La simbolica commemorazione della Nakba alle Nazioni Unite ha messo in luce il disprezzo di Israele per la verità

Ramona Wadi

16 maggio 2023 – MiddleEastMonitor

“L’idea che un’organizzazione internazionale possa definire la fondazione di uno dei suoi Stati membri come una catastrofe o una sciagura è sia scioccante che rivoltante”, ha scritto l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan chiedendo ai diplomatici delle Nazioni Unite di astenersi dal partecipare alla inedita commemorazione della Nakba del 1948 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. A dire il vero l’azione più disgustosa è stata l’accettazione nel 1948 da parte delle Nazioni Unite del progetto coloniale israeliano come Stato membro a spese della popolazione palestinese sottoposta a pulizia etnica, la cui terra era (e continua ad essere) usurpata e il cui legittimo diritto al ritorno alla propria terra è una condizione ancora non soddisfatta dell’adesione di Israele alle Nazioni Unite.

La commemorazione della Nakba, sebbene sia significativa, non è nulla in confronto alla complicità delle Nazioni Unite nel permettere a Israele di prosperare. Come possono le Nazioni Unite, potremmo chiederci, permettersi di commemorare la memoria storica palestinese quando non vi fanno alcun riferimento in termini di diritti politici del popolo palestinese, o del legittimo diritto di resistere con ogni mezzo all’occupazione militare israeliana?

“Questa è un’occasione per sottolineare come i nobili obiettivi di giustizia e pace richiedano il riconoscimento della realtà e della storia delle peripezie del popolo palestinese e la garanzia del rispetto dei suoi diritti inalienabili” afferma il sito web dell’ONU, senza il minimo disagio alla consapevolezza che l’Organizzazione internazionale garantisce l’esatto contrario.

E tuttavia la commemorazione, nonostante l’imperante ipocrisia dei padroni di casa, è stata sufficiente a gettare nel panico Israele manifestandone la paranoia che possa aumentare la generale consapevolezza di come il popolo palestinese stia subendo da decenni un abuso politico che sarebbe in realtà reversibile. Basterebbe un’opposizione politica sufficiente allo status quo della normalizzazione di uno stato coloniale di insediamento e il sostegno al moribondo compromesso dei due Stati.

Secondo il Times of Israel 32 paesi hanno dichiarato che avrebbero boicottato l’evento, dieci dei quali membri dell’UE. Il peso diplomatico che Israele esercita a livello internazionale è considerevole; non solo un certo numero di paesi ha ascoltato l’appello di Erdan, ma è anche riuscito a convincere altri paesi di una narrativa filo-palestinese alle Nazioni Unite che non esiste. La narrativa sulla Palestina dell’Organizzazione è sia errata che totalmente filo-israeliana. Che gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Canada avrebbero boicottato l’evento era prevedibile; sia gli Stati Uniti che il Canada sono essi stessi Stati coloniali e la Gran Bretagna è un’ex potenza coloniale, quindi la loro fedeltà allo Stato di apartheid è profonda. Inoltre l’assenza di qualsiasi condanna di Israele come entità coloniale che priva i palestinesi della loro terra ha incoraggiato la normalizzazione del colonialismo e della violenza dei coloni.

Il che vuol dire che il significato che una tale manifestazione avrebbe potuto avere è andato perduto a causa della complicità delle stesse Nazioni Unite nel dare una certa credibilità alla falsa narrazione di Israele. Una singola commemorazione della Nakba non può competere con decenni di sostegno al colonialismo. Va ricordato che le Nazioni Unite danno molta importanza al simbolismo e hanno costretto i palestinesi in questa stessa narrativa. Tuttavia, la memoria collettiva dei palestinesi non è simbolica, è una realtà vissuta che l’Onu preferisce ignorare.

Eppure Israele si sente ancora minacciato al pensiero che le sue atrocità vengano smascherate. Erdan ha fatto un sacco di rumore per il simbolico evento sulla Nakba alle Nazioni Unite, ma la verità è che Israele è riluttante a qualsiasi disvelamento della memoria legata alla Nakba. La riluttanza a concedere i propri archivi alla ricerca accademica ne è un esempio calzante. Ciò che l’evento delle Nazioni Unite ha messo in luce è che Israele avrà sempre più difficoltà a nascondere la violenza della propria istituzione in Palestina su terra usurpata, nonostante la riluttanza della comunità internazionale a porre fine al colonialismo e alla violenza di Stato.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Cancellazione o resilienza: come la Nakba è giunta a definire l’identità collettiva dei palestinesi

Ramzy Baroud

25 aprile 2023 – Middle East Monitor

Il 15 maggio la Nakba palestinese compirà 75 anni. I palestinesi in tutto il mondo commemoreranno la “Catastrofe” durante la quale, con la minaccia delle armi, circa 800.000 dei loro progenitori furono cacciati dalle loro case e terre e 500 città e villaggi spazzati via dalla faccia della terra dalla pulizia etnica iniziata nella Palestina storica fra la fine del ‘47 e la metà del ‘48.

Lo spopolamento della Palestina è durato mesi, anzi anni, dopo che la si pensava finita. Ma in realtà la Nakba è sempre continuata. A oggi le comunità palestinesi a Gerusalemme Est, nelle colline a sud di Hebron, nel deserto del Naqab e altrove stanno ancora patendo le conseguenze della ricerca di Israele della supremazia demografica. E naturalmente, milioni di rifugiati palestinesi restano apolidi, a loro vengono negati elementari diritti politici e umani.

Nel 2001 l’intellettuale palestinese Hanan Ashrawi in un discorso alla Conferenza mondiale contro il razzismo dell’ONU descrisse in modo appropriato il popolo palestinese come una “una nazione imprigionata ostaggio di una Nakba continua”. Ashrawi poi approfondì e descrisse questa ” Nakba continua” come ” la più complessa e diffusa espressione di colonialismo, apartheid, razzismo e vittimizzazione persistenti.” Ciò significa che non dobbiamo pensare alla Nakba solo come a un evento accaduto in un tempo e luogo definiti.

Sebbene la gigantesca ondata di rifugiati del 1947-48 fosse il risultato diretto della campagna sionista di pulizia etnica ideata con il “Piano Dalet”, il progetto diede ufficialmente inizio a una più ampia Nakba che continua ancora oggi. Il “Piano Dalet” (la lettera “D” nell’alfabeto ebraico) fu intrapreso dai leader sionisti ed eseguito dalle milizie sioniste per sgombrare la Palestina della maggioranza dei suoi abitanti autoctoni. Ebbero successo e, nel fare ciò, spianarono la strada a decenni di violenze e sofferenze subite ancora oggi dal popolo palestinese.

In realtà l’attuale occupazione israeliana e il radicato e razzista regime di apartheid imposto in Palestina non sono semplicemente le conseguenze volute, intenzionali o meno, della Nakba, ma anche le manifestazioni dirette di una Nakba che non è mai veramente finita.

Il fatto che secondo il diritto internazionale i rifugiati palestinesi, indipendentemente dagli eventi specifici che hanno innescato la loro rimozione forzata, abbiano diritti “inalienabili” è ampiamente riconosciuto, sebbene tristemente disatteso. La Risoluzione 194 delle Nazioni Unite rende legalmente impossibile a Israele violare tali diritti. Inoltre, la risoluzione 194 (III) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1948 afferma che “ai rifugiati che vogliano ritornare alle loro case e vivere in pace con i propri vicini deve essere permesso di farlo appena possibile.” Secondo l’ONU ciò doveva essere realizzato “dai governi o dalle autorità responsabili.”

In Israele il governo “responsabile” si è mosso rapidamente per mettersi al riparo da ogni condanna o responsabilità. Documenti “top secret” rinvenuti da ricercatori israeliani e pubblicati sul quotidiano israeliano Haaretz, includono un fascicolo etichettato GL-18/17028. Il documento dimostra come, subito dopo il completamento della prima e maggiore fase di pulizia etnica della Palestina, il primo ministro di Israele David Ben Gurion cercò di “riscrivere la storia”. Per raggiungere il proprio scopo Ben Gurion scelse la più vergognosa di tutte le strategie: incolpò le vittime palestinesi. Ma perché i vittoriosi sionisti si sarebbero preoccupati di temi apparentemente tanto triviali come le narrazioni?

Haaretz aggiunge: “Proprio come il sionismo aveva forgiato una nuova narrazione per l popolo ebraico, in pochi decenni, [Ben Gurion] capì che anche l’altra nazione che era vissuta nel Paese prima dell’avvento del sionismo si sarebbe impegnata a formulare una narrazione sua propria”. Ovviamente questa ” altra nazione ” è il popolo palestinese.

Il punto cruciale della narrazione sionista della pulizia etnica della Palestina fu quindi basato sull’affermazione continuamente ripetuta che i palestinesi se ne erano andati “per scelta “, anche se stava diventando chiaro ai sionisti stessi che “solo in pochi casi gli abitanti avevano abbandonato i villaggi su istruzione dei loro leader [locali] o mukhtar.”

Comunque, anche in questi pochi casi isolati, in tempi di guerra cercare salvezza altrove non è reato e non dovrebbe costare a un/una rifugiato/a il diritto inalienabile di far ritorno alla propria terra. Se la bizzarra logica sionista venisse accolta nel diritto internazionale, allora i rifugiati di Siria, Ucraina, Libia, Sudan e di tutte le altre zone di guerra perderebbero i loro diritti legali alle loro proprietà e cittadinanza nelle rispettive patrie.

Tuttavia la logica sionista non intendeva solo sfidare i legittimi diritti politici del popolo palestinese, ma faceva anche parte integrante di un processo più ampio chiamato dagli intellettuali palestinesi ‘cancellazione’, cioè la sistematica distruzione della Palestina, della sua storia, cultura, lingua, memoria e naturalmente del suo popolo. Questo processo si ritrova già nelle trattazioni dei primi sionisti prima che la Palestina fosse svuotata dei propri abitanti, trattazioni in cui la patria del popolo palestinese era percepita perfidamente come “una terra senza popolo”. La negazione dell’esistenza stessa dei palestinesi è stata espressa numerose volte nella narrazione sionista e continua a essere usata ancora oggi.

Tutto ciò significa che 75 anni di continua Nakba e la negazione del fatto stesso del gigantesco crimine da parte di Israele e dei suoi sostenitori richiedono una comprensione molto più profonda di quello che è successo, e continua a succedere, al popolo palestinese.

I palestinesi devono insistere che la Nakba non è una singola questione politica da discutere o negoziare con Israele o con coloro che sostengono di rappresentarli. “I palestinesi non hanno alcun obbligo morale o legale di assecondare gli israeliani a proprie spese,” ha scritto il famoso storico palestinese Salman Abu Sitta in riferimento alla Nakba e al diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi. “Secondo qualsiasi norma Israele ha l’obbligo di porre rimedio alla monumentale ingiustizia commessa.”

Anzi la Nakba è una storia palestinese del passato, presente e futuro, che racchiude tutto. Non è solo una storia di vittime, ma anche della resilienza palestinese, sumud. È l’unico programma più unificante che riunisce tutti i palestinesi, oltre i limiti di fazioni, politiche o geografia. La Nakba ha finito per definire l’identità collettiva palestinese.

Quindi per i palestinesi la Nakba non è semplicemente una singola data da ricordare ogni anno. È l’intera loro storia, la cui conclusione sarà scritta, a tempo debito, dai palestinesi stessi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Tribunale di Francoforte revoca il bando contro un concerto di Roger Waters

Nora Barrows-Friedman

24 aprile 2023 – Electronic Intifada

Un tribunale tedesco ha revocato il bando contro un imminente concerto dell’icona del rock Roger Waters a Francoforte.

La sentenza è giunta tre settimane dopo che il co-fondatore dei Pink Floyd aveva presentato una diffida contro la decisione della giunta comunale di Francoforte e dello Stato dell’Assia di annullare il suo spettacolo del 28 maggio prossimo.

Alcuni deputati avevano ingiustamente accusato Waters di fanatismo antiebraico per le sue critiche all’apartheid israeliano e l’appoggio alla campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi.

Decine di importanti personalità della cultura e più di 35.000 sostenitori hanno firmato una petizione in cui si chiede che il divieto venga annullato.

“Un altro tribunale tedesco ha sentenziato a favore dei sostenitori del movimento BDS,” ha twittato lunedì la Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI).

Politici locali hanno citato il “costante comportamento anti-israeliano” di Waters e hanno denunciato il fatto che ha esercitato pressioni su altri artisti perché annullassero esibizioni in Israele.

L’amministrazione cittadina ha aggiunto che il musicista “ha ripetutamente chiesto il boicottaggio culturale di Israele”, facendo un confronto tra Israele e l’apartheid sudafricano.

Molti politici tedeschi sembrano negare totalmente la situazione di apartheid a danno dei palestinesi ora ampiamente riconosciuta anche da Amnesty International, Human Rights Watch e dall’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

Le accuse secondo cui tali principi antirazzisti sarebbero un’offesa per gli ebrei sono diventate usuali in Germania, dove l’appoggio incondizionato a Israele è visto dai leader di governo come un’espiazione per l’Olocausto nazista.

Andando ancora oltre, alcuni parlamentari hanno accusato Waters di fanatismo antiebraico per il luogo del concerto, la Festhalle.

Secondo i media tedeschi alcuni politici hanno sostenuto che Waters avrebbe violato la memoria di più di 3.000 ebrei che vi vennero ammassati e detenuti nel 1938 durante i pogrom della Notte dei Cristalli [in cui vennero feriti e uccisi centinaia di ebrei e furono distrutte proprietà ebraiche e sinagoghe, ndt.], prima di essere deportati dai nazisti nei campi di concentramento.

Ma dagli anni ’80 la Festhalle è stata utilizzata come importante sede di concerti con esibizioni di artisti famosi.

Lunedì il tribunale di Francoforte ha affermato che l’esibizione “nel suo complesso non consente di concludere che (Waters) glorifichi o relativizzi le atrocità del Nazionalsocialismo o si identifichi con l’ideologia razzista nazionalsocialista.”

La revoca da parte del tribunale è l’ultima di una serie di sconfitte delle autorità tedesche, aizzate dalle organizzazioni della lobby israeliana, nei loro tentativi di limitare o criminalizzare l’attivismo a favore dei diritti dei palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La rivista Foreign Affairs conferma i fatti riguardanti l’apartheid israeliano e la supremazia ebraica

Nasim Ahmed

17 aprile 2023 – Middle East Monitor

La scorsa settimana la notevole velocità con cui il termine “apartheid” è passato dai margini al centro del dibattito israeliano-palestinese è apparsa evidente. La prestigiosa rivista statunitense Foreign Affairs, unanimemente considerata una delle più influenti riguardo alla politica internazionale e che plasma il pensiero di Washington, ha aggiunto il proprio peso a favore dell’affermazione secondo cui Israele ha imposto un regime di apartheid che discrimina sistematicamente i non-ebrei.

In un articolo intitolato “La realtà israeliana di uno Stato unico” gli autori Michael Barnett, Nathan Brown, Marc Lynch e Shibley Telhami evidenziano il cambiamento epocale in corso oggi nei circoli che guidano la politica. Descrivendo la situazione in Palestina e come Israele sia arrivato a praticare l’apartheid, affermano che quello che una volta era “indicibile” ora è “innegabile”.

Una soluzione a Stato unico non è un’eventualità del futuro, esiste già indipendentemente da quello che chiunque possa pensare,” affermano gli autori, tutti studiosi di Medio Oriente. “Tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano un solo Stato controlla l’ingresso e l’uscita di persone e cose, supervisiona la sicurezza e ha la capacità di imporre le proprie decisioni, leggi e politiche su milioni di persone senza il loro consenso.”

Israele, sostengono gli autori, “ha imposto un sistema di supremazia ebraica, in cui i non-ebrei sono strutturalmente discriminati o esclusi, in uno schema caratterizzato da più livelli: alcuni non-ebrei hanno molti, ma non tutti, i diritti degli ebrei, mentre la maggioranza dei non-ebrei vive soggetto a una dura segregazione, separazione e dominazione.” Significativamente essi affermano che questa situazione è “ovvia” per chiunque vi abbia prestato attenzione. Per varie ragioni Washington e i sostenitori di Israele hanno preferito mettere la testa nella sabbia e calunniare come antisemita chiunque abbia indicato la verità riguardo al sistema di apartheid israeliano. “Fino a poco tempo fa la situazione di uno Stato unico raramente era riconosciuta da attori importanti, e quanti dicevano la verità a voce alta sono stati ignorati o puniti per averlo fatto,” evidenzia l’articolo. “Tuttavia, con una notevole rapidità, l’indicibile si è notevolmente avvicinato al senso comune.”

Chiunque segua da vicino il dibattito sull’apartheid israeliano sarà a conoscenza di molti dei punti evidenziati dagli autori. Dal 2021 importanti organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, B’Tselem e molte altre hanno utilizzato il termine per descrivere Israele. Così hanno fatto molti accademici: secondo un recente sondaggio su studiosi del Medio Oriente membri di tre grandi associazioni accademiche, il 65% di quanti hanno risposto ha descritto la situazione in Israele e nei territori palestinesi come la “realtà di uno Stato unico con diseguaglianze simili all’apartheid.”

Oltre a ripetere fatti ben noti riguardo a come Israele ha creato un regime di supremazia ebraica, l’articolo di Foreign Affairs si distingue per l’enfasi sulle responsabilità di Washington e di altre potenze straniere per aver consentito la creazione di un regime di apartheid. Secondo gli autori, i principali alleati di Israele sono responsabili di un “pensiero magico”. Per decenni soprattutto gli USA hanno difeso l’appoggio a Israele sulla base di una pia illusione, credendo che Israele condividesse gli stessi valori dell’Occidente. “Gli Stati Uniti non hanno ‘valori condivisi’ e non dovrebbero avere ‘legami inscindibili’ con uno Stato che discrimina o prevarica su milioni di abitanti in base alla loro etnia e religione.” Gli autori sostengono che è difficile tenere insieme l’impegno nei confronti del liberalismo con l’appoggio a uno Stato che offre i benefici della democrazia agli ebrei, ma li toglie esplicitamente alla maggioranza dei suoi abitanti non-ebrei.

Mentre è diventato di moda accusare il primo ministro Benjamin Netanyahu dello spostamento di Israele verso l’apartheid, si sostiene che l’attuale situazione che garantisce la supremazia ebraica sulla Palestina storica è fortemente radicata nel pensiero e nella pratica sionista. Iniziò a conquistarsi sostenitori poco dopo l’occupazione israeliana dei territori palestinesi nel 1967. Gli autori affermano che, benché non sia ancora una “visione egemonica”, essa può essere plausibilmente descritta come condivisa dalla maggioranza della società israeliana e non più essere definita una posizione estremista. Vale la pena di tenere a mente che Netanyahu, il primo ministro israeliano più a lungo in carica, ha scritto che “Israele non è uno Stato di tutti i suoi cittadini”, ma piuttosto “del popolo ebraico, e solo questo.” Il leader del Likud è stato anche accusato di aver cancellato i palestinesi e la loro storia, un fatto che alcuni membri dell’attuale coalizione di governo appoggiano.

I sostenitori di Israele che rifiutano la situazione di uno Stato unico sono invitati a cambiare occhiali per poter vedere l’apartheid per quello che è. Gli alleati di Israele sono soliti fare una distinzione tra i territori occupati e Israele vero e proprio e a pensare che la sovranità israeliana sia limitata al territorio che controllava prima del 1967. A questo proposito gli autori sostengono che Stato e sovranità non sono la stessa cosa. “Lo Stato è definito da quello che controlla, mentre la sovranità dipende dal fatto che gli altri Stati riconoscano la legittimità di quel controllo.” L’errore consiste nel confondere le due cose senza comprendere che Israele come Stato controlla ogni palmo della Palestina, benché agli occhi della comunità internazionale lo Stato occupante non abbia diritto alla sovranità sul territorio.

Si consideri Israele attraverso le lenti di uno Stato. Ha il controllo sul territorio tra il fiume e il mare, ha il quasi totale monopolio dell’uso della forza, utilizza il proprio potere per mantenere un blocco draconiano di Gaza e controlla la Cisgiordania con un sistema di posti di blocco, il mantenimento dell’ordine pubblico e l’espansione delle colonie,” affermano gli autori, chiarendo la distinzione rispetto alla sovranità. Spiegando come Israele sia stato in grado di sfruttare la situazione, l’articolo sostiene che “non formalizzando la sovranità, Israele può essere democratico per i suoi cittadini, ma non responsabile nei confronti di milioni di suoi abitanti.” Secondo gli autori questa situazione ha consentito a molti sostenitori di Israele di continuare a fingere che tutto ciò sia temporaneo, che Israele continui a essere una democrazia e che un giorno i palestinesi eserciteranno il loro diritto all’autodeterminazione.

Per quanto le politiche USA abbiano contribuito a rafforzare la situazione dello Stato unico, la normalizzazione con gli Stati arabi in base agli accordi di Abramo ha ulteriormente cementato il sistema di apartheid israeliano. La tradizionale posizione araba era che la normalizzazione sarebbe stata offerta in cambio del completo ritiro israeliano dai territori occupati. Il punto di partenza per i negoziati era che la pace con il mondo arabo avrebbe richiesto una soluzione del problema palestinese. Gli accordi di Abramo hanno rifiutato questo assunto e in cambio hanno premiato Israele per le sue pratiche di colonialismo di insediamento. “Separare la normalizzazione con gli arabi dalla questione palestinese ha avuto un impatto notevole per il rafforzamento della situazione di uno Stato unico.”

Ammonendo i poteri autoritari del Medio Oriente, gli autori spiegano efficacemente che la questione palestinese ha una grande risonanza tra la popolazione araba. “I governanti arabi possono non interessarsi dei palestinesi, ma il loro popolo lo fa, e quei governanti non si preoccupano di altro se non di mantenere il proprio potere.” Abbandonare totalmente i palestinesi dopo più di mezzo secolo di un appoggio quanto meno a parole rappresenterebbe un rischio per la loro autorità. “I dirigenti arabi non temono di perdere le elezioni, ma ricordano fin troppo bene le rivolte arabe del 2011,” affermano gli autori, sostenendo che abbandonare la causa palestinese potrebbe innescare una rivolta popolare.

Dopo aver elencato i passi concreti che dovrebbero essere intrapresi, gli autori affermano che i decisori politici e gli analisti che ignorano la realtà dello Stato unico saranno condannati al fallimento e all’irrilevanza, non facendo molto più che fornire una cortina fumogena per il rafforzamento dello status quo. Per porre fine alla profonda complicità di Washington nel creare una situazione di Stato unico, gli USA sono invitati a prendere misure “radicali”, tra cui l’imposizione di sanzioni contro Israele e, soprattutto, che l’Occidente guardi alle sue risposte all’invasione russa dell’Ucraina come un modello per difendere le leggi internazionali e il sistema basato sulle regole che sostiene di difendere.

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Crisi israeliana: non si tratta di democrazia, si tratta di supremazia liberale sionista

Sai Englert

28 marzo 2023 – Middle East Eye

Israele è uno Stato di apartheid basato sull’espropriazione palestinese, con metà delle persone che vivono sotto il suo dominio diretto private del diritto al voto. Altro che preziosa democrazia liberale dei manifestanti

Dopo tre mesi di mobilitazione in tutta la società israeliana, che ha visto centinaia di migliaia di manifestanti scendere in piazza, i blocchi ripetuti delle principali autostrade, il rifiuto di massa dei riservisti di presentarsi per il servizio militare e un insieme di azioni di sciopero e di serrate da parte dei datori di lavoro, il governo di Benjamin Netanyahu sembra – nel momento in cui scriviamo – essere stato costretto a cedere almeno in parte alle istanze del movimento di protesta sociale.

Lunedì sera Netanyahu ha annunciato che era in procinto di rinviare la controversa riforma dei tribunali nazionali da parte del suo governo.

“Per senso di responsabilità nazionale, per volontà di prevenire una spaccatura tra la nostra gente, ho deciso di sospendere la seconda e la terza lettura del disegno di legge”, ha dichiarato al parlamento.

Dopo aver licenziato il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, a causa degli appelli di quest’ultimo per la sospensione della riforma giudiziaria del governo, Netanyahu ha mostrato di aver perso il controllo su una situazione già caotica. Le organizzazioni dei datori di lavoro e l’Histadrut – la più grande federazione sindacale israeliana e pilastro storico del movimento coloniale sionista – hanno annunciato congiuntamente che avrebbero bloccato l’economia. Centri commerciali, università, ospedali e fabbriche, così come l’unico aeroporto di Israele, sono stati chiusi, insieme ad asili e scuole.

L’attuale crisi politica è emersa alla fine dello scorso anno, quando Netanyahu è stato rieletto primo ministro a capo di una coalizione di destra, che andava dal suo stesso partito Likud e dai suoi abituali alleati ultraortodossi all’organizzazione della destra più radicale dei coloni.

Aggressivamente anti-palestinese e favorevole a un’espansione ancora più rapida degli insediamenti coloniali a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, la coalizione ha promesso un ulteriore giro di vite nei confronti dei palestinesi: violenze, furti e omicidi, ma all’ennesima potenza, da parte della colonizzazione israeliana.

Allo stesso tempo, la coalizione ha messo al centro della sua argomentazione l’idea che la sinistra israeliana avesse controllato per troppo tempo le leve del potere dello Stato e il proposito di porre fine a tutto ciò il più rapidamente possibile. Al centro di questo programma c’è una proposta di riforma giudiziaria che limiterebbe il potere dell’Alta Corte israeliana e la porrebbe sotto il controllo del parlamento, cioè della coalizione di governo.

Assalto a tutto campo alla democrazia

In base a queste riforme, la nomina dei giudici sarebbe di competenza parlamentare, mentre le decisioni prese dalla Corte potrebbero essere ribaltate da una maggioranza parlamentare. Questo, sostengono i critici della riforma, è un assalto a tutto campo alla democrazia israeliana e inaugurerebbe la fine di un tanto acclamato ordine democratico liberale israeliano.

Gettando benzina sul fuoco, il governo ha anche proposto e accelerato una serie di altre leggi che sono state ampiamente percepite – anche da commentatori di destra e da sostenitori del governo – come palesemente auto-centrate. Dalla legalizzazione dei “regali” ai dipendenti pubblici e dalla revoca del divieto di prestare servizio nel governo per i politici condannati, alla limitazione della possibilità per i giornalisti di pubblicare registrazioni di [discorsi] di politici, la lista dei desideri del governo ha fatto infuriare un’opposizione già ostile.

Il fiore all’occhiello di questo pacchetto di riforme è stato il disegno di legge approvato con successo la scorsa settimana che rende così difficile l’impeachment di un primo ministro in carica da concedere a Netanyahu l’immunità di fatto, proteggendolo dai potenziali esiti del suo processo per corruzione in corso.

Lo scenario era perfetto per uno scontro frontale nella società israeliana tra i campi pro e contro Netanyahu.

In effetti, i fronti pro e contro Netanyahu – o pro e anti-coalizione – costituiscono il modo migliore per comprendere l’attuale lotta in Israele. Le idee tradizionali di destra e sinistra non colgono del tutto le divisioni politiche in Israele in generale, e nel momento attuale in particolare.

Come accennato in precedenza, i principali protagonisti dell’opposizione alle riforme del governo sono state le organizzazioni dei datori di lavoro e i riservisti delle unità militari, considerati in Israele “d’élite”, cioè veterani.

Un ruolo centrale lo hanno avuto i piloti di caccia – gli stessi piloti che hanno acquisito una fama mondiale bombardando regolarmente a tappeto gli abitanti della Striscia di Gaza con le orrende conseguenze che sono così ben documentate.

Benny Gantz, leader dell’opposizione e figura chiave del movimento, ha costruito la sua carriera politica sulla scia del massacro di Gaza del 2014, che ha gestito come capo di stato maggiore dell’esercito israeliano. A febbraio ha detto ai manifestanti che dovevano difendere l’Alta Corte perché: “per decenni, io vi ho protetto. E mentre io vi proteggevo il tribunale proteggeva me”.

Nessuna di queste componenti può essere considerata di sinistra.

Orrore diffuso

Allo stesso modo, le organizzazioni tradizionali del movimento operaio israeliano, come l’Histadrut o il Partito laburista, sono state storicamente gli artefici chiave dell’espropriazione dei palestinesi.

Vale la pena ribadire, nel pieno dei dibattiti in corso, che è stato il movimento operaio israeliano – attraverso la sua federazione sindacale, i suoi kibbutz (fattorie collettive), le sue milizie e il suo partito politico – a battersi per l’esclusione dei palestinesi dallo Stato e dal mercato del lavoro, e ha imposto un regime militare ai cittadini palestinesi dello Stato fino al 1966 e ai palestinesi nei Territori occupati dopo il 1967.

Sono stati questi stessi attori che hanno espulso oltre 700.000 palestinesi dalle loro case, raso al suolo più di 500 villaggi e centri urbani e impedito a qualsiasi rifugiato di tornare successivamente alle proprie case, in diretta violazione del diritto internazionale. Ancora una volta è difficile considerare queste organizzazioni come particolarmente progressiste, figuriamoci come paladine della democrazia.

Questa tensione è stata resa ben chiara dal recente clamore che hanno suscitato le dichiarazioni di Bezalel Smotrich in una conferenza in Francia, in cui ha affermato: Non esiste una nazione palestinese. Non c’è una storia palestinese. Non esiste una lingua palestinese”.

Smotrich è l’attuale ministro delle Finanze, un colono in Cisgiordania e il primo politico civile (e non funzionario militare) ad essere stato incaricato del controllo illegale israeliano sui territori palestinesi occupati.

Le sue dichiarazioni hanno generato un orrore diffuso – come dovrebbero – per la loro palese negazione razzista anche del fatto più basilare dell’esistenza dei palestinesi. Anche gli Stati del Golfo, normalmente così felici di collaborare con Israele, hanno ritenuto necessario chiedere l’intervento degli Stati Uniti.

Democrazia – per chi?

Tuttavia, i sentimenti espressi da Smotrich non sono né nuovi né sorprendenti.

Anzi, sono l’ovvio presupposto ideologico per la colonizzazione in corso della Palestina da parte di Israele. Come diceva il vecchio slogan sionista: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. L’episodio più famoso è quello in cui Golda Meir – una fedele sostenitrice dell’Histadrut e del partito laburista, che è stata la prima e unica primo ministro donna di Israele – dichiarò nel 1969 che “i palestinesi non esistono”.

Perciò riguardo a tutte le accuse nei confronti della destra israeliana, sarebbe bene ricordare che la sinistra israeliana ha sempre condiviso idee simili. Il problema, a quanto pare, è il sionismo.

Riaffermare questi fatti storici di base è importante perché ci permette di dare un senso alla composizione – e ai limiti – dell’attuale movimento sociale in Israele.

Mentre una parte della copertura internazionale riguardo alle riforme si è concentrata sui loro potenziali effetti per i palestinesi – ad esempio sul consenso alla legalizzazione degli avamposti dei coloni contro le sentenze dell’Alta Corte – queste stesse questioni sono state praticamente assenti sia nella protesta che nel dibattito pubblico.

Invece i manifestanti si sono drappeggiati con le bandiere israeliane e si sono presentati come difensori dello Stato e delle sue istituzioni contro intrusi illegittimi – le stesse istituzioni che hanno sviluppato e istituzionalizzato il regime di apartheid israeliano contro i palestinesi.

I pochi cittadini palestinesi dello Stato che hanno tentato, per convinzione ideologica, di intervenire nelle proteste, si sono trovati esclusi, messi a tacere o censurati. Reem Hazzan, ad esempio, è stata invitata a parlare a una manifestazione anti-Netanyahu ad Haifa. È stata costretta a presentare il suo discorso in anticipo agli organizzatori, che poi le hanno chiesto di modificarlo.

Hazzan aveva pianificato di dire ai manifestanti che esiste un collegamento diretto tra il ritiro delle istituzioni democratiche israeliane e l’occupazione militare pluridecennale in corso e la discriminazione razziale contro i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e i Paesi arabi confinanti, ndt.]. Di questo, a quanto pare, la lotta del movimento per la “democrazia” non si occupa.

“Supremazia ebraica”

Hazzan non è sola. E’ talmente eclatante l’esclusione sistematica dei palestinesi, e così totale è il rifiuto di esaminare quale sia stata la realtà della “democrazia” israeliana per i milioni di palestinesi che vivono sotto il suo governo, o come cittadini di seconda classe o come sudditi del suo regime militare che il Tajammu (Balad), che un importante partito politico palestinese che opera all’interno di Israele ha rilasciato una dichiarazione che afferma:

Il mancato riconoscimento della stretta connessione tra la continua violazione dei diritti del popolo palestinese su entrambi i lati della Linea Verde e il colpo di stato giudiziario ci fanno capire che non è per una vera democrazia e una cittadinanza sostanziale che le masse stanno attualmente scendendo in piazza, ma per la conservazione dell’equazione ebraico e democratico”, che si concentra su una democrazia procedurale fondata sul concetto di supremazia ebraica… Pretendere che il popolo arabo-palestinese si mobiliti per questa lotta è più che infondato, è anche indice di sfrontatezza”.

L’esclusione dei palestinesi e delle loro richieste è tanto più eclatante dal momento che l’elezione del governo Netanyahu è stata interpretata – giustamente – dal settore militare e dei coloni come un’indicazione che essi hanno completa libertà d’azione in Cisgiordania. Dall’inizio dell’anno sono stati uccisi oltre 80 palestinesi con attacchi militari che si sono intensificati in frequenza e violenza, in particolare nelle città di Jenin e Nablus.

L’esempio più eclatante dell’accresciuto appoggio del governo ai coloni è stato il pogrom nella città di Huwwara, dove centinaia di coloni hanno imperversato per ore, attaccando gli abitanti, bruciando auto e distruggendo negozi e case.

Quasi 400 palestinesi sono stati feriti e uno ucciso. L’intero attacco si è svolto sotto l’occhio vigile dei militari. In risposta, Smotrich ha dichiarato: “Huwwara deve essere spazzata via. Penso che lo Stato di Israele dovrebbe farlo”.

È a dir poco inquietante che in un tale contesto centinaia di migliaia di persone scendano in piazza per salvare la separazione dei poteri rifiutandosi persino di ascoltare le vittime del regime “liberal democratico” di Israele.

Quale democrazia liberale?

L’attuale movimento di protesta in Israele non è un movimento per trasformare la politica israeliana. Non è nemmeno un movimento per la democrazia. È un movimento che lotta per mantenere lo status quo israeliano: una società costruita su una terra rubata e la continua esclusione dei palestinesi, che sancisce il suo dominio coloniale attraverso un sistema legale che solo lei riconosce.

Le organizzazioni sociali e le istituzioni che partecipano al movimento lo confermano ripetutamente, e lo confermano ulteriormente i rapporti di forza che ripropongono al suo interno. Sarebbe lecito chiedersi se una società coloniale che legalizza le sue politiche espansionistiche attraverso la sua Alta Corte sia migliore, o più democratica, nel vero senso della parola, di una che lo fa attraverso il suo parlamento.

Cosa significa parlare di Israele come di una democrazia liberale, quando le sue istituzioni mantengono il blocco mortale su Gaza, continuano ad espandere gli insediamenti coloniali in Cisgiordania, a Gerusalemme e sulle Alture del Golan e mantengono oltre 65 leggi che prendono di mira specificamente i palestinesi di entrambe le parti della Linea Verde?

Ha senso discutere di democrazia liberale a proposito di uno Stato che non solo ha espulso centinaia di migliaia di suoi futuri cittadini ma continua a rifiutare a loro e ai loro discendenti il diritto al ritorno? Che tipo di democrazia – liberale o meno – si basa sulla negazione del fondamentale diritto di voto a più o meno la metà della popolazione – circa sei milioni di persone – che vive sotto il suo dominio diretto?

Vale la pena ricordare che tutte queste decisioni sono state prese e messe in pratica sotto l’occhio vigile dell’Alta Corte israeliana.

La verità è che non può esserci democrazia sotto una supremazia razziale. Un regime di apartheid è per definizione illiberale. Un dominio coloniale richiede il solido dominio di un gruppo su un altro. La coalizione di Netanyahu potrebbe cadere. O potrebbe resistere alla tempesta.

In ogni caso, la democrazia non emergerà vittoriosa tra il fiume e il mare [Il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ndt.].

Sarebbe necessario sfidare le idee più basilari del sionismo per raggiungere un tale risultato: che uno Stato democratico debba essere per e di tutti i suoi abitanti.

Questa battaglia non viene condotta nelle strade attorno alla Knesset [parlamento israeliano, ndt.] né portata avanti da sindacati, soldati e datori di lavoro israeliani. La sua vittoria dipende da sempre dal soddisfacimento delle richieste formulate tanto tempo fa dal movimento nazionale palestinese: liberazione e ritorno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sai Englert è docente di economia politica del Medio Oriente all’Università di Leida. È l’autore di Settler Colonialism: an Introduction [Colonialismo da insediamento: un’introduzione]. La sua ricerca si concentra sulle conseguenze del neoliberismo sul movimento operaio in Israele. È impegnato anche sul colonialismo di insediamento, sulla trasformazione del lavoro e sull’antisemitismo. È membro del comitato editoriale sia della rivista Historical Materialism [Materialismo Storico, ndt.] che di Notes from Below [Note a piè di pagina, ndt.].

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le chiusure israeliane a Huwwara soffocano le imprese e gli spostamenti dei palestinesi

Fayha Shalash , Ramallah Palestina occupata

27 marzo 2023 – Middle East Eye

La gioia del Ramadan nella città della Cisgiordania è sconvolta dai blocchi stradali dell’esercito e dalla chiusura dei negozi

Lunedì l’esercito israeliano, in quella che i palestinesi hanno definito una punizione collettiva, ha continuato a imporre chiusure intorno a Huwwara, nel nord della Cisgiordania occupata.

Le strade in entrata e in uscita da Nablus e Huwwara sono state bloccate e ai negozi della città è stato ordinato di chiudere fino a nuovo ordine.

Le chiusure sono state imposte nella tarda serata di sabato dopo che colpi esplosi da un’auto da parte di palestinesi avevano ferito due soldati israeliani.

Gli imprenditori affermano di essere stati i più colpiti.

“Quando i soldati sono venuti a chiudere i nostri negozi non ci hanno permesso di salvare la merce e nemmeno di coprirla, altrimenti avrebbero rotto il vetro e le avrebbero sparato”, ha detto a Middle East Eye Mazen al-Aker, proprietario di un negozio di dolciumi.

Secondo al-Aker le chiusure hanno reso questo Ramadan il peggiore che la città abbia visto da anni.

Diversi proprietari di negozi domenica hanno cercato di riaprire per gli affari sfidando le misure israeliane, ma sono stati dispersi dall’esercito con gas lacrimogeni e granate assordanti.

I video pubblicati sui media locali mostrano la sera [nel momento in cui cessa il digiuno prescritto nel mese di Ramadan, ndt] decine di palestinesi diretti a Huwwara bloccati in lunghe code ai posti di blocco israeliani, il che ha costretto molti a rompere il digiuno del Ramadan sui loro veicoli.

Nel frattempo domenica i coloni israeliani hanno preso d’assalto la città per protestare contro le sparatorie palestinesi.

Alla folla si sono uniti Yossi Dagan, capo del consiglio per gli insediamenti nel nord della Cisgiordania, e il deputato israeliano di estrema destra Zvi Sukkot.

Dagan ha allestito un ufficio improvvisato sulla strada principale per protestare contro quello che ha definito “l’incapacità dell’esercito israeliano di proteggere i coloni”.

Il periodo ‘più difficile’

La sparatoria di sabato è stata la terza contro israeliani in meno di un mese a Huwwara, che si trova sulla principale autostrada nord-sud della West Bank Route 60 utilizzata dai coloni.

Dopo ogni incidente, l’esercito pone la città sotto rigide restrizioni.

Ghaleb Odeh, proprietario di un fast food, ha detto che i suoi negozi sono stati chiusi dall’esercito israeliano per un totale di 12 giorni nel solo mese di marzo.

“L’altro ieri ho preparato 200-300 chilogrammi di carne e pollo da vendere, insieme a centinaia di contenitori di insalate diverse, ma quando è stata emessa la decisione militare israeliana di chiudere i negozi ho dovuto distruggere tutto, il che mi ha causato grandi perdite”, ha detto Odeh a MEE.

“Per la prima volta nella mia vita, ho accumulato un debito di 80.000 shekel [$ 22.437] con i macellai”.

Secondo Odeh, questo è il periodo “più difficile” che Huwwara abbia vissuto da quando ha aperto il suo negozio nel 1995.

Anche quando il ristorante è aperto, ha aggiunto, i continui attacchi dei coloni in città causano pesanti perdite agli esercii commerciali poiché la circolazione dei veicoli è quasi completamente paralizzata.

Huwwara è stata teatro di ripetute violenze da parte dei coloni negli ultimi mesi.

La cittàdina, situata strategicamente al centro dei villaggi a sud di Nablus, ospita 7.000 palestinesi ed è circondata da colonie israeliane.

Il mese scorso è stata al centro di una distruzione senza precedenti da parte dei coloni israeliani dopo che centinaia di essi, con l’appoggio dei soldati, hanno attaccato la città.

Un palestinese è stato ucciso e quasi 400 feriti negli attacchi.

Quasi 700.000 coloni vivono in più di 250 insediamenti e avamposti in Cisgiordania e Gerusalemme est in violazione del diritto internazionale.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’economia israeliana era il fiore all’occhiello di Netanyahu. L’apartheid può sopravvivere senza?

Nimrod Flaschenberg

27 marzo 2023 – +972 Magazine

Il primo ministro non prevedeva che il colpo di stato giudiziario avrebbe minato uno degli elementi fondamentali a tutela del regime di apartheid israeliano.

La combinazione finora riuscita di neoliberismo e apartheid in Israele sta finalmente incontrando degli ostacoli interni.

Dopo mesi di proteste e pressioni economiche il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato lunedì che avrebbe temporaneamente interrotto la fase successiva della sua riforma giudiziaria. L’annuncio è arrivato di notte, dopo che centinaia di migliaia di israeliani sono scesi in piazza in tutto il Paese in seguito al licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant da parte di Netanyahu, e dopo un’azione congiunta – lunedì mattina – delle grandi imprese e dell’Histadrut, il più grande sindacato israeliano, che era stato riluttante ad aderire alla protesta contro la riforma giudiziaria.

Questa crisi rappresenta il culmine di diversi mesi di guerra economica intrapresa contro il governo da ampie fasce della società israeliana, e in particolare dalle sue élite. E questo scontro interno sta mettendo in luce una sorprendente debolezza nell’economia israeliana guidata dalla tecnologia, seppure in forte espansione. Ora resta la domanda: questa debolezza potrebbe anche segnare una breccia nella lotta contro l’occupazione e l’apartheid?

In tutti gli anni trascorsi nella veste di primo ministro israeliano, il risultato più significativo di Benjamin Netanyahu è stato quello di far sembrare l’occupazione indolore, o almeno senza costi. Sotto il suo regno, l’economia israeliana è esplosa, in gran parte grazie al fiorente settore dell’high-tech. Lo Stato ha migliorato e ampliato le sue relazioni diplomatiche, aprendo nuovi mercati per l’esportazione di software e sicurezza informatica, sviluppando legami di sicurezza con partner regionali e rendendo la sua tecnologia militare indispensabile per molti Paesi in tutto il mondo.

Il modello economico israeliano dall’inizio degli anni 2000 è stato interpretato dallo storico economico Arie Krampf come un neoliberismo isolazionista. Questo è il progetto di Netanyahu: un’economia orientata all’esportazione che dovrebbe costruire resilienza geopolitica attraverso una strategia di commercio diversificato, un basso rapporto debito/PIL e grandi riserve di valuta estera. Questo modello richiede anche una deregolamentazione aggressiva e tagli alla spesa sociale, che portano a sconcertanti disuguaglianze e ad un aumento della povertà. Il sistema di welfare si è sgretolato ma sono aumentati gli investimenti esteri; le nuove ricchezze di Israele non sono state divise equamente, ma l’élite economica è soddisfatta.

Attraverso questo modello Israele ha potuto diversificare i suoi rischi e interessi economici in tutto il mondo e diminuire in qualche modo la sua dipendenza dagli Stati Uniti. Le relazioni di Netanyahu con leader mondiali come Vladimir Putin e Narendra Modi si sono basate non solo sulla predilezione per nazionalisti aggressivi che la pensano allo stesso modo, ma su una strategia di riequilibrio della posizione di Israele nella sfera globale, che lo ha reso un ambìto partner commerciale e militare.

Sebbene la campagna internazionale per la liberazione della Palestina abbia avuto un impatto sull’opinione pubblica globale, non è stata in grado di sfidare veramente questo modello economico. Il movimento BDS ha in gran parte fallito nel far crescere il costo economico per il governo e la popolazione israeliana nel sostenere e radicare l’occupazione, ed è invece diventato un parafulmine per la delegittimazione delle voci pro-palestinesi da parte di ben finanziate organizzazioni di hasbara [propaganda per la diffusione di una immagine positiva di Israele all’estero, ndt.].

L’Autorità Nazionale Palestinese, da parte sua, non ha promosso misure economiche contro Israele a causa della dipendenza della Cisgiordania dall’economia israeliana e della morsa dell’occupazione militare israeliana. Quindi, mentre i governi israeliani si sono spostati nell’arco dei decenni verso destra, intensificando l’occupazione e consolidando il regime di apartheid, lo Stato non è stato danneggiato economicamente e la sua posizione diplomatica si è solo rafforzata.

Ironia della sorte, ciò che la campagna del BDS finora non è riuscita a ottenere è ora promosso dagli ebrei israeliani: le élite che si stanno rapidamente radicalizzando nello scontro contro il tentativo di revisione giuridica del governo israeliano. Gli inevitabili impatti economici della riforma minacciano il modello neoliberista isolazionista, che è stato a lungo basato su una forte industria di esportazione e sull’impunità internazionale. Netanyahu ha vaccinato con successo l’economia israeliana contro le pressioni esterne, ma nemmeno lui è in grado di affrontare l’attuale conflitto interno.

Pericoli reali

Martedì scorso Shira Greenberg, capo economista del ministero delle Finanze israeliano, ha pubblicato un rapporto in cui suggerisce che se la riforma legale venisse approvata nella sua interezza il PIL di Israele potrebbe diminuire fino a 270 miliardi di shekel [69 miliardi di euro, ndt.] nei prossimi cinque anni. Altre stime di funzionari dello stesso ministero, presentate al ministro delle finanze Bezalel Smotrich all’inizio di questa settimana, accennavano ad una perdita annua di 100 miliardi di shekel [26 miliardi di euro, ndt.]. Smotrich ha cercato di confondere i dati dicendo che nell’incontro sono stati presentati sia opportunità che rischi, ma fonti del ministero lo hanno contraddetto, dichiarando a Calcalist [il principale quotidiano finanziario israeliano, ndt.]: Non è chiaro di quali opportunità stia parlando il ministro. C’era accordo fra i convenuti sul fatto che queste iniziative potrebbero causare gravi danni all’economia israeliana”.

Da mesi le istituzioni finanziarie internazionali suonano campanelli d’allarme sulla proposta di riforma. L’agenzia di rating del credito Moody’s ha avvertito che la riforma potrebbe impedire l’aumento del rating del credito di Israele, indicando che i cambiamenti pianificati “potrebbero anche comportare rischi a lungo termine per le prospettive economiche di Israele, in particolare l’afflusso di capitali nell’importante settore high-tech”. The Economist, il principale quotidiano economico mondiale e barometro per le posizioni dell’élite degli affari globali, ha recentemente pubblicato una notizia di copertina intitolata: “Bibi distruggerà Israele?” Sta emergendo un consenso internazionale sul fatto che il nuovo governo potrebbe alterare in modo significativo la traiettoria del capitalismo israeliano.

Il presupposto alla base del ministero delle Finanze israeliano, di Moody’s e dell’Economist è che gli Stati non democratici non sono in grado di fare buoni affari. Questo, tuttavia, è un mito liberista: molti Paesi non democratici sono enormi poli commerciali. I migliori esempi sono i nuovi alleati di Israele nel Golfo; per molti aspetti, l’autoritarismo può servire bene il capitalismo.

Inoltre, lo stesso Israele non può attualmente essere definito una democrazia in quanto tiene milioni di persone sotto controllo militare negando loro i diritti fondamentali. Ma gli investitori non hanno mai dimostrato di avere problemi reali con l’occupazione. L’atteso rallentamento economico, quindi, non sarà una semplice reazione al restringimento dello spazio democratico in Israele ma piuttosto il risultato di una profonda lotta sociale all’interno di Israele che espone il rischio economico allo sguardo degli osservatori esterni.

L’evoluzione del panico negli ultimi mesi è una profezia che si autoavvera. Molti membri dell’élite israeliana sono pronti a combattere, e in testa c’è il settore dell’alta tecnologia. I lavoratori della tecnologia, dai manager e dipendenti agli investitori, sono profondamente coinvolti nelle proteste contro il governo. Parlano di fine della democrazia israeliana e sono disposti a fare di tutto per fermare i piani del governo.

Allo stesso tempo, si stanno salvaguardando dai rischi prendendo in considerazione destinazioni dove migrare o la possibilità di spostare i loro soldi all’estero. Rapporti recenti suggeriscono un esodo di aziende high-tech in Grecia, Cipro o Albania, dove la scorsa settimana 80 aziende tecnologiche israeliane hanno tenuto un incontro per esaminare un possibile trasloco. Ricchi lavoratori high-tech stanno acquistando proprietà in Portogallo, temendo che la riforma vada a buon fine. Questi movimenti interni inviano al sistema finanziario internazionale un messaggio secondo cui la crisi è reale e Israele non costituisce una piazza sicura.

Gli investitori capitalisti non hanno necessariamente bisogno della democrazia. Hanno bisogno di stabilità e prevedibilità, beni che in Israele sono attualmente molto scarsi.

È anche l’occupazione

La prevista revisione giuridica fa parte di un più ampio passaggio al dominio dell’estrema destra nella politica israeliana. Tra le altre cose, la riforma è progettata per legalizzare l’annessione della Cisgiordania e consentire l’ulteriore persecuzione dei cittadini palestinesi, così come degli israeliani di sinistra. Una strategia politica più calcolata per il governo di Netanyahu sarebbe stata quella di raffreddare il più possibile la questione palestinese mentre veniva portato avanti il progetto giuridico. Separando le questioni della democrazia interna” israeliana dalla questione palestinese forse sarebbe stato più facile contrastare il movimento di protesta e la pressione internazionale.

Ma i membri della coalizione di Netanyahu si rifiutano di separare questi temi: stanno chiarendo che la loro preoccupazione principale nel portare avanti la riforma è perseguire i palestinesi in modo più brutale, lamentandosi del fatto che la Corte Suprema renda troppo difficile demolire le case o deportare i palestinesi. La retorica razzista pronunciata ogni giorno dai ministri del governo, l’intensificarsi della violenza di Stato in Cisgiordania che ha ucciso circa 80 palestinesi dall’inizio dell’anno, e il pogrom dei coloni a Huwara elogiato dai ministri del governo sono tutti segnali che questo è un governo di fanatici, determinato a dare fuoco alla regione. Questo, a sua volta, sminuisce la reputazione di Netanyahu come efficace leader neoliberista orientato al business. Non ha il controllo e le forze destabilizzanti su tutti i fronti – economico, sociale e militare – sembrano inarrestabili.

Sembra che le proteste interne e la pressione internazionale siano riuscite a congelare, anche se solo temporaneamente, l’ondata di modifiche nel campo giudiziario. Tuttavia, secondo molti analisti economici, gran parte del danno è già stato fatto. L’instabilità degli ultimi mesi e l’estremismo del governo hanno già spaventato molti investitori qualificando come rischiosa l’economia israeliana. Anche se la riforma è sospesa, Israele è sulla buona strada per una significativa recessione economica.

In pratica, stiamo assistendo alla frattura dell’alleanza egemonica tra il neoliberismo in stile Netanyahu e il capitale israeliano. Per anni, il progetto di neoliberismo isolazionista di Netanyahu si è basato sul fatto che Israele fosse un investimento troppo buono per mancarlo. La potenza economica e strategica di Israele avrebbe dovuto contrastare il consenso internazionale contro gli insediamenti coloniali e a favore di una soluzione a due Stati. Quindi Il capitale globale che ha permesso all’economia israeliana di prosperare è stato un elemento centrale nella lotta diplomatica contro la causa palestinese e per lungo tempo ha avuto successo.

Se l’economia dovesse subire una grave recessione, ciò potrebbe avere ripercussioni sull’apartheid israeliano. Con il conseguente caos sociale ed economico, potremmo assistere alla formazione delle prime crepe nell’impunità di Israele sulla scena mondiale.

Nimrod Flaschenberg è ex consigliere parlamentare del partito Hadash [partito politico israeliano di sinistra, ndt.]. Ora studia storia a Berlino.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Smotrich smaschera il vero volto genocida di Israele

Ali Abunimah

20 marzo 2023 – The Electronic Intifada

Bezalel Smotrich, il ministro delle finanze israeliano di estrema destra, ha dichiarato domenica a Parigi che i palestinesi non esistono.

Non esistono “i palestinesi perché non esiste il popolo palestinese”, ha detto Smotrich.

Le sue osservazioni sono state “accolte con applausi e ovazioni dai partecipanti”, ha osservato The Times of Israel e come mostrano i video dell’evento.

Smotrich è andato oltre, dichiarando che lui – un colono della Cisgiordania – è un “vero” palestinese.

Appesa al podio di Smotrich c’era una bandiera che raffigurava l’intera Palestina storica, la Giordania e parti del Libano e della Siria come appartenenti allo Stato sionista, rivelando un desiderio di una ancora più grande espansione territoriale che anche altri funzionari israeliani hanno espresso di recente.

L’affermazione che i palestinesi non esistono o sono un “popolo inventato” è diffusa tra i sionisti.

Nel 2014 Sheldon Adelson, il defunto miliardario grande donatore a favore delle cause anti-palestinesi e del Partito Repubblicano, ha dichiarato allo stesso modo che “i palestinesi sono un popolo inventato”.

Adelson ha aggiunto: “Lo scopo dell’esistenza dei palestinesi è distruggere Israele”.

Due anni dopo Brooke Goldstein, un’importante attivista della lobby israeliana negli Stati Uniti, ha affermato che “non esiste un individuo palestinese”.

Ma forse il fatto più noto è la dichiarazione del 1969 del primo ministro israeliano Golda Meir secondo cui “non esistono palestinesi”.

Meir era uno dei pilastri dell’establishment del partito laburista di Israele che si pretendeva di sinistra.

L’ultimo commento di Smotrich arriva poche settimane dopo aver dichiarato che la città palestinese di Huwwara dovrebbe essere “spazzata via” dallo Stato di Israele.

Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich pensi davvero ciò che dice e, se gli fosse data l’opportunità, lui e il movimento politico in ascesa che rappresenta realizzerebbero questa opzione.

Inoltre, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che ciò di cui Smotrich sta parlando e propagandando è il genocidio del popolo palestinese.

Né le osservazioni di Smotrich sono sfoghi sconsiderati; riflettono un pensiero profondo e attento e un’ideologia coerente.

Valori delle SS tedesche

Nel 2017, Smotrich elaborò un piano per costringere il popolo palestinese a lasciare la propria terra e per occupare una volta per tutte l’intero territorio.

All’epoca, Daniel Blatman, professore di studi sull’Olocausto all’Università Ebraica, scrisse che Smotrich aveva preso ispirazione per il suo piano dal libro biblico di Giosuè, che descrive il massacro totale di un popolo da parte dei “figli di Israele”.

Blatman definì Smotrich, che allora era vicepresidente del parlamento israeliano, la Knesset, “la più importante figura di governo fino ad oggi a dire sfacciatamente che l’opzione del genocidio è sul tavolo se i palestinesi non accettano i nostri termini”.

Secondo il piano di Smotrich, i palestinesi avrebbero dovuto sottomettersi completamente alla supremazia ebraica o essere costretti ad andarsene.

Oggi Smotrich non solo controlla il ministero delle finanze, ma gli sono stati conferiti poteri speciali sulla cosiddetta amministrazione civile, la burocrazia di occupazione militare israeliana che gestisce la vita di milioni di palestinesi, persone che Smotrich ritiene inesistenti.

“L’ammirazione di Smotrich per il genocida biblico Joshua bin Nun lo porta ad adottare valori che assomigliano a quelli delle SS tedesche”, ha aggiunto Blatman, un ex membro del Museo commemorativo dell’Olocausto degli Stati Uniti.

Va sottolineato che anche allora il primo ministro Benjamin Netanyahu era disposto a dare un implicito segno di approvazione alle idee di Smotrich.

“Sono stato felice di sentire che stai indirizzando la discussione dell’incontro al tema del futuro della Terra di Israele”, ha detto Netanyahu in un saluto registrato riprodotto durante l’incontro in cui Smotrich ha esposto il suo piano di genocidio.

Fino a non molti anni fa questo Paese era deserto e abbandonato, ma da quando siamo tornati a Sion, dopo generazioni di esilio, la Terra di Israele è fiorente”, ha affermato Netanyahu.

Tentativi “liberal” di mascheramento.

I sionisti “liberal” hanno già compiuto intensi sforzi per ritrarre personaggi del calibro di Smotrich e il ministro della sicurezza nazionale kahanista [seguace del defunto rabbino Kahan, ndt] israeliano Itamar Ben-Gvir come aberrazioni che in qualche modo non sono veri rappresentanti di Israele e del sionismo.

Possiamo aspettarci che questi sforzi di occultamento si intensifichino.

Ma non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich stia semplicemente articolando l’ideologia e la politica fondative di Israele.

Nel 2004, il quotidiano “liberal” israeliano Haaretz ha intervistato Benny Morris, uno dei “nuovi storici” israeliani che negli anni ’80 ha utilizzato fonti sioniste per convalidare i resoconti palestinesi della Nakba – la sistematica pulizia etnica della Palestina del 1948 durante la quale le milizie sioniste perpetrarono stupri, omicidi arbitrari e dozzine di massacri.

Morris ha spiegato che David Ben-Gurion, il primo ministro fondatore di Israele – come Meir un pilastro del Partito laburista di sinistra nominalmente laico – ha diretto personalmente il deliberato “trasferimento” del popolo palestinese da gran parte della sua patria.

“Ben-Gurion era favorevole al trasferimento”, ha spiegato Morris. “Ha capito che non poteva esistere uno Stato ebraico con una numerosa e ostile minoranza araba al suo interno. Non ci sarebbe stato un tale Stato. Non sarebbe stato in grado di esistere”.

“Non ti sento condannarlo”, ha detto a Morris l’intervistatore di Haaretz.

“Ben-Gurion aveva ragione”, ha risposto Morris. “Se non avesse fatto quello che ha fatto, uno Stato non sarebbe venuto in essere. Questo deve essere chiaro. È impossibile evitarlo. Senza lo sradicamento dei palestinesi, qui non sarebbe sorto uno Stato ebraico”.

Ma per Morris, l’errore di Ben-Gurion è che non ha fatto una sufficiente pulizia etnica.

Dato che lui [Ben-Gurion] era già impegnato nell’espulsione, forse avrebbe dovuto fare un lavoro completo”, ha affermato Morris.

“So che questo fa inorridire gli arabi, i “liberal” e i tipi politicamente corretti”, ha detto Morris. “Ma la mia sensazione è che questo posto sarebbe più tranquillo e conoscerebbe meno sofferenze se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben-Gurion avesse effettuato una grande espulsione e ripulito l’intero paese, l’intera Terra d’Israele, fino al fiume Giordano”.

“Potrebbe anche diventare evidente che questo è stato il suo errore fatale”, ha aggiunto Morris. “Se avesse effettuato un’espulsione totale – piuttosto che parziale – avrebbe stabilizzato lo Stato di Israele per generazioni”.

Nessuno che si definisca sionista, sia di “sinistra” che di estrema destra, può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris.

Ecco perché nessuno che si definisce sionista sostiene il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

È per questo che i sionisti, anche della varietà “liberal”, si preoccupano costantemente della “minaccia demografica” derivante dalla nascita di bambini palestinesi.

Questo è genocidio

E se nessun sionista può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris, allora non può nemmeno essere in disaccordo con Smotrich.

In effetti, lo stesso Smotrich ha fatto eco a Morris quasi alla lettera nel 2021, quando ha urlato ai legislatori palestinesi nel parlamento israeliano che “è stato un errore che Ben-Gurion non abbia finito il lavoro e non vi abbia buttati fuori nel 1948”.

Possono fingere shock e disgusto per il linguaggio di Smotrich, ma chiunque creda che Israele debba rimanere uno “Stato ebraico” con una maggioranza ebraica deve almeno sostenere la pulizia etnica dei palestinesi che Israele ha perpetrato fino ad oggi, indipendentemente dal fatto che sostenga o meno attivamente ulteriori espulsioni su vasta scala in futuro.

In effetti la posizione del numero sempre minore di “liberal” israeliani e di altri sostenitori della cosiddetta soluzione dei due Stati può essere riassunta come segue: sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra che Israele ha già effettuato, ma pensiamo che le future espulsioni e sottrazioni di terre dovrebbero essere limitate, anche se è ampiamente aperto il dibattito sulla loro entità.

Mentre la posizione di Smotrich e compagnia è: noi, come voi, sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra fino ad oggi, ma pensiamo che ce ne debba essere molto di più.

Moralmente e praticamente non c’è differenza perché entrambe le posizioni relegano milioni di palestinesi a vivere sotto il brutale dominio del suprematismo e dell’apartheid ebraico, o esiliati dalla loro patria, solo ed esclusivamente perché non sono ebrei.

Insieme alle frequenti affermazioni secondo cui i palestinesi non esistono e non sono mai esistiti come popolo, le espulsioni e i massacri di Israele trascendono il crimine già sufficientemente orribile della pulizia etnica ed entrano nel regno del genocidio: la completa cancellazione dei palestinesi come popolo.

Anche qui, la posizione di Smotrich secondo cui i palestinesi non hanno esistenza e tanto meno diritti come popolo non è un’aberrazione ma un riflesso del consenso israeliano.

Ricordiamo che nel 2018 Israele ha adottato la cosiddetta Legge sullo Stato-Nazione, uno strumento costituzionale che dichiara che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivo del popolo ebraico”, negando così ai palestinesi qualsiasi diritto nazionale o esistenza.

E a dicembre, quando il nuovo governo di coalizione di Benjamin Netanyahu si è insediato, ha dichiarato come primi principi guida che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della terra di Israele”.

Israele torna alle sue radici

Si dice spesso, comprensibilmente, che l’attuale governo israeliano sia il più apertamente razzista e di destra della storia.

Ciò può essere vero in termini di retorica, ma non c’è alcuna differenza pratica tra il fondatore “socialista” laico di Israele, David Ben-Gurion, e un sionista religioso di estrema destra come Smotrich.

Ma dopo decenni di soppressione del linguaggio apertamente genocida di Smotrich a favore della presentazione di un volto “liberal” e “democratico”, perché gli israeliani ora stanno abbracciando questa retorica?

Ciò dipende dal fatto che il “problema demografico” di Israele – l’esistenza di “troppi” palestinesi che vivono e respirano sul proprio suolo – sta diventando urgente.

Con gli ebrei ancora una volta una minoranza tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, molti israeliani sentono chiaramente di non avere altra scelta che tornare pienamente alle radici genocide del loro paese.

Ecco perché l’ostracismo verso Smotrich – come hanno fatto i funzionari francesi rifiutandosi di incontrarlo durante la sua permanenza nel loro paese – è insufficiente e fuorviante perché ritrae falsamente un “estremista” come il problema.

Il problema è il sionismo stesso e l’incubo genocida e coloniale in corso che ha scatenato sul popolo palestinese e sulla sua terra.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Le proteste in Israele: una rivolta per lo status quo

Ben White

13 marzo 2023 – The New Arab

Le proteste antigovernative israeliane non riguardano un cambiamento “rivoluzionario”, ma il mantenimento dello status quo, sostiene Ben White, uno status quo che include un regime di apartheid per i palestinesi.

“Dov’eri ad Hawara?” Così recita il coro rivolto di recente alla polizia israeliana dai manifestanti [israeliani, ndt] antigovernativi, in seguito all’orrendo attacco dei coloni nella città dell’area di Nablus.

Mentre per alcuni, le accuse ripetute sono da intendersi come un atto d’accusa contro l’impunità dei coloni, hanno anche un messaggio più problematico. L’implicazione è che la polizia fosse assente, un vuoto sfruttato da coloni fanatici. In realtà le forze israeliane erano presenti e hanno accompagnato e protetto i coloni.

Una domanda di gran lunga migliore di “Dov’eri ad Hawara?” sarebbe “Perché siamo ad Hawara?” Ma questo interrogativo non viene posto, figuriamoci dare una risposta. Il movimento di protesta che attanaglia Israele ha un obiettivo semplice: fermare un governo nel suo cammino. Non vuole il cambiamento, vuole che le cose rimangano le stesse.

Questa è la chiave per capire come e perché l’opposizione ai piani del governo abbia mobilitato settori della società, comprese le grandi imprese e l’hi-tech, fino ai riservisti d’élite.

La folla per le strade e le promesse di disobbedienza civile possono sembrare ad alcuni una “rivoluzione”, ma la forza trainante è un appello per la stabilità dello status quo, che include il regime di apartheid sperimentato dai palestinesi.

Legge e ordine coloniale: rendere legale l’illegale

Si è parlato molto delle voci di protesta provenienti da attuali ed ex membri dei servizi militari, di sicurezza e di intelligence israeliani. Haaretz ha recentemente pubblicato un ampio articolo in cui intervista approfonditamente un certo numero di riservisti che si stanno mobilitando contro la revisione del sistema legale, che includerà – tra le altre modifiche – il potere della Knesset di annullare le sentenze della Corte Suprema.

Alcuni sono stati invitati a riflettere sul motivo per cui questi sviluppi li hanno spinti a rifiutare il servizio diversamente da quanto successo in seguito alle esperienze nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza. Le loro risposte sono istruttive:

Sapevamo molto bene cosa stavamo facendo. Non ci siamo opposti, non ci siamo rifiutati di obbedire agli ordini, perché capivamo che questo è un Paese democratico”.

“Almeno fino ad oggi, potevi dire a te stesso che tutte quelle decisioni, anche quando erano controverse… venivano prese all’interno delle regole del gioco di un paese democratico”.

“Potevi avere dubbi sulla loro moralità, ma erano state prese nel contesto di un conflitto lungo anni tra due parti, una delle quali si comportava come una democrazia”.

Quando ti viene richiesto di compiere azioni nell’area grigia, sull’orlo del nero, specialmente rispetto agli attacchi a Gaza, lo fai come missione ordinata da un governo che agisce nel quadro di regole del gioco chiare e definite”.

L’idea che i propri ordini siano stati legalmente approvati, e la convinzione che Israele sia un “paese democratico”, sono un elemento centrale nell’autogiustificazione per compiere atti che sono, di fatto, illegali (a livello internazionale) e profondamente anti-democratici (mantenimento di un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi).

Un’altra lettera di circa 150 riservisti dell’esercito israeliano che prestano servizio come specialisti informatici ha avvertito che se le modifiche proposte diventeranno legge, “il quadro morale e legale che ci consente di sviluppare e gestire gli strumenti sensibili che utilizziamo sarà danneggiato”.

“Ci consente” di pronunciarci in più di un senso. Il 12 febbraio, il Comitato Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset ha ascoltato una discussione sulle “possibili conseguenze” dei nuovi cambiamenti “sui tentativi di Israele di far fronte alla campagna legale internazionale” – vale a dire gli sforzi per portare in giudizio i responsabili dei crimini di guerra commessi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Il vice procuratore generale Gilad Noam è stato chiaro: la “percezione del sistema giudiziario israeliano nell’arena internazionale come indipendente, professionale e apolitico” è stata “una barriera molto significativa all’intervento esterno”, paragonata nel suo impatto a “Iron Dome” [il sistema di difesa antimissilistico utilizzato contro i razzi provenienti dalla Striscia di Gaza, ndt].

Indipendentemente dalla realtà di un sistema caratterizzato non solo da una cultura dell’impunità ma anche da “innovazioni” giuridiche per giustificare i crimini di guerra, è la “percezione” dell’indipendenza del sistema giudiziario che conta. Ora, i funzionari israeliani – e i riservisti dell’aeronautica – sono preoccupati di poter essere soggetti ad arresti in altri paesi.

I palestinesi e le proteste: assenti e presenti

Tali discussioni, e la mobilitazione dei riservisti, sono un esempio di come i palestinesi siano sia assenti che presenti nel movimento di protesta israeliano.

Sono assenti nel senso che non c’è riconoscimento della loro realtà di espropriazione, segregazione e violenza. Le poche bandiere palestinesi apparse inizialmente hanno solo stimolato un’ondata di bandiere israeliane. Gli stessi cittadini israeliani palestinesi non si sono presentati in gran numero.

Eppure i palestinesi sono anche “presenti” in quanto fanno parte di questa storia in ogni momento – dalle ragioni della mancanza di una costituzione formale da parte di Israele negli anni successivi alla Nakba, fino alle ambizioni di Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir per l’accelerazione dell’espansione coloniale e dell’annessione.

Colpisce che il bulldozer corazzato D9 dell’esercito israeliano sia diventato una metafora popolare per indicare la riforma del sistema giudiziario dell’attuale governo tra i suoi oppositori, tra cui l’ex primo ministro Ehud Barak, l’ex ministro della difesa Moshe Ya’alon e l’ex parlamentare del Likud Limor Livnat.

L’allusione senza ironia al D9 – utilizzato per demolire migliaia di case palestinesi – illustra perfettamente i parametri di queste proteste e quale tipo di “democrazia” cercano di preservare.

Un’occupazione ordinata

Una delle ironie delle attuali divisioni politiche che attanagliano la società israeliana, e della situazione in cui si trova Netanyahu, è che la forza dell’opposizione alla legislazione pianificata è, in parte, la testimonianza di quanto successo abbia avuto il leader del Likud nella “gestione del conflitto”. ‘.

Riconfezionata sotto Naftali Bennett come “restringimento dell’occupazione”, il suo nocciolo era facilmente comprensibile: l’economia israeliana è solida, i palestinesi sono sotto controllo e, a poco a poco, la colonizzazione e l’annessione de facto possono procedere in modo incrementale: l'”occupazione invisibile”.

È una adesione a questo status quo che anima il movimento di protesta: un ambiente stabile per gli investimenti e una magistratura indipendente dalla Knesset ma per niente indipendente dalla spinta colonizzatrice in Cisgiordania o dalla discriminazione subita dai cittadini palestinesi.

La furia dei coloni ha reso Hawara una parola d’ordine tra i manifestanti israeliani per la sua caotica incompetenza e fanatismo. Ma l’esperienza di Hawara sotto il governo militare, come per centinaia di altre comunità palestinesi, non è stata di “caos” ma di ordine: un ordine coloniale.

Ben White è uno scrittore, analista e autore di quattro libri, tra cui “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non rappresentano necessariamente quelle di The New Arab, del suo comitato editoriale o della redazione.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




‘I palestinesi sono animali’ – Perché molti ebrei israeliani approvano il pogrom dei coloni

Philip Weiss

7 marzo 2023 – Mondoweiss

C’è un’opinione diffusa tra molti israeliani: ok, questa è la situazione, comunque loro sono animali, comportiamoci allo stesso modo”, dice Amos Harel riguardo alla visione israeliana degli attacchi dei coloni contro i palestinesi.

Un importante giornalista israeliano la scorsa settimana ha spiegato agli ebrei americani che molti nella società israeliana approvano il “pogrom” dei coloni contro il villaggio palestinese di Huwwara perché considerano i palestinesi “animali” ed accettano come normale l’occupazione.

Parlando all’associazione della lobby filoisraeliana ‘Israel Policy Forum’ (IPF), Amos Harel del quotidiano Haaretz [principale quotidiano israeliano di centro sinistra, ndt.] ha detto che la furia dei coloni a Huwwara il 26 febbraio, che ha ucciso un palestinese e distrutto negozi e automobili, ricorda il Ku Klux Klan che terrorizzava i neri nel sud [degli USA, ndt.], o i pogrom russi contro gli ebrei.

Susie Gelman, presidentessa dell’IPF, ha quindi chiesto se gli israeliani provassero orrore per Huwwara e se il pogrom potesse aprire gli occhi a coloro che hanno rimosso gli orrori della Cisgiordania. Harel ha detto che la maggioranza non prova orrore, che Huwara potrebbe essere “il lato oscuro della luna” benché disti 45 minuti dalla periferia di Tel Aviv.

E per molti israeliani il pogrom è assolutamente giustificabile, occhio per occhio:

La maggioranza degli israeliani rimuove ciò che accade nei territori [occupati, ndt.], non va a visitarli…Per la maggior parte delle persone è una specie di realtà oscura che avviene altrove e che non ha praticamente niente a che fare con loro…

Molti israeliani che hanno saldi principi si sentono malissimo riguardo a quanto è accaduto. Altri dicono: ‘Gli sta bene, bisogna fare così: occhio per occhio, dente per dente’. E purtroppo ciò che sentite è quanto affermano anche alcune persone di destra, non solo i politici di estrema destra.

C’è un’opinione tra molti israeliani: ok, questa è la situazione, comunque loro sono animali, comportiamoci allo stesso modo. Questo spaventa moltissimo, e penso che sia uno dei risultati o delle implicazioni di una lunga occupazione. Io sono nato dopo la Guerra dei Sei Giorni [nel 1967, ndt.], questa è la realtà che conosco. Molte altre persone non pensano neanche più a questo. Fa parte della realtà – gli ebrei stanno sopra, gli arabi sotto, le cose stanno così. Ma ovviamente sul lungo termine questo non può durare per sempre. Ci sarà un alto prezzo morale da pagare per questa situazione, soprattutto se si pone all’interno dell’equazione anche la religione, che a mio avviso è parte del problema.”

È importante sottolineare che quando si tratta di rimuovere gli orrori dell’occupazione i capi degli ebrei sionisti americani sono stati centrali nel soffocare questa consapevolezza negli USA. L’‘Israel Policy Forum’ è tra le associazioni filoisraeliane che hanno agito a Washington per fornire a Israele un’assoluta impunità politica per le sue violazioni delle Convenzioni di Ginevra nell’insediare e popolare colonie per 55 anni, al punto che ora ci sono più di 700.000 coloni ebrei soggetti a leggi differenti rispetto ai palestinesi che vivono sotto occupazione.

Per esempio, l’‘Israel Policy Forum’ ha difeso Israele dalle accuse di “apartheid” avanzate da importanti associazioni per i diritti umani. Nondimeno Harel ha detto che i recenti cambi nell’amministrazione sotto il governo Netanyahu non fanno che rafforzare le accuse, ponendo i palestinesi della Cisgiordania sotto la competenza del Ministero della Difesa e i coloni ebrei sotto l’autorità del Ministero delle Finanze.

[Harel] ha motivato l’uso di termini come “pogrom” e “KKK” relativamente alla furia dei coloni, seguita all’uccisione di due coloni israeliani da parte di un palestinese armato di fucile sulla strada principale di Huwwara:

Questo è il termine che utilizzano i media israeliani: è stato un pogrom. E’ stato compiuto da decine, se non centinaia, di coloni che hanno dato fuoco a negozi e case in tutto il villaggio di Huwwara…La cosa più sconcertante forse è stato il fatto che l’esercito israeliano non ha agito, non è intervenuto, ci è voluto molto tempo…prima che iniziasse a impedire ai coloni ulteriori rappresaglie…Sembrava che un uragano fosse passato per la strada principale del villaggio…E’ stato molto preoccupante da un punto di vista strategico – significa maggiore escalation e maggiore violenza…E dal punto di vista etico…ciò che abbiamo visto, e mi scuso per il brutale linguaggio che sto usando, è stato un KKK locale scatenato per tutte le strade di Huwara: è qualcosa che come ebrei e israeliani non possiamo permettere.”

I ministri di destra fascisti nella coalizione di Netanyahu pensano che “forse una nuova Nakba non è una cattiva idea, una deportazione di palestinesi.”, ha detto Harel. “Sono le persone che fanno parte della struttura decisionale. Non sono dei fanatici. Sono le persone su cui Netanyahu fa affidamento.”

Harel prevede che a causa delle proteste senza precedenti in Israele Netanyahu non andrà avanti con la riforma giudiziaria che ha predisposto, e che alla fine il governo cadrà perché l’estrema destra sarà delusa da Netanyahu e lo abbandonerà.

Ha anche detto che la presenza nelle manifestazioni di riservisti dell’esercito e di altre forze di sicurezza ha dato loro un carattere “militarizzato”, ma le rende più efficaci in quanto rappresentano “il cuore, l’anima e la spina dorsale della società israeliana.”

Se parlate con i funzionari, sono tutti molto preoccupati (dalle proposte di riforma di Netanyahu)… Ex importanti membri del Mossad [servizi segreti israeliani per l’estero, ndt.) e funzionari dello Shin Bet [servizi segreti interni, ndt.] partecipano alle manifestazioni…C’è qualcosa di molto militaresco nelle proteste israeliane, ma anche di patriottico…E’ così che bisogna fare. Usare i generali, le uniformi e le truppe per far valere la propria autorità, se volete, per farsi sentire.”

Philip Weiss

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net e ha fondato il sito nel 2005-06.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)