Il Belgio è sulla strada giusta, ma l’Europa ha tradito la Palestina

Dr Ramzy Baroud

30 novembre 2021 Middle East Monitor

Anche se la decisione presa il 25 novembre dal governo belga di etichettare i prodotti provenienti dalle colonie illegali israeliane è lodevole, alla fine si dimostrerà inefficace.

Paragonato ad altri Paesi europei, quali Gran Bretagna, Germania, Francia, il Belgio ha una tradizione di solidarietà nei confronti della Palestina. Sia attraverso la cancellazione di missioni commerciali, sia attraverso l’aperto sostegno da parte della società civile, artisti, intellettuali e gente comune, il Belgio ha dimostrato il desiderio di giocare un ruolo costruttivo per porre fine all’occupazione israeliana della Palestina.

E’ evidente che non basteranno una simbolica solidarietà e dichiarazioni politiche per costringere Israele al rispetto della legge internazionale, allo smantellamento dell’apartheid, alla fine dell’occupazione militare e al riconoscimento del diritto alla libertà per i palestinesi.

Il dilemma cui si trova di fronte il Belgio vale anche per il resto dell’Europa. Mentre i governi europei insistono sulla centralità di tematiche quali democrazia, diritti umani e legge internazionale nelle loro relazioni con Israele, essi non fanno però alcun gesto significativo per garantire che Israele rispetti quelle che l’Unione Europea proclama essere le sue politiche.

La decisione belga di distinguere fra prodotti israeliani provenienti da Israele e quelli che arrivano dalle colonie israeliane illegali non si basa sul quadro normativo di riferimento del Belgio, ma su varie importanti sentenze prese dalla UE. Ad esempio, nel novembre del 2015 l’Unione Europea ha emesso nuove direttive per garantire che i prodotti delle colonie illegali vengano etichettati come tali. Nel gennaio del 2016, poi, pare che la UE abbia ‘ribadito’ la volontà di etichettare in modo chiaro tali prodotti.

Tuttavia da allora non si sono viste molte etichette di quel tipo, tanto da costringere i cittadini UE, con il sostegno di varie organizzazioni della società civile, a rivolgersi direttamente ai tribunali dell’Unione per rimediare al fallimento dell’establishment politico europeo. Nel novembre del 2019 il più importante organo giurisdizionale della UE, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ha deliberato che i prodotti provenienti dalle colonie illegali israeliane devono fornire “l’indicazione di tale provenienza (consentendo così ai consumatori di fare) scelte consapevoli.”

Vale a dire che la recente decisione presa dal Belgio non è che una tardiva implementazione di varie sentenze prese in passato e mai fatte rispettare nella maggioranza dei Paesi della UE.

Invece di dimostrare il proprio inequivocabile sostegno al Belgio e di cominciare ad implementare anche loro la sentenza della Corte di Giustizia della UE, la maggior parte dei Paesi europei è rimasta in silenzio di fronte all’attacco di Israele, che ha dichiarato che la decisione del Belgio è “anti- israeliana”, e ha impropriamente sostenuto che “rafforza gli estremisti”.

Non appena i media internazionali hanno dato notizia della decisione del governo belga, Israele ha fatto le solite scenate. Il viceministro degli Esteri Idan Roll ha immediatamente annullato una riunione programmata in precedenza con dei funzionari belgi, costringendo così il ministero degli esteri a Bruxelles a giustificare e a chiarire meglio la propria posizione.

Come prevedibile, l’Autorità Nazionale Palestinese, organizzazioni di attivisti e della società civile e molti soggetti individuali hanno lodato il Belgio per la sua coraggiosa posizione, che è analoga a quelle adottate in passato da Paesi come l’Irlanda, che è stata la prima nazione dell’Unione Europea a dare attuazione a questo provvedimento lo scorso maggio.

Questa euforia è prevalentemente alimentata dalla convinzione che questi passi possano preludere ad altre azioni concrete, che alla fine darebbero la spinta decisiva per un totale boicottaggio europeo di Israele. Ma è davvero così?

Alla luce delle divisioni fra gli europei in tema di etichettatura dei prodotti provenienti dalle colonie illegali, di una netta distinzione fra colonie e “Israele vero e proprio”, e della crescita esponenziale degli scambi fra Israele e Unità Europea, bisogna guardarsi dal saltare a conclusioni affrettate.

Secondo dati della Commissione Europea, la UE è il maggiore partner commerciale di Israele, con un valore totale di scambio di 31 miliardi di euro nel 2020.

Ma, cosa più importante, l’Unione Europea è stata il principale punto di accesso per l’integrazione di Israele in una più vasta dinamica globale non solo di politica e sicurezza, ma anche di cultura, musica e sport. Se il commercio europeo con Israele è facilitato dall’Accordo Euromediterraneo del 1995 [regola l’import-export di prodotti agricoli fra UE e Israele, ndtr], l’integrazione di Israele in Europa è regolata principalmente dal piano di Politica Europea di Vicinato (PEV) del 2004. Il secondo accordo, in particolare, aveva l’obiettivo di controbilanciare i successi ottenuti dai palestinesi e dai loro sostenitori nella delegittimazione dell’occupazione e apartheid praticati da Israele in Palestina.

Non sarebbe verosimile credere che proprio la UE, che ha fatto la scelta strategica di legittimare, integrare e normalizzare Israele agli occhi degli europei e del resto della comunità internazionale, possa essere lo stesso soggetto che costringerà Israele a rispondere dei suoi obblighi rispetto alla legge internazionale.

E non dimentichiamo che, anche se tutti i Paesi europei decideranno di etichettare i prodotti delle colonie, non basterà questo a smuovere Israele, tanto più perché la UE farà quanto in suo potere per compensare qualsiasi deficit commerciale dovesse derivarne.

Inoltre qualsiasi tipo di pressione, simbolica o reale che sia, esercitata dalla UE avviene spesso nel contesto della soluzione dei due Stati in Israele e Palestina, dichiaratamente abbracciata dagli europei. Se è pur vero che quella ‘soluzione’ resta l’unica ratificata dalla comunità internazionale, la complessità del problema, il buon senso e i ‘fatti compiuti’ ci dicono che la coesistenza in un unico Stato laico e democratico rimane l’unica conclusione pratica, possibile e evidentemente giusta per questa tragedia prolungata.

Nonostante le dichiarazioni eloquenti ed inequivocabili della UE sull’illegalità dell’occupazione israeliana, è ovvio che gli europei non hanno una vera strategia su Palestina e Israele. Se invece una strategia c’è, essa è piena di confusioni e contraddizioni. Insomma, Israele non ha alcun motivo di prendere l’Europa sul serio.

E’ facile accusare la UE di ipocrisia. Tuttavia la condotta della UE verso Israele non si spiega solo con l’ipocrisia, ma presumibilmente deriva dalla mancanza di unità politica e di una comunità di vedute fra gli Stati membri dell’Unione. Nei fatti la UE aiuta a sostenere l’occupazione israeliana, finanziandola vuoi direttamente o indirettamente. Attraverso gli scambi commerciali, la legittimazione politica e l’integrazione culturale di Israele, l’Unione Europea ha consentito che si perpetuasse lo status quo dell’occupazione apparentemente senza fine della Palestina. Se anche si imponessero etichette su tutti i prodotti delle colonie ebraiche, non basterà certo questo ad invertire la marcia.

Se la posizione del Belgio è di per sé lodevole – in quanto riflette l’attivismo e pressione incessantemente esercitati dalla società civile del Paese – essa non dovrebbe esser vista come alternativa ad una coraggiosa posizione politica e morale simile a quella adottata durante la lotta anti-apartheid in Sudafrica. Prima di allora, l’Europa ha l’obbligo di dimostrare la volontà di stare dalla parte giusta della storia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




La messa al bando dei difensori dei diritti umani: Israele e Sudafrica a confronto

La messa al bando dei difensori dei diritti umani: Israele e Sudafrica a confronto

Neppure il regime di apartheid in Sudafrica mise mai fuorilegge i difensori dei diritti umani come ha appena fatto Israele che ha dichiarato “organizzazioni terroriste” sei associazioni palestinesi

John Dugard

16 novembre 2021- Mondoweiss

 

Israele ha definito “organizzazioni terroriste” sei associazioni dedite alla causa dei diritti umani nella Palestina occupata. Esse sono: A- Haq che monitora violazioni dei diritti umani nella Palestina occupata e che recentemente ha giocato un ruolo importante nel fornire assistenza al pubblico ministero della Corte Penale Internazionale nelle sue indagini sui crimini commessi da Israele nella Palestina occupata; Addameer che fornisce supporto legale ai prigionieri palestinesi e denuncia le torture contro i detenuti commesse da Israele; Defense for Children International  [Difesa internazionale dei minori -Palestina] che promuove il benessere dei minorenni nella Palestina occupata; la Union of Agricultural Work Committees [Unione dei Comitati del lavoro agricolo], la Union of Palestinian Women’s Committees [Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi] e il Bisan Center for Research and Development  [Centro Bisan per la Ricerca e lo Sviluppo].

Questa dichiarazione, fatta ai sensi di una legge israeliana del 2016, autorizza Israele a chiudere i loro uffici, confiscarne i beni, incarcerare i dipendenti, proibirne il finanziamento e punire il sostegno pubblico per le loro attività.

Oggi si fanno sempre più spesso paragoni fra le leggi e le pratiche dell’apartheid in Sudafrica e in Israele nella Palestina occupata. Due organizzazioni per i diritti umani molto autorevoli, Human Rights Watch, con base negli Stati Uniti, e l’ong israeliana B’Tselem hanno recentemente dichiarato che Israele pratica l’apartheid nella Palestina occupata. Al momento iI pubblico ministero della Corte Penale Internazionale sta indagando se Israele abbia commesso il crimine di apartheid nella Palestina occupata. Nel 2007, quando ero relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati ho denunciato di non avere dubbi che le leggi e le pratiche israeliane costituiscano apartheid, un giudizio basato su 40 anni di vita sotto l’apartheid in Sudafrica e per aver diretto un organismo di difesa dei diritti umani per oltre 10 anni.

Ciò mi induce a esaminare la reazione nel Sudafrica sotto l’apartheid contro le organizzazioni di opposizione o che monitoravano le sue pratiche razziste e repressive.

La legislazione del Sudafrica assomigliava alla legge israeliana del 2016 che ha permesso di dichiarare illegali le organizzazioni. Applicando tali norme il governo sudafricano mise fuori legge, fra gli altri, il partito comunista, l’African National Congress, il partito Liberale, il National Union of South African Students [Sindacato nazionale degli studenti sudafricani] e il Christian Institute, [Istituto Cristiano]. Queste leggi erano chiaramente così ampie da permettere al regime d’apartheid di chiudere organizzazioni che monitoravano violazioni di diritti umani, difendevano diritti umani e lottavano per i diritti umani.

Verso la fine degli anni ’70, al culmine dell’apartheid, furono fondate varie organizzazioni per i diritti umani, quasi tutte con fondi provenienti dagli Stati Uniti.

Insieme monitoravano violazioni di diritti umani, propugnavano uguaglianza razziale e libertà politica, si opponevano alla repressione politica e lottavano per il cambiamento sociale. Il lavoro di queste organizzazioni assomigliava, sotto molti aspetti, a quello delle sei organizzazioni palestinesi recentemente dichiarate illegali. Una di queste era il Centre for Applied Legal Studies [Centro per gli Studi Giuridici Applicati] che dirigevo io.

Il regime di apartheid in Sudafrica mise in chiaro di non gradire queste organizzazioni di difesa dei diritti umani, soprattutto quando le loro pubblicazioni e denunce attiravano l’attenzione su tortura, confisca di terre, demolizioni di case, repressione politica e apartheid, il tipo di attività per cui le sei associazioni palestinesi per la difesa dei diritti umani sono state bandite.

Ma non bandì queste organizzazioni, sebbene ci fossero leggi che l’avrebbero autorizzato. Perché? Sospetto che la ragione principale fosse che erano tutte organizzazioni che cercavano di usare la legge per far progredire la giustizia razziale. Esse dimostravano, specie a una comunità internazionale ostile, che il Sudafrica rispettava lo Stato di Diritto. E il Sudafrica sapeva che ciò era cruciale per mantenere una sembianza di rispettabilità agli occhi degli Stati occidentali.

Ora Israele ha vietato sei associazioni palestinesi che difendono i diritti umani e che, nei limiti della legge, cercano, come le loro controparti sudafricane, di ottenere giustizia per i palestinesi denunciando torture, demolizioni di case, confisca di terre, espansione delle colonie, violenza dei coloni, persecuzione razziale, trasferimenti forzati di palestinesi e l’apartheid israeliano.

Tutto ciò prova che Israele non si preoccupa di presentare un’immagine di Stato di diritto. Non ne ha bisogno perché sa che l’Occidente non agirà contro alcuna violazione. Sa che il suo eccezionalismo è un valore occidentale che perdona a Israele tutti i suoi crimini.

Oggi persone imparziali e informate non si pongono più la domanda: “Israele commette il crimine di apartheid nella Palestina occupata?” Esse accettano l’evidenza che mostra chiaramente che gli ebrei israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est, compresi gli oltre 800.000 coloni e soldati, costituiscono un gruppo razziale che sistematicamente opprime il gruppo razziale palestinese tramite atti inumani, la definizione del crimine di apartheid dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. Si fanno invece la domanda: “L’apartheid israeliano è peggio di quello del Sudafrica?”. A giudicare dalle ultime azioni di Israele contro i paladini dei diritti umani la risposta deve essere “sì”.

John Dugard

John Dugard è professore emerito presso le Università di Leiden e Witwatersrand (Johannesburg). Era relatore speciale del Consiglio per diritti umani sui diritti umani nella Palestina occupata e autore del libro “Confronting Apartheid: A personal history of South Africa, Namibia and Palestine.” ([Confrontare gli apartheid: una storia personale di Sudafrica, Namibia e Palestina)

 

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)

 

 

 

 

 

 

 

 




In Cisgiordania il furto di terre è consentito solo al governo israeliano

In Cisgiordania il furto di terre è consentito solo al governo israeliano

Zvi Bar’el

3 novembre 2021 – Haaretz

 

Questa settimana il ministro della difesa Benny Gantz è stato ispirato dalla shekhina (spirito divino) e ha deciso di non sostenere l’iniziativa che permetterebbe l’acquisto di terre in Cisgiordania da parte di privati cittadini ebrei, invece che tramite una società e ciò solo previa approvazione dell’Amministrazione Civile. Una fonte della Difesa ha spiegato ad Haaretz che “estendere l’opzione di acquistare dei terreni a ogni cittadino darebbe come risultato acquisizioni irresponsabili da parte di ebrei e sarebbe visto dall’Autorità Palestinese come ‘uno sgarbo’ (Lunedì).

I nostri cuori hanno sussultato davanti a un gesto così rispettoso, a tale profondità di visione e saggezza diplomatica. La decisione di Gantz è la risposta del ministero della Difesa a una petizione presentata da Regavim, un’ONG a favore dei coloni, contro la legge attuale, “una legge razzista che esiste in un solo posto al mondo, qui in Israele,” secondo il direttore generale Meir Deutsch. La “legge razzista” alla quale fa riferimento permette di acquistare privatamente terre in Cisgiordania solo a palestinesi, giordani o stranieri di origine araba. Che cos’è questo se non apartheid antiebraico?

Ma un momento prima che crolli il mondo e che i nostri cuori si riempiano di orgoglio per la coraggiosa decisione del ministro, va ricordato che anche questa legge che Gantz sta difendendo intrepidamente è palesemente illegale. Essa contraddice il diritto internazionale, che vieta di trasferire un popolo occupante nei territori occupati e di cambiare la composizione demografica di quei territori; non mette freno alla “impresa delle colonie” e sotto i suoi auspici avamposti e fattorie individuali sono stati e saranno autorizzati. Gantz si oppone alla criminalità privata, solo quella supervisionata dal governo è legale.

La paura di Gantz “di fare uno sgarbo” all’AP è superflua. Lo stesso si può dire della paura espressa dal maggiore Zvi Mintz, che era a capo del dipartimento immobiliare della divisione per la consulenza legale dell’IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] della Giudea e Samaria [cioè la Cisgiordania, ndtr.], che “l’emendamento (ossia il permesso concesso a privati cittadini ebrei di acquistare terre) è probabile che sia visto come una violazione delle leggi di confisca in tempo di guerra e che porti a notevoli critiche a livello internazionale.”

Perché ciò che è vero circa l’acquisto da parte di privati cittadini è anche vero, secondo il diritto internazionale, per gli acquisti da parte di società. Bastava ascoltare le critiche mosse dal Segretario di Stato USA, Antony Blinken, e dal portavoce della Casa Bianca circa l’intenzione di procedere con la costruzione di oltre 3.000 unità abitative in Cisgiordania, per rendersi conto che ai loro occhi, e a quelli della comunità internazionale, non c‘è differenza fra l’illegalità delle colonie sponsorizzate dal governo e lo stesso reato perpetrato da un privato cittadino. Entrambi sono crimini. Tra l’altro per l’AP non fa alcuna differenza chi fa lo sgarbo, un privato cittadino, una società o un governo.

Lasciamo da parte le violazioni del diritto internazionale, il disprezzo per le critiche della comunità internazionale e la resa ai signori e padroni che vivono sulle terre rubate. Queste fanno già parte di un’antica cultura politica. Ma quando la sopravvivenza di questo governo intoccabile, teneramente coccolato, si basa su una decisione scolpita nella pietra di non fare nulla che susciti una controversia diplomatica per timore di strappare la fragile copertura protettiva di questa unità della coalizione, qual è il significato della nuova costruzione nelle colonie?

Tutti i partiti cosiddetti di “sinistra” avrebbero dovuto sollevare una protesta, puntare il dito accusatorio contro il ministro della Difesa e minacciare di far cadere il governo. Dopo tutto, si è già d’accordo che non ci sia “fattibilità diplomatica” di negoziati diplomatici, per non parlare di una soluzione del conflitto.

Apparentemente la sinistra nel governo di destra non solo non si rende conto della contraddizione fra l’espandere le colonie e l’assenza di una praticabilità diplomatica, ma sta anche aggiudicando a se stessa e ai propri colleghi la “fattibilità politica” di perpetuare l’impossibilità diplomatica.

Forse hanno chiuso gli occhi per un momento, ma quando Gantz non ha emendato la legge, non stava pensando all’AP, ma ai suoi colleghi nel governo. Con un cenno della mano ha anche concesso legittimità alla legge esistente che la sinistra ha cercato per anni e con tutte le forze di annullare e ha indossato la veste del giusto che ora proclama la propria innocenza.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Sally Rooney ha ragione a boicottare Israele

Daniel Finn

12-10-2021 – Jacobin

La scrittrice Sally Rooney viene attaccata per aver aderito alla campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) contro Israele. La posizione di Rooney a favore dei diritti dei palestinesi è coraggiosa e opportuna, merita tutto il nostro appoggio.

Un articolo pubblicato ieri da Forward [storico sito di notizie della comunità ebraica USA, ndtr.] ha dato il via a una serie di notizie che sostengono che l’autrice irlandese Sally Rooney ha rifiutato di consentire che il suo ultimo romanzo venga tradotto in ebraico. Ma Forward non ha presentato nessuna prova che Rooney si sia opposta al fatto che il suo libro venga pubblicato in lingua ebraica: coerentemente con i principi della campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) Rooney ha rifiutato l’offerta di un contratto di traduzione con la casa editrice israeliana Modan.

La dichiarazione di Rooney pubblicata oggi lo specifica chiaramente:

“I diritti di traduzione in ebraico del mio nuovo romanzo sono ancora disponibili, e se riesco a trovare un modo per vendere questi diritti che sia compatibile con le linee guida del boicottaggio istituzionale del movimento BDS sarò molto contenta e orgogliosa di farlo. Nel frattempo vorrei esprimere ancora una volta la mia solidarietà con il popolo palestinese nella sua lotta per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza.”

Modan pubblica libri in collaborazione con il ministero della Difesa israeliano. È esattamente il tipo di impresa a cui pensa la campagna BDS quando chiede di boicottare le istituzioni culturali israeliane che sono “complici della continuazione dell’occupazione israeliana e della negazione dei diritti fondamentali dei palestinesi.

In precedenza Rooney aveva dato il suo appoggio alla scrittrice anglo-pakistana Kamila Shamsie quando rifiutò di far pubblicare le sue opere in Israele. La lettera aperta in appoggio a Shamsie, firmata da Rooney e da altri scrittori, tra cui Arundhati Roy e J. M. Coetzee, arrivò dopo che la città tedesca di Dortmund le aveva tolto un premio letterario a causa della sua adesione alla campagna BDS.

Shamsie espose le sue ragioni in termini molto simili a quelli di Rooney:

“Sarei molto contenta di essere pubblicata in ebraico, ma non conosco nessun editore (di romanzi) in ebraico che non sia israeliano, e mi risulta che non ci sia nessun editore israeliano che non abbia legami con lo Stato. Non voglio oltrepassare la linea rossa stabilita dalla società civile palestinese, che ha chiesto a chi voglia cambiare la situazione di non collaborare con organizzazioni che siano in qualche modo complici dello Stato di Israele.”

Contro l’impunità

L’articolo di Gitit Levy-Paz su Forward che ha scatenato la polemica contiene alcuni dei soliti argomenti degli oppositori del BDS:

“La decisione di Rooney mi ha sorpresa e rattristata. Sono ebrea e israeliana, ma sono anche una studiosa di letteratura che crede nel potere universale dell’arte. Rooney ha scelto un percorso che è un’anatema per l’essenza artistica della letteratura, che può aiutare come via d’accesso alla comprensione di culture differenti, per visitare nuovi mondi e metterci in contatto con la nostra stessa umanità.”

Questo nobile discorso sul “potere universale dell’arte” va a discapito di qualunque impegno riguardo alle forme molto specifiche di oppressione che i palestinesi sperimentano per mano di Israele. Una lettera aperta pubblicata all’inizio dell’anno da intellettuali palestinesi e appoggiata da parecchie personalità di alto profilo, tra cui Sally Rooney, ha esplicitato alcuni dettagli che Levy-Paz ha omesso di citare:

“I palestinesi sono aggrediti e uccisi impunemente da soldati e civili israeliani armati… Il maggio scorso il governo israeliano ha commesso l’ennesimo massacro a Gaza bombardando in modo indiscriminato e continuo i palestinesi nelle loro case, uffici, ospedali e in strada. Il bombardamento di Gaza è parte di un modello intenzionale e ripetuto per cui intere famiglie vengono uccise e infrastrutture locali distrutte. Ciò serve a esacerbare condizioni che sono già invivibili in uno dei luoghi più densamente popolati del pianeta… Inquadrare ciò come una guerra tra due parti uguali è falso e fuorviante. Israele è la potenza coloniale. La Palestina è colonizzata. Non si tratta di un conflitto: è apartheid.”

Gli oppositori della campagna BDS sostengono che “prende di mira unicamente” Israele in modo sospetto e presumibilmente antisemita. Levy-Paz offre un tipico esempio di tale insinuazione:

“Il boicottaggio, soprattutto se culturale, è una delle chine più pericolose. L’implementazione dei boicottaggi nel passato ha portato ad atrocità da cui qualunque persona nobile si dissocerebbe. Non è sempre ricordato, ma tra i primi passi presi dal regime nazista in Germania ci fu l’avvio di un boicottaggio dei negozi ebraici.”

Ovviamente ci sono stati infiniti esempi di boicottaggi che non hanno portato ad alcun risultato indesiderato, per non parlare di “atrocità da cui qualunque persona nobile si dissocerebbe”. Ma Levy-Paz invoca la memoria del nazismo piuttosto che l’esempio molto più pertinente della campagna contro l’apartheid sudafricano, che il movimento BDS prende esplicitamente a modello.

In quanto studiosa di letteratura, Levy-Paz conosce senza dubbio le tecniche retoriche disoneste esemplificate dal discorso funebre di Marco Antonio nella tragedia di Shakespeare Giulio Cesare. Marco Antonio non viene per lodare Cesare, ma per seppellirlo; Levy-Paz non viene per accusare Rooney di antisemitismo, ma per suggerire sottilmente che dovrebbe riconsiderare le sue azioni:

“Non sto suggerendo che Rooney sia antisemita, o che criticare Israele rappresenti automaticamente antisemitismo. Ma, dato l’incremento dell’antisemitismo negli ultimi anni, soprattutto in Europa, il tempismo della sua scelta è pericoloso.”

In realtà la società civile palestinese ha lanciato l’appello al BDS perché gli Stati Uniti e altri Paesi fanno di Israele un’eccezione con un livello di appoggio militare, economico e diplomatico senza precedenti. Nella sua dichiarazione Rooney ha spiegato che lei stava “rispondendo all’appello della società civile palestinese, compresi tutti i sindacati palestinesi e quelli degli scrittori”, un punto fondamentale che viene invariabilmente ignorato da quanti accusano i sostenitori del BDS di prendere di mira in modo selettivo Israele.

I boicottaggi da parte di privati cittadini e associazioni servono a controbilanciare il rifiuto di lungo termine da parte dei governi di imporre anche solo sanzioni minime contro Israele per la sua negazione dei diritti dei palestinesi, o persino di ritirare il loro appoggio attivo all’occupazione. I sostenitori di Israele non si oppongono alle critiche in quanto tali: quelle che considerano totalmente inaccettabili sono le critiche sostenute da un’azione efficace.

Una minaccia strategica

Questa prassi di fare di Israele un’eccezione e accordargli totale impunità si estende persino alla campagna BDS in sé. Nel 2019 entrambe le camere del Congresso USA hanno votato il sostegno alla “Legge per combattere il BDS” di Marco Rubio [senatore della Florida dell’estrema destra repubblicana, ndtr.], descritta da un critico come “una legge che sembra scritta dal Comitato Centrale del Likud.”

La legge autorizza misure punitive contro quanti si impegnino in attività “intese a penalizzare, danneggiare economicamente o limitare in altro modo i rapporti commerciali con Israele o persone che commerciano in Israele e in territori controllati da Israele con lo scopo di obbligare il governo di Israele ad azioni politiche, o imporgli posizioni politiche.” Si aggiunge a una serie di leggi anti-BDS a livello statale già in vigore ovunque negli Stati Uniti.

“Territori controllati da Israele” è un eufemismo per terra palestinese che Israele ha occupato dal 1967. Ciò dimostra che gli oppositori del BDS non contrastano la campagna semplicemente perché riguarda Israele nella sua interezza. Quando Ben & Jerry’s [nota ditta produttrice di gelati USA, ndtr.] ha annunciato che non avrebbe più venduto i suoi gelati nelle colonie della Cisgiordania, c’è stata una violenta reazione da parte del governo israeliano e dei suoi sostenitori statunitensi, con minacce di ritorsioni contro l’impresa e la sua casa madre Unilever.

I dirigenti israeliani considerano le colonie illegali come parte integrante a tutti gli effetti del loro Stato. Non hanno alcuna intenzione di smantellare queste colonie o il congegno repressivo di controllo sui palestinesi che l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha descritto come una forma di apartheid. Per questa ragione reagiscono in modo così aggressivo al minimo accenno di pressione, per quanto modesto sia.

Questa è la reale “china pericolosa” che Israele e i suoi sostenitori hanno in mente. Se lo Stato perde l’accesso a qualcosa, qualunque cosa, perché continua ad opprimere i palestinesi, ciò stabilisce un precedente in base al quale le azioni potrebbero avere delle conseguenze. Oggi può essere una traduzione di Beautiful World, Where Are You [Dove sei, mondo stupendo, ultimo romanzo di Rooney, ndtr.] o la scomparsa di una vaschetta di gelato con i biscotti; domani potrebbe essere un veto USA alle Nazioni Unite, o l’ultimo aereo da guerra ipertecnologico.

Detto così sembra quasi comico, ma questo ragionamento spiega perché Israele ha etichettato la campagna BDS come una minaccia strategica. La pesante ostilità contro il BDS è un ambiguo omaggio alla sua importanza. Illustri personalità che, come ha fatto Sally Rooney, affrontano una simile ostilità per appoggiare la campagna meritano il nostro appoggio incondizionato.

Daniel Finn è redattore di Jacobine. È autore di One Man’s Terrorist: A Political History of the IRA [Terrorista solitario: una storia politica dell’IRA].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Iron Dome: la farsa del finanziamento USA

Richard Falk

lunedì 4 Ottobre 2021, GLOBAL JUSTICE IN THE 21ST CENTURY

Che gli Stati Uniti paghino il conto per ricostituire la scorta di missili nel sistema difensivo israeliano Iron Dome (Cupola di Ferro) utilizzato durante l’attacco a Gaza in maggio è una caricatura di legalità e giustizia.

E che una tale iniziativa conquisti il sostegno di un voto di 420 a 9 in una Camera dei Rappresentanti (USA) altrimenti disperatamente divisa dovrebbe essere d’imbarazzo anziché l’occasione per ristabilire questa discutibile Relazione Speciale senza contare quanto il suo incondizionato mantenimento sia avverso al benessere della gente del Medio Oriente e alla razionalità strategica della politica estera USA.

Mistificazioni sulla Cupola di Ferro

Ci sono stati molti ragionamenti falsi attorno a questa ultima affermazione promiscua del militarismo israeliano. La Cupola di Ferro si presenta al mondo come arma puramente difensiva il cui solo ruolo è salvare la vita di civili innocenti. Se è così, perché non installare una Cupola di Ferro a Gaza, come ha osservato Alison, dov’è realmente necessaria a una popolazione del tutto priva di difesa e assediata che ha subìto un massiccio numero di vittime civili per ripetuti attacchi missilistici israeliani da molti anni.

Iron Dome

Chiunque sia consapevole della devastazione e delle vittime civili subite dalla popolazione di Gaza lo scorso maggio capirebbe che Israele ci penserebbe due volte prima di lanciare un’operazione militare aggressiva se la sua popolazione e le sue città fossero esposte ad attacchi di rappresaglia come la gente di Gaza. Non c’è bisogno di essere uno studioso di strategia militare per sapere che offesa e difesa sono letalmente interconnesse in condizioni di combattimento.

Non solo la Cupola di Ferro viene mal rappresentata, ma l’implicito attacco militare, con il nome in codice IDF [dell’esercito israeliano – ndt] sconcertante di “Guardiano delle Mura”, è stato falsamente descritto come risposta ‘difensiva’ al ‘terrorismo’ di Hamas e gruppi armati associati. Ignorati da tale reportage mediatico sono lo sfondo e il contesto israeliani molto incendiari. I razzi da Gaza furono preceduti da una serie di provocazioni israeliane a Gerusalemme-Est e in Cisgiordania; compresa la protezione alle marce ebraiche estremiste per i quartieri palestinesi con cantilene come ‘morte agli arabi’, la violenza dei coloni contro i palestinesi, e parecchie intrusioni e interferenze con la liturgia musulmana nel complesso di Al Aqsa durante un periodo di vacanze religiose.

Confronto fra vittime civili

Quando si facciano e le valutazioni di responsabilità per perdite di vite e un’autentica identificazione degli autori del terrorismo, è illuminante comparare le statistiche sulle vittime di queste periodiche operazioni militari israeliane condotte contro una società di Gaza intrappolata e del tutto vulnerabile. Uno dei princìpi basilari del diritto umanitario internazionale è il requisito che qualunque ricorso alla forza militare sia proporzionato nella reazione; un’altra norma primaria è la proibizione di ‘punizione collettiva’ all’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra. Nell’Operazione Piombo Fuso, del 2008-09, furono uccisi 14 israeliani e 1434 palestinesi; e nell’Operazione Pilastro di Difesa, del 2012, 6 israeliani e 158 palestinesi; nell’Operazione margine Protettivo, del 2014, 73 israeliani e 2100 palestinesi; in Guardiano delle Mura, del 2021, 12 israeliani e 256 palestinesi.

Questo confronto di vite perse è rivelativo, ma ancora lungi dal ritratto completo di uni-lateralità. A Gaza dopo le rispettive carneficine si nega di routine l’accesso ai materiali necessari per riparare il peggio dei danni inflitti a persone e cose, alquanto arbitrariamente per lunghi periodi, aggravando quella che a Gaza passa per normalità nei periodi migliori, ossia gli intervalli durante attacchi massicci, a parte i frequenti attacchi militari limitati, la violenza confinaria, e le innumerevoli intrusioni con droni di sorveglianza e sorvoli con schianti supersonici.

Contro uno sfondo così tormentato, il governo USA dovrebbe almeno trattenersi da sovvenzionare il militarismo israeliano addirittura oltre i già deprecabili $3.8 miliardi annui. Aldilà delle considerazioni morali e legali, ci si chiede perché Israele debba essere destinatario di tanta carità geopolitica godendo di una economia è robusta e di uno dei più alti redditi pro capite al mondo, con vantaggiose tecnologie di punta e un redditizio mercato in espansione per la sua industria delle armi e i programmi formativi antiterrorismo.

Non solo gli USA dovrebbero vergognarsi, ma sentirsi pure umiliati per erigere una tale piattaforma parlamentare bipartite pur restando nettamente spaccati su prospettive che dovrebbero essere imperativi apolitici: una politica confinaria e sull’immigrazione umana, finanziamento adeguato delle infrastrutture e della protezione sociale, mantenere aperto il processo elettorale a tutti i cittadini e preservare la democrazia politica nonostante la violenza insurrezionale, e dedicare tutti i fondi pubblici disponibili ad affrontare le minacce multiple attribuibili al cambiamento climatico.

E riguardo alle armi nucleari israeliane?

È anche rilevante la prospettiva strategica. In Medio Oriente persistono gravi pericoli di guerra in larga parte perché l’Occidente non sa trattare equanimemente gli armamenti nucleari. Molto tempo addietro ha facilitato acquisizione, possesso e sviluppo segreti di tale armamento da parte d’Israele ed è impegnato alla guerra se necessario per frustrare il presunto approccio dell’Iran alla soglia nucleare [militare]. Non osando Washington sfidare l’opzione nucleare d’Israele, gli USA sono costretti contro i propri interessi ad unirsi a Israele (e all’Arabia Saudita) nel confrontare l’Iran.

Dovrebbe essere evidente ad ogni osservatore equanime che l’Iran ha un persuasivo caso di sicurezza per un deterrente nucleare date le costanti minacce e violazioni della propria sovranità da parte delle provocazioni militari israeliane e USA. Dovrebbe essere ovvio che sicurezza, pace e sviluppo economico beneficerebbero tutti i popoli del Medio Oriente se nella regione fosse istituita una zona priva di armi nucleari, monitorata e verificata internazionalmente. Al tempo stesso ridurrebbe quasi a zero i pericoli di una guerra regionale e le inibizioni strategiche collegate al tenere Israele come unico paese cui è permesso avere tale armamento senza neppure una pretesa di rendicontazione.

E riguardo all’apartheid israeliana?

Ciò che sarebbe in primo piano nella sovvenzione di un apparato militare straniero sarebbe qualche riflessione sulla sua classifica nell’àmbito dei diritti umani. Nel caso di Israele, il fatto che l’anno scorso sia B’Tselem sia Human Rights Watch, entrambe rispettate ONG per i diritti umani, abbiano concluso dopo studi esaurienti che Israele fosse colpevole del crimine di apartheid, conclusione asserita anche nei particolari concreti dall’intrepido giornalista israeliano Gideon Levy. L’apartheid è elencata fra i crimini contro l’umanità nello Statuto di Roma, struttura portante del trattato che regola l’attività del Tribunale Penale Internazionale.

Il Parlamento [USA] finge di non vedere il crescente consenso sulla nozione che Israele è uno stato di apartheid, conclusione virtualmente riconosciuta dalla statuizione del 2018 nella sua stessa Legge Fondamentale che Israele è lo stato del popolo ebraico, con l’ulteriore implicazione della supremazia ebraica non solo in Israele bensì anche nei Territori Palestinesi Occupati, cioè in tutta quanta la Palestina storica. E con tutto ciò i media mainstream annotano blandamente questa dubbia riaffermazione di sostegno a Israele senza manco tentare di trattare le implicazioni dubbie di tale passo diplomatico di blocco.

E riguardo al diritto di resistenza palestinese?

In considerazione di quanto sopra, il discorso su Israele/Palestina dovrebbe come minimo riconoscere un diritto palestinese di resistenza operativo entro i limiti stabiliti dal diritto internazionale. È ora di smettere di sminuire la resistenza palestinese come ‘terrorismo’ e l’oppressiva dominazione israeliana come intrinsecamente ‘difensiva’.

Tenendo conto di queste considerazioni, dovremmo cominciare a renderci conto di quanto sia stata regressiva la mossa di donare $1 miliardo per una nuova fornitura di missili Cupola di Ferro a questo punto. Dovremmo fare una pausa di ringraziamento alla Squadra per aver tenuto saldamente, chiedendoci perché i Rappresentanti che sostengono le lotte delle persone di colore d’America manchino di esibire pur minimi segni di solidarietà con le vittime dell’ardua prova palestinese.


Richard Falk

Richard Falk è membro della Rrte TRANSCEND, studioso di relazioni internazionali, professore emerito di diritto internazionale all’università di Princeton, Ricercatore Distinto al Centro Orfalea di Studi Globali dell’UCSB, autore, co-autore o capo-redattore di 60 libri, e portavoce e attivista su affari mondiali. Nel 2008, il Consiglio delle Nazioni Unite sui Diritti Umani (UNHRC) ha nominato Falk a due mandati triennali come Rapporteur Speciale ONU sulla “situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967”. Dal 2002 vive a Santa Barbara, California, associate al campus locale dell’Università di California, e presiede da vari anni il consiglio d’amministrazione della Nuclear Age Peace FoundationIl suo libro più recente è On Nuclear Weapons, Denuclearization, Demilitarization, and Disarmament (2019

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis




I tre regali di Washington a Naftali Bennett

Edo Konrad

26 settembre 2021, +972

La scorsa settimana è stata una buona settimana per Naftali Bennett, forse una delle migliori da quando più di tre mesi fa è diventato primo ministro. Bennett – che ha dato il colpo finale alla soluzione dei due Stati come pilastro della sua politica – ha probabilmente sfoderato un largo sorriso quando ha visto che, nel giro di pochi giorni, sia la Casa Bianca che il Congresso gli hanno regalato una serie di vittorie politiche.

La settimana è iniziata con il discorso del presidente Joe Biden all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in cui ha affermato che, sebbene la sua amministrazione sostenga ancora la soluzione a due Stati, questa sia ancora “lontana” dal diventare realtà. Con queste parole, Biden ha in effetti dichiarato che la Casa Bianca non investirà capitale politico per portare Israele e i palestinesi al tavolo dei negoziati. Sembra che Bennett abbia detto che nel suo discorso all’Assemblea Generale di domenica non dedicherà nessuna attenzione alla questione palestinese.

La dichiarazione di Biden è stata rafforzata dall’udienza alla Commissione per gli Affari Esteri del Senato di Thomas Nides, ex amministratore delegato e vicepresidente di Morgan Stanley, scelto dal presidente come ambasciatore in Israele. Nides ha condotto l’udienza (non è ancora stato confermato ufficialmente) ricevendo elogi bipartisan per aver annunciato, tra altre questioni, che avrebbe rafforzato la sicurezza israeliana, ampliato le relazioni economiche tra i due paesi e sostenuto gli accordi di Abraham. Sebbene Nides abbia sottoscritto a parole la promessa di usare “accordi esistenti e futuri per apportare miglioramenti tangibili al popolo palestinese”, è estremamente improbabile che ciò comporti un cambiamento significativo sul campo per i palestinesi che vivono sotto il dominio militare israeliano.

E poi è arrivato il disegno di legge Iron Dome alla Camera dei Rappresentanti. Dopo che i progressisti del Partito Democratico sono riusciti a bloccare la proposta di inviare a Israele 1 miliardo di dollari per finanziamenti al suo sistema di difesa missilistica – oltre ai 3,8 miliardi di dollari l’anno di aiuti militari – come parte di un più ampio disegno di legge di finanziamento al governo provvisorio, i Democratici moderati hanno proposto all’esame della Camera un secondo disegno di legge che manterrebbe quel miliardo di dollari. Quando si è passati al secondo voto, e in seguito alle forti critiche sia da parte dei repubblicani che dei democratici moderati, l’ala progressista si è divisa. Solo nove dei 435 rappresentanti hanno votato contro il “rimpinguare” la capacità dell’Iron Dome di Israele, con la rappresentante Alexandria Ocasio-Cortez – che aveva definito Israele uno “Stato di apartheid” – che alla fine ha cambiato il suo voto da “no” a “presente”, facendo arrabbiare molti che l’avevano vista come un’alleata della causa palestinese.

Il discorso delle Nazioni Unite, l’udienza di conferma di Nides e la debacle dei Democratici sull’Iron Dome sono notizie fantastiche per il primo ministro israeliano. Bennett – ex capo del Consiglio Yesha, il gruppo di organizzazioni che rappresenta gli interessi del movimento degli insediamenti – ha condotto tutta la sua carriera opponendosi alla creazione di uno Stato palestinese e ha recentemente dichiarato che intende mantenere l’occupazione perseguendo una strategia di “riduzione del conflitto”. In altre parole, il piano di Bennett è di rafforzare il cosiddetto status quo – e quindi le politiche di apartheid di Israele.

Rivelatore è stato vedere quanto credito abbia ricevuto il primo ministro nei circoli dell’élite, che tanto avevano disprezzato il suo predecessore Benjamin Netanyahu, nonostante le sue franche dichiarazioni sul mantenimento della dittatura militare di mezzo secolo di Israele sui palestinesi. Il fatto che né la Casa Bianca né il Congresso stiano condizionando alcun aiuto a Israele ad un processo che cerchi di porre fine all’occupazione è una testimonianza di quanta noncuranza i leader americani dimostrino rispetto alle intenzioni israeliane o alle vite palestinesi.

Forse più di ogni altra cosa, quest’ultima settimana ha dato un chiaro segnale di come, che si tratti di Trump o Biden, o che si tratti di Bibi o Bennett, non c’è quasi nessuno con un minimo di potere che si alzerà e dirà basta alla progressiva e infinita occupazione del governo militare di Israele. Per ora, Washington rimane impegnata a garantire che il tempo sia dalla parte dell’apartheid.

Edo Konrad è caporedattore di +972 Magazine. Vive a Tel Aviv, e in precedenza ha lavorato come redattore di Haaretz.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il congresso del Partito Laburista vota il sostegno a sanzioni contro Israele per il “crimine di apartheid”

Joe Gill

27 settembre 2021 Middle East Eye

La mozione sfida la leadership di Keir Starmer riconoscendo che Israele ha messo in atto un sistema di apartheid e chiedendo la cessazione del commercio di armi con Israele.

 

Lunedì è stata una giornata disastrosa per Keir Starmer: durante il congresso del partito i delegati hanno fatto approvare una provocatoria mozione sulla Palestina e un membro del governo ombra si è dimesso con una durissima dichiarazione che stigmatizza la leadership di Starmer.

Il congresso del partito laburista ha sostenuto una mozione che sollecita il partito a sostenere sanzioni contro Israele per le sue azioni illegali ai sensi del diritto internazionale, a bloccare il commercio di armi del Regno Unito con Israele e a cessare gli scambi commerciali con le colonie illegali sui territori palestinesi occupati.

Il voto imbarazza Starmer, che ha trascurato la questione palestinese da quando è subentrato a Jeremy Corbyn, da sempre sostenitore delle richieste palestinesi di porre fine all’occupazione militare e agli abusi israeliani.

Subito dopo l’approvazione della mozione, la ministra ombra laburista degli Esteri, Lisa Nandy, l’ha disconosciuta dichiarando a Jewish News [quotidiano gratuito ebraico che ha sede a Londra, ndtr]: “Non possiamo sostenere questa mozione.”

Ha condannato la posizione pro-palestinese del congresso dicendo: “E’ nostro dovere nei confronti dei popoli di Israele e Palestina adottare un approccio equo ed equilibrato che riconosca che la pace è possibile solo se viene garantita la sicurezza di Israele accanto ad uno Stato palestinese sovrano ed autosufficiente.”

In seguito, con il grave gesto delle proprie dimissioni nel corso del congresso, il ministro ombra per l’impiego Andy McDonald ha dichiarato che Starmer ha tradito l’impegno di unire il partito sulla base di politiche socialiste preso al momento della sua elezione alla guida del partito.

McDonald ha spiegato che si dimetteva perché aveva ricevuto istruzioni da parte dell’ufficio di Starmer di opporsi ad un salario minimo nazionale di 20 dollari (15 sterline) e un’indennità di malattia obbligatoria pari al salario di sussistenza.

Nella lettera di dimissioni McDonald, che aveva già occupato posizioni di rilievo nel gruppo parlamentare del partito a guida Corbyn, scrive: “Dopo 18 mesi sotto la tua guida il nostro movimento è sempre più diviso e i giuramenti che avevi fatto agli iscritti non vengono onorati.”

Parlando poi in serata ad una riunione collaterale del partito , dove è stato accolto con entusiasmo, McDonald ha dichiarato che il partito deve “dire la verità su ciò che non ha funzionato [nella società] e avere coraggio su come porvi rimedio, ”ma che Starmer si è rifiutato di farlo in qualità di leader.

Ha quindi aggiunto: “Avevo detto con chiarezza a Keir che anche se non lo avevo votato né sostenuto, visto che pensavo che avrebbe vinto, lo avrei aiutato a portare avanti i dieci impegni che aveva assunto.” Ma gli impegni politici presi da Starmer sono stati annacquati.

La mozione sulla Palestina

La mozione sulla Palestina fa riferimento a recenti rapporti sui diritti umani che evidenziano “in modo inequivocabile” che Israele si è macchiata di apartheid, riconosciuto come crimine dall’ONU, come dimostrato dall’organizzazione israeliana per i diritti B’tselem e da Human Rights Watch.

La mozione sostiene la società civile palestinese nella sua richiesta di “misure efficaci” contro la costruzione delle colonie, rivendica la fine dell’occupazione della Cisgiordania e del blocco di Gaza, e sostiene il diritto dei palestinesi a ritornare alle proprie case.

La mozione, proposta dalla sezione giovanile del partito laburista, è passata senza difficoltà dopo una breve discussione presto interrotta dagli organizzatori del congresso e non trasmessa in diretta ai delegati.

Parlando contro la mozione, il parlamentare Steve McCabe, presidente di Labour Friends of Israel [gruppo parlamentare che cerca di rafforzare i legami tra il partito laburista britannico e quello israeliano,ndtr], ha dichiarato “questa mozione eterogenea è troppo gridata, troppo arrabbiata, troppo faziosa e non si concentra per niente sulla ricerca della pace.”

Il voto non è vincolante per la dirigenza laburista, ma dimostra che la base del partito è tuttora orientata a sostenere i diritti dei palestinesi e a porre fine alla complicità britannica nell’occupazione israeliana dei territori palestinesi.

La UK Palestine Solidarity Campaign [Campagna di solidarietà con la Palestina, ndtr] ha avuto parole di plauso: “approvata storica mozione sulla Palestina al congresso del 2021 del partito laburista che prende atto che Israele pratica l’apartheid e richiede severe sanzioni.”

Le azioni militari di Israele di maggio contro Gaza, con centinaia di morti, hanno provocato grandi proteste nel Regno Unito, portando 200.000 persone in piazza per la più grande dimostrazione a sostegno della Palestina mai vista in Gran Bretagna.

Da quando è stato eletto alla guida del partito lo scorso anno, il leader laburista Keir Starmer ha decisamente abbandonato la posizione del suo predecessore Jeremy Corbyn, da sempre a sostegno della causa palestinese, dichiarando di “sostenere incondizionatamente il sionismo”.

I membri palestinesi del partito laburista hanno denunciato che la dirigenza non li ha sostenuti e ha trasformato il partito in un ambiente ostile per chi difende i diritti umani dei palestinesi.

Un gruppo di autorevoli palestinesi ha scritto diverse volte a Starmer senza ricevere alcuna risposta dal capo del partito laburista.

Atallah Said, ex presidente dell’Associazione Arabo-britannica e fondatore di Arab Labour [l’associazione promuove la causa laburista fra le comunità arabe in Gran Bretagna, ndtr] ha dichiarato all’Independent lo scorso maggio: “ignorare le molte lettere di autorevoli membri della comunità palestinese britannica significa che questa comunità è sgradita all’interno del partito.

Il leader sta praticamente trattando l’intera comunità come reietti e si rifiuta non solo di incontrarci, ma persino di risponderci. Questo va di pari passo con l’allarmante cambio di rotta del partito laburista nel suo approccio alla questione del razzismo e con il suo dietrofront nei confronti della Palestina.”

Martedì scorso, nel corso di un collegamento video con un evento collaterale del partito laburista, l’attivista di Hebron Issa Amro ha sostenuto che la mozione sulla Palestina è stata una grande vittoria.

Che cosa è accaduto nel partito laburista? Che cosa non si è fatto per distruggere il punto di vista palestinese all’interno del partito laburista – [ma] ieri abbiamo vinto. Amiamo Jeremy Corbyn, ma ce l’abbiamo fatta senza di lui, con i nostri sostenitori all’interno del partito laburista.”

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero

Testo della mozione approvata dal Partito Laburista britannico nella Conferenza Annuale di Brighton 2021

27/09/2021

La Conferenza condanna la Nakba in corso in Palestina, la violenza militarizzata di Israele che attacca la moschea di Al Aqsa, gli sfollamenti forzati da Sheikh Jarrah e l’assalto mortale a Gaza.

Insieme all’annessione de facto della terra palestinese mediante la costruzione accelerata di insediamenti e alle dichiarazioni dell’intenzione di Israele di procedere con l’annessione, è sempre più chiaro che Israele è intenzionato a eliminare qualsiasi prospettiva di autodeterminazione palestinese.

La Conferenza prende atto della mozione del Congresso TUC 2020 che descrive la costruzione e l’annessione di tali insediamenti come “un altro passo significativo” verso il crimine di apartheid delle Nazioni Unite e invita il movimento sindacale europeo e internazionale a unirsi alla campagna internazionale per fermare l’annessione e porre fine all’apartheid.

La Conferenza prende atto anche degli inequivocabili rapporti del 2021 di B’Tselem e Human Rights Watch che concludono che Israele sta praticando il crimine di apartheid come definito dalle Nazioni Unite.

La Conferenza accoglie con favore la decisione della Corte penale internazionale di avviare un’inchiesta sugli abusi commessi nei Territori palestinesi occupati dal 2014.

La Conferenza decide che è necessaria un’azione ora a causa delle continue azioni illegali di Israele e che i laburisti dovrebbero aderire a una politica etica su tutto il commercio del Regno Unito con Israele, compreso il blocco a qualsiasi commercio di armi utilizzato per violare i diritti umani palestinesi e il commercio con insediamenti israeliani illegali.

La Conferenza decide di sostenere “misure efficaci” comprese sanzioni, come richiesto dalla società civile palestinese, contro le azioni del governo israeliano che sono illegali secondo il diritto internazionale; in particolare per garantire che Israele fermi la costruzione di insediamenti, annulli qualsiasi annessione, ponga fine all’occupazione della Cisgiordania, al blocco di Gaza, faccia cadere il Muro e rispetti il ​​diritto del popolo palestinese, sancito dal diritto internazionale, al ritorno alle loro case.

La Conferenza decide che il Partito Laburista deve stare dalla parte giusta della storia e rispettare queste risoluzioni nella sua politica, comunicazione e strategia politica.

Traduzione di Angelo Stefanini

 




Demonizzare Durban, Oscurare il Razzismo

Richard Falk

EDITORIALE

16 agosto 2021 TRANSCEND Media Service

[Nota introduttiva: il post seguente descrive la campagna portata avanti negli ultimi 20 anni dalla propaganda filo-israeliana, sia del governo che delle ONG, per diffamare gli sforzi antirazzisti delle Nazioni Unite come una nuova specie di antisemitismo. È uno sforzo perverso che protegge le politiche e le pratiche razziste di Israele nei confronti del popolo palestinese dietro una perversa tesi secondo cui le critiche a queste politiche dovrebbero essere viste come antisemitismo. Il pezzo è stato originariamente pubblicato su Transcend Media Service e appare qui nella sua forma originale. Per il link all’originale

Contesto

16 agosto 2021 – È stata avviata un’insidiosa campagna per demonizzare la sponsorizzazione delle Nazioni Unite di un’iniziativa antirazzista per tenere una conferenza di un giorno alle Nazioni Unite il 22 settembre 2021, continuazione di quello che è diventato noto come il “Processo di Durban”. Esso identifica lo sforzo in corso negli ultimi vent’anni di attuare la Dichiarazione di Durban e il relativo Programma d’Azione adottato alla Conferenza Mondiale sul Razzismo, Discriminazione Razziale, Xenofobia and Intolleranza correlata tenutasi a Durban, in Sudafrica 20 anni fa.

La Conferenza di Durban fu controversa ancor prima che i delegati si riunissero, anticipata come un forum in cui Israele, il colonialismo, l’eredità della schiavitù e la vittimizzazione di etnie vulnerabili sarebbero stati illustrati e condannati. Era formalmente sotto gli auspici del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il cui Alto Commissario, Mary Robinson, fu sottoposta a pressione dall’Occidente per annullare l’evento. Essa rifiutò, e invece di essere elogiata per la sua indipendenza, questa ex presidentessa di alti princìpi dell’Irlanda fu privata del sostegno di Washington per la riconferma a un secondo mandato come Alto Commissario. Israele e gli Stati Uniti si ritirarono dalla conferenza e boicottarono gli eventi di follow-up minori nel 2009 e nel 2011, il che spiega perché il prossimo raduno è indicato come Durban IV.

Alla conferenza del 2001, messa in ombra dagli attacchi dell’11 settembre agli Stati Uniti, avvenuti pochi giorni dopo la chiusura di Durban, molti discorsi furono pronunciati da rappresentanti di vari governi, inclusi molti che criticarono Israele per le politiche e le pratiche razziste perpetrate contro il popolo palestinese, inclusa l’accusa che il sionismo fosse una forma di razzismo, che era stata precedentemente affermata nella Delibera della Assemblea Generale (vedi GA Res. 3379 approvata con 72-35 voti e 32 astenuti, A/RES/3379, 10 novembre 1975; revocata nel 1991 senza spiegazione nella GA Res. 46/96). Oltre alla Conferenza intergovernativa di Durban si teneva un Forum parallelo delle ONG dedicato alla stessa agenda in cui furono pronunciati accesi discorsi e dichiarazioni. Eppure il tema di maggiore stimolo fu fornito dalla vittoriosa lotta contro l’apartheid in Sud Africa che veniva a legittimare sia l’evento sia l’attuale necessità di affrontare la lunga incompiuta agenda antirazzista.

Il risultato a Durban

I principali risultati formali della Conferenza di Durban furono due significativi e comprensivi testi conosciuti come la Dichiarazione di Durban e il Programma d’Azione di Durban. Il processo di Durban successivo al 2001 ha riguardato più o meno esclusivamente l’attuazione di questi due documenti formali delle Nazioni Unite, che sono la rappresentazione ad ampio spettro di tutta una serie di rimostranze derivanti dal maltrattamento di varie categorie di persone vulnerabili dovuto alla guerra all’applicazione della legge sui diritti umani e attraverso una varietà di mezzi, tra cui l’istruzione e l’attivismo della società civile, delle ONG e persino del settore privato. Non c’è assolutamente alcuna base per lamentarsi del fatto che Israele sia stato criticato o che le disposizioni dei documenti della conferenza possano essere correttamente interpretate come antisemite o addirittura anti-israeliane, eppure, come sarà mostrato di seguito, una tale campagna è stata incessantemente condotta per screditare tutto ciò che Durban significa, quasi esclusivamente a causa del suo presunto pregiudizio estremo nei confronti di Israele.

Una lettura corretta di entrambi i documenti porterebbe a concludere che a Israele sono state effettivamente risparmiate critiche giustificabili, molto probabilmente a causa delle pressioni esercitate sia sull’ONU che sui media prima e durante la conferenza. Se osserviamo i testi, abbiamo l’impressione che le sensibilità israeliane siano state comprese e rispettate. L’apartheid e il genocidio sono stati condannati in termini generali, ma senza alcun riferimento negativo a Israele, e di fatto un’inclusione che ha individuato Israele in un modo che avrebbe essere accolto favorevolmente. Nel par. 58 della Dichiarazione troviamo la seguente affermazione: “..ricordiamo che l’Olocausto non deve mai essere dimenticato”. E par. 61 prende atto con “profonda preoccupazione dell’aumento dell’antisemitismo e dell’islamofobia in varie parti del mondo, nonché l’emergere di movimenti razziali e violenti basati sul razzismo e su idee discriminatorie nei confronti delle comunità ebraiche, musulmane e arabe”. Sembra assolutamente perverso screditare la Dichiarazione di Durban come un’invettiva contro gli ebrei.

Nel corso dei 122 paragrafi della Dichiarazione la situazione Israele/Palestina è menzionata solo nel paragrafo 63, e poi in maniera neutrale che sembra trascurare la deliberata vittimizzazione del popolo palestinese. Si legge come segue: “Siamo preoccupati per la difficile situazione del popolo palestinese sotto occupazione straniera. Riconosciamo il diritto inalienabile del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla creazione di uno Stato indipendente e riconosciamo il diritto alla sicurezza per tutti gli Stati della regione, compreso Israele, e invitiamo tutti gli Stati a sostenere il processo di pace e a portarlo a una rapida conclusione.” Cosa può essere offensivo anche per il più ardente sostenitore israeliano di una tale disposizione, che è sepolta in profondità in una dichiarazione di trenta pagine in un linguaggio che non punta il dito contro Israele.

La campagna anti-Durban di Israele

Eppure la realtà di Durban, la violenza della lingua usata per denunciare questi documenti e il Processo di Durban sembra estremo, e provenire da fonti note per seguire da vicino la linea ufficiale diffusa da Tel Aviv. Il colonnello britannico Richard Kemp, che scrive sul sito web notoriamente di destra del Gladstone Institute, è raramente da meno nel suo sostegno all’uso della forza da parte di Israele contro l’indifesa Gaza. Kemp definisce il Processo di Durban “come la famigerata vendetta ventennale delle Nazioni Unite contro Israele” e pronuncia il suo giudizio che “Durban IV darà nuova energia a questo vergognoso processo”. [“Fighting the Blight of Durban”, 29 luglio 2021] Kemp è a suo agio nell’invocare il linguaggio iperbolico di UN Watch che etichetta assurdamente Durban come “..la peggiore manifestazione internazionale di antisemitismo nel dopoguerra”.

UN Watch aveva espresso separatamente il suo velenoso punto di vista del processo di Durban un mese prima in un comunicato stampa dal titolo grossolanamente fuorviante, “Durban IV: fatti chiave”, 24 maggio 2021, riassunto dalla frase una “perversione dei principi dell’antirazzismo”. Questa caratterizzazione di Durban è resa più concreta affermando che fa “… affermazioni infondate contro il popolo ebraico”, è usato “per promuovere il razzismo, l’intolleranza, l’antisemitismo e la negazione dell’Olocausto… e per erodere il diritto di Israele a esistere”. Questo linguaggio diffamatorio di UN Watch dovrebbe essere confrontato con i testi della Dichiarazione di Durban e del Programma d’azione, la cui attuazione è l’obiettivo principale del Processo di Durban, per avere una visione delle oscure motivazioni di questi critici di orientamento israeliano.

2021 – Israele e Apartheid

È vero che nel 2021 non ci sarebbe modo di evitare di supporre che “la difficile situazione del popolo palestinese” sia un risultato diretto dell’apartheid israeliano, che non solo è condannato dal processo di Durban, ma è fermamente stabilito come crimine contro l’umanità in entrambi la Convenzione internazionale del 1974 sulla repressione e la repressione del crimine di apartheid e l’articolo 7 dello Statuto di Roma che disciplina le operazioni della Corte penale internazionale. Non è più ragionevole respingere le accuse di apartheid israeliana come estremiste, tanto meno come manifestazioni di antisemitismo. Tuttavia, poiché Israele, con il sostegno degli Stati Uniti, controlla ancora il discorso principale in Occidente, i media fissano tali risultati in un silenzio di pietra nonostante la prolungata sofferenza del popolo palestinese, un promemoria convincente che dove la geopolitica e la moralità/legalità si scontrano, la geopolitica prevale.

Riscattare il processo di Durban

Ci sono due serie di osservazioni che rendono vergognosi e spudorati questi attacchi al lodevole sforzo delle Nazioni Unite attraverso Durban di evidenziare le molte sfaccettature del razzismo e della discriminazione razziale. Il Processo di Durban è diventato il fulcro di una campagna mondiale sui diritti umani per aumentare la consapevolezza pubblica e sollevare preoccupazioni all’interno delle Nazioni Unite per quanto riguarda le molte varietà di criminalità razzista, nonché per sottolineare la responsabilità dei governi e i potenziali contributi dell’attivismo della società civile.

E’ degno di nota che Israele e il suo comportamento nella Dichiarazione di Durban e nel Programma d’Azione non ricevono neanche lontanamente l’attenzione di altre questioni come l’abuso delle popolazioni indigene, dei Rom, dei migranti e dei rifugiati. In effetti, alla luce degli sviluppi più recenti che hanno confermato le precedenti preoccupazioni sulla vittimizzazione palestinese, il Processo di Durban, semmai, può essere accusato di aver messo in secondo piano il razzismo di Israele e di essere caduto nella trappola dell’hasbara di imporre una responsabilità simmetrica all’oppressore e alla vittima, incolpando entrambe le parti, proprio per sventare la crescente tendenza del sostegno organizzato di Israele a giocare la carta antisemita come una tattica crescente per distogliere l’attenzione pubblica dal crescente consenso sul fatto che Israele operi come uno Stato di apartheid.

Forse, nell’atmosfera del 2001, era politicamente provocatorio accusare Israele di razzismo e apartheid, sebbene, come ho cercato di dimostrare, queste accuse rivolte a Israele nel dibattito aperto a Durban non hanno mai avuto seguito nell’esito formale della Conferenza di Durban. E come è stato chiarito dai suoi sostenitori, il Processo di Durban si occupa principalmente dell’attuazione della Dichiarazione di Durban e del Programma d’azione (https://www.un.org/en/durbanreview2009/ddpa.shtml ). Nel 2021, ciò che era provocatorio vent’anni fa è stato ripetutamente confermato da valutazioni dettagliate affidabili e attendibili e indirettamente approvato dalla Legge fondamentale israeliana emanata dalla Knesset nel 2018. I punti salienti di questa dinamica si sono verificati nel corso degli ultimi cinque anni:

la pubblicazione nel marzo 2017 di uno studio accademico indipendente sponsorizzato dalla Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale (ESCWA) che ha concluso che le politiche e le pratiche israeliane costituivano una schiacciante conferma delle accuse di apartheid [“Le pratiche di Israele verso il popolo palestinese e la questione dell’apartheid”]

-il rapporto dell’ONG israeliana per i diritti umani, B’Tselem, “Un regime di supremazia ebraica da che Dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo: questo è Apartheid”, 12 gennaio 2021,

-il rapporto di Human Rights Watch, “Una soglia oltrepassata: le autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione”, 27 aprile 2021.

Non è più plausibile sostenere che associare il trattamento israeliano del popolo palestinese all’apartheid sia antisemita. In quanto ebreo, considero le giustificazioni israeliane per il suo comportamento nei confronti della Palestina come l’incarnazione del comportamento antisemita, che porta discredito al popolo ebraico.

Traduzione di Angelo Stefanini




Obiettrice di coscienza: “Non voglio indossare un’uniforme che simboleggia violenza e dolore”

Oren Ziv

1 settembre 2021 – +972 MAGAZINE

Shahar Perets, che è stata condannata al carcere per essersi rifiutata di arruolarsi nell’esercito israeliano, per la prima volta parla dell’incontro con i palestinesi, delle sue visite in Cisgiordania e di come la società israeliana reprime chi si trova sotto occupazione.

Martedì mattina, dopo aver comunicato il suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito israeliano a causa delle sue politiche nei confronti dei palestinesi, l’obiettrice di coscienza israeliana Shahar Perets è stata condannata a 10 giorni di carcere militare.

Perets, 18 anni, della cittadina di Kfar Yona, è una dei 60 adolescenti che a gennaio hanno firmato la Lettera degli Shministim(iniziativa denominata con l’appellativo ebraico dato agli studenti delle superiori) in cui hanno dichiarato il loro rifiuto di prestare servizio nell’esercito in segno di protesta contro le politiche di occupazione e apartheid. Nel giugno 2020, è stata una dei 400 adolescenti israeliani che hanno firmato una lettera alla leadership israeliana chiedendo di porre fine ai suoi precedenti programmi di annettere parti della Cisgiordania occupata come parte del cosiddetto piano di pace di Trump.

Martedì mattina decine di sostenitori, tra cui il deputato della Lista Unita [formata da quattro diversi partiti arabo-israeliani, ndtr.] Ofer Cassif, hanno accompagnato sia Perets che l’obiettore di coscienza Eran Aviv – che andrà per la quarta volta dietro le sbarre – presso il nucleo di reclutamento di Tel Hashomer nel centro di Israele, dove entrambi hanno detto all’esercito che non avrebbero prestato il servizio di leva. Aviv ha trascorso un totale di 54 giorni nel carcere militare per essersi rifiutato di prestare servizio nell’esercito. Perets e Aviv sono stati condannati ciascuno a 10 giorni dietro le sbarre. Dopo essere stati rilasciati dovranno tornare al centro di reclutamento e ripetere la procedura fino a quando l’esercito non deciderà di congedarli.

Il servizio di leva è obbligatorio per la maggior parte degli ebrei israeliani

Anche il padre di Shahar, Shlomo Perets, che è stato in prigione quattro volte per essersi rifiutato di prestare servizio militare in Libano e nei territori occupati, era lì per sostenere sua figlia. Queste sono le sue scelte, fa quello che ha deciso con coscienza, scrupolo e voglia di cambiamento. La sostengo e spero che riesca a non fare le cose che vanno contro i suoi principi e rifiuti di essere ciò che non è”.

Nei giorni precedenti alla sua condanna ho parlato con Perets delle ragioni del suo rifiuto, delle sue visite nei territori occupati e di cosa intenda portare con sé in prigione.

“Ho deciso di rifiutare [il servizio di leva] dopo aver partecipato in terza media a un incontro tra palestinesi e israeliani in un campo estivo”, mi ha detto Perets. Ho fatto la conoscenza di amici palestinesi, ho capito che non voglio ferirli, non voglio incontrarli da soldatessa e diventare il loro nemico. Non voglio prendere parte a un sistema che li opprime quotidianamente».

Che esperienze hai fatto in seguito a quel primo incontro con dei palestinesi?

Ho preso coscienza di ciò che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania. Ho iniziato a conoscere meglio le realtà della vita palestinese e ho preso la decisione di non arruolarmi e di farlo pubblicamente”.

Le tue visite in Cisgiordania ti hanno aiutata a prendere la decisione sul rifiuto?

Sono stata in giro e ho anche partecipato a tutti i tipi di attività, tra cui il volontariato e l’aiuto agli agricoltori [palestinesi] nelle colline del sud di Hebron e la raccolta delle olive nella Cisgiordania settentrionale.

E’ un’esperienza difficile, ritorno sempre stravolta. Sta succedendo qualcosa di brutto e deve finire. Passare dall’osservazione di foto o dall’ascolto di testimonianze alla valutazione in loco è sconvolgente. Vedere gli insediamenti coloniali dove i bambini vengono attaccati mentre vanno a scuola. Vedere i luoghi che i palestinesi non possono raggiungere, ad esempio nelle colline a sud di Hebron nell’area C [sotto il pieno dominio militare israeliano].

Ho preso la decisione ben prima di trovarmi in Cisgiordania, ma è chiaro che vedere i soldati e i coloni in piedi davanti ai palestinesi mi ha chiarito che non voglio essere uno di quei soldati, non voglio indossare questa uniforme, che simboleggia la violenza e il dolore dell’esperienza dei palestinesi”.

Nell’ultimo anno hai parlato con molti adolescenti mentre ti preparavi a pubblicare la Lettera Shministim. Che tipo di reazioni hai avuto?

La risposta iniziale è sempre un po’ di timore, dal momento che nella maggior parte dei circoli di ragazzi e ragazze, nei movimenti giovanili e nelle scuole non c’è una discussione critica sull’esercito, sul reclutamento e sull’occupazione .

Sia i miei amici più intimi che la cerchia dei conoscenti sono rimasti sorpresi. La gente non sapeva che c’era un’opzione per non arruolarsi. Allo stesso tempo molti adolescenti, ragazzi e ragazze, potrebbero improvvisamente ritrovarsi su qualcosa, firmare la lettera. Voglio credere che questi incontri siano efficaci. Che diano [alle persone] molta forza e una vera alternativa.

Speri che il tuo rifiuto permetta agli adolescenti di vedere un’altra opzione?

Gli adolescenti incontrano i palestinesi per la prima volta da soldati, quando indossano uniformi e imbracciano armi. È chiaro che se ci fossero stati degli incontri con palestinesi a scuola o conversazioni sulla narrativa palestinese, le cose sarebbero andate diversamente.

Ovviamente questo fa parte della politica del sistema, dello stesso desiderio di dividere, di creare una realtà di ‘nemici’ e ‘terroristi’, invece di guardare tutti coloro che vivono qui – palestinesi e israeliani – e dire viviamo e creiamo sicurezza per tutti. Non facciamoci del male, smettiamo di uccidere e di essere uccisi».

Come ha reagito la tua famiglia?

Nel complesso sia i miei amici che la mia famiglia mi stanno davvero a fianco. Ovviamente non tutti sono contenti che io vada in prigione. È strano rispondere alla domanda “Qual è la prossima cosa che farai?” Tra una settimana andrò in prigione. Penso che chi mi è più vicino sia stato in grado di comprendere il mio rifiuto.

C’è il desiderio di trasmettere un messaggio anche ai palestinesi?

[Il messaggio è che] sebbene il movimento del rifiuto sia in minoranza, esiste e ha un’influenza. Alcune persone non sono disposte a contribuire a ciò che sta accadendo, resistono e agiscono in modo che gli altri sappiano [cosa sta accadendo].

Negli ultimi 50 anni gli adolescenti hanno pubblicato numerose lettere in cui hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare al servizio militare sia nei territori occupati che in generale. La prima lettera Shministim è stata pubblicata nel 1970 nel bel mezzo della guerra di logoramento tra Israele ed Egitto. La lettera Shministim pubblicata quest’anno è stata firmata da adolescenti che ci si aspetta finiscano dietro le sbarre o che altrimenti vengano esentati.

Peretz inizialmente ha intrapreso la procedura di arruolamento, ma si è fermata a metà e ha scelto di non richiedere un esonero dall’esercito.

“Ho deciso di non andare davanti al comitato per gli obiettori di coscienza, a una commissione medica o all’ufficiale dell’esercito per la salute mentale”, afferma Perets, “perché è importante per me rispettare i miei principi e non creare l’impressione che sia io il problema e che dovrei essere esentata [dal servizio]. Ho scelto di andare in prigione e partecipare a una campagna perché spero che raggiunga il maggior numero di persone. Spero che attraverso il mio rifiuto le persone riflettano sulla loro posizione in questa realtà”.

Pensi che oggi le persone, soprattutto adolescenti, non sappiano cosa sta succedendo nei territori occupati? Oppure lo sanno e scelgono di rimuoverlo?

Esiste una dimensione molto ampia della rimozione; la gente non sa o sa e non lo vuole riconoscere. La rimozione non sempre è un nostro difetto, è del ministero dell’Istruzione, del governo, di tutti i tipi di altre organizzazioni che non ne parlano [dell’occupazione]. Le lezioni di storia non parlano della narrazione palestinese. Ovviamente questo scoraggia le persone. Le persone si mettono fortemente sulla difensiva quando dico loro che non ho intenzione di arruolarmi. Lo prendono sul personale e si arrabbiano. Ciò proviene chiaramente da una qualche riluttanza a confrontarsi.

Come ti stai preparando per il carcere?

Negli ultimi tre anni ho fatto parte di una rete di donne che si rifiutano di prestare il servizio militare. Ho potuto discutere e riflettere su ciò che sta accadendo in prigione. Prima della mia prigionia, ho parlato con obiettori di coscienza che sono stati in carcere. Mi hanno aiutato a mettere insieme le liste delle cose da portare. Porterò molti libri, sudoku e album da colorare. Ho iniziato a studiare l’arabo, quindi porterò qualche quaderno per continuare a esercitarmi, se me lo permetteranno”.

Come funziona in pratica la procedura di rifiuto? Cosa succede il giorno del reclutamento?

Arriverò al centro di reclutamento delle IDF [forze di difesa israeliane: l’esercito israeliano, ndtr.] e rifiuterò di passare attraverso il percorso di arruolamento. Questo è il primo confronto con il sistema. Da lì sarò inviata a tutte le categorie di ufficiali per ogni sorta di conversazioni e tentativi di persuasione finché non capiranno [la mia posizione]. Ci sarà un processo nello stesso centro, dove decideranno la mia condanna [di solito tra 10 giorni e due settimane]. Dopo il processo sarò trattenuta in stato di detenzione fino a quando non sarò trasferita in carcere.

Dopo il mio rilascio rifiuterò di nuovo e subirò quindi un altro processo e sarò rispedita in prigione. So che è quello che farò nei prossimi mesi. Festeggerò il mio 19esimo compleanno in carcere”.

Oren Ziv è un fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills [gruppo di fotoreporter israeliani, palestinesi e internazionali impegnati contro oppressione, razzismo e discriminazione, ndtr.] e giornalista della redazione di Local Call [sito internet di informazione in lingua ebraica che fa capo alla redazione di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di tematiche sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte. Il suo reportage si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e gli insediamenti, sugli alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulle battaglie a favore della libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Opinione: il primo ministro israeliano non cerca un cambiamento. Vuole solo maggiore copertura per l’apartheid e la colonizzazione.

Noura Erakat

26 agosto 2021 – Washington Post

Questa settimana il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha fatto una serie di incontri a Washington, incontrandosi con funzionari dell’amministrazione Biden (un colloquio alla Casa Bianca è stato rinviato a causa degli attacchi all’aeroporto di Kabul). Entrambe le parti sperano di ristabilire i rapporti tra gli USA e Israele dopo quattro anni in cui l’ex-presidente Trump ha sfacciatamente promosso gli interessi espansionistici di Israele senza la parvenza progressista delle passate amministrazioni USA. La sinergia tra Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha evidenziato la natura farsesca del processo di pace e rafforzato una crescente divisione di parte tra i democratici e i repubblicani riguardo a Israele.

Tuttavia, nonostante il loro massimo impegno per nascondere la realtà – la colonizzazione israeliana di insediamento sulla terra palestinese e il regime di apartheid imposto per consolidare queste appropriazioni di territorio e rafforzare la supremazia ebraica – nessuna operazione di pubbliche relazioni o manipolazione della realtà può cambiare quanto avviene sul terreno o le tendenze che stanno allontanando gli americani da Israele a favore del sostegno alla libertà dei palestinesi.

In politica niente è cambiato. Nei suoi primi otto mesi in carica Biden ha approvato la maggior parte delle iniziative più discutibili di Trump, compresi lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, l’opposizione all’inchiesta della Corte Penale Internazionale sulle azioni di Israele e l’adozione dell’estremamente problematica definizione di antisemitismo che confonde le critiche contro Israele con il fanatismo antiebraico.

Biden si è categoricamente opposto a qualunque condizionamento dell’aiuto militare a Israele in base alle violazioni dei diritti umani e ha ordinato ai suoi funzionari di lottare contro il movimento di base per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi, che si ispira ai movimenti per i Diritti Civili [negli USA, ndtr.] e contro l’apartheid in Sudafrica. In maggio, durante il bombardamento israeliano di Gaza che ha ucciso più di 250 palestinesi, tra cui 12 famiglie cancellate dall’anagrafe, Biden ha resistito a ripetute richieste all’interno del suo stesso partito per sollecitare pubblicamente Israele a interrompere le violenze.

Da parte sua Bennett è ansioso di presentarsi al principale sponsor di Israele e al mondo. Vuole distinguersi da Netanyahu, sotto il quale e al cui fianco ha lavorato per molti anni, nel tentativo di compiacere i sionisti progressisti USA, che sono alla disperata ricerca di una foglia di fico per sostenere la loro negazione riguardo all’esistenza dell’apartheid israeliano.

Tuttavia Bennett è, se possibile, persino più estremista di Netanyahu. Bennett è stato a capo del Consiglio Yesha, la principale organizzazione che rappresenta i coloni, e si è opposto senza riserve a uno Stato palestinese. In base all’accordo che tiene insieme la sua coalizione, il nuovo governo “incentiverà in modo significativo la costruzione a Gerusalemme,” comprese le colonie a Gerusalemme est, e, secondo informazioni, ha promesso ai capi dei coloni che non ci sarà un blocco delle colonie neppure nel resto della Cisgiordania.

Cosa forse ancor più allarmante, Bennett ha iniziato a cambiare lo status quo nel venerato complesso della moschea del nobile santuario, noto agli ebrei come Monte del Tempio, per consentire agli ebrei di pregarvi. Dall’occupazione di Gerusalemme est nel 1967 Israele ha vietato agli ebrei di pregare sul Nobile Santuario perché molte autorità religiose ebraiche vi si sono opposte per ragioni teologiche e per evitare di provocare tensioni con i musulmani. Ora con Bennett ciò sta cambiando, con conseguenze potenzialmente disastrose non solo per la regione.

Come parte di questo piano per presentare una nuova immagine, Bennett sta cercando di “ridimensionare il conflitto” rendendo più tollerabili le condizioni dei palestinesi con la prosecuzione della dominazione israeliana, proprio come la visione di Trump per una “pace economica”. Questo approccio riguarderà anche l’esaltazione come modelli per la pace degli Accordi di Abramo, il riconoscimento reciproco tra Israele e regimi autoritari sostenuti dagli USA. Bennett probabilmente appoggerà un incremento degli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese, che è parte dell’apparato di sicurezza israeliano: proprio di recente essa ha arrestato decine di difensori dei diritti umani palestinesi nel tentativo di reprimere il dissenso.

Biden è altrettanto ansioso di accogliere Bennett e una versione modificata delle politiche di contenimento di Trump. Egli rappresenta la vecchia guardia del Partito Democratico, che ha perso i contatti con gli elettori democratici e con l’opinione pubblica degli USA in generale. I sondaggi mostrano sistematicamente che gli americani di tutto lo spettro politico vogliono che gli USA siano più corretti e imparziali quando si tratta di Israele e dei palestinesi.

Questo spostamento dell’opinione pubblica statunitense è stato chiaramente evidente lo scorso maggio, quando gli americani hanno occupato le reti sociali e sono scesi in piazza in numero senza precedenti per chiedere la fine dell’attacco israeliano contro Gaza e un cambiamento della politica USA nella regione. Con un altro segno dei tempi, la popolare marca di gelati Ben & Jerry ha annunciato che smetterà di vendere gelati nelle colonie israeliane, una decisione che ha sostenuto benché le più alte cariche del governo israeliano abbiano vilmente accusato l’azienda di antisemitismo.

In ogni caso, quando Biden e Bennett si incontreranno alla Casa Bianca, i palestinesi figureranno al massimo come ombre. Ciò è particolarmente insultante alla luce del continuo movimento di protesta dell’Intifada Unita e una testimonianza del fatto che un cambiamento necessario non avverrà dall’alto verso il basso. Nel prossimo futuro probabilmente Israele sarà il suo stesso peggior nemico, in quanto insiste a sostenere che il suo regime di suprematismo razziale è una forma corretta di liberazione nazionale, e probabilmente gli Stati Uniti saranno l’ultima tessera a cadere come fu nel caso della lotta contro l’apartheid in Sud Africa.

Noura Erekat è avvocatessa per i diritti umani e docente associata dell’università Rutgers [prestigiosa università statunitense, ndtr.]. È autrice di “Justice for Some: Law and the Question of Palestine” [Giustizia per qualcuno: la legge e la questione della Palestina].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)