiosa percezione delle possibili ramificazioni internazionali, semplicemente non vede che c’è un ovvio parallelo tra Ucraina e Palestina visto che l’Ucraina è invasa, occupata e soggetta all’aggressione imperialista espansionistica. Ma molti altri lo vedono. Israele sta ora camminando sul filo del rasoio su acque davvero imprevedibili per quanto concerne l’opinione pubblica occidentale, perché questa ondata di opposizione all’aggressione russa ha colto molti di sorpresa, me compreso. Se Israele viene considerato troppo favorevole alla Russia, la cosa potrebbe costargli in modi difficili da immaginare, misurare e prevedere. Israele è ora in una posizione molto difficile.

Ma il primo ministro Bennett ora interpreta il ruolo del dottor Freud, valutando lo stato mentale di Putin, per poi riferire in occidente. Il primo ministro israeliano squilibrato, espansionista e razzista Bennett sta verificando se Putin è in sé. E pensa che lo sia, quindi cerchiamo di essere misurati e razionali. Cerchiamo di essere calmi e civili, non c’è bisogno di chiamare le persone scimmie o schegge nel sedere o sparare a molte di loro, anche se non è un problema. Il dottor Bennett sta cercando di difendere la pace nel mondo. E sapete una cosa, sono sicuro che anche Putin sta ridendo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele mi ha arrestata per aver protestato contro l’assedio di Gaza. Ecco perché rifiuto di essere processata

Neta Golan 

8 marzo 2022 – +972 magazine

Essendo israeliana ci ho messo anni a disimparare il sionismo. Ora la mia solidarietà con i prigionieri palestinesi mi impone di respingere un ordine di comparizione davanti al tribunale

Il 21 febbraio sono andata a piedi da casa mia, nella Città Vecchia di Nablus nella Cisgiordania occupata, in un negozio in centro per faxare una lettera alla pretura di Ashdod [una città del sud di Israele, ndtr.]. Sono stata convocata là dopo il mio arresto nel gennaio 2020 durante una manifestazione contro l’assedio di Gaza. Nella mia lettera comunico di non aver intenzione di comparire all’udienza in solidarietà con i prigionieri palestinesi in detenzione amministrativa che sono in sciopero dal primo gennaio e stanno boicottando il sistema dei tribunali militari in protesta contro questa ingiusta pratica.

Il proprietario del negozio che non aveva idea del contenuto della lettera si è rifiutato di farsi pagare. Essendo vissuta nelle comunità palestinesi per 22 anni mi sono praticamente abituata a questi gesti quotidiani di cortesia e generosità. Sono solo una delle manifestazioni di una invisibile rete di protezione che ho imparato a conoscere e da cui dipendo. Ogni società ha i suoi problemi, ma io mi sento incredibilmente fortunata ad avere l’onore di vivere con i palestinesi.

Ma non è sempre stato così. Crescendo a Tel Aviv in una famiglia di ebrei ashkenaziti [cioè di origine europea, ndtr.] sentivo storie su come noi israeliani fossimo moralmente superiori agli “arabi.” Ogni volta che entravamo in un’area palestinese mio padre ci diceva di stare attenti a borse e tasche. Mia nonna ci metteva in guardia perché “un arabo con una mano ti abbraccia e con l’altra ti pugnala alla schiena,” e mentre eravamo tutti a tavola per cena ci diceva che “l’unico arabo buono è l’arabo morto.”

Quando è scoppiata la Prima Intifada avevo 16 anni. Sapevo molto poco dell’occupazione e nulla della Nakba [l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case ad opera delle milizie sioniste e dell’esercito israeliano nella guerra del 1947-49, ndtr.], ma capivo che i palestinesi stavano lottando per la loro libertà e che noi, per tutta risposta, li stavamo uccidendo. Quando sono stati firmati gli accordi di Oslo speravo che le cose sarebbero cambiate in meglio e volevo far parte di quel cambiamento. Non potevo immaginare che li avrebbero trasformati in un altro meccanismo per la spoliazione dei palestinesi.

Ho cominciato ad andare in Cisgiordania negli anni ‘90. Il primo anno e mezzo ero terrorizzata ogni volta che salivo su un pulmino palestinese in partenza dalla Gerusalemme Est occupata: ero sicura che tutti quelli intorno a me volessero uccidermi. Ma ogni volta, passata l’ansia, vedevo che non era così. Anzi, non erano per niente interessati a me, avevano altre cose per la testa relative alle loro vite. Ero scioccata nello scoprire che “loro” erano persone come tutti gli altri.

Dopo un lungo processo di analisi della mia paura, mi sono resa conto che, nonostante il fatto che nessuno avesse menzionato la Nakba durante la mia infanzia, alla gente le cui case, tombe e alberi erano tutt’intorno a me era impedito di ritornarci, mentre a me era permesso di stare là al loro posto. Non sorprende che li temessi: è la stessa paura che tutti i colonialisti o beneficiari di sistemi razzisti sviluppano verso le persone che loro hanno cacciato od oppresso.

Da israeliani siamo nati dentro il progetto sionista, che è basato sulla continua espropriazione degli indigeni palestinesi. Ma esistono alternative a questo progetto di sottomissione: noi possiamo vivere accanto ai palestinesi invece che a loro spese. E da cittadini israeliani noi possiamo usare i privilegi a noi concessi dal regime di apartheid per smantellare il sistema di discriminazione e oppressione. Per il bene di tutti quelli che vivono qui, indipendentemente da nazionalità o religione, noi possiamo unirci alla lotta per la liberazione palestinese.

Le politiche di apartheid prosperano nell’oscurità, ma quando noi vi prestiamo la dovuta attenzione cominciano ad afflosciarsi. Ecco perché in tribunale ho parlato del caso di Amal Nakhleh, un diciottenne palestinese affetto da una grave malattia, che da oltre un anno è in detenzione amministrativa. I detenuti amministrativi sono imprigionati per un periodo di tempo indefinito sulla base di “prove segrete” secondo le quali in futuro potrebbero commette un reato. I prigionieri non sono mai processati e né loro né i loro avvocati hanno accesso alle prove.

A gennaio Amal, che partecipa allo sciopero dei detenuti amministrativi palestinesi, ha boicottato la sua convocazione da parte di un tribunale militare israeliano. In sua assenza il giudice ha approvato la richiesta dello Shin Bet [servizio di sicurezza interna di Israele, ndtr.] di rinnovare la sua custodia cautelare fino al 17 maggio, quando potrà essere di nuovo estesa. E così di seguito.

Io ho detto al tribunale che, a differenza di Amal, a me è stata data l’opportunità di andare ad Ashdod per difendermi dalle loro accuse. Ma i diritti che mi sono concessi perché i miei nonni sono immigrati in Palestina dall’Europa sono negati ai palestinesi che vivono nei territori occupati da Israele nel 1967 e ai palestinesi espulsi con la forza dalla loro patria nel 1948, come ai loro discendenti a cui Israele impedisce ancora di ritornare.

Data la mia cittadinanza israeliana se venissi incarcerata avrei il privilegio di essere rilasciata dopo aver scontato la mia pena. Non è così per i due milioni di persone imprigionate negli ultimi 15 anni nella Striscia di Gaza assediata, inclusi circa un milione di minori che sono nati e hanno vissuto tutta la loro vita con la costante minaccia di violenza mortale, il cui solo crimine è quello di non essere nati da madri ebree.

Oppressione e apartheid sono disumanizzanti per le vittime e i carnefici. Godere di privilegi a danno di altri non può essere disgiunto dalla paura, dal razzismo e dall’incessante violenza che li supporta. La giustizia, sotto forma di ritorno e risarcimenti per i rifugiati palestinesi, non libererà solo i palestinesi. Libererà anche noi.

Neta Golan è un’attivista israeliana anti-apartheid e una partecipante attiva di Israelis Against Apartheid (Israeliani contro l’Apartheid), Return Solidarity (Ritorno Solidarietà) e Boycott From Within (Boicottaggio dall’interno). Vive a Nablus con il compagno, le loro figlie e il gatto, il che, per le leggi israeliane di apartheid, è considerato un atto illegale.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Guardare l’Ucraina attraverso gli occhi dei palestinesi

Yousef Munayyer

4 marzo 2022 – The Nation

La legittima corsa al sostegno dell’Ucraina ci insegna che quando vuole l’occidente può condannare l’occupazione.

Carri armati che sferragliano per le strade della città. Bombe sganciate dai caccia su palazzi civili. Posti di blocco militari. Città sotto assedio. Famiglie separate, in fuga per cercare rifugio e senza sapere quando rivedranno i loro familiari o le loro case. Quando un’occupazione militare inizia a prendere corpo davanti ai nostri occhi il mondo intero è costretto a prestare attenzione. Ma mentre possiamo guardare tutti la stessa cosa, alcuni di noi la vedono in modo leggermente diverso.

Il mio primo pensiero quando l’invasione russa dell’Ucraina è iniziata la scorsa settimana è stato per la popolazione civile in Ucraina che dovrà affrontare il fardello più pesante dato che una forza molto più potente cerca di imporre loro la propria volontà. Quanti devono morire? Quanti civili saranno uccisi da “bombe di precisione” tutt’altro che precise? Quando arriverà la libertà per loro? La vedranno durante la loro vita? Oppure, come noi palestinesi, vedranno la lotta durare per generazioni? Spero, per il loro bene, che la risposta sia la prima.

Tuttavia, anche se come palestinese è stato facile identificarsi con le scene di bombardamenti, distruzione e rifugiati, la risposta internazionale all’invasione russa dell’Ucraina è stata per noi qualcosa di totalmente alieno.

Da un giorno all’altro, il diritto internazionale sembra essere di nuovo importante. L’idea che un territorio non possa essere preso con la forza è divenuta improvvisamente una norma internazionale da difendere. I Paesi occidentali hanno cercato di promuovere una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che condannasse le azioni della Russia, nonostante sapessero perfettamente che la Russia, membro permanente del Consiglio di sicurezza, avrebbe posto il veto. “La Russia può porre il veto a questa risoluzione, ma non può porre il veto alle nostre voci”, ha affermato l’ambasciatrice degli Stati Uniti, Linda Thomas-Greenfield. “La Russia non può porre il veto alla Carta delle Nazioni Unite. E la Russia non porrà il veto alla sua responsabilità [di fronte alla comunità internazionale, ndt]”.

Quando è piombato l’inevitabile veto russo, i diplomatici occidentali hanno sottolineato come esso abbia messo in evidenza l’isolamento della Russia. In effetti, la Russia è stata isolata. Proprio come lo sono stati gli Stati Uniti ogni volta che hanno posto un veto solitario al Consiglio di Sicurezza su oltre 40 risoluzioni che condannano le violazioni israeliane del diritto internazionale e gli abusi contro i palestinesi.

Gli Stati Uniti hanno anche deciso di rientrare nel Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite proprio in questo momento. Avevano lasciato l’UNHRC diversi anni fa perché si opponevano agli sforzi del consiglio di chiedere conto a Israele. Nel frattempo, diversi paesi hanno chiesto alla Corte penale internazionale di agire sull’invasione della Russia, la stessa Corte il cui Pubblico Ministero è stato sottoposto a sanzioni dagli Stati Uniti per aver indagato sui crimini di guerra commessi in Palestina.

Poi c’è il regime delle “misure economiche restrittive” che gli Stati Uniti e i loro partner europei hanno adottato contro la Russia. Insieme non solo hanno imposto ampie sanzioni, ma hanno avviato una impressionante serie di sanzioni ad personam per colpire i potenti attori che ritengono responsabili dell’aggressione. Nel frattempo, non solo le nazioni occidentali si sono rifiutate di usare sanzioni per colpire le responsabilità di Israele per le sue violazioni, ma le hanno attivamente favorite attraverso sostegno economico, militare e diplomatico.

L’occidente annuncia anche iniziative di boicottaggio e disinvestimento. I negozi di liquori in Canada e negli Stati Uniti stanno ritirando dagli scaffali la vodka russa. Il Metropolitan Opera ha dichiarato che non impiegherà più artisti che supportano Putin. Entro due giorni dall’invasione, la Russia è stata espulsa dall’Eurovision. È stata anche sospesa dai principali campionati di calcio internazionali come FIFA e UEFA. I balletti russi vengono cancellati.

Tutto questo dopo appena cinque giorni. Non cinque settimane o mesi, per non parlare di decenni. Cinque giorni.

Sorprendentemente, boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni non sono controversi se usati per colpire le responsabilità di alcuni trasgressori, ma quando si tratta dei diritti dei palestinesi ci viene ripetutamente detto che misure economiche non violente come il boicottaggio sono sbagliate. In effetti, diversi Stati degli Stati Uniti che hanno preso provvedimenti per vietare l’uso del boicottaggio per i diritti dei palestinesi stanno ora approvando risoluzioni di boicottaggio e disinvestimento contro la Russia!

I doppi standard non si fermano alle iniziative non violente. In Ucraina l’occidente sostiene attivamente la resistenza armata sia inviando armi sia glorificandone l’uso. Anche in Palestina l’occidente sta inviando armi … a un governo israeliano che pratica l’apartheid.

Quando gli ucraini preparano bottiglie molotov da utilizzare nella resistenza contro l’esercito russo, li chiamiamo combattenti per la libertà e il New York Times esalta i loro sforzi con video girati da esperti che mostrano il processo di produzione degli ordigni. Quando i palestinesi lo fanno contro l’esercito israeliano, vengono invariabilmente uccisi da un’arma finanziata dall’occidente nelle mani di un soldato israeliano che poi proteggeremo dal renderne conto presso le Nazioni Unite e la Corte penale internazionale.

E mentre i social media sono pieni di link di crowdfunding per aiutare l’acquisto armi per l’Ucraina, quelli di noi che cercano di inviare denaro per cibo o medicine alle famiglie a Gaza, in Siria o nello Yemen si vedono regolarmente respinte le loro transazioni.

Cosa potrebbe mai spiegare questi sbalorditivi doppi standard che sono stati applicati senza vergogna questa settimana?

Bene, alcuni giornalisti occidentali ci hanno offerto degli indizi. Gli ucraini, ci viene detto, non sono come gli iracheni o gli afgani, perché l’Ucraina è “relativamente civile, relativamente europea”. Questa non è “una nazione in via di sviluppo del terzo mondo”. Le loro auto “sembrano le nostre”. Sembrano “persone prospere della classe media… come qualsiasi famiglia europea a cui potresti vivere accanto”. Sono “persone con gli occhi azzurri e i capelli biondi. O, come ha detto un corrispondente, “sono cristiani. Sono bianchi”.

Quanto profondamente è radicato questo razzismo? Quando i soldati russi sono entrati in Ucraina, la foto di una giovane e bionda ragazza ucraina che si è fatta valere coraggiosamente davanti a un soldato russo è diventata virale sui social media. Cioè, stava diventando virale, finché non è stato rivelato che la ragazza non era ucraina ma palestinese e il soldato era israeliano, non russo.

Sembra che il motivo principale per cui gli occidentali si sono affrettati a difendere i diritti umani degli ucraini mentre hanno ignorato i diritti umani dei palestinesi e di tanti altri è che vedono alcuni di noi come meno umani di altri.

Per essere chiari, la comunità internazionale deve assolutamente chiedere conto a coloro che violano i diritti umani e le leggi: la rapida azione contro l’invasione russa dell’Ucraina dimostra inequivocabilmente che tale azione è possibile quando i governi hanno il coraggio politico di farlo. Ma non farlo quando i nostri alleati sono gli oppressori, o quando le vittime hanno un aspetto diverso da noi, ha costi significativi, più direttamente per persone come i palestinesi e altri con una carnagione e occhi generalmente più scuri, ma anche per il mondo in generale.

Quando il diritto internazionale viene applicato solo quando fa comodo a nazioni potenti farlo rispettare e viene ignorato quando fa comodo a nazioni potenti ignorarlo, allora il diritto internazionale esiste solo come strumento di potere. Se vogliamo che ci sia una norma internazionale contro l’aggressione, la colonizzazione e l’acquisizione di terra con la forza, non possiamo continuare a fare eccezioni per i nostri amici quando la violano.

Quando facciamo queste cose, e lo abbiamo fatto in modo sistematico, per esempio, quando si trattava di Israele, rendiamo evidente che non esiste un ordine internazionale basato su regole: esiste solo la regola della forza. La forza stabilisce il diritto.

Un mondo basato sulla forza che stabilisce il diritto è in definitiva una minaccia per tutti – umani con gli occhi azzurri e marroni allo stesso modo – e chiunque dubiti di questo dovrebbe semplicemente guardare l’Ucraina.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)