Gli Stati Uniti sono finalmente usciti allo scoperto

di Gideon Levy – 18 dicembre 2016,  Haaretz

In seguito alla designazione di un rappresentante favorevole alle colonie, l’inganno è finito: gli Stati Uniti non saranno più in grado di sostenere di essere un mediatore imparziale nel conflitto israelo-palestinese | Opinione

Il presidente eletto Donald Trump ha deciso di nominare ambasciatore in Israele un avvocato anti-israeliano e razzista. Che è, naturalmente, una sua prerogativa. Lo scorso giovedì, con la nomina di David Friedman, gli Stati Uniti sono usciti allo scoperto. D’ora in poi appoggiano ufficialmente la costituzione di uno Stato israeliano dell’apartheid tra il mare Mediterraneo e il fiume Giordano.

Friedman non è il primo ambasciatore ebreo in Israele – una questione che ha sempre sollevato domande sulla doppia lealtà – ma è il primo sostenitore dichiarato delle colonie a ricoprire questo incarico. Il suo predecessore, Dan Shapiro, era anche lui favorevole alle colonie, come tutti gli ambasciatori prima di lui – rappresentanti di governi che avrebbero potuto bloccare il progetto di colonizzazione ma non hanno mosso un dito per farlo, ed anzi lo hanno finanziato.

Ma ora abbiamo un ambasciatore che ha anche contribuito di tasca propria alla spoliazione.

Questo cambiamento rappresenta la fine delle ridicole denunce da parte del Dipartimento di Stato USA, che Israele ha sempre ignorato. Non più auto diplomatiche nere dopo la costruzione di ogni nuovo balcone nei territori occupati. D’ora in poi abbiamo un ambasciatore che sarà addolorato per l’evacuazione dell’avamposto di Amona [illegale anche in base alle leggi israeliane e di cui la Corte Suprema israeliana ha deciso l’evacuazione. Ndtr.] e che parteciperà alle cerimonie per la posa della prima pietra in ogni nuova colonia.

Ciò implica il fatto che gli Stati Uniti non potranno più sostenere di essere un mediatore imparziale. Non lo sono mai stati, ma ora la maschera è caduta. Da questo punto di vista, la nomina di Friedman è buona e giusta. I palestinesi, gli europei ed il resto del mondo lo sappiano: l’America è favorevole all’occupazione. Basta inganni.

Friedman è un anti-israeliano, come chiunque altro incoraggi Israele a intensificare l’occupazione. Friedman è un razzista, come chiunque altro spinga per uno Stato dell’apartheid. E’ anche antidemocratico e maccartista (avendo detto che i sostenitori di J Street [organizzazione di ebrei USA moderatamente critici con Israele. Ndtr.] sono “molto peggio dei kapo” [internati nei lager che collaboravano con i nazisti. Ndtr.]) – e già ne abbiamo abbastanza tra noi. Friedman li incoraggerà, ed anche in questo egli è palesemente anti-israeliano.

Ma Friedman non è un iscritto al partito di estrema destra Tekuma [partito dei coloni fondamentalisti. Ndtr.], né, per quanto ne sappiamo, del movimento anti-assimilazionista Lehava. Friedman sta per diventare il rappresentante del governo USA in Israele. Ci deve risposte ad una serie di domande – analogamente al Senato, che deve approvare la sua nomina.

Il governo USA ed il Senato sono consci della portata delle opinioni del nuovo ambasciatore? Comprendono che è favorevole all’istituzione di uno Stato dell’apartheid sostenuto e finanziato dal Paese leader del mondo libero? Perché chiunque, come Friedman, si opponga alla soluzione dei due Stati sostiene l’unica alternativa, che è uno Stato unico e, nel caso di Friedman, uno Stato dell’apartheid. E’ così che vogliono apparire gli Stati Uniti, persino gli Stati Uniti di Trump?

Gli israeliani di destra che sostengono l’annessione – e ce ne sono molti – possono velare il loro progetto dietro una fitta nebbia che nasconde il suo reale significato. Ma non è il caso del rappresentante del Paese più potente al mondo.

L’ambasciatore designato ci deve delle spiegazioni. Quando dici annessione, cosa intendi? Quando contribuisci economicamente alla colonia di Beit El, sai che per la maggior parte è costruita su terre private rubate ai palestinesi? Cosa dirà il Senato della tua complicità in un crimine? Quale sarà il destino degli abitanti autoctoni dei territori occupati, che sono ciò che rimane della loro terra rubata? Se tu parli di democrazia e uguaglianza per tutti, nello spirito della costituzione americana, allora avremo uno Stato binazionale, ugualitario e giusto – a cui, purtroppo, quasi ogni israeliano si oppone.

Tuttavia non è quello a cui ti riferisci. La tua annessione significa la perpetuazione dello status di padroni della terra ed espropriati, un regime di separazione che il mondo progressista chiama apartheid.

Sua eccellenza, presumibile ambasciatore, lei ci deve delle risposte. Anche quelli a Washington che la mandano qui ci devono delle risposte. Considerate i palestinesi come esseri umani con gli stessi diritti di cui godono gli ebrei in Terra di Israele? Vi pare che lo Stato vostro alleato agisca in modo giusto? Lo vedete come uno Stato che rispetta le leggi internazionali? Pensate che spingendolo avanti in una direzione nazionalista gli fate un favore? L’appoggio ad uno Stato dell’apartheid è utile agli interessi americani? Ciò riflette i valori dichiarati dall’America? In breve, state con noi o con i nostri avversari?

(traduzione di Amedeo Rossi)




Lettera aperta a ‘Invest in Peace’: prima della pace viene la libertà

A settembre del 2016 il Freedom Theatre è stato contattato da ‘Invest in Peace’, un’iniziativa statunitense impegnata nel “creare partnerships economiche e da popolo a popolo tra palestinesi ed israeliani”, come riporta il suo sito web.

Invest in Peace’ si oppone al movimento BDS, di cui il Freedom Theatre è un forte sostenitore. ‘Invest in Peace’ ha scritto per informarci che la nostra organizzazione era stata prescelta per essere inserita nel suo sito web. Noi abbiamo risposto il 21 settembre declinando l’offerta e spiegandone il motivo. Non vi sono state ulteriori comunicazioni da parte di ‘Invest in Peace’.

Freedom Theatre

Questa la nostra risposta:

Cari membri del team di ‘Invest in Peace’

Ci fa piacere leggere che apprezzate il lavoro del Freedom Theatre e che intendete utilizzare la vostra piattaforma per promuovere il nostro lavoro. Noi investiamo nella pace e crediamo in un futuro condiviso tra tutte le persone che amano la pace nella nostra regione. Però crediamo che prima della pace venga la libertà.

Purtroppo nell’attuale situazione, in cui i palestinesi sono sottoposti ad una combinazione di occupazione, apartheid e colonialismo, noi crediamo che prima di ogni altra cosa debbano cessare l’occupazione, l’apartheid ed il colonialismo. La coesistenza e la riconciliazione possono darsi solo tra eguali, non tra occupante ed occupato, o tra oppressore ed oppresso. Ciò di cui crediamo ci sia bisogno adesso è un movimento forte ed unitario che chieda la fine dell’occupazione israeliana, dell’apartheid e del colonialismo e che gli stessi criteri giuridici vengano applicati a tutti i cittadini della terra santa attualmente presenti ed a quelli che ne sono stati espulsi. Solo allora potremo impegnarci in un percorso verso la riconciliazione.

Se gli appelli alla riconciliazione e alla coesistenza vengono fatti prima che siano stabilite la giustizia e l’eguaglianza, temiamo che possano venire usati per alimentare la diffusa ed errata percezione della situazione politica come un conflitto tra due parti uguali, o addirittura tra due nazioni indipendenti, piuttosto che ciò che veramente è: un’occupazione militare della terra e della sovranità della Palestina.

Inoltre noi pensiamo che uno dei più forti movimenti che unifica la società civile palestinese (dimostrando al tempo stesso il potere della non-violenza) e crea una vera partnership tra attivisti israeliani e palestinesi contro l’occupazione, sia il movimento BDS. Il Freedom Theatre, insieme alla grande maggioranza dei palestinesi impegnati nell’ambito artistico, appoggia fermamente il boicottaggio culturale, così come formulato dalla PACBI (http://pacbi.org).

Per quanto noi rispettiamo il lavoro di alcune delle organizzazioni che promuovete sul vostro sito web, e per quanto il Freedom Theatre investa con tutto sé stesso nella pace, non possiamo approvare una terminologia che può essere intesa nel senso di mettere sullo stesso piano l’occupante e l’occupato, evitando di prendere una netta posizione a favore del diritto internazionale e delle molte risoluzioni ONU che chiedono la fine dell’occupazione, il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, Gerusalemme est come capitale di un futuro stato palestinese, ecc. Crediamo che si possa veramente investire nella pace se si ascoltano gli oppressi e non abbiamo la sensazione che il linguaggio da voi usato rappresenti la voce della società civile palestinese.

Saremmo felici di collaborare con voi per riformulare i vostri obiettivi e il vostro punto di vista, in modo che riflettano i desideri della società civile palestinese, e quindi creare una piattaforma su cui gli attivisti israeliani, come anche i fautori statunitensi di una pace giusta, possano unirsi a noi in una lotta comune contro l’occupazione, l’apartheid ed il colonialismo e per un futuro in cui possiamo vivere insieme in vera pace ed uguaglianza.

Distinti saluti

Il Freedom Theatre

(Traduzione di Cristiana Cavagna per BDS Italia)




Soluzione dei due Stati e razzismo israeliano

Il sostegno israeliano ad una soluzione dei due stati basata sul razzismo

Ben White

 

Middle East Eye – Lunedì 19 settembre 2016

 

Quello che unisce i sostenitori irriducibili del colonialismo di insediamento sionista è semplice: il razzismo contro i palestinesi.

La scorsa settimana “The Guardian” [giornale inglese di centro-sinistra. Ndtr.] ha pubblicato la recensione scritta da Nick Cohen di un nuovo libro intitolato “Il problema della sinistra con gli ebrei”. La recensione di Cohen era abbastanza prevedibile, e il libro in sé, scritto da Dave Rich del  “Community Security Trust” [gruppo di autodifesa ebraico sospettato di rapporti con i servizi di sicurezza israeliani. Ndtr.] non è il fulcro di questo editoriale.

Piuttosto, voglio richiamare l’attenzione su una breve citazione della recensione di Cohen, che è istruttiva per quello che evidenzia dell’attuale dibattito su antisemitismo e sinistra, così come su domande più generali su  sionismo, anti- sionismo e sulla continua lotta dei palestinesi per l’autodeterminazione.

In un articolo breve, Cohen dedica parecchio spazio a una definizione parodistica dell’anti-sionismo. Egli scrive:

A partire dagli anni ’70, gli oppositori di Israele hanno dovuto decidere se l’anti-sionismo significasse una realizzazione dei diritti nazionali dei palestinesi attraverso la soluzione dei due Stati, che riconosce che la Palestina era il fulcro dei nazionalismi ebreo ed arabo in conflitto, o se gli richiedesse un appoggio a una guerra mortale, che avrebbe portato ad uno Stato puro dal punto di vista etnico e (con il sorgere del fondamentalismo sunnita) religioso.

Qui Cohen elabora la sua fondamentale alternativa falsa tra una soluzione dei due Stati che preservi Israele come “Stato ebraico” o un unico Stato “puramente sunnita”.

Che dire allora di uno Stato unico, democratico e decolonizzato? Sembrerebbe che Nick Cohen non pensi che i palestinesi siano abbastanza “civilizzati” per questo.

Nessun diritto al ritorno

Naturalmente, come ha sempre scritto, Cohen è assolutamente contrario al ritorno dei profughi palestinesi a casa. Perché? Sulla base del fatto che “distruggerebbero (Israele) in quanto Stato ebraico.” Il che ci porta alla domanda: chi sta effettivamente difendendo qui l’idea di uno “Stato etnicamente…puro”?

Questo tipo di proiezione da parte dei sostenitori di Israele è particolarmente evidente quando il discorso verte sull’idea di una soluzione di uno Stato unico democratico.

“I palestinesi vorrebbero buttare fuori gli ebrei!” sostengono i sostenitori di uno Stato creato attraverso la pulizia etnica, e che continua a praticarla anche adesso.

“Gli ebrei sarebbero cittadini di serie B!” dicono i sostenitori di uno Stato in cui i cittadini palestinesi affrontano una disuguaglianza sistematica, e le cui forze armate tengono milioni di palestinesi senza Stato sotto un regime militare ancora più esplicitamente discriminatorio.

L’argomentazione di Cohen mi ha ricordato le obiezioni di Yiftah Curiel, portavoce dell’ambasciata israeliana, durante un dibattito dell’inizio di quest’anno all’università di Oxford: “L’obiettivo di uno Stato unico,” ha detto, “è già stato sperimentato, e si chiama Siria.”

Da dove cominciare a descrivere le differenze che rendono un simile paragone quanto meno superficiale e semplicistico? Al peggio, si tratta di semplice razzismo: l’assunto implicito – o non tanto implicito, nel caso di Cohen – è che gli arabi sono incompatibili con una democrazia.

Una compagnia preoccupante

La difesa da parte di Cohen dell’attuale pulizia etnica con l’evocazione di un’ipotetica, futura pulizia etnica non è l’unico esempio di proiezione. Forse il suo prediletto argomento centrale da demolire è quello che vede una causa comune tra “sinistra”, o “progressisti”, e “sostenitori della “Fratellanza Musulmana”.

Eppure è  Cohen, in quanto si autodefinisce “liberal”, che si ritrova in allarmante compagnia quando arriva a difendere l’etnocrazia di Israele.

Per esempio, la scorsa settimana il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, residente in una colonia e capo del partito ultra-nazionalista Yisrael Beiteinu, ha parlato agli studenti nell’università di Ariel (situata all’interno della Cisgiordania) ed ha ripetuto il suo ben noto sostegno ad uno scambio di popolazione e terra tra coloni e cittadini palestinesi di Israele.

Perché? Bene, come lo ha definito Lieberman, è inaccettabile per i coloni ebrei essere spostati dalla Cisgiordania con un accordo di pace, per poi lasciare Israele con tutti quei cittadini palestinesi che distruggono la demografia di uno “Stato ebraico”.

“Abbas non vuole neanche un ebreo sul suo territorio mentre da noi ci si aspetta che diventiamo uno Stato bi-nazionale,” ha detto.

Questa avversione per il “bi-nazionalismo”, o anche per ogni soluzione in cui la “maggioranza ebraica” artificialmente e violentemente creata non sia protetta da un muro (gioco di parole) e garantita per sempre, è un punto di vista condiviso da tutti, da Lieberman fino a gente come la politica dell’opposizione israeliana Tzipi Livni.

Per Livni “pace e due Stati per due popoli” è “un imperativo”, in modo da  “evitare il problema statistico demografico che i palestinesi superino il numero degli israeliani,” e per “preservare l’ebraicità del modello di Israele come Stato ebraico e democratico.”

O, come Livni ha detto una volta agli studenti di una scuola di Tel Aviv, “una volta creato uno Stato palestinese”,  lei potrebbe guardarsi in giro e dire ai cittadini palestinesi di Israele: “La soluzione nazionale per voi è altrove.”

Nick Cohen annuirebbe in segno di approvazione. Perché quello che unisce i difensori incondizionali del colonialismo di insediamento sionista, che siano “liberal” o “falchi”, e indipendentemente dalle loro opinioni su qualunque altra questione, è semplice:  il razzismo anti-palestinese.

Ben White è l’autore di “Aparthied israeliano: una guida per principianti” e “Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia.” Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian’s Comment is free ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il veterano della lotta contro l’apartheid Ronnie Kasrils dice di resistere agli sforzi di mettere fuorilegge il BDS

Article 1 Collective

8 giugno, 2016

Door Adri Nieuwhof

Il veterano della lotta contro l’apartheid Ronnie Kasrils ritiene che i tentativi per mettere fuorilegge il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele siano “assolutamente assurdi” e che i militanti dovrebbero opporsi a tali tentativi.

Lo scorso mese ho intervistato Kasrils sulle sue opinioni in merito al BDS e all’apartheid durante la sua visita ad Amsterdam.

Per decenni Kasrils ha lottato contro l’apartheid come membro dell’African National Congress (ANC) [il partito sudafricano di Nelson Mandela. Ndtr.] e del Partito Comunista. Ha partecipato ad operazioni dell’ala militare dell’ANC, Umkhonto we Sizwe [letteralmente “Lancia della Nazione. ndtr.]. Dopo la caduta dell’apartheid, è stato deputato e vice-ministro in molti governi.

Kasrils è nato a Johannesburg nel 1938, nipote di ebrei lituani e lettoni immigrati in Sudafrica alla fine del XIX° secolo per sfuggire ai pogrom zaristi.

Il BDS ha contribuito al cambiamento

“Ha funzionato a meraviglia,” risponde subito Kasrils alla mia domanda se il BDS contro l’apartheid sudafricano sia stato efficace.

“Il BDS ha fatto arrabbiare moltissimo i bianchi in Sudafrica. Ma con il BDS li avete sfiancati. Si è arrivati al punto che non ne potevano più e allora hanno desiderato un cambiamento.”

Un membro del Partito Nazionale [sudafricano, partito nazionalista di destra sostenitore dell’apartheid. Ndtr.] al governo disse a Kasrils che la decisione di Barclays [grande banca britannica. Ndtr.] di lasciare il Sudafrica nel 1988, dopo una presenza di oltre 150 anni, “è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.” Ricorda che l’attivismo internazionale del BDS cominciò con un boicottaggio di frutta sudafricana come le arance Outspan, l’uva e le mele da parte dei consumatori. Negli anni ’70 Peter Hain in Gran Bretagna iniziò a interrompere manifestazioni sportive. Con un gruppo scese sul campo di tennis a Bristol e bloccò la squadra sudafricana. “Si è diffuso a macchia d’olio ed ha raggiunto altri Paesi.” Il boicottaggio era aperto a interpretazioni creative e diventò un modo importante di comunicare e di coinvolgere la gente.

Allora fondi pensione delle chiese e dei sindacati in tutto il mondo iniziarono a disinvestire dalle imprese sudafricane o da quelle che investivano in Sudafrica. Ciò ebbe un grande effetto.

Nel 1985 in America i lavoratori della Kodak si resero conto fino a che punto i sudafricani neri stessero soffrendo. Gli afro-americani divennero determinanti nella mobilitazione anti-apartheid. Attraverso i loro senatori e deputati al Congresso, la lobby nera iniziò ad esercitare pesanti pressioni contro imprese e banche. La Chase Manhattan fu la prima banca a interrompere i rapporti con il Sudafrica.

Proibire il BDS è assurdo

Kasrils afferma di sostenere al cento per cento l’attivismo BDS contro Israele. Aggiunge che bisogna resistere ai tentativi di metterlo fuorilegge negli Stati Uniti, in Canada, in Francia e nel Regno Unito.

“E’ totalmente assurdo che i governi utilizzino la legge per negare il diritto di parola della gente che crede che il BDS sia un mezzo pacifico per fornire appoggio e solidarietà al popolo palestinese.”

“Quei governi dovrebbero appoggiare l’intero processo. Allora ci sarebbe una grande tranquillità e pace per il popolo in Palestina, in Israele e in tutto il Medio oriente. Israele è una potenza nucleare con un numero considerevole di bombe nucleari e con estremisti di destra al potere. La popolazione sta chiedendo sangue, non solo quello palestinese ma anche dei popoli della regione e di persone come Omar Barghouti, che sta semplicemente parlando del diritto al BDS.”

“Israele è un Paese che sta mostrando le peggiori forme di ingiustizia, di massacri che abbiamo visto da molto tempo. Paesi che, detto per inciso, sono spesso definiti fascisti.”

Peggio dell’apartheid

Kasrils ha visitato Israele e Palestina varie volte. Quando gli ho chiesto delle sue esperienze, mi ha risposto: “Ci sono sicuramente delle somiglianze.” Nel 1984 il Consiglio di Sicurezza appoggiò la definizione adottata dall’Assemblea Generale nel 1966, secondo cui l’apartheid è un crimine contro l’umanità. La “Convenzione sull’Apartheid” non parla di “apartheid sudafricano”, è più ampia, osserva Kasrils.

La definizione di apartheid parla di azioni inumane commesse con lo scopo di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale su un altro e di opprimerlo sistematicamente. Si deve applicare quella definizione per stabilire se Israele sta praticando l’apartheid.

Qualunque sudafricano che sia stato coinvolto nella lotta per la libertà e che abbia visitato Palestina e Israele dice: “Questo è proprio come l’apartheid,” continua Kasrils. “La separazione delle persone, le misure applicate, quelle code ai checkpoint, l’umiliazione, sono come l’apartheid.”

L’arcivescovo Desmond Tutu e molte altre persone dicono che è addirittura peggio dell’apartheid.

“Raramente abbiamo visto l’apartheid lanciare bombe sulla gente o entrare nelle township [i ghetti per i sudafricani neri. Ndtr.] con carri armati e sparare con artiglieria pesante come a Gaza. In Sudafrica abbiamo visto massacri atroci e ci sono state occasioni in cui è stato dichiarato lo stato d’emergenza, il movimento dei neri controllato, lo stato d’assedio in township come Soweto. Durava qualche settimana. Non per anni come in Cisgiordania o a Gaza,” ricorda Kasrils.

Ci sarà un cambiamento

Molti dubitano che Israele cambierà e che rispetterà i diritti del popolo palestinese.

Tuttavia Kasrils è sicuro che questo cambierà: “Israele è un esempio di ultimo Stato coloniale, ha portato via la terra al popolo palestinese, lo ha spogliato di terra e diritti, ha utilizzato i metodi più terribili durante tutta la sua storia. Noi sudafricani abbiamo attraversato un processo agonizzante sotto l’apartheid. Capiamo quello che sta succedendo al popolo palestinese. Noi siamo totalmente solidali e chiediamo ai governi di rispettare le risoluzioni dell’ONU. Ciò significa: la fine dell’occupazione, la fine dell’assedio di Gaza, il diritto al ritorno dei rifugiati. L’unico modo in cui gli ebrei di Israele possono avere la garanzia di vivere in sicurezza è riconoscendo i diritti degli altri esseri umani, il popolo palestinese.”

C’è stato un tempo in cui la gente sentiva che non ci sarebbe stata una fine dell’apartheid in Sudafrica, prosegue Kasrils. Lo Stato dei bianchi era molto forte. Aveva molte risorse ed era appoggiato dall’Occidente, compresi gli stessi Paesi che oggi stanno appoggiando Israele.

E’ stato sconfitto, perché la gente in Sudafrica era decisa. Per ottenere un cambiamento ci vogliono unità, determinazione, buoni dirigenti, la strategia corretta, una visione per il futuro. Alla fine, l’esito per una giusta causa è certo, non importa quanto tempo ci vorrà. Il Sudafrica lo dimostra.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




E’ tempo di porre fine alla “hasbarà”: i media palestinesi e la ricerca di una narrazione comune

Ma’an News – 24 maggio 2016

di Ramzy Baroud

Il solo fatto di essere insieme a centinaia di giornalisti palestinesi e ad altri professionisti dei media di ogni parte del mondo è stata un’esperienza edificante.

Per molti anni i media palestinesi sono stati sulla difensiva, incapaci di articolare un messaggio coerente, lacerati tra fazioni e cercando disperatamente di contrastare la campagna mediatica israeliana, con le sue falsificazioni e l’instancabile propaganda, o “hasbarà”.

E’ ancora troppo presto per affermare che ci sia stato un qualche cambiamento di paradigma, ma la seconda conferenza di Tawasol a Istanbul, che ha avuto luogo il 18 e 19 maggio, è servita come un’opportunità per prendere in considerazione un vasto cambiamento del panorama mediatico e di mettere in luce le sfide e le opportunità che i palestinesi devono affrontare nella loro ardua lotta.

Non solo ci si aspetta che i palestinesi demoliscano anni ed anni di disinformazione israeliana, imperniata su un discorso storico irreale che è stato venduto al resto del mondo come un fatto, ma anche che costruiscano una propria lucida narrazione che sia libera dai capricci di fazione e da vantaggi personali.

Ovviamente non sarà facile.

Il mio messaggio alla conferenza “La Palestina nei media”, organizzata dal “Forum Internazionale della Palestina per i Media e la Comunicazione” è che, se la dirigenza palestinese non è capace di raggiungere l’unità politica, almeno gli intellettuali palestinesi devono insistere nell’unificare la loro narrazione. Persino il più disposto al compromesso tra i palestinesi può essere d’accordo sulla centralità della Nakba, della pulizia etnica dei palestinesi e della distruzione dei loro villaggi e città nel 1947-48.

Possono, e devono, anche concordare sull’atrocità e sulla violenza dell’occupazione; sulla disumanizzazione ai chekpoint militari; sulla sempre maggiore riduzione degli spazi in Cisgiordania come risultato delle colonie illegali e della colonizzazione di quanto rimane della Palestina; sul soffocante dominio nella Gerusalemme occupata; sull’ingiustizia dell’assedio a Gaza; sulle guerre unilaterali contro la Striscia di Gaza che hanno ucciso più di 4.000 persone, per la maggior parte civili, nel corso di sette anni – e molto altro.

Il professor Nashaat al-Aqtash dell’università di Birzeit, forse più realisticamente, ha ridotto ulteriormente le speranze. “Se potessimo anche solo essere d’accordo su come presentare la narrazione riguardo ad Al-Quds (Gerusalemme) e alle colonie illegali, almeno sarebbe un inizio,” ha detto.

Il fatto ovvio è che i palestinesi hanno più cose in comune di quante ne vorrebbero ammettere. Sono stati vittime delle stesse circostanze, lottato contro la stessa occupazione, sofferto le stesse violazioni dei diritti umani e devono affrontare le stesse conseguenze future determinate dallo stesso conflitto. Tuttavia, molti sono stranamente incapaci di liberarsi dalle loro affiliazioni di fazione, di carattere tribale.

Naturalmente non c’è niente di male nell’avere orientamenti ideologici e nell’appoggiare un partito politico piuttosto che un altro. Tuttavia ciò determina una crisi morale quando le affiliazioni di parte diventano più forti di quelle con la lotta collettiva e nazionale per la libertà. Tristemente, molti sono ancora intrappolati in questa logica.

Ma le cose stanno anche cambiando; succede sempre. Dopo oltre due decenni di fallimenti del cosiddetto “processo di pace” e il rapido incremento della colonizzazione dei territori occupati, oltre all’estrema violenza utilizzata per raggiungere questi risultati, molti palestinesi si stanno finalmente rendendo conto di questi tristi fatti. Non ci può essere libertà per il popolo palestinese senza unità e senza resistenza.

Resistenza non deve necessariamente significare un fucile e un coltello, ma piuttosto l’utilizzazione delle energie di una nazione, in patria e nella “shatat” (diaspora), insieme alla mobilitazione delle comunità in tutto il mondo a favore della giustizia e della pace. Ci dev’essere al più presto un movimento in cui i palestinesi dichiarino una lotta globale contro l’apartheid, coinvolgendo tutti i palestinesi, la loro dirigenza, le fazioni, la società civile e le comunità ovunque. Devono parlare con una sola voce, dichiarare un solo obiettivo e formulare le stesse richieste, continuamente.

E’ sconcertante rendersi conto che una nazione così offesa per tanto tempo sia stata così incompresa, mentre i responsabili sono largamente assolti e visti come vittime. A un certo punto, alla fine degli anni ’50, il primo ministro israeliano David Ben Gurion si è reso conto della necessità di unificare la narrazione sionista riguardo alla conquista ed alla pulizia etnica della Palestina.

Secondo le rivelazioni del giornale israeliano” Haaretz”, Ben Gurion temeva che la crisi dei rifugiati palestinesi non si sarebbe risolta senza un sistematico messaggio israeliano secondo cui i palestinesi avevano abbandonato la loro terra di loro spontanea volontà, seguendo le direttive di vari governi arabi.

Naturalmente anche questo era un’invenzione, ma molte supposte verità nascono da una sola menzogna. Egli diede incarico ad un gruppo di accademici di presentare la storia assolutamente falsificata, ma coerente, sull’esodo dei palestinesi. Il risultato fu il documento Doc GL-18/17028 del 1961. Quel documento, da allora, è servito come pietra angolare dell’ “hasbarà” israeliana relativa alla pulizia etnica della Palestina. I palestinesi se ne andarono e non furono cacciati, era il punto cruciale del messaggio. Israele ha continuato a ripetere questa menzogna per oltre 55 anni e, ovviamente, molti gli hanno creduto.

Finché solo recentemente, grazie agli sforzi di un crescente gruppo di storici palestinesi – e di coraggiosi israeliani – che hanno smentito la propaganda, una narrazione palestinese sta prendendo forma, benché molto ci sia ancora da fare per controbilanciare il danno che è già stato fatto.

Infatti, una reale vittoria della verità ci sarà soltanto quando la narrazione palestinese non sarà più vista come una “contro-narrazione”, ma come una legittima storia autonoma, libera dai limiti di un atteggiamento difensivo e dal peso di una storia carica di menzogne e di mezze verità.

L’unico modo in cui lo vedo realizzabile è quando gli intellettuali palestinesi dedicano più tempo e sforzi nello studio e nel racconto di una “storia popolare” della Palestina, che possa finalmente umanizzare il popolo palestinese e sfidare la percezione polarizzata dei palestinesi come terroristi o eterne vittime. Quando la persona comune diventa il centro nella storia, i risultati sono più pregnanti, efficaci e incisivi.

La stessa logica può essere applicata anche al giornalismo. Oltre a trovare le loro vicende comuni, i giornalisti palestinesi devono raggiungere il mondo intero, non solo il loro tradizionale circolo di amici e sostenitori affezionati, ma la società nel suo complesso. Se la gente comprende veramente la verità, soprattutto da un punto di vista umano, non può certo appoggiare il genocidio e la pulizia etnica.

E con “il mondo intero” non mi riferisco certo a Londra, Parigi e New York, ma all’Africa, al Sud America, all’Asia e a tutto il Sud del mondo. Le nazioni di quell’emisfero possono comprendere pienamente la sofferenza e l’ingiustizia dell’occupazione militare, della colonizzazione, dell’imperialismo e dell’apartheid. Temo che l’importanza attribuita alla necessità di contrastare la “hasbarà” israeliana in Occidente abbia portato a destinare una sproporzionata quantità di risorse ed energie in pochi luoghi, ignorando al contempo il resto del mondo, il cui appoggio è stato a lungo la spina dorsale della solidarietà internazionale. Non deve essere data per scontata.

Tuttavia la buona notizia è che i palestinesi hanno fatto notevoli progressi nella giusta direzione, benché senza il riconoscimento della dirigenza palestinese. La cosa fondamentale ora è la capacità di unificare, dare forma e costruire sugli sforzi esistenti in modo che tale crescente solidarietà si trasformi in un grande successo nel suscitare una consapevolezza globale e rendere Israele responsabile dell’occupazione e della violazione dei diritti umani.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il divieto del boicottaggio contro Israele

di Oliver Wright

The Independent

 

Evitare i prodotti israeliani potrebbe diventare un reato penale per enti pubblici e organizzazioni studentesche.

I critici sostengono che si tratterebbe di un “gravissimo attacco alle libertà democratiche”

A consigli comunali, enti pubblici e persino ad alcune organizzazioni studentesche sarà vietato dalla

legge boicottare imprese “non etiche”, come parte di un controverso giro di vite che sta per essere annunciato dal governo.

In base a questo progetto tutte le istituzioni pubbliche perderanno la libertà di rifiutarsi di comprare beni e servizi da imprese coinvolte nel commercio di armi, combustibili fossili, tabacco o nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.

Qualunque ente pubblico continui ad attuare boicottaggi incorrerà in “pene severe”, hanno affermato alcuni ministri.

Autorevoli fonti del governo hanno detto che prenderanno seri provvedimenti contro il boicottaggio da parte dei consigli locali perché esso “ha compromesso le buone relazioni nella comunità, ha avvelenato e polarizzato il dibattito ed ha alimentato l’antisemitismo.”

Ma i critici affermano che questo passo rappresenta un “gravissimo attacco contro le libertà democratiche.”

Un portavoce del leader laburista Jeremy Corbyn ha affermato: “La decisione del governo di impedire a consigli comunali ed altri enti pubblici di dissociarsi dal commercio o dagli investimenti che non considerano etici è un attacco alla democrazia a livello locale.

“Il popolo ha il diritto di eleggere rappresentanti locali che siano in grado di prendere decisioni libere dal controllo politico del governo centrale. Ciò include la revoca di investimenti o appalti sulla base di principi etici e dei diritti umani.”

Il conflitto israelo-palestinese si intensifica

“Questo divieto da parte del governo avrebbe messo fuori legge le azioni delle amministrazioni locali contro l’apartheid in Sudafrica. I ministri parlano di decentramento, ma in pratica stanno imponendo le politiche del partito Conservatore in generale ai consigli comunali eletti localmente.”

Significativamente, ed evidenziando il principale obbiettivo del divieto, l’annuncio formale sarà fatto questa settimana dal ministro di Gabinetto Matt Hancock durante la sua visita in Israele.

Nel passato imprese israeliane, insieme ad altre ditte che hanno fatto investimenti nella Cisgiordania occupata, sono state tra quelle prese di mira dal boicottaggio non ufficiale.

Nel 2014 il consiglio comunale di Leicester ha approvato una politica di boicottaggio di beni prodotti nelle colonie israeliane in Cisgiordania, mentre il governo scozzese ha pubblicato una nota sui bandi di gara per i comuni scozzesi nella quale “sconsiglia vivamente il commercio e gli investimenti con le colonie illegali.”

In base alle nuove norme tutti gli enti appaltanti, compresi i consigli comunali, gli enti parastatali e le università che ricevono la maggior parte dei propri fondi dal governo perderanno la libertà di prendere decisioni etiche riguardo a chi comprare beni e servizi. L’unica eccezione saranno le sanzioni decise dal governo centrale in tutto il Regno Unito. Fonti governative affermano che il divieto si potrebbe anche applicare al boicottaggio da parte delle organizzazioni studentesche, ma hanno aggiunto che si tratta di una “zona grigia”.

Una portavoce dell’Unione Nazionale degli Studenti ha affermato che sono “preoccupati di qualunque pressione esterna che potrebbe impedire alle organizzazioni studentesche di prendere decisioni su ogni questione che riguardi gli studenti che rappresentano.”

L’onorevole Hancock ha detto che l’attuale situazione, in base alla quale le autorità locali hanno l’autonomia di prendere decisioni etiche di acquisto, sta “ignorando” la sicurezza nazionale della Gran Bretagna.

“Dobbiamo sfidare e prevenire questi boicottaggi comunali che creano divisioni” ha detto.

“Le nuove linee guida sugli appalti, che si accompagnano a cambiamenti che stiamo facendo su come i fondi pensione possono essere investiti, aiuteranno a prevenire danni e inziative di politica estera in sede locale controproducenti che danneggiano la nostra sicurezza nazionale.”

Ma il responsabile del programma delle relazioni economiche in Gran Bretagna di Amnesty International ha condannato l’iniziativa, avvertendo che potrebbe incoraggiare le violazioni dei diritti umani. I conservatori sono stati accusati di aver chiuso gli occhi in passato sulle violazioni dei diritti umani da parte di Israele.

“Ogni ente pubblico dovrebbe verificare l’impatto sociale ed ambientale di ogni impresa con cui sceglie di entrare in rapporti commerciali,” ha affermato.

“Dov’è l’incentivo per le imprese a garantire che non ci siano violazioni dei diritti umani come rapporti di lavoro di tipo schiavistico nella propria catena di fornitori, quando gli enti pubblici non possono chiedere loro conto rifiutando di contrattarli?”

“Non avrà solo un pessimo effetto sugli enti locali contrattare imprese-canaglia, ma lo avrà anche sulle attività economiche responsabili, che rischiano di rimanere escluse a favore di quelle che hanno prassi scorrette.”

Hugh Lanning, presidente della Campagna di Solidarietà con la Palestina, ha condannato quest’iniziativa in quanto si tratta di “un gravissimo attacco alle nostre libertà democratiche e all’indipendenza degli enti pubblici dalle ingerenze del governo.” “Come se non fosse abbastanza grave che il governo della Gran Bretagna non abbia preso nessuna iniziativa quando il governo israeliano ha bombardato ed ucciso migliaia di civili palestinesi e ha rubato le loro case e la loro terra, il governo ora sta cercando di imporre la sua inazione a tutte le altre amministrazioni pubbliche,” ha detto.

“Ciò mette in chiaro da che parte sta il governo riguardo alle leggi internazionali ed ai diritti umani. Nonostante ammetta che l’occupazione israeliana e la negazione dei diritti dei palestinesi siano sbagliate e illegali, quando si tratta di agire il governo protegge Israele dalle conseguenze delle sue azioni. Pare che per questo governo britannico, qualunque siano i crimini commessi da Israele contro le leggi internazionali, avere un alleato militare sia più importante dei diritti dei suoi stessi cittadini e delle istituzioni di questo Paese a sostenere i diritti umani.”

Il contesto del boicottaggio: sanzioni non ufficiali

Lo scorso aprile la compagnia multinazionale francese Veolia, che si occupa di servizi idrici e dello smaltimento dei rifiuti – che si occupa della raccolta della spazzatura per un gran numero di Comuni britannici – ha annunciato che avrebbe interrotto la propria operatività in Israele.

La decisione ha fatto seguito ad una campagna organizzata per convincerla a porre fine alle sue attività nelle colonie della Cisgiordania, durante la quale l’amministrazione comunale di Birmingham, controllata dai laburisti, è stata almeno la terza ad avvertire Veolia che non avrebbe potuto rinnovare il suo contratto di 35 milioni di sterline [più di 45 milioni di euro. Ndtr.] all’anno per lo smaltimento dei rifiuti quando sarebbe scaduto nel 2019, se l’impresa avesse continuato ad operare nella Cisgiordania occupata.

Nel novembre 2014 il consiglio comunale di Leicester ha approvato una politica di boicottaggio dei beni prodotti nelle colonie israeliane della Cisgiordania. Gruppi ebraici hanno recentemente avviato un ricorso giudiziario contro la decisione del consiglio comunale, sostenendo che “ciò rappresenta un ordine di espulsione dalla città per gli ebrei di Leicester.”

Nell’agosto 2014 il governo scozzese ha reso pubblico un avviso relativo agli appalti, rivolto alle amministrazioni comunali scozzesi, che “sconsiglia vivamente commercio e investimenti dalle colonie illegali,” pur ammettendo che le decisioni debbano essere prese caso per caso. Quattro consigli locali scozzesi hanno deciso di boicottare i prodotti israeliani: Clackmannanshire, Midlothian, Stirling and West Dunbartonshire.

Lo scorso dicembre due amministrazioni gallesi sono tornate sui propri passi riguardo alla decisione di boicottare i prodotti israeliani, dopo che un procedimento giudiziario è stato avviato da Jewish Human Rights Watch [organizzazione che si oppone all’antisemitismo e al BDS. Ndtr.]. Il consiglio della contea di Gwynedd e quello comunale di Swansea hanno affermato che le mozioni non erano vincolanti, e comunque ora sono state abrogate.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La Lista Unitaria nelle elezioni israeliane: i palestinesi sono di nuovo in gioco?

Di Diana ButtuAs’ad GhanemNijmeh AliAl-Shabaka

11 marzo 2015

Sintesi

La Lista Unitaria lanciata il 14 febbraio 2015 da quattro partiti politici largamente rappresentativi dei cittadini palestinesi di Israele dovrebbe ottenere un numero di seggi sufficiente a rappresentare il terzo maggiore partito della Knesset [il parlamento israeliano]. Ma ciò potrà mettere in discussione lo status di cittadini di serie B dei palestinesi- israeliani?

Potrà impedire la rapida erosione dei diritti che ancora gli rimangono, se il razzismo apertamente dichiarato dall’attuale coalizione di destra al potere continuerà ad essere stabilito per legge? Ciò rappresenta la rinascita di un senso collettivo d’identità e d’azione? E’ tutto da valutare. Gli analisti di Al-Shabaka Diana Buttu, As’ad Ghanem e Nijmeh Ali, essi stessi cittadini palestinesi di Israele, sostengono diverse prospettive analizzando le sottostanti linee di faglia così come i problemi e le potenzialità della Lista Unitaria, indipendentemente da quelli che saranno i suoi risultati.

Diana Buttu: i partiti palestinesi si disintegreranno?

I palestinesi in Israele hanno a lungo parlato della necessità di una Lista Unitaria per rivendicare i loro diritti. Nonostante le differenze politiche tra i partiti socialista, nazionalista e islamico, essi non presentano divergenze riguardo ai diritti dei palestinesi in Israele: vogliono porre fine alle leggi razziste e all’occupazione militare dei territori palestinesi, e storicamente hanno votato allo stesso modo alla Knesset.

Tuttavia la coalizione non è stata formata per rispondere a una visione condivisa riguardo ai problemi che i palestinesi devono affrontare o alle richieste dell’opinione pubblica [palestinese]. Al contrario, la Lista Unitaria è stata creata come risposta ad altri due fattori. In primo luogo, la Knesset, con una mossa in seguito approvata dalla corte di giustizia, ha alzato la soglia di sbarramento dal 2% al 3,25%. Posti di fronte alla prospettiva di scomparire, era interesse di ogni partito formare una lista unica. In secondo luogo, c’è stato un calo nell’appoggio ai partiti politici palestinesi, non solo nell’affluenza alle urne per le elezioni nazionali: nemmeno uno dei partiti politici palestinesi è riuscito ad ottenere una vittoria nelle elezioni municipali benché a livello locale il tasso di votanti sia ancora alto.

Il calo nell’appoggio alla rappresentanza al parlamento israeliano è probabilmente il risultato della crescente convinzione che la presenza di partiti politici palestinesi legittimi le azioni della Knesset. Oltretutto si avanza la critica secondo cui i partiti politici non stanno promuovendo i diritti dei palestinesi in Israele né lottando contro il crescente razzismo nel Paese.

Anche se la Lista Unitaria dovesse imporsi come terzo o quarto partito alla Knesset, in base ai sondaggi, l’efficacia della lista rimarrebbe in dubbio. E’ opinione diffusa che avere più seggi alla Knesset implichi un maggior potere politico, sia partecipando ad una coalizione di governo che facendo parte di un’opposizione efficace. Tuttavia né il Campo Sionista [alleanza tra il Partito Laburista ed il partito centrista di Tzipi Livni, ex ministro di Netanyahu. N.d.tr.] – che ha appoggiato la revoca dei privilegi parlamentari [ Libertà di spostamento dal paese, passaporto diplomatico, sostegno finanziario per spese giudiziarie.  N.d.tr.] della dirigente politica palestinese Haneen Zoabi [parlamentare arabo-israeliana che ha partecipato alla Freeedom Flottilla. N.d.tr.]- né il Likud hanno alcun interesse nel formare una coalizione con la Lista Unitaria.

Allo stesso tempo non è nell’interesse della Lista Unitaria entrare a far parte di una coalizione con qualunque partito sionista, in quanto sostenitore della supremazia del sionismo e dei diritti degli ebrei al di là della nozione di uguaglianza e democrazia. Certo sarebbe impossibile per la lista far parte di una coalizione con partiti che appoggino leggi razziste, la colonizzazione della Cisgiordania, l’assedio e gli attacchi a Gaza, mentre dovrebbero supportare queste politiche come ministri di un governo o come alleati in una coalizione. Quindi i partiti che hanno formato la Lista Unitaria rischiano di rimanere quello che sono stati prima di unirsi: piccoli partiti che lottano contro il razzismo nel ventre della balena.

Inoltre i partiti politici palestinesi dovranno continuare a respingere l’ondata di disillusione nei confronti del sistema politico israeliano e la sensazione che esso serva semplicemente a legittimare il razzismo di Israele. Anche se la Lista Unitaria riuscisse ad portare ad un aumento dell’affluenza [dei cittadini arabo-israeliani] al voto in queste elezioni, dovrebbe anche lottare contro l’eventuale disintegrazione dei partiti che la compongono, se non potessero soddisfare le aspettative dei loro elettori nello sfidare le politiche dell’apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi che vivono in Israele e sotto l’occupazione militare [in Cisgiordania].

As’ad Ghanem: un’uscita dalla marginalità?

L’attivismo politico dei cittadini palestinesi in Israele è sempre stato inteso come sinonimo di soluzione del conflitto israelo-palestinese, di fine dell’occupazione dei territori palestinesi e di risoluzione della questione dei rifugiati. Questa convinzione è stata rafforzata dopo che sono stati firmati gli accordi di Oslo nel 1993 e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è stata fondata come nucleo politico per la transizione dall’occupazione alla creazione di uno Stato palestinese indipendente.

Da allora gli sviluppi – compresa la frattura all’interno del movimento nazionale palestinese, la fine di fatto della soluzione dei due Stati e il crescere dell’estremismo israeliano – sono stati accolti passivamente dagli gruppi politici palestinesi in Israele, che rimangono legati all’illusione di una soluzione politica per alleviare le loro difficoltà in quanto vittime del conflitto. In breve, accettano lo status subordinato di “giocatori di riserva” – nella migliore delle ipotesi – nel movimento nazionale palestinese.

Infatti la maggioranza dei dirigenti politici crede che le loro questioni interne [in Israele] siano secondarie nel contesto di una più ampia lotta palestinese. Accettano le palesi interferenze dei leader del movimento nazionale palestinese – persino su come utilizzare i loro voti in quanto cittadini israeliani per influire sui governanti israeliani. Un altro esempio della loro subordinazione riguarda l’accettazione dei finanziamenti dagli Stati arabi del Golfo. Cosa ancora più importante, accogliendo la soluzione dei due Stati – uno ebreo e l’altro arabo – come stabilito nel 1947 dal piano di ripartizione delle Nazioni Unite, hanno accettato di essere cittadini di serie B nello Stato ebraico.

L’accettazione della loro condizione di marginalità ha trovato la sua espressione nel programma elettorale della Lista Unitaria. Invece di fare uno sforzo per stilare un vero programma d’azione per lottare contro le attuali sfide che la comunità palestinese in Israele deve affrontare, la lista ha semplicemente fatto un copia-e- incolla delle posizioni dei partiti che ne fanno parte nelle scorse elezioni. In particolare il programma della Lista Unitaria appoggia la fine dell’occupazione e la formazione di uno Stato palestinese. Il preambolo dichiara che la lista “è stata formata per consolidare l’unità contro il razzismo e per potenziare il peso e l’influenza delle masse arabe e di tutte le forze contrarie all’occupazione ed al razzismo.” Non c’è una sola parola a proposito del ruolo dei palestinesi in Israele in quanto palestinesi. Al contrario, ci si focalizza sul loro ruolo in quanto israeliani. Ciò dimostra chiaramente che i partiti politici palestinesi accettano di essere i giocatori di riserva nel movimento nazionale palestinese.

Invece i successivi governi israeliani, soprattutto i due governi del primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno aiutato a spingere verso l’unità palestinese ponendo fine all’illusione della soluzione dei due Stati e promovendo l’ebraicità dello Stato. Infatti le posizioni di Netanyahu hanno fatto in modo di ricordarci che la nostra causa è radicata nelle conseguenze della guerra del 1948 che ha creato Israele sulla Palestina e non nell’occupazione iniziata nel 1967 come i dirigenti e l’elite palestinesi hanno voluto farci credere. Infatti il programma colonialista e fondamentalista dei vari governi israeliani evidenzia la necessità di trasformare l’azione nazionale palestinese in modo da affrontare le radici del problema piuttosto che le sue conseguenze, come viene fatto nel programma della Lista Unitaria.

Abbiamo bisogno di un cambiamento reale sia nella nostra comprensione del conflitto che nel ruolo dei palestinesi in Israele nel dare forma alla futura soluzione del conflitto. Un miglioramento delle condizioni dei palestinesi in Israele non sarà ottenuto dall’illusoria soluzione dei due Stati. La soluzione della questione palestinese dipende piuttosto dall’abilità dei palestinesi in Israele nell’articolare il loro progetto come hanno fatto una volta nel 2007 con il Future Vision document [documento della “Visione del Futuro”, un rapporto pubblicato dal Comitato dei Sindaci Arabi in Israele, a cui hanno partecipato 40 noti studiosi ed attivisti e che chiedeva ad Israele di riconoscere i cittadini arabi come gruppo nativo con diritti collettivi, sostenendo che invece Israele discrimina i non ebrei in vario modo. N.d.tr.].

Questo documento ha riscosso un ampio consenso nazionale tra i palestinesi in Israele riguardo ai principali problemi politici che essi stessi devono affrontare, così come il loro ruolo nel forgiare una soluzione complessiva della questione palestinese. Solo facendo così i palestinesi in Israele possono passare da un ruolo politico marginale a uno centrale. Un tale ruolo potrebbe aiutare a portare Israele e il movimento nazionale palestinese ad un giusto accordo che affronti le conseguenze della Nakba (catastrofe) del 1948 invece di quelle dell’occupazione del 1967, senza lasciare eternamente i palestinesi in Israele ai margini dello “Stato ebraico”.

La Lista Unitaria avrebbe potuto essere coinvolta in questo progetto se [i suoi dirigenti] avessero lavorato seriamente come leader piuttosto che come politicanti che competono per un seggio alla Knesset. Ancora una volta abbiamo perso un’occasione per fare la nostra parte non solo come palestinesi, ma come punto di riferimento del popolo palestinese, confliggendo, senza questa assunzione di responsabilità, con il nostro ruolo nelle elezioni israeliane. Forse potremo cogliere questa opportunità nel futuro se saremo in grado di produrre leader che ci vedano come attori principali piuttosto che subordinati a Israele, all’ANP o a qualche altro regime arabo che ci fornisce denaro o avvalla slogan nazionalistici.

 

Nijmeh Ali: gli inizi di una svolta storica

I palestinesi in Israele discutono ancora animatamente sull’utilità di partecipare alle elezioni israeliane. Alcuni chiedono ancora il boicottaggio perché credono che partecipare [alle elezioni] legittimi e rafforzi la colonizzazione e l’occupazione israeliane. Altri hanno semplicemente perso la fiducia nella capacità del sistema politico di portare avanti un qualunque cambiamento: nel 2013 solo circa il 56% dei palestinesi in Israele ha partecipato alle elezioni.

Inoltre, il fatto che i palestinesi in Israele abbiano il diritto di partecipare alle elezioni non significa che riescano ad incidere sulle decisioni politiche israeliane. Il sistema politico israeliano esclude i partiti arabi. In altre parole, sono all’interno del gioco politico ma ancora fuori dal processo politico.

Quelli che sostengono la partecipazione sottolineano l’importanza di difendere i diritti dei palestinesi anche se comprendono la difficoltà di creare un reale cambiamento. Considerano la Knesset un mezzo non solo per ottenere diritti individuali ma anche per cercare il riconoscimento dei diritti collettivi dei palestinesi in quanto minoranza nazionale e popolo indigeno. Oltretutto vogliono sfidare la tendenza israeliana dominante “agitando le acque”.

Allo stesso tempo, molti palestinesi in Israele sono frustrati dalle lotte interne del passato. Sanno che, indipendentemente dalle loro convinzioni ideologiche – socialiste, nazionaliste o religiose – sono discriminati per il fatto di essere palestinesi. Questa sensazione è aumentata durante gli attacchi israeliani contro Gaza dell’estate 2014, quando i cittadini palestinesi di Israele si sono sentiti più minacciati che in qualunque altro momento, persino per strade, sugli autobus, all’università o sul posto di lavoro.

Contro questo contesto la Lista Unitaria è una diretta risposta alla destra israeliana, che intendeva spingere i partiti [palestinesi] fuori dell’arena politica alzanzo il quorum elettorale. Questa manovra può essere vista come un attacco contro un “trasferimento politico”, come effettivamente era, forse come preludio a un’espulsione fisica dei palestinesi. Sostituendo i partiti esistenti con “Arabi Buoni”, che siano membri dei partiti sionisti, la destra israeliana sarebbe stata in grado di presentare la “democrazia” di Israele senza sfidare l’egemonia sionista.

Avendo fallito in questo tentativo, la Destra israeliana sta ora cercando di screditare la Lista Unitaria mettendo in guardia contro la “minaccia araba” in Israele e insistendo nel definirla come una Lista Unitaria “araba”, come fa la maggior parte dei media, presentandola quindi come arabi contro ebrei. E’ importante sottolineare continuamente che la lista è ufficialmente unitaria e non araba e include ebrei non sionisti. Anche se la maggioranza dei votanti per questa lista saranno palestinesi in Israele, la lista vuole anche attirare elettori ebrei: ha lanciato la propria campagna sia in arabo che in ebraico.

La Lista Unitaria non cancellerà le differenze tra i partiti che la compongono né metterà fine all’aspro e incandescente dibattito tra i palestinesi in Israele su come la società palestinese si debba posizionare e presentare. Tuttavia evidenzia la lotta comune contro la discriminazione come contro l’occupazione, comune tra gli arabi palestinesi e le forze democratiche ebraiche. Insieme costituiscono un’alternativa democratica al campo ultranazionalista guidato da Netanyahu e al Campo Sionista di Isaac Herzog e Tzipi Livni.

La fiducia in una lotta collettiva è evidente nel programma politico della lista, che è basata su otto principi: contro l’occupazione e per una pace giusta; per l’uguaglianza nazionale e civile; contro il razzismo e il fascismo e per la democrazia; per la giustizia sociale ed ecologica e per i diritti dei lavoratori; contro l’oppressione delle donne e per il loro diritto a partecipare; per lo sviluppo della cultura, del linguaggio, dell’identità e dell’appartenenza a una nazione; contro il colonialismo; per l’eliminazione delle armi nucleari dal Medio Oriente.

La lista affronta due grandi sfide: l’incremento della percentuale di arabi che votano e avere successo nell’attrarre votanti ebrei. L’imperativo di lavorare insieme implica molti compromessi, ma è una potente tattica politica che ridefinirà il comportamento politico dei palestinesi in Israele, non solo durante queste elezioni ma anche in futuro.

La Lista Unitaria fornirà l’esperienza necessaria per la collaborazione in un ampio spettro di questioni a livello sia interno che esterno alla Knesset. Riporta il termine “collettivo” nel lessico politico dei palestinesi in Israele, una cosa contro cui i governi israeliani, sia di destra che di sinistra, hanno lottato fin dalla Nakba del 1948. In breve, è un avvenimento storico che ha la possibilità di realizzare cambiamenti sia nella politica interna dei palestinesi in Israele che in Israele stesso.

(traduzione di Amedeo Rossi)