Perché il governo della “seconda Nakba” vuole ricostruire lo Stato israeliano

Meron Rapoport e Ameer Fakhoury

9 dicembre 2022 – +972 Magazine

In Israele la crociata dell’estrema destra contro il liberalismo laico sta provocando una diffusa opposizione, ma non può essere distinta dalla missione anti-palestinese dello Stato.

È difficile ricordare l’ultima volta che un governo israeliano ha suscitato un’opposizione e una resistenza così diffuse prima ancora di insediarsi. La nuova coalizione di estrema destra del primo ministro entrante Benjamin Netanyahu ha indotto decine di sindaci in tutto il Paese a dichiarare che non collaboreranno con il membro ultra-religioso e palesemente omofobo della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Avi Maoz, destinato a dirigere l’organo responsabile dei corsi extracurriculari [“Dipartimento dell’identità ebraica nazionale”, con delega sui contenuti dei programmi scolastici, ndt.] e che sembra prepararsi a bloccare i programmi educativi volti a insegnare i valori liberali, l’uguaglianza di genere e la tolleranza verso le minoranze.

Gadi Eizenkot, ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha invitato a protestare in massa nelle strade, così come il primo ministro uscente Yair Lapid, che si è impegnato a “proteggere i tribunali, l’esercito e le scuole”. Allo stesso modo, il responsabile dell’Israel Bar Association [l’associazione forense che accoglie tutti gli avvocati israeliani, ndt.] ha affermato che le persone dovrebbero “scendere in piazza” per impedire al governo di attuare i suoi piani rivolti a frenare l’autorità dei tribunali e consentire ai politici di determinare le nomine giudiziarie. Lunedì il capo di stato maggiore uscente, Aviv Kochavi, avrebbe affermato in colloqui riservati che non permetterà a nessun politico – che non sia il ministro della Difesa – di nominare alti ufficiali militari, né di sottrarre ai militari la responsabilità della polizia di frontiera della Cisgiordania. La presidente della Corte Suprema, Esther Hayut, ha affermato che se l’indipendenza del sistema giudiziario dovesse essere messa a repentaglio i giudici non saranno in grado di “adempiere al loro dovere”.

Mentre Netanyahu distribuisce i più importanti incarichi ministeriali agli elementi più estremisti della sua coalizione, il termine “disobbedienza civile” è diventato un grido di battaglia per le persone che costituiscono il cuore pulsante della classe dirigente israeliana. I semi di questa nuova resistenza non sono stati piantati solo in risposta ai termini scritti degli accordi della nuova coalizione, ma anche a seguito delle iniziative che non compaiono sulla stampa.

Sebbene i piani della coalizione coprano varie questioni della vita politica israeliana, possono essere riassunti in due temi principali: primo, consegnare tutti gli “affari palestinesi” su entrambi i lati della Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.] alla destra razzista dei coloni, promuovendo al contempo un’annessione e un apartheid formalizzati; in secondo luogo, imporre all’opinione pubblica israeliana una visione sfacciatamente anti-liberale dell’ebraismo e stravolgere le istituzioni democratiche già indebolite di Israele, in particolare la magistratura.

Il tentativo di rafforzare l’annessione e l’apartheid nei territori occupati può essere immediatamente riscontrabile nel consenso di Netanyahu a dare il controllo dell’Amministrazione Civile e del Coordinamento delle Attività di Governo nei Territori (COGAT), che gestiscono gli affari quotidiani di milioni di palestinesi sotto occupazione, a Bezalel Smotrich [leader del Partito Sionista Religioso, di estrema destra, ndr.] e alla riassegnazione della polizia di frontiera all’autorità di Itamar Ben Gvir [leader del partito israeliano di estrema destra Otzma Yehudit, ndt.] come nuovo “ministro della sicurezza nazionale”.

Queste mosse non solo hanno ricevuto forti risposte dalla sinistra radicale e dalle organizzazioni per i diritti umani, ma anche da membri direttivi della sicurezza israeliana, che temono che questa nuova titolarità possa cambiare lo status quo dell’occupazione e portare al crollo dell’Autorità Nazionale Palestinese come subappaltatore della sicurezza di Israele. Se si aggiungono i tentativi di attuare misure anti-liberali e anti-democratiche si potrà assistere alla discesa in campo di gran parte del settore laico-liberale, e persino di alcuni sostenitori del Likud [partito nazionalista liberista e di destra israeliano, guidato da Netanyahu, ndt.]. Questi due ceppi di resistenza si stanno ora fondendo per formare qualcosa che non si vedeva da decenni.

Un antidoto ai vecchi paradigmi

Quindi ci si deve chiedere perché Netanyahu abbia deciso di unire così saldamente le iniziative anti-palestinesi e anti-liberali della sua coalizione. Il Primo Ministro entrante comprende sicuramente che la sua più grande minaccia dall’interno della società israeliana proviene proprio da coloro che si oppongono ai disegni del nuovo governo sia contro il secolarismo che contro i tribunali. Detto questo, affidare a uno come Avi Maoz l’incarico su programmi educativi aggiuntivi è semplicemente una manovra diversiva per consentire alle politiche anti-palestinesi di passare inosservate, come sostengono alcuni? O fa davvero parte di un pacchetto completo che non può essere scomposto nella somma delle sue parti?

Per capire come siamo arrivati a questo punto in cui due dei membri più dichiaratamente razzisti della Knesset che sostengono una seconda Nakbacome soluzione migliore sono ora responsabili degli affari palestinesi dobbiamo tornare agli anni ’90, quando Israele adottò gli Accordi di Oslo come percorso per affrontare il conflitto israelo-palestinese.

Gli accordi di Oslo si basavano sull’idea che attraverso l’istituzione di uno Stato palestinese o di un qualche tipo di entità che potesse essere etichettata come Stato” – in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, Israele potesse tornare ad essere ebraico e democratico, come i suoi fondatori apparentemente sognavano. Questo processo si basava anche sulla separazione dell’occupazione militare del 1967, a cui i funzionari israeliani ritenevano si potesse porre fine, dalla Nakba del 1948, che causò l’espulsione di oltre 750.000 palestinesi dalla loro patria e il rifiuto di lasciarli tornare, e che Israele vedeva come una questione conclusa. A trent’anni dalla nascita di Oslo appare chiaro che questa strategia è fallita.

Poi è arrivata la violenza brutale della Seconda Intifada [rivolta palestinese esplosa a Gerusalemme il 28 settembre del 2000, in seguito estesa a tutta la Palestina, ndt.], che ha incoraggiato la convinzione che Israele potesse porre fine al conflitto, o almeno ridurlo al minimo, attraverso mosse unilaterali. L’istituzione della barriera di separazione all’interno della Cisgiordania e il disimpegno da Gaza sono stati i due risultati più eclatanti di questa strategia. L’idea di “circoscrivere il conflitto”, che da allora ha guidato il pensiero politico di Israele, potrebbe non essere scomparsa, ma neanche i suoi più grandi assertori sostengono che risolverà il conflitto.

Da quando è tornato al potere nel 2009 Netanyahu ha rafforzato l’idea di mantenere lo “status quo”. Ma questo status quo è stato tutt’altro che stagnante: i successivi governi israeliani hanno perseguito un’annessione strisciante e la lenta costruzione dietro le quinte di un regime di apartheid. Ma al centro della strategia di Netanyahu c’è la convinzione che Israele possa fiorire e prosperare rimuovendo la questione palestinese dall’agenda pubblica. In altre parole, viene spianata la strada verso uno splendido nuovo futuro col rendere la storia palestinese priva di interesse e irrilevante.

Questa politica in generale ha avuto successo e gli Accordi di Abramo, che hanno visto Israele firmare trattati di normalizzazione con diversi Stati arabi, avrebbero dovuto costituire il suggello finale. Ma gli eventi del maggio 2021 e l’esplosione della violenza nelle cosiddette “città miste” di Israele hanno ricordato all’opinione pubblica ebraica ciò che i palestinesi hanno sempre saputo: il conflitto non sta andando da nessuna parte e continua a condizionare la vita di tutti gli ebrei e palestinesi tra il fiume (Giordano) e il mare (Mediterraneo).

Ben Gvir e Smotrich propongono un antidoto a questa situazione in cui sia il paradigma di Oslo che quello dello status quo si sgretolano davanti ai nostri occhi. Entrambi i politici cercano di porre in ginocchio i palestinesi dando loro due opzioni: o una resa totale e l’accettazione della supremazia ebraica in tutto il Grande Israele, o l’emigrazione. Il piano dettagliato di Smotrich per la resa palestinese, pubblicato nel 2017, include una clausola in base alla quale le forze di sicurezza israeliane possono trattare chiunque si opponga a queste due opzioni “con una forza maggiore di quella che usiamo oggi e sulla base di condizioni a noi più favorevoli”. Insomma, una nuova Nakba.

Questo è anche ciò che sta alla base degli accordi di coalizione di Smotrich e Ben Gvir con Netanyahu. Ben Gvir ambisce al controllo della polizia non per diminuire la criminalità nella società araba in Israele, poiché così facendo si otterrebbe l’ultima cosa che desidera: permettere ai cittadini palestinesi di vivere in pace e sicurezza nelle loro comunità. Se la criminalità dovesse diminuire, la causa nazionale tornerà probabilmente al centro della scena, proprio ciò che Ben Gvir vuole impedire. Il ministro della Sicurezza Nazionale entrante vuole uno scontro frontale tra i cittadini palestinesi e le autorità, e prevede di utilizzare la polizia di frontiera in Cisgiordania per lo stesso scopo: intensificare il conflitto.

Allo stesso modo, Smotrich vuole avere il controllo dell’Amministrazione Civile e del COGAT non solo perché andrà a vantaggio dei coloni. La sua massima priorità è portare allo scioglimento dell’Autorità Nazionale Palestinese, nella speranza di seminare il caos nei centri urbani della Cisgiordania. Tale caos richiederà l’intervento dell’esercito israeliano e Smotrich e Ben Gvir sperano che tale intervento conduca al momento decisivo in cui i palestinesi o cederanno o verranno espulsi.

Separare la democrazia dal colonialismo

Questa situazione così pericolosa ha radici che vanno molto più in profondità di questa schiera relativamente nuova di fondamentalisti. Uno Stato che è nato nel 1948 da una pulizia etnica e che ha tenuto sotto controllo militare milioni di persone per oltre mezzo secolo non può essere considerato una democrazia. Eppure, è imperativo capire esattamente perché la destra ha accelerato ora la sua crociata antiliberale e antidemocratica.

Come altre società di colonizzatori, il sionismo ha cercato di stabilire una “società modello” che fosse democratica – solo per i coloni. In questo senso il colonialismo di insediamento israeliano non è del tutto esclusivo; modelli simili potrebbero essere riscontrati negli Stati Uniti, in Sud Africa e in Australia. Questa società modelloera necessaria per tenere uniti all’interno i coloni ebrei che arrivarono in Palestina per fondare una casa sicura per se stessi, ma che si trovarono di fronte a una società autoctona giustamente resistente.

Tuttavia ciò che distingue il sionismo dalle altre società improntate sul colonialismo di insediamento è che le condizioni per l’ammissione nella società dei coloni si basano sia sull’etnia che sulla religione. I primi coloni in quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti erano dei bianchi che arrivavano dall’Europa, ma la società americana trovò il modo di raccogliere i coloni provenienti dall’Asia, dal Sud America, dall’Irlanda e altri luoghi intorno alle sue ambizioni coloniali nei confronti dei nativi americani. In Israele, con la sua esclusività etnico-religiosa, questo è impossibile. E mentre in Nord America la popolazione indigena è stata quasi completamente spazzata via dal genocidio, in Israele-Palestina i palestinesi autoctoni sono rimasti in massa, mettendo a dura prova lo Stato colonizzatore.

Tuttavia negli ultimi anni il contratto sociale ebraico-israeliano che consentiva l’unità e la coesione interna ebraica si è inaridito. Agli occhi di molti ebrei israeliani l’ideale di un modello di società democratica ha perso la sua magia, e ora essi preferiscono una versione diversa del regime in cui l’ebraismo come religione – dalla versione haredi [ultra-ortodossa, ndt.] proposta dallo Shas [partito politico israeliano che rappresenta principalmente gli ebrei ultra ortodossi sefarditi e mizrahì, in gran parte immigrati dai Paesi arabi, ndt.] e United Torah Judaism [alleanza di due partiti politici che rappresentano gli interessi degli ebrei aschenaziti, discendenti degli ebrei dell’Europa centrale e orientale, ndt.], alle visioni nazionaliste-religiose di Smotrich e Ben Gvir — è posto al di sopra delle istituzioni secolari che furono costruite dai fondatori del sionismo.

Le ragioni di questa crisi sono molteplici. Come ha spiegato in queste pagine Avi-ram Tzoreff, questo è in gran parte il risultato della ridistribuzioneall’interno della società coloniale dei frutti della colonizzazione tra la vecchia élite ashkenazita, che ha raccolto i benefici della Nakba e della guerra del 1967, e le classi medie e lavoratrici costituite soprattutto dai mizrahi, che vogliono una fetta più grande della torta.

Queste tendenze sono state rafforzate da diversi altri fattori, tra i quali: il fatto che il sionismo non ha mai veramente deciso se basarsi su una definizione nazionalista o religiosa, il che ha portato all’indebolimento del campo laico in Israele; un cambiamento demografico a favore degli haredi e delle popolazioni nazional-religiose; il processo per corruzione in corso nei confronti di Netanyahu, e il modo in cui egli ha fatto tutto il possibile per minare il sistema giudiziario. Ma soprattutto c’è il fatto che i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde rifiutano di accettare la supremazia ebraica come legge del territorio, sfidando apertamente il regime più e più volte.

L’opposizione del nuovo governo all’Ancien Régime è, in fondo, un’opposizione al vecchio contratto sociale che ha costituito le fondamenta del sionismo laico che ha dato vita allo Stato di Israele. Per cambiare il regime dovrà subordinare i tribunali e i consulenti giuridici ai capricci della coalizione, aggiungendo un forte sapore fondamentalista religioso alle sue nuove politiche, come cambiare i criteri per la Legge del Ritorno in modo che solo gli ebrei “purosangue” possano trasferirsi in Israele.

Inoltre sembra che l’estrema destra veda i resti del vecchio regime, che conserva una versione più gentiledella supremazia ebraica gradita al mondo occidentale, come un ostacolo al progetto di sconfiggere i palestinesi. Pertanto solo la loro versione di uno Stato ebraico – teocratico e fermamente antiliberale, in cui vengano soggiogate le minoranze razziali, etniche e sessuali di ogni tipo – può portare alla vittoria finale di Israele. In questo senso, c’è un’intima connessione tra le ambizioni antipalestinesi e antisecolari della destra. Per intenderci, senza un fondamentalismo messianico a sostenerla la sola logica coloniale  non riuscirà a portare a termine il lavoro.

È molto probabile che Ben Gvir e Smotrich temano che il liberalismo laico possa minare l’intera struttura coloniale, aprirla e distruggerla dall’interno. Lo slogan elettorale di Ben Gvir, in cui ha promesso di ricordare ai cittadini israeliani – e in particolare ai cittadini palestinesi – chi sono i veri “signori della terra”, indica una preoccupazione che la logica liberal-progressista, che la destra sostiene abbia preso il sopravvento sulla maggioranza della società israeliana, possa mettere in pericolo il monopolio ebraico del potere nel Paese. In questo modo, i nuovi signori della terra non stanno giungendo solo per i palestinesi, ma anche per il “tipo sbagliato” di ebrei.

Tuttavia il fatto che in Israele ci siano molte voci che si oppongono a questo nuovo governo non dovrebbe nascondere le profonde connessioni ideologiche che ancora esistono tra molti di loro. Mentre l’opposizione all’esplicita istituzionalizzazione dell’apartheid riguarda il regime israeliano di supremazia ebraica, di fatto gran parte dell’opposizione all’attacco contro il sistema giudiziario e all’opinione pubblica laica mira ancora a preservare la supremazia ebraica, anche se in modo più moderato. E mentre la resistenza interna è attualmente molto più ampia di quanto ci si aspettasse, e probabilmente crescerà, la stragrande maggioranza di coloro che chiedono agli israeliani di scendere in strada non fa domande sull’occupazione o sulla supremazia ebraica. Per loro la questione della democrazia rimane separata dalla questione del colonialismo.

È difficile sapere dove porteranno queste lotte contro il nuovo governo e se si collegheranno alla lotta contro l’annessione, l’apartheid e un’altra espulsione di massa dei palestinesi. Ma non si può negare che siamo arrivati a un momento in cui tutte le contraddizioni iintrinseche del sionismo fin dai suoi primi giorni sono diventate più chiare e importanti che mai.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Mondiali 2022: come i tifosi arabi dicono la verità a Israele sulla Palestina

Emile Badarin

2 dicembre 202-Middle East Eye

Rifiutando le interviste ai giornalisti israeliani, i tifosi arabi si rifiutano di conferire legittimità al sistema di apartheid dello Stato israeliano.

I giornalisti israeliani sono accorsi a Doha questo mese per coprire la Coppa del Mondo, alcuni trasformandola in una missione per far “parlare con Israele” l’opinione pubblica araba. Ma nelle frequenti interazioni catturate tramite i social media, i tifosi hanno cortesemente rifiutato l’offerta in modi diversi.

Alcuni si sono rifiutati di dialogare; altri hanno sottolineato il loro impegno per la causa palestinese; altri si sono semplicemente allontanati dopo aver capito che il giornalista proveniva da Israele.

La politica del riconoscimento ispira la “missione giornalistica” israeliana in Qatar e altrove. Questi giornalisti, come gran parte dell’opinione pubblica israeliana e dei media occidentali, sembrano essersi convinti che la Palestina e i palestinesi siano scomparsi dalla coscienza araba a causa dei mutamenti geopolitici in tutto il mondo arabo.

Per gli “esperti” israeliani e occidentali questi cambiamenti geopolitici hanno rappresentato una versione ridotta della fine della storia in Medio Oriente. Generalmente considerano la presunta “scomparsa” dei palestinesi come un fattore positivo che ha consentito nel 2020 i cosiddetti Accordi di Abramo e la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e quattro Stati arabi.

Forse non c’è occasione migliore per raccogliere i frutti della normalizzazione di una Coppa del Mondo ospitata da uno Stato arabo che ha temporaneamente permesso ai media israeliani di viaggiare liberamente e informare dal Qatar, anche se questo non ha legami ufficiali con Israele. Sembra che alcuni giornalisti israeliani si siano presi la briga di dimostrare che non sono stati solo i regimi arabi a riconciliarsi con – o meglio, a capitolare davanti al progetto coloniale sionista, ma anche la popolazione araba.

In questo senso l’atto di “parlare a Israele” è interpretato come una forma di riconoscimento, o almeno un potente indicatore di avvicinarsi sempre più verso l’evanescente punto finale del colonialismo di insediamento in Palestina. Punto finale che richiede la legittimazione della sovranità di Israele dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo [cioè su tutta la Palestina storica, ndt.] e la deportazione della popolazione indigena.

In Qatar hanno trovato l’opposto. Sebbene Israele abbia ottenuto il riconoscimento di alcuni regimi arabi, inclusa l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, non è riuscito assolutamente a ottenere il riconoscimento da parte dell’opinione pubblica araba.

Espropriazione dei palestinesi

Parlare con Israele” in questo contesto ha lo scopo di ottenere un riconoscimento popolare che legittimerebbe e normalizzerebbe la struttura del colonialismo d’insediamento israeliano che continua a espropriare i palestinesi. Pertanto, rifiutandosi di parlare, i cittadini arabi inviano un chiaro messaggio a coloro che sono al potere in Medio Oriente e in Occidente: sono contrari alla normalizzazione senza giustizia, indipendentemente da quanti accordi di “pace” firmi Israele con i regimi arabi.

Invece di “parlare” i tifosi arabi hanno mostrato uno specchio davanti alle telecamere israeliane, ricordando agli spettatori ciò che hanno ostinatamente tentato di dimenticare: la Palestina. Ciò ricorda ai giornalisti israeliani e al loro pubblico il colonialismo di insediamento, la pulizia etnica, l’occupazione, i rifugiati palestinesi e la Nakba (catastrofe) in corso dal 1948. I tifosi del Marocco alludevano a questo quando hanno dispiegato una bandiera della Palestina al 48° minuto della partita Marocco-Belgio.

Ciò che sorprende è lo shock israeliano nel vedere riflesso, nonostante il passare del tempo, l’indignazione per la violenza e la costruzione di Israele sulla terra rubata ai palestinesi che non è svanita.

Questa è la stessa realtà coloniale che la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh ha mostrato instancabilmente al mondo, fino a quando un cecchino israeliano le ha sparato uccidendola lo scorso maggio, un omicidio che è stato ripreso dalle telecamere. Inoltre non è un caso che un anno prima, nel maggio 2021, Israele abbia distrutto la torre dei media di Gaza che ospitava diverse agenzie di stampa internazionali che informavano dall’enclave assediata.

Come i tifosi di calcio in Qatar, Abu Akleh e i suoi colleghi giornalisti in Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme e altrove hanno alzato degli specchi che hanno riflesso la brutta immagine del colonialismo israeliano che i popoli arabi non hanno né dimenticato né perdonato. Mentre Abu Akleh è stata uccisa e il mondo non può più vedere il riflesso di Israele attraverso la sua macchina fotografica, non è stato possibile reprimere i messaggi dei tifosi in Qatar.

Coscienza distorta

Di conseguenza, alcuni giornalisti israeliani sembrano essersi rivolti alla narrativa del vittimismo per respingere l’immagine inquietante del colono, il che richiede creatività e autoinganno. È notevole la rapidità con cui alcuni sono ricorsi al “manuale” sionista, presentando il loro fallimento nell’ottenere una “buona parola” su Israele come una manifestazione di odio arabo e musulmano e un desiderio di “cancellare (gli israeliani) dalla faccia della terra”.

Non solo in Israele, ma in tutto il mondo del colonialismo d’insediamento europeo, il senso di vittimismo tra i coloni è un veicolo per rivendicare un’innocenza che galleggia in una coscienza distorta che rappresenta l’anormale e l’ingiusto come normale e giusto.

In questa prospettiva, Israele è solo un altro Stato “normale”- se non l’unico Stato civile e rispettoso dei diritti umani in Medio Oriente, indipendentemente dal fatto che secondo Human Rights Watch ha varcato la soglia dell’apartheid – che ha relazioni “normalizzate” con diversi Stati arabi: uno Stato che gli arabi dovrebbero ammirare, con cui fare amicizia e guardare come un esempio.

Affinché questa normalità immaginaria abbia un senso gli israeliani devono vivere il mito sionista della terra senza popolo per un popolo senza terra. Pertanto devono attivamente dimenticare che i palestinesi esistono davvero, anche dopo un secolo di espropriazione ed eliminazione da parte del colonialismo d’insediamento sionista. L’ironia di far dimenticare continuamente i palestinesi è che li rende più presenti.

Il movimento per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti ha sostenuto la necessità di dire la verità al potere nella lotta contro la segregazione razziale e l’ingiustizia. Ma cosa succede se il parlare stesso può essere trasformato in un veicolo per togliere potere e spogliare?

Tentando di far parlare il popolo arabo con Israele i giornalisti hanno cercato un riconoscimento popolare che conferisse legittimità normativa all’apartheid e all’ingiustizia israeliane. Rifiutarsi di parlare è un atto di resistenza. Paradossalmente [il rifiuto di parlare, ndt.] sta dicendo la verità al potere dei regimi arabi, di Israele e del resto del mondo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’ONU approva la risoluzione per commemorare il 75° anniversario della Nakba

Redazione MEE

1 dicembre 2022 – Middle East Eye

L’ambasciatore israeliano condanna la decisione dell’ONU mentre il rappresentante palestinese dice alle Nazioni Unite che il mondo è arrivato al ‘capolinea’ della soluzione dei due Stati

L’ Assemblea Generale dell’ONU ha approvato una risoluzione per commemorare il 75° anniversario della Nakba, il termine usato per descrivere il trasferimento forzato di centinaia di migliaia di palestinesi nel periodo precedente la fondazione dello Stato di Israele nel 1948.

Novanta Paesi hanno votato a favore della misura, 30 i contrari e 47 si sono astenuti.

La risoluzione è una delle cinque votate all’ONU giovedì relative a Israele e Palestina. L’ONU ha anche ha approvato la proposta di dedicare un programma di formazione per giornalisti a Shireen Abu Akleh, la giornalista palestinese uccisa dalle forze israeliane durante un raid nella Cisgiordania occupata.

Un’altra delle risoluzioni adottate invoca “la fine di tutte le attività di colonizzazione, di confisca di terre e demolizioni di case, il rilascio dei prigionieri e la fine di arresti e detenzioni arbitrari “. La risoluzione finale poi chiede a Israele porre fine al controllo sulla regione occupata delle Alture di Golan.

La risoluzione relativa alla Nakba prevede l’organizzazione di un evento ad alto livello nell’Assemblea Generale il 15 maggio 2023.

La Nakba, “la catastrofe”, è il nome che i palestinesi danno massacri e all’espulsione forzata che hanno subito per mano delle milizie sioniste nel 1948.

Interi villaggi palestinesi furono massacrati, bande sioniste uccisero indiscriminatamente civili disarmati, seppellendone molti in fosse comuni. La campagna israeliana causò la morte di palestinesi stimati in 15.000, mentre 750.000 fuggirono dalle proprie case e vissero da rifugiati.

I raid continuarono anche dopo l’annuncio dell’indipendenza di Israele il 15 maggio 1948. Israele descrive gli eventi del 1948 come la guerra di indipendenza.

L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha condannato l’approvazione delle misure e chiesto ai delegati: “Cosa direste se la comunità internazionale celebrasse la fondazione del vostro Paese come una catastrofe? Che vergogna.”

Il diplomatico israeliano ha detto che l’approvazione della risoluzione sulla Nakba ostacolerà ogni possibilità di un accordo di pace tra Israele e l’Autorità Palestinese.

La soluzione dei due Stati è praticamente morta

Nel frattempo, Riyad Mansour, inviato palestinesi all’ONU, ha messo in guardia l’ONU che la soluzione dei due Stati corre un rischio imminente e ha sollecitato l’organismo internazionale a far pressione su Israele come anche a concedere ai palestinesi un riconoscimento completo.

Mansour ha chiesto all’ONU di riconoscere lo Stato palestinese con Gerusalemme Est come sua capitale.

Noi siamo arrivati alla fine del percorso della soluzione dei due Stati. O la comunità internazionale trova la volontà di agire con fermezza o lascerà morire la pace passivamente. Passivamente, non pacificamente.” ha detto Mansour all’ONU.

Chiunque sia serio circa la soluzione dei due Stati deve aiutare salvare lo Stato palestinese,” ha detto. “L’alternativa è quello in cui viviamo ora, un regime che ha sommato i mali di colonialismo e apartheid.”

Mansour ha anche condannato la coalizione di estrema destra che sta per prendere il potere in Israele, guidata dall’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, definendola come “il governo più colonialista, razzista e estremista nella storia di Israele”.

Il rappresentante palestinese ha anche apprezzato la richiesta dell’ONU di un parere consultivo alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) sull’occupazione israeliana di terre palestinesi dal 1967.

Le dichiarazioni di Mansour ed Erdan sono arrivate in un momento di grandi tensioni in seguito al picco quest’anno di violenze israeliane contro i palestinesi in Cisgiordania e alla ripresa della resistenza armata palestinese.

Quest’anno in Cisgiordania le forze israeliane e i coloni hanno ucciso 139 palestinesi, inclusi almeno 30 minori, la media mensile più mortale per i palestinesi dal 2005, quando L*ONU ha cominciato a registrare i decessi.

Anche i morti israeliani hanno registrato un picco nel 2022 rispetto agli ultimi anni. Allo stesso tempo c’è stato un forte incremento degli attacchi dei coloni e delle forze di sicurezza contro i palestinesi.

Lunedì, Tor Wennesland, l’inviato dell’ONU per il Medio Oriente, ha avvertito che le tensioni stanno “raggiungendo un livello insostenibile”.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele: Netanyahu ha chiesto al mondo di dimenticarsi dell’occupazione. Ben-Gvir la vuole in primo piano e al centro

Meron Rapoport

22 novembre 2022 – Middle East Eye

Il primo ministro israeliano entrante ha lavorato duramente per togliere i palestinesi dalla lista delle priorità sia degli israeliani che degli arabi, ma lo scontro è fondamentale per i suoi nuovi partner di coalizione

Circa due settimane prima delle ultime elezioni israeliane Benjamin Netanyahu ha illustrato la sua concezione del futuro di Israele in un articolo pubblicato da Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndt.]. “Negli ultimi 25 anni ci è stato detto ripetutamente che ci sarebbe stata pace con gli altri Paesi arabi solo dopo che avessimo risolto il conflitto con i palestinesi,” ha scritto. Ma egli credeva che “la strada verso la pace non passi da Ramallah [sede dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.], ma piuttosto le giri attorno.”

La sua via, ha sostenuto su Haaretz, si è dimostrata giusta. Ha firmato accordi di normalizzazione con quattro Paesi arabi e si prospettano ulteriori accordi con altri Stati. In poche parole, non solo Israele può prosperare senza risolvere il suo conflitto con i palestinesi, ci dice, ma il modo per raggiungere la prosperità è di fatto ignorarli. Non hanno nessuna importanza.

Sono trascorse altre tre settimane dalle elezioni del 1° novembre in cui il blocco di partiti di destra guidato da Netanyahu ha ottenuto una maggioranza apparentemente comoda di 64 seggi nel parlamento israeliano, la Knesset. Al momento rimane incerto quale sarà l’esatta composizione del suo prossimo governo e chi deterrà dicasteri chiave come Difesa, Finanza e Affari Esteri.

Tuttavia una cosa è già chiara: per dei possibili partner di Netanyahu, in particolare Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, i due leader della lista razzista e nazionalista della lista Sionismo Religioso che hanno vinto 14 seggi alle elezioni, il conflitto di Israele con i palestinesi non è solo un fattore importante: è l’unico fattore importante.

Netanyahu ha inequivocabilmente dimostrato che rimuovere la questione palestinese dall’agenda pubblica in Israele, e anche a livello globale, è stato uno dei suoi obiettivi preminenti, soprattutto dal suo ritorno al potere nel 2009.

Ha perseguito questo obiettivo utilizzando tre approcci principali: in primo luogo, cancellando il confine del 1948 (noto come Linea Verde) dalla coscienza della maggioranza degli ebrei in Israele espandendo le colonie e annettendo nella pratica ampie fasce dell’Area C [più del 60% dei territori occupati e sotto totale controllo di Israele, ndt.] in Cisgiordania.

In secondo luogo, promuovendo l’affermazione secondo cui “non esiste un partner per la pace” da parte palestinese, ignorando quasi completamente la leadership palestinese e le sue richieste di porre fine all’occupazione; infine, moderando in qualche modo l’uso della forza militare israeliana in base alla teoria che meno violento è il conflitto, minore sarà l’attenzione, in Israele, nel Medio Oriente e in tutto il mondo.

Questo approccio ha avuto un grande successo. La maggior parte degli ebrei israeliani oggi non sa dove sia la Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania prima della guerra del 1967, ndt.]. Il termine “occupazione” è diventato una parolaccia che non viene quasi mai menzionata nei principali media israeliani. L’affermazione che “non c’è nessuno con cui parlare” dalla parte palestinese si è solidificata nel consenso non solo nella destra e nel centro ebraici, ma anche nella sinistra moderata.

Il contenimento di operazioni militari di vasta portata, a parte la guerra mortale a Gaza nel 2014, ha ridotto il numero di israeliani uccisi a causa del conflitto a poco più di 10 all’anno, tanto che la discussione su quello che veniva chiamato il “prezzo dell’occupazione” è quasi scomparsa.

Annessione strisciante

Ovviamente lo status quo proposto da Netanyahu non è stato realmente uno status quo, poiché l’annessione strisciante dei territori palestinesi è continuata e sul terreno ha gradualmente preso forma un regime di apartheid. Ma nel complesso per gli (ebrei) israeliani continuare con questa situazione sembra preferibile al tentativo di cambiarla.

Parte del successo di Netanyahu deriva da processi non direttamente collegati alla sua persona. Quando nel 2009 diventò primo ministro per la seconda volta, la Seconda Intifada era finita. La scissione tra Hamas a Gaza e Fatah in Cisgiordania aveva notevolmente indebolito la posizione palestinese e Netanyahu potè sfruttare questa debolezza.

Nel 2011, con l’avvento delle decantate primavere arabe, i Paesi arabi vicini erano inclini a dedicare più attenzione ai propri affari e meno alla causa palestinese. E la crescente ondata di populismo di destra in tutto il mondo, culminata con l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti nel 2016, ha creato un’atmosfera congeniale a Netanyahu e alla sua politica di strisciante apartheid.

Ma negli ultimi anni qualcosa è andato storto in questo gioco di equilibrio promosso da Netanyahu. La scomparsa del conflitto con i palestinesi dall’agenda nazionale di Israele ha effettivamente sollecitato il movimento dei coloni di destra a spingere per l’annessione o, nel loro lessico, per “l’applicazione della sovranità”. La logica dei coloni sostiene che se i palestinesi non sono più una minaccia, non c’è motivo di evitare di annettere, in tutto o in parte, la Cisgiordania. Sebbene Netanyahu abbia rinunciato all’annessione all’ultimo minuto, questa spinta della destra per sconvolgere lo status quo non è svanita.

Il momento in cui è diventato chiaro che il falso status quo costruito da Netanyahu non funzionava più è arrivato nel maggio 2021. I palestinesi, che Netanyahu aveva cercato di escludere dal discorso pubblico in Israele, si sono ribellati non solo a Gerusalemme est e a Gaza, ma anche nelle cosiddette “città miste” all’interno di Israele: Lydd (Lod), Ramla, Acre (Akka) e altre località.

Invece di retrocedere in Cisgiordania dietro le montagne di tenebre, il conflitto con i palestinesi si è presentato improvvisamente sulla porta di casa di molti ebrei nel cuore del Paese.

Subito dopo l’esponente della destra Naftali Bennett ha deciso di allearsi con il centrista Yair Lapid per formare un governo alternativo e lasciare, per la prima volta in 12 anni, Netanyahu all’opposizione. Le ragioni di questa mossa sono state molte, ma potrebbe aver contribuito alla sua caduta anche il fatto che Netanyahu non fosse più considerato in grado di fornire una risposta al “problema palestinese”.

Nel vuoto lasciato da Netanyahu, la destra razzista è passata nelle mani del famoso colono Itamar Ben-Gvir, leader del partito Otzma Yehudit (“Potere ebraico”), residente a Hebron e ammiratore di Baruch Goldstein, che nel 1994 uccise 29 fedeli musulmani nella Moschea Ibrahimi di Hebron. Gli eventi del maggio 2021 sono stati sfruttati da Ben-Gvir come prova del fatto che gli ebrei in Israele vivono sotto la minaccia della “violenza araba”, che può essere contrastata solo ricordando agli arabi che gli ebrei sono gli unici “proprietari ” di questo luogo. Per sostenere questa argomentazione Ben Gvir ha evocato anche il timore della gente di un aumento della criminalità nelle città del sud di Israele, dove il crimine viene attribuito principalmente agli abitanti beduini palestinesi dell’area, che vivono in condizioni di estrema povertà e discriminazione di lunga data.

Conflitto come priorità

Ovviamente Ben-Gvir non ha inventato l’idea della supremazia ebraica, che sin dall’inizio è stata, in misura maggiore o minore, un aspetto del sionismo. Ma con il suo effettivo successo nel trasformare l’aspirazione alla supremazia ebraica in un’ampia piattaforma politica Ben-Gvir ha sfidato, consapevolmente o inconsapevolmente, il presupposto di Netanyahu di ignorare la questione palestinese.

Mentre Netanyahu ha sostenuto che il problema non esiste più, o almeno non sta influenzando le vite degli israeliani, è arrivato Ben-Gvir e ha sostenuto che il conflitto palestinese colpisce le vite degli ebrei, sempre e ovunque, all’interno o al di là della Linea Verde. La soluzione di Ben-Gvir è violenta e razzista – uccidere o deportare chiunque, palestinese o anche ebreo, si opponga al regime di supremazia ebraica – ma, nel frattempo, ha messo al primo posto la questione delle relazioni ebraico-palestinesi.

Anche Bezalel Smotrich, partner di Ben-Gvir nell’alleanza del “sionismo religioso”, fa della questione del conflitto tra ebrei e palestinesi la sua massima priorità politica. E Smotrich, come Ben-Gvir, propone una soluzione violenta e razzista. Nel suo saggio “Il progetto decisivo di Israele” pubblicato nel 2017, Smotrich offre tre opzioni ai palestinesi in Cisgiordania: accettare di vivere senza diritti politici sotto il dominio ebraico, emigrare in un altro Paese o affrontare un esito  deciso dalla guerra.

Come Ben-Gvir, Smotrich pensa che in nessun caso si dovrebbe mai rinunciare alla supremazia ebraica all’interno di Israele. Nel 2021 ha ritirato l’appoggio che avrebbe consentito a Netanyahu di formare un governo perché per farlo Netanyahu avrebbe dovuto dipendere da un partito arabo, la Lista Araba Unita guidata da Mansour Abbas. “Un nemico non è un alleato legittimo. Punto,” ha scritto all’epoca Smotrich per giustificare la sua decisione.

Ben-Gvir ha cercato di persuadere gli elettori nelle città periferiche che Netanyahu non ha offerto loro nessuna risposta – né riguardo alle loro preoccupazioni per il crescente rafforzamento economico, accademico e politico dei loro vicini palestinesi, né in merito al fatto che loro, abitanti di zone marginali, devono ancora godere della sbandierata prosperità economica di cui Netanyahu si è vantato.

Smotrich è stato popolare soprattutto tra l’opinione pubblica religiosa, che oggi è parte dell’élite economica e governativa di Israele. Ma ciò che è chiaro è che entrambi questi uomini, dopo aver incrementato i loro risultati insieme dai 6 seggi nella precedente tornata elettorale ai 14 nell’attuale Knesset, che consentono loro di dettare le condizioni a Netanyahu, che sa che senza di loro non può governare, sono i grandi vincitori delle ultime elezioni.

Promesse vincenti

Come c’era da aspettarsi, queste circostanze riguardano innanzitutto questioni che coinvolgono il conflitto con i palestinesi. Prima ancora che finiscano i negoziati sulla formazione del governo, Netanyahu ha già promesso a Ben-Gvir quanto segue: in Cisgiordania verranno forniti allacciamenti alla rete elettrica e idrica a 60 avamposti coloniali senza permesso, la maggior parte dei quali costruiti su terra di proprietari privati palestinesi; su terreni della città palestinese di Beita, in un luogo che i coloni chiamano Evyatar, potrà essere fondata una yeshiva [scuola religiosa ebraica, ndt.]; verrà ora abrogata una legge del 2005 adottata al fine di consentire l’evacuazione di tre insediamenti coloniali nel nord della Cisgiordania per permettere che vi venga ricostruita una colonia, di nuovo su terre private palestinesi, insieme a notevoli investimenti in strade di collegamento per le colonie in Cisgiordania.

Gli ha anche promesso il ministero della Sicurezza Pubblica, che controlla la polizia, dove Ben-Gvir vuole mano libera per reprimere i beduini palestinesi nel sud di Israele e pretende cambiamenti delle regole d’ingaggio relative a quando è consentito aprire il fuoco, in modo che i poliziotti possano sparare e uccidere chiunque ritengano sospetto senza timore di essere perseguiti.

Smotrich sta puntando più in alto. Vuole essere ministro della Difesa. In tale veste Smotrich sarebbe di fatto l’unico potere sovrano in Cisgiordania e potrebbe fare più o meno quello che vuole. Per non parlare del fatto che ha promesso di mandare l’esercito nelle cosiddette “città miste” all’interno di Israele se e quando si ripetessero gli avvenimenti violenti del maggio 2021.

Finora su questo punto Netanyahu si è rifiutato, in parte perché l’amministrazione Biden a quanto pare è stata chiara sul fatto di non aver intenzione di collaborare con un ministero della Difesa israeliano gestito da Smotrich. E anche perché Netanyahu forse comprende che, se i bellicosi razzisti di Sionismo Religioso avessero il controllo sia del ministero della Sicurezza Pubblica che di quello della Difesa, egli non controllerebbe più il modo in cui Israele gestisce il conflitto con i palestinesi.

Netanyahu avrebbe voluto fare a meno di Smotrich e Ben-Gvir e avrebbe scelto invece di includere nel suo governo l’attuale ministro della Difesa, il centrista Benny Gantz, rinnovando il tal modo l’approccio della “gestione del conflitto” che ha guidato con tanto successo negli ultimi 15 anni. A quanto pare gli americani stanno facendo pressione su di lui e su Gantz perché raggiungano un simile accordo. Ma ciò potrebbe non dipendere da Netanyahu. La destra razzista, stanca dello status quo che egli vende agli elettori israeliani, è più forte di lui.

Crescente violenza

È ancora troppo presto per prevedere le conseguenze di questa nuova situazione. Netanyahu riuscirà, nonostante tutto, a imporre la sua politica preferita e mettere da parte la questione palestinese? Non sarà facile, e non solo perché tornerà alla carica di primo ministro durante un periodo molto violento, con il numero di palestinesi e israeliani uccisi dall’inizio del 2022 a livelli record, che non si vedevano dalla fine della Seconda Intifada nel 2005: al 18 novembre 139 palestinesi e 27 israeliani.

Anche se la destra razzista dovesse riuscire a farsi carico della polizia e dell’esercito, le possibilità che metta in pratica le sue fantasie violente non sono una conclusione scontata. I palestinesi si trovano in una posizione diversa da quella del 1948 o del 1967 ed essi non saliranno senza resistere sugli autobus per essere deportati.

La comunità internazionale, con tutti i suoi limiti, ha già difficoltà ad accettare l’apartheid israeliana (come evidenziato dalla recente decisione di affidare la discussione sulla legalità dell’occupazione israeliana alla Corte Internazionale di Giustizia). Oltretutto l’economia di Israele dipende totalmente da quella mondiale; dopo le recenti elezioni la società ebraica in Israele è anche più divisa che mai, con una parte sostanziale del centro-sinistra che vede i partiti “religiosi” di Ben-Gvir e Smotrich come una minaccia per il suo stile di vita laico.

Nell’articolo citato all’inizio di questo resoconto Netanyahu ha adottato il concetto del “Muro di Ferro”, titolo di un famoso testo del padre della destra sionista, Zeev Jabotinsky, che negli anni ‘20 scrisse che solo dopo che gli ebrei avessero occupato la Terra di Israele con la forza i palestinesi avrebbero accettato la loro esistenza qui. Ma nel Muro di Ferro che Netanyahu ha cercato di costruire per tenere a distanza la questione palestinese stanno comparendo vistose crepe. Non è necessariamente una cosa negativa.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Netanyahu è solo una diversa sfumatura della stessa supremazia ebraica

Hagai El-Ad

14 novembre 2022 Haaretz

Ahmad Zahi Bani-Shamsa è stato la prima vittima a Beita, villaggio in Cisgiordania, nello scontro con la colonia di Evyatar sotto lo sguardo del governo uscente. È stato ucciso prima di celebrare il suo sedicesimo compleanno, raggiunto alla testa da un colpo sparato alle spalle. 

È stato ammazzato mentre cercava di appendere su un olivo una bandiera palestinese. È morto il giorno dopo, il quinto del mandato del “governo del cambiamento.” Fino ad ora le manifestazioni a Beita contro Evyatar hanno causato sette morti.

Il processo di legalizzazione del furto delle terre a Beita a vantaggio di Evyatar è cominciato con il governo uscente e probabilmente continuerà e sarà ancora più rapido, nel nord della Cisgiordania e nel resto di quella zona, con il nuovo governo. 

Si può immaginare che entro pochi giorni un soldato israeliano aprirà il fuoco e ucciderà la prima vittima del trentasettesimo governo di Israele. Questa sarà seguita da altre morti. In un regime di supremazia ebraica certe cose non cambieranno mai fra il Mediterraneo e il fiume Giordano [cioè in Israele e nei territori palestinesi occupati, N.d.T.].

Tuttavia, un momento prima che il governo uscente sprofondi nell’oblio, esso merita un’ulteriore riflessione. Cos’è veramente accaduto nell’ultimo anno e mezzo e cosa ci dice per il futuro?

In un’intervista a Channel 12 con la conduttrice televisiva Yonit Levi e Jonathan Freedland di The Guardian, Shimrit Meir, consigliera politica dell’ex primo ministro Naftali Bennett, ha spiegato che la precondizione dell’esistenza del governo uscente era la sospensione del conflitto israelo-palestinese, dato che nel momento in cui quel tema è emerso, il destino del governo è stato segnato. 

La prima mossa nella formazione della coalizione è stata che non si poteva discutere l’“ideologia”, quindi nessuna annessione o creazione di uno Stato palestinese e nessun cambiamento del carattere “ebraico e democratico” dello Stato. 

Vale la pena soffermarsi sulle parole della Meir per la notevole franchezza con cui ha descritto, dal cuore stesso dell’ufficio del primo ministro, la realtà politica continuata per “quasi un anno di normalità,” il periodo in cui il governo uscente ha governato fino al crollo della coalizione.

Quello che infatti si è sostenuto è che la realtà a Beita, e in ogni zona che Israele controlla, non è una questione di “ideologia,” dato che il regime di supremazia ebraica non è un tema politico o ideologico.

È semplicemente il modo in cui vanno, andavano e andranno le cose. La situazione in cui i sudditi palestinesi sono ammazzati uno dopo l’altro, a Beita o altrove, equivale a un conflitto latente, dato che non si può avere un regime di dominazione senza un calcolato massacro di chi vi viene sottomesso. Un altro anno di totale controllo israeliano è semplicemente un’espressione di normalità.

Nella sua intervista Meir ha espresso il concetto politico prevalente in ampi strati dell’opinione pubblica ebraica in Israele. Un concetto che non vede la realtà della supremazia ebraica, dell’apartheid o dell’occupazione come qualcosa di inusuale, ma come una situazione normale che è impegnata a rafforzarsi, espropriando sempre più terre dei palestinesi per tentare di concentrarli in enclave affollate che sono più facili da controllare, poiché gestite da subappaltatori che sono finanziati da risorse internazionali.

Questa posizione, questa visione del mondo, non solo sono immorali nel più profondo senso del termine, ma sono anche lontane dalla realtà. Dopotutto quello che si chiama il “conflitto,” cioè una chiarissima relazione di potere in cui la metà israeliana-ebraica della popolazione fra il fiume e il mare controlla la terra, la demografia e il potere politico a spese della metà palestinese, non è stata “sospesa” neppure per un momento. 

È viva e vegeta tutto il tempo, nei momenti in cui proiettili veri uccidono un palestinese e nei momenti di eterna burocrazia, quando permessi e checkpoint, ingiunzioni e regolamenti dominano le vite dei palestinesi in nome del regime suprematista ebraico.

In questo contesto si dovrebbe parlare del possibile membro del governo Itamar Ben-Gvir e di Gadi Eisenkot [sostenitore della soluzione a due Stati, N.d.T.], ex capo di stato maggiore delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, N.d.T.] il protagonista e antagonista delle ultime elezioni. 

Eisenkot parla come uno statista di “governabilità,” mentre Ben-Gvir chiede rudemente “chi comanda qui?”. Ma il tono da statista è solo un codice trasparente che tutti capiscono, cioè che quando gli ebrei in Israele si lamentano di una perdita di “governabilità” nel Negev e in Galilea, nell’Area C e a Gerusalemme, vogliono dire che non si sentono “il boss” in quelle zone.

Il dibattito non riguarda veramente la fine della democrazia. Dopo tutto qui non ce n’è una, dato che tutti i palestinesi sono esclusi, parzialmente o completamente, dal processo politico. È un dibattito sul modo e la misura in cui si usa la forza contro i palestinesi. 

Eisenkot e i suoi sodali credono che il loro approccio più misurato all’aggressiva oppressione dei palestinesi garantisca sia il successo dell’oppressione che la stabilità: Ben-Gvir e quelli come lui pensano che questo processo possa essere velocizzato e numeri crescenti di votanti concordano con lui.

Ma la gran maggioranza delle persone che hanno delle riserve su quest’ultimo punto accetta la situazione esistente e i suoi processi, concorda che la supremazia ebraica sia la base dell’ordine politico, geografico e demografico fra il fiume Giordano e il Mediterraneo e trovi ospitalità per queste sue idee in tutti i partiti sionisti. 

Dopo tutto, quando un giovane palestinese ha appeso una bandiera su un olivo e la terra si è imbevuta del suo sangue, del trentaseiesimo governo facevano parte Yesh Atid, [partito liberale di centro fondato da Yair Lapid, N.d.T.], il partito laburista e il Meretz [partito della sinistra sionista, N.d.T.]

Questo non significa che “sono tutti uguali.” Il fatto che la realtà per i palestinesi fosse già intollerabile anche prima delle elezioni non significa che le cose non possano peggiorare e diventare rapidamente più orrende e sanguinose. 

Jewish Power (Otzma Yehudit) [Potere ebraico, il partito di estrema destra di Ben-Gvir, N.d.T.] è uno dei punti di uno spettro: dire questo non significa che la gamma delle posizioni lungo questo spettro sia un tema marginale non degno di riflessioni. Lo spettro delle posizioni ha un significato, ma è significativa anche l’affinità fra le diverse posizioni lungo questo spettro.

Si può urlare, e la gente lo fa, contro il successo di Ben-Gvir. Ma esattamente chi ne è il responsabile? Non solo nel senso stretto della congiuntura politica che l‘ha causata, ma in un senso più profondo. 

Ciò che ha causato il collasso del governo uscente non è lo scioglimento del conflitto da un immaginario gelo, e ciò che ha fatto crescere Ben-Gvir non è stato un evento specifico. La forza trainante è la realtà stessa. Questa realtà va cambiata. A partire dalle sue fondamenta.

L’autore è il direttore generale di B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, N.d.T.].

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gli ebrei australiani stanno cambiando idea su Israele. E hanno bisogno di una voce nuova

Antony Loewenstein

12 novembre 2022 – The Sunaday Morning Herald

 

L’establishment ebraico ha espresso il proprio sdegno in seguito al recente annuncio del governo di Albanese che non avrebbe più riconosciuto Gerusalemme Est come capitale di Israele, riportando Canberra nel consesso globale dopo la decisione di Scott Morrison nel 2018 di imitare Donald Trump,

L’opinione pubblica ha sentito i portavoce ebrei delle organizzazioni sioniste condannare il governo per la sua presunta indifferenza e ignoranza. Anche il governo israeliano ha criticato la decisione, dicendo che sperava che l’Australia avrebbe gestito “altre questioni più seriamente e professionalmente”.

Questi critici speravano che protestando avrebbero dissuaso il governo di Albanese dal riconoscere lo Stato palestinese, una delle promesse preelettorali, o dal criticare troppo veementemente le politiche del governo israeliano.

L’Australia è stata per molto tempo fra i principali sostenitori di Israele e, nonostante il recente polverone, l’era Albanese non promette un cambiamento radicale. La decisione su Gerusalemme sembra più che altro una nota a marginale. Allo stesso modo riconoscere la Palestina sarebbe un piccolo passo, sebbene sia importante che l’Australia dimostri di considerare i palestinesi come esseri umani che meritano l’uguaglianza dei diritti.

Dopotutto Israele sta occupando illegalmente il territorio palestinese da oltre 55 anni. Il 2022 è destinato a essere il più letale per i palestinesi in Cisgiordania dal 2005. Israele sta accelerando la demolizione di case palestinesi e l’esercito israeliano è apertamente complice dei coloni ebrei in Cisgiordania. La fondazione di colonie è aumentata vertiginosamente.

Riportando la notizia su Gerusalemme inizialmente molti dei media australiani hanno ignorato le comunità palestinesi o arabe, intervistando solo esponenti ebrei. È stato solo alcuni giorni dopo che si è cominciato a chiedere ai palestinesi quali fossero le loro posizioni riguardo a Gerusalemme.

Ciò è un riflesso del potere politico in Australia sul conflitto israelo-palestinese: chi ce l’ha e chi no.

Quali sono le organizzazioni ebraiche che affermano di parlare per la comunità in Australia? Come sono state elette e chi garantisce loro legittimità? Molte parlano solo per se stesse, altre sono finanziate privatamente eppure quasi tutte parlano all’unisono.

L’obiettivo chiave della lobby israeliana è fare la guardia pretoriana dello Stato ebraico. Ogni opposizione è condannata come un tradimento e deve essere demonizzata. L’ho sperimentato di persona: messaggi di odio, minacce di morte e tentativi per far pressione sul mio editore nel 2006 affinché mandasse al macero il mio primo libro, il best-seller My Israel Question.

I principali gruppi cosiddetti sionisti, dall’Australia/Israel and Jewish Affairs Council [Consiglio degli Affari Australia/Israele ed Ebraici] (AIJAC) all’Executive Council of Australian Jewry [Consiglio Esecutivo dell’Ebraismo Australiano], si sono fossilizzati e sono incapaci di ammettere che stanno difendendo un Israele immaginario, un Paese “democratico” che esiste solo nelle loro menti. Una Nazione che occupa brutalmente 5 milioni di palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, non-cittadini soggetti a un governo militare che non possono votare in un’elezione israeliana, per definizione non è una democrazia.

Praticamente le principali organizzazioni per i diritti umani nel mondo, inclusi Human Rights Watch e Amnesty International e le principali associazioni israeliane hanno pubblicato rapporti che descrivono il sistema di apartheid dello Stato di Israele.

Le opinioni degli ebrei australiani su questi temi stanno cambiando, eppure ciò è raramente rispecchiato dalle loro associazioni comunitarie o dai principali media. Molti giovani ebrei votano per i Verdi, nonostante la vecchia generazione consideri il partito troppo favorevole ai diritti dei palestinesi.

Una ricerca del 2021 finanziata da Plus61J, organo di stampa ebraico, ha rivelato che il 62% dei circa 3500 intervistati sosteneva allo stesso modo gli israeliani e i palestinesi, l’11% era più a favore degli israeliani e il 19% più per i palestinesi. Il sostegno a favore dei palestinesi era particolarmente pronunciato fra i giovani tra i 18 e i 24 anni.

Queste cifre dovrebbero preoccupare l’establishment ebraico locale poiché seguono un trend simile a quello visto negli Stati Uniti nell’ultimo decennio, con numeri crescenti di giovani ebrei contrari a Israele. L’ex presidente USA Donald Trump ha accelerato questo spostamento sia appoggiando acriticamente il progetto coloniale israeliano durante il suo mandato che accusando recentemente gli ebrei americani di non essergli sufficientemente grati per il suo sostegno allo Stato ebraico. Un’inchiesta del 2021 fra gli ebrei americani ha rilevato che il 22% degli intervistati concorda sul fatto che “Israele sta commettendo un genocidio contro i palestinesi” e il 25% che “Israele è uno Stato di apartheid”.

Le elezioni israeliane di questo mese, con l’incremento del sostegno a partiti di estrema destra, illiberali, anti-LGBT e antipalestinesi, hanno causato ulteriori grattacapi ai più intransigenti sostenitori di Israele in Australia e nel resto del mondo. Prima delle elezioni, Jeremy Leibler, presidente della Federazione Sionista d’Australia, ha detto che l’aumento del “razzismo” del politico di estrema destra Itamar Ben-Gvir era pericoloso poiché è un politico con un’“ideologia di odio”.

Eppure non sono altro che nodi che finalmente vengono al pettine. Per decenni l’estrema destra israeliana è stata de facto al potere con Benjamin Netanyahu, ora in ottima posizione per un ritorno in carica come primo ministro, avendo stretto vari accordi in anni recenti per legittimare a livello politico e persino nel cuore del governo politici che sostengono apertamente la pulizia etnica dei palestinesi.

Dov’era lo sdegno dell’establishment ebraico riguardo a questa situazione prima della scorsa settimana? Al contrario, ha passato anni avallando il programma di colonizzazione israeliano e utilizzando come arma l’accusa di antisemitismo contro chi criticava la politica israeliana.

Al momento c’è solo un’alternativa possibile per quei gruppi ebraici che sono o silenti o paralizzati davanti all’estrema destra. Il New Israel Fund (NIF) è un’organizzazione progressista, sionista [statunitense no profit, ndt.] che si esprime contro l’estremismo e crede in una “democrazia per tutti i suoi cittadini”. Comunque, a parte NIF, non ci sono qui enti autorevoli non-sionisti paragonabili all’influente Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, organizzazione ebraica antisionista che sostiene il movimento BDS. Fra i membri Noam Chomsky, Tony Kushner e Naomi Klein, ndt.] negli USA a offrire una visione più equilibrata.

La comunità ebraica locale ha fallito troppo a lungo nel sostenere davvero i diritti di tutti gli ebrei e delle minoranze dando la priorità invece alle forme più estreme di sionismo. È ora di essere responsabili e che voci nuove e più illuminate migliorino la nostra società multiculturale.

Molti ebrei della diaspora sentono che la propria identità è legata al destino dello Stato ebraico. Ma cosa succede quando quella Nazione occupa in modo arrogante un altro popolo per decenni? La comunità ebraica deve aprire la propria mente e creare coalizioni oltre la ristretta visione sionista del mondo.

Antony Loewenstein è un giornalista indipendente vissuto a Gerusalemme Est fra il 2016 e il 2020. Il suo prossimo libro è: The Palestine Laboratory: How Israel Exports The Technology Of Occupation Around The World [Il laboratorio Palestina: come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione nel mondo].

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Una commissione delle Nazioni Unite dichiara che indagherà sulle accuse di “apartheid” contro Israele

Luke Tress

28 ottobre 2022 – The Times of Israel

Il rappresentante di Israele afferma che i membri della commissione “detestano” lo Stato ebraico.

I componenti della commissione d’inchiesta definiscono il termine “un paradigma appropriato“, respingono le accuse di antisemitismo come una “manovra diversiva” e le preoccupazioni sulla sicurezza come una “finzione” e sostengono che Gerusalemme potrebbe essere colpevole di crimini di guerra

NAZIONI UNITE – Giovedì la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti da parte di Israele e dei palestinesi ha dichiarato che indagherà sulle accuse di apartheid contro Israele, confermando i timori di Gerusalemme [Tel Aviv, capitale di Israele per il diritto internazionale, ndt.] che la controversa indagine conduca ad etichettarla con il termine infamante.

L’indagine delle Nazioni Unite in corso è stata avviata dal Consiglio per i diritti umani dopo gli 11 giorni di battaglia lo scorso anno tra Israele e i terroristi di Gaza, allo scopo di indagare le violazioni dei diritti in Israele, in Cisgiordania e a Gaza, ma si è concentrata quasi esclusivamente su Israele.

La Commissione ha pubblicato il suo secondo rapporto la scorsa settimana, chiedendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di porre fine all'”occupazione permanente” da parte di Israele e esortando gli Stati membri delle Nazioni Unite a perseguire i responsabili israeliani.

Giovedì, durante un briefing alle Nazioni Unite a New York, i tre membri della commissione hanno dichiarato che i prossimi rapporti riguarderanno le indagini sull’apartheid da parte di Israele. Hanno affermato che finora la ricerca si è concentrata sulle “cause profonde” del conflitto, da loro imputato alla presenza di Israele in Cisgiordania.

Navi Pillay, un’ex responsabile delle Nazioni Unite per i diritti umani che presiede la commissione, ha definito l’apartheid “una manifestazione dell’occupazione”.

“Ci stiamo concentrando sulla causa principale, rappresentata dall’occupazione, mentre l’apartheid fa parte dei suoi effetti”, dice Pillay. Ci arriveremo. Questo è il vantaggio del nostro mandato a tempo indefinito, ci consente una vasta libertà di indagine”.

Il membro della Commissione Miloon Kothari ha affermato inoltre che la natura a tempo indefinito dell’indagine permette di approfondire l’accusa di apartheid.

“Ci arriveremo perché abbiamo a disposizione molti anni e molti aspetti da approfondire”, dice.

“Pensiamo che sia necessario un approccio globale, quindi dobbiamo esaminare le questioni del colonialismo d’insediamento”, aggiunge Kothari. “L’apartheid è in sé un paradigma molto appropriato, quindi avremo un approccio leggermente diverso, ma ci arriveremo sicuramente”.

Israele ha rifiutato di collaborare con la commissione e non le ha concesso l’ingresso in Israele o nelle aree sotto controllo palestinese in Cisgiordania e Gaza. Ha respinto il rapporto della scorsa settimana, definendo la commissione non credibile né legittima. Giovedì, l’ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite ha affermato che i membri della commissione sono stati scelti in quanto “detestano” Israele.

I resoconti dell’inizio di quest’anno affermavano che il ministero degli Esteri stesse pianificando una campagna per sventare le accuse di apartheid da parte della commissione. Secondo quanto riferito, un cablogramma trapelato ha rivelato che i funzionari israeliani erano preoccupati per il danno che il primo rapporto della commissione avrebbe potuto causare se avesse fatto riferimento ad Israele come uno “Stato di apartheid”.

Il primo ministro Yair Lapid, che all’inizio dell‘anno ricopriva il ruolo di ministro degli Esteri, ha avvertito che quest’anno Israele avrebbe dovuto affrontare intense campagne rivolte ad etichettarlo come uno Stato di apartheid.

Nel corso degli ultimi due anni il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, Human Rights Watch, Amnesty International e altre [organizzazioni per i diritti umani] hanno accusato Israele di apartheid, prendendo in prestito il termine dal sistema sudafricano di discriminazione su base razziale.

Israele ha negato categoricamente le accuse di apartheid, affermando che la sua minoranza araba gode di pieni diritti civili, mentre la maggior parte dei palestinesi, che vivono al di fuori del territorio sovrano di Israele, sono soggetti al governo dell’Autorità Nazionale Palestinese sulla base degli accordi di Oslo.

Ha inoltre reagito con irritazione al termine “occupazione”, usato per descrivere le sue attività in Cisgiordania e a Gaza. Considera Gaza, dalla quale ha ritirato soldati e coloni nel 2005, come un’entità ostile governata dal gruppo terroristico islamico Hamas, e ritiene la Cisgiordania un territorio conteso soggetto a negoziati di pace interrotti da quasi dieci anni. I palestinesi rivendicano come futuro Stato indipendente la Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza, territori conquistati da Israele nella guerra del 1967.

Giovedì la commissione ha presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il suo ultimo rapporto.

Il rapporto di 28 pagine accusa Israele di violare il diritto internazionale rendendo permanente il suo controllo sulla Cisgiordania e annettendo a Gerusalemme e in Cisgiordania territori rivendicati dai palestinesi e terra siriana sulle alture del Golan. Accusa inoltre Israele di politiche discriminatorie nei confronti dei cittadini arabi, di furto di risorse naturali e di violenza di genere contro le donne palestinesi.

Non menziona affatto Hamas, razzi o terrorismo, sebbene la commissione abbia ripetutamente precisato che presunti crimini palestinesi rientrano nell’ambito dell’indagine.

In passato i tre componenti della commissione sono stati aspramente critici nei confronti di Israele e Israele ha affermato che l’indagine è viziata da pregiudizi e antisemitismo.

Lapid ha definito il rapporto antisemita, “di parte, falso, istigatore e palesemente sbilanciato”.

Giovedì Pillay ha negato le accuse di aver definito in passato Israele uno Stato di apartheid. Il gruppo di monitoraggio di UN Watch [ONG internazionale la cui missione dichiarata è “monitorare le prestazioni delle Nazioni Unite sulla base della propria Carta”, ndt.] ha affermato di aver documentato più casi in cui fino al 2020 ella avrebbe accusato Israele di apartheid.

La Pillay ha anche affrontato critiche per la sua difesa di Kothari, che ha suscitato un putiferio all’inizio di quest’anno, quando ha affermato che i social media sarebbero “controllati in gran parte dalla lobby ebraica”, invocando tropi antisemiti sul potere ebraico. Ha anche chiesto perché Israele facesse parte delle Nazioni Unite.

Giovedì l’inviato israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha condannato il rapporto insieme ai genitori di Ido Avigal, un bambino ucciso da Hamas durante il conflitto del 2021.

“[I commissari] sono stati scelti proprio in quanto detestano lo Stato ebraico”, ha detto Erdan.

I membri della commissione hanno affermato che le critiche di Israele non “smentiscono i risultati” del rapporto.

Anche gli Stati Uniti hanno ripetutamente condannato la commissione. Mercoledì durante un incontro con il presidente israeliano Isaac Herzog il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha denunciato l’indagine come di parte.

L’indagine “segue uno schema di vecchia data prendendo di mira Israele e non fa nulla per realizzare i presupposti per una pace”, ha affermato la Casa Bianca.

Giovedì Pillay ha respinto le accuse di antisemitismo, definendo le affermazioni “offensive” e “una manovra diversiva”.

Non siamo tutti e tre degli antisemiti. Consentitemi di chiarirlo e poi, come se non bastasse, hanno affermato che anche la relazione sarebbe antisemita. Non c’è una parola in questo rapporto che possa essere interpretata come antisemita”, ha detto. “Questa [accusa] viene sempre sollevata come diversivo.”

Siamo fortemente impegnati per la giustizia, lo stato di diritto e i diritti umani e non dovremmo essere costretti a subire tali insulti. Sono totalmente falsi, tutte falsità e bugie”, afferma.

Dice che Israele potrebbe essere colpevole di crimini internazionali, inclusi crimini di guerra, per il trasferimento di civili nei “territori occupati”, riferendosi agli insediamenti coloniali in Cisgiordania, dove vivono quasi 500.000 israeliani.

Kothari ha definito i coloni un “corpo paramilitare”.

“Possono fare quello che diavolo vogliono, possono fare irruzione nelle case, possono distruggere gli ulivi”, ha detto.

Pillay ha respinto, definendole “una finzione” dietro cui il Paese cerca di “nascondersi”, le preoccupazioni sulla sicurezza citate da Israele come giustificazione per il mantenimento di una presenza in Cisgiordania.

“Alcune delle politiche israeliane in Cisgiordania hanno solo lo scopo di giustificare in modo apparente problemi di sicurezza”, ha affermato.

La commissione ha chiesto a Israele di ritirarsi immediatamente dalla Cisgiordania, senza fare nessuna richiesta ai palestinesi.

Kothari respinge l’idea di un ritiro israeliano come parte di colloqui di pace verso una soluzione a due Stati, un processo sostenuto da gran parte della comunità internazionale.

“Come possiamo parlare di pace o negoziati senza che prima vengano prese delle misure da parte israeliana?” afferma Kotari.

Mentre la maggior parte degli israeliani sostiene una soluzione a due Stati, Israele ritiene che un ritiro unilaterale dalla Cisgiordania senza garanzie di sicurezza creerebbe uno Stato terroristico alle sue porte, indicando come esempio Gaza, dove ha condotto guerre ripetute per ostacolare gli attacchi missilistici di Hamas contro i civili. Israele giustifica anche il suo blocco sulla Striscia di Gaza, mantenuto insieme all’Egitto, come misura di sicurezza necessaria per fermare il terrorismo.

Il primo rapporto, pubblicato a maggio, faceva una breve menzione degli attacchi missilistici e del terrorismo palestinese, ma condannava la “persistente discriminazione contro i palestinesi” da parte di Israele come causa della violenza tra le due parti.

Giovedì la commissione ha affermato che “condanna qualsiasi forma di violenza”.

Il commissario Chris Sidoti ha detto che i rapporti futuri avranno “una copertura più completa” e che i dati su Israele sono limitati perché Israele non ha consentito l’ingresso ai commissari.

“Se ci sarà dato il permesso di entrare in Israele faremo queste domande ai funzionari competenti”, afferma Kothari. “Dateci la vostra versione delle cose perché vogliamo riportare i fatti con equità“.

I commissari non hanno accesso neppure a Gaza o in Cisgiordania.

La commissione è stata istituita l’anno scorso durante una sessione speciale del Consiglio per i diritti umani nel maggio 2021 a seguito dei combattimenti tra Israele e terroristi palestinesi nella Striscia di Gaza. L’UNHRC ha incaricato l’organismo di condurre un’indagine su “tutte le presunte violazioni del diritto umanitario internazionale e tutte le presunte violazioni e abusi delle leggi internazionali sui diritti umani” in Israele, Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza.

La commissione è stata la prima ad ottenere dall’organismo per i diritti umani delle Nazioni Unite un mandato a tempo indefinito – piuttosto che avere il compito di indagare su un crimine specifico – e i critici affermano che delle indagini così prolungate mostrino la presenza di pregiudizi anti-israeliani all’interno del consiglio dei 47 Stati membri. I fautori sostengono la commissione come una modalità per tenere gli occhi aperti sulle ingiustizie affrontate dai palestinesi durante decenni di dominio israeliano.

Sembrano accettare un’occupazione senza fine, ma si lamentano di questa commissione. Il mandato a tempo indeterminato ci consente di affrontare in profondità alcuni di questi problemi”, sostiene Pillay.

La commissione ha anche dichiarato di non aver avviato l’indagine – l’hanno fatto gli Stati membri – e ha detto di ritenere che le Nazioni Unite dovrebbero istituire più indagini a tempo indefinito.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’ennesima elezione in Israele: perché ai palestinesi non interessa?

Mohamad Kadan

30 ottobre 2022-Aljazeera

Molti palestinesi con cittadinanza israeliana non voteranno il 1° novembre, sentendosi delusi dai loro politici.

Quando il 1° novembre Israele terrà la sua quinta elezione in meno di quattro anni, la maggior parte del mondo lo vedrà come un altro segno di divisione nella politica israeliana. La lotta dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu per mantenere il potere e sfuggire all’accusa di corruzione ha incoraggiato la frammentazione politica e ha prodotto una serie di governi instabili.

Ma mentre in superficie la politica israeliana può sembrare afflitta da instabilità, c’è un notevole consenso politico su questioni chiave in materia di sicurezza, politica economica ed estera. Invece una reale divisione ha regnato nella comunità palestinese in Israele.

In effetti prima del voto l’umore tra noi, palestinesi con cittadinanza israeliana, è piuttosto pessimista. Secondo un recente sondaggio non più del 39% dei palestinesi che hanno diritto di voto in Israele si presenterà alle urne. Ciò potrebbe avere un grave effetto sui risultati, portando potenzialmente i voti dei partiti palestinesi al di sotto della soglia necessaria per entrare alla Knesset.

Allora perché noi palestinesi siamo così riluttanti ad andare alle urne in Israele? Molto ha a che fare con le strategie dei nostri partiti che non sono riuscite a produrre alcun cambiamento significativo nella situazione precaria in cui ci troviamo.

Un cambio di direzione

I palestinesi con cittadinanza israeliana hanno avuto il diritto di votare alle elezioni israeliane sin dalla fondazione dello Stato nel 1948.

I partiti palestinesi, anche quando si sono frammentati, sono rimasti ideologicamente vicini l’uno all’altro e fedeli al loro ruolo di portavoce della comunità palestinese, per richiamare l’attenzione sulle ingiustizie che ha dovuto affrontare e opporsi ai governi israeliani di qualsiasi orientamento politico e alle loro politiche sioniste.

È stato così fino al 2015, quando è stata formata da una coalizione di partiti palestinesi la Joint List [Lista Unita]. Ayman Odeh, il leader della nuova formazione, immaginava che la presenza palestinese alla Knesset avrebbe potuto giocare un ruolo nella costruzione di una grande base liberaldemocratica in Israele. Quell’anno ha vinto 13 seggi alla Knesset ed è riuscita a mobilitare circa il 63% degli elettori palestinesi aventi diritto, 10 punti percentuali in più rispetto alle elezioni precedenti.

Nelle elezioni del settembre 2019, la Joint List ha vinto nuovamente 13 seggi, diventando la terza forza dell’organo legislativo. Il successo dell’alleanza è arrivato mentre Netanyahu ha condotto una campagna tossica e anti-palestinese, sperando di mantenere il potere.

Odeh si sentiva fiducioso dopo questi risultati e ha deciso di schierarsi contro Netanyahu e con il suo avversario, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz. Di conseguenza, dopo le elezioni ha annunciato che la Joint List avrebbe sostenuto Gantz per la carica di primo ministro – [sarebbe stata] la prima volta che un partito palestinese avrebbe fatto parte della maggioranza di un premier sionista.

Gantz non solo non è riuscito a formare un governo, ma ha respinto con arroganza il sostegno della Joint List. Dopo le elezioni del marzo 2020, in cui la Joint List ha ottenuto 15 seggi, la Knesset è stata nuovamente bloccata e ancora una volta la coalizione dei partiti palestinesi ha appoggiato l’ex capo di stato maggiore contro Netanyahu. Questa volta il “tradimento” di Gantz è stato ancora più eclatante: ha deciso di formare un governo di unità nazionale con il suo avversario [cioè Netanyahu, ndt.].

Un anno dopo, Mansour Abbas, capo del partito Ra’am, ha deciso di fare un passo avanti nella strategia di Odeh. Il suo partito è uscito dalla coalizione Joint List prima delle elezioni del marzo 2021 e ha iniziato a dialogare ancora di più con i partiti israeliani.

Non voglio far parte di nessun blocco, di destra o di sinistra. Rappresento qui un altro blocco che mi ha eletto per servire il mio popolo e mi ha incaricato di presentare le richieste dell’opinione pubblica araba”, ha detto dopo le elezioni in cui il suo partito ha ottenuto quattro seggi.

L’argomento avanzato da Abbas era che i palestinesi devono uscire dal loro autoisolamento politico ed essere più coinvolti nella formazione del governo israeliano, indipendentemente dalla sua ideologia. Ciò avrebbe consentito loro una maggiore influenza politica e l’opportunità di difendere i propri interessi a livello di governo.

Tuttavia nella sua collaborazione con i partiti politici israeliani Abbas ha rilasciato una serie di dichiarazioni problematiche. Ha affermato che “Israele è uno Stato ebraico e tale rimarrà” e ha rifiutato di descrivere i coloni israeliani come “violenti”. Inoltre ha sostenuto di non accettare di chiamare Israele uno “Stato di apartheid”.

Strategia fallita

Il cambio di strategia è stato disastroso per la Joint List. Ha profondamente deluso molti elettori palestinesi che hanno toccato con mano che i partiti palestinesi non dovrebbero sostenere un primo ministro sionista, tanto meno uno accusato di crimini di guerra contro i palestinesi. Ciò si è riflesso nelle elezioni israeliane del 2021, quando [la Joint List] ha ottenuto solo sei seggi.

In apparenza la strategia di Abbas poteva sembrare aver più successo, ma in realtà non è stato così. La frammentazione della Knesset e la sua volontà di impegnarsi con i partiti israeliani lo [Abbas] hanno reso l’ago della bilancia nel complicato processo di formazione del governo nel 2021. Ha raggiunto un accordo con la coalizione israeliana, che ha formato il governo, per garantire maggiori finanziamenti per le comunità palestinesi in Israele, una sospensione delle demolizione delle case palestinesi e il riconoscimento delle città beduine palestinesi.

Tre villaggi sono stati effettivamente “legalizzati”, ma ciò è avvenuto in cambio dell’accordo di Abbas e del suo partito alla creazione di nuovi insediamenti israeliani nel deserto del Naqab [Negev in ebraico, ndt]. Le case palestinesi continuano a essere demolite dagli israeliani e non si è visto nessun cambiamento significativo nei settori dell’istruzione, della salute, delle infrastrutture e altro nelle comunità palestinesi

Secondo molti palestinesi Abbas ha rinunciato a troppo per troppo poco. In cambio di un miglioramento temporaneo invece che di soluzioni strutturali ai grandi problemi che la comunità deve affrontare, ha rinnegato le posizioni palestinesi di lunga data contro l’occupazione israeliana e l’apartheid.

Le sue posizioni controverse hanno anche minato la posizione palestinese nella politica israeliana, legando la legittimità delle richieste dei palestinesi alla loro accettazione del sionismo piuttosto che ai loro diritti come comunità che vive su questa terra da secoli.

Sia le strategie di Abbas che quelle di Odeh sono state criticate, anche da ex colleghi della loro coalizione. Sami Abou Shehadeh, dell’Assemblea Nazionale Democratica (Al-Tajammu’), ha suggerito che i partiti palestinesi dovrebbero tornare alla loro posizione di opposizione.

Ma quella strategia è stata inefficace anche perché funziona all’interno dei limiti dello spazio politico israeliano, che è appunto quello dell’apartheid. Per più di sette decenni votare e avere membri palestinesi alla Knesset non ha fermato l’espropriazione israeliana dei palestinesi, la violenza contro i palestinesi o l’approvazione di leggi anti-palestinesi.

Le comunità palestinesi in Israele sono estremamente povere, prive di risorse, sottosviluppate e trascurate. Le infrastrutture si stanno sgretolando, i tassi di criminalità sono alti, la disoccupazione è schiacciante e la povertà è molto diffusa.

Noi palestinesi sappiamo che non c’è speranza di cambiamento con ciò che i nostri politici offrono in questo momento. Mentre si avvicina il voto del primo novembre, io, come molti palestinesi, mi chiedo: perché votare e agire come se avessimo diritti o pari cittadinanza?

Sarò uno dei tanti palestinesi che non voteranno. La mia speranza è che la bassa affluenza alle urne sia un campanello d’allarme per la classe politica palestinese e inneschi un importante dibattito aperto all’interno della comunità sulla strada da seguire.

Se per noi negli ultimi 70 anni nulla è cambiato e la situazione sta solo peggiorando, è evidente che abbiamo bisogno di una revisione radicale della politica palestinese in Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Le restrizioni israeliane sugli ingressi degli stranieri nella Cisgiordania occupata entrano in vigore nonostante le critiche

Yumna Patel e Michael Arria

20 ottobre 2022 – Mondoweiss

Nonostante mesi di condanne da parte di associazioni per i diritti umani e di tentativi giudiziari di bloccarle, una serie di restrizioni draconiane degli ingressi di stranieri nella Cisgiordania occupata da parte di Israele entra in vigore oggi.

Nonostante mesi di condanne da parte di associazioni per i diritti umani e tentativi giudiziari di bloccare l’applicazione delle restrizioni, è previsto che oggi entri in vigore una serie di norme e restrizioni draconiane sull’ingresso di stranieri nella Cisgiordania occupata.

Denominate “Procedura per l’ingresso e la residenza di stranieri nella zona di Giudea e Samaria”, le 90 pagine di restrizioni progettate dall’Israel’s Coordinator of Government Activities in the Territories [Coordinatore di Israele delle Attività di Governo nei Territori] (COGAT) intendono limitare seriamente la possibilità per gli stranieri, anche quelli di origine palestinese che vivono all’estero, di entrare in Cisgiordania per ragioni di attività economiche, istruzione, lavoro umanitario e persino per far visita alla famiglia.

Le nuove regole sono state pubblicate all’inizio di quest’anno, suscitando una condanna generalizzata e all’inizio era previsto che sarebbero entrate in vigore a maggio, ma sono state rinviate varie volte a causa dei ricorsi legali.

Le autorità israeliane non hanno fornito alcuna spiegazione riguardo alle nuove procedure, che chiaramente vanno molto al di là della loro competenza come potere occupante di prendere misure per la propria sicurezza o per il benessere della popolazione palestinese,” afferma in un comunicato Jessica Montell, direttrice esecutiva di Hamoked, l’associazione israeliana per i diritti umani che ha contrastato questa normativa nei tribunali israeliani.

La maggior parte dell’opposizione ha riguardato alcuni degli aspetti più insensati delle norme, come una clausola in base alla quale stranieri che iniziano una relazione con un palestinese dovrebbero dichiararlo al governo israeliano entro i 30 giorni dall’inizio di suddetta relazione.

In precedenza, a settembre, in seguito alle dure reazioni da parte delle associazioni per i diritti e di fonti ufficiali europee e statunitensi, il COGAT ha reso pubblica una versione rivista del documento che ha fatto marcia indietro su alcune delle norme più ampiamente criticate, compresa la summenzionata sequenza temporale per riferire di rapporti sentimentali con palestinesi.

Ma l’essenza delle regole e molte delle restrizioni originarie sono rimaste in vigore.

In base a queste norme, il COGAT e il governo israeliano hanno ancora il potere assoluto di approvare o negare il visto a chiunque cerchi di entrare o rimanere in Cisgiordania. Ciò include i coniugi stranieri di palestinesi, studenti, docenti universitari, volontari e operatori umanitari stranieri e persino palestinesi con passaporto straniero che intendano far visita alla propria famiglia in Cisgiordania.

Yotam Ben Hillel, avvocato israeliano che si è opposto alle norme del COGAT in tribunale insieme ad Hamoked, afferma che, in base agli Accordi di Oslo, decisioni di questo tipo dovrebbero essere sottoposte alla supervisione dell’Autorità Palestinese.

Ma in questo provvedimento (del COGAT) tutto dipende da Israele, che decide se le persone hanno la residenza, il visto, ecc.,” dice Ben Hillel a Mondoweiss. “È parte dei molti altri ostacoli che gli israeliani hanno messo in atto per rendere più difficile vivere insieme come famiglia in Palestina o per venirci per altre ragioni.”

Ciò ovviamente deriva da considerazioni di carattere demografico,” continua. “Queste nuove restrizioni isoleranno totalmente la società palestinese.”

Implicazioni immediate

A settembre, quando il COGAT ha reso noto le restrizioni modificate, l’ambasciatore USA in Israele Tom Nides ha emesso un comunicato in cui esprimeva alcune “preoccupazioni” riguardo alle procedure pubblicate. La dichiarazione di Nides è giunta dopo mesi di relativo silenzio da parte dell’amministrazione Biden su questa iniziativa politica.

All’epoca Nides aveva menzionato un “periodo di prova” delle nuove norme di due anni, durante i quali aveva detto di aspettarsi che il governo israeliano “faccia i necessari aggiustamenti” per “garantire trasparenza e un trattamento corretto ed equo di tutti i cittadini USA e di altri stranieri che si rechino in Cisgiordania.”

Ma secondo Ben Hillel si tratta di un periodo lungo, durante il quale migliaia di vite sarebbero colpite e molte famiglie palestinesi potrebbero essere danneggiate prima che venga fatto un qualche, o forse nessun, aggiustamento.

Da quello che abbiamo già visto ci sono persone a cui in quei due anni diverrebbe molto difficile continuare la propria vita come hanno fatto finora,” dice, evidenziando che molti coniugi stranieri di palestinesi si troverebbero con i visti sottoposti a un maggiore controllo, che potrebbe dare come risultato che loro e le rispettive famiglie debbano lasciare i territori palestinesi occupati se non rispondono ai nuovi criteri definiti dal COGAT.

In base alle nuove norme, a persone con un passaporto straniero di alcuni Paesi, compresi Stati come Giordania ed Egitto, che hanno rapporti diplomatici con Israele, sarà vietato del tutto l’ingresso in Cisgiordania, persino se hanno cittadinanza statunitense, canadese o altre.

Non possono andarci come turisti, non possono lavorare, non possono studiare. Il solo fatto di essere nati in Giordania o di avere un passaporto giordano implica che non possano andarci,” afferma Ben Hillel, aggiungendo che dovrebbero far domanda per un permesso per visite temporanee che devono essere approvate da Israele e che viene rilasciato molto di rado.

Ben Hillel afferma di essere preoccupato soprattutto per le implicazioni che le nuove norme hanno sulle famiglie palestinesi. Montell è d’accordo.

La categoria che verrà più danneggiata saranno le famiglie palestinesi in cui un coniuge ha la cittadinanza straniera. Ci sono decine di migliaia di famiglie come queste in Cisgiordania, e in base alla nuova procedura semplicemente non potranno più vivere insieme in Cisgiordania,” dice Montell a Mondoweiss.

Le richieste di riunificazione familiare potranno essere respinte solo perché il governo israeliano potrebbe non approvarle,” afferma Ben Hillel, aggiungendo che Israele ha ancora il potere di decidere se un rapporto di coppia è “reale” e se rilasciare al titolare di un passaporto straniero un visto in base al suo rapporto con un palestinese.

Stiamo parlando di molte persone che vivono, per esempio, a Ramallah, Nablus ed Hebron. Come faranno gli israeliani a controllare (se un rapporto è reale?),” chiede incredulo. “Manderanno l’esercito nel mezzo della notte e faranno irruzione nelle case della gente per vedere se una coppia vive insieme? È ridicolo,” afferma.

Ciò che gli USA stanno facendo, o non stanno facendo, a questo riguardo

Martedì 18 ottobre, due giorni prima che le norme entrassero in vigore, il vice portavoce del Dipartimento di Stato USA Vedant Patel ha risposto a una domanda relativa alla normativa: “Ovviamente noi continuiamo ad essere preoccupati riguardo al potenziale impatto negativo che alcune di queste procedure potrebbero avere sulla società civile, sul turismo, sulle strutture sanitarie, sulle istituzioni accademiche.”

Ha aggiunto che sulla questione l’amministrazione Biden continua ad “impegnarsi” con il governo israeliano.

Ma la presunta preoccupazione dell’amministrazione Biden sugli effetti negativi delle restrizioni sembra indifferente di fronte all’ondata di critiche sulle nuove norme e regolamenti durata mesi da parte degli esperti di diritti umani e giuridici, che hanno evidenziato che gli effetti negativi di cui si preoccupa l’amministrazione sono pressoché inevitabili.

Tutta questa iniziativa politica fa parte del controllo da parte di Israele dell’anagrafe palestinese,” sostiene Ben-Hillel. “Oltre a controllare la frontiera, c’è dietro uno scopo: isolare la società palestinese dal mondo esterno, e ovviamente in questo modo ciò renderà molto difficile per i palestinesi affrontare l’apartheid sotto il quale vivono.”

Aggiunge che questa politica inevitabilmente renderà molto difficile per alcune famiglie vivere insieme nella propria casa in Cisgiordania, il che porterà alcune di esse, tutte o in parte, a lasciare i territori occupati.

Montell esprime le stesse critiche, affermando che “questa operazione può essere intesa solo come motivata dal desiderio di isolare la società palestinese e di riprogettare ulteriormente la situazione demografica (è molto significativo il fatto che “il timore che uno si stabilisca in Cisgiordania” può essere motivo per negare un visto).”

Montell aggiunge che Hamoked ha inviato una lettera dettagliata all’esercito israeliano evidenziando tutte le proprie obiezioni alla legge. È il primo passo dei molti che Hamoked intende prendere per continuare a contrastare queste norme, afferma.

Nei prossimi mesi presenteremo un ricorso alla Corte Suprema israeliana a favore di persone o istituzioni che sono state danneggiate dalla nuova procedura. Spero che questi ricorsi, insieme alla pressione internazionale, diano come risultato dei cambiamenti molto significativi delle norme in modo che le famiglie possano vivere insieme e le istituzioni palestinesi possano beneficiare della cooperazione internazionale,” afferma.

Pressioni per l’esenzione dal visto

Le modifiche da parte di Israele alle norme del COGAT sono state un chiaro tentativo di partecipare all’United States’s Visa Waiver Program [Programma degli Stati Uniti per l’Esenzione dal Visto] (VWP). In base al VWP i cittadini di un piccolo numero di Paesi possono rimanere negli USA per tre mesi senza visto.

Da metà degli anni 2000 Israele ha fatto pubblicamente pressione sul governo degli Stati Uniti per partecipare al VWP. Negli ultimi anni ci sono stati vari tentativi del Congresso di inserire Israele nel programma e nel settembre 2021 Biden ha assicurato il governo israeliano che avrebbe lavorato per questo obiettivo. Quando a luglio Biden ha visitato Israele, ha diramato un comunicato congiunto con il primo ministro Yair Lapid in cui si sosteneva che entrambi i Paesi “continueranno nei propri sforzi condivisi e accelerati per consentire ai detentori di passaporto israeliano di essere inclusi nell’ United States’s Visa Waiver Program.

Tuttavia nessuno di questi sviluppi sembra aver portato Israele più vicino a ottenere l’esenzione. Questa settimana il depurato Don Beyer (D-VA) [deputato democratico della Virginia, ndt.] ha iniziato a far circolare nel Congresso una lettera per il segretario di stato Antony Blinken in cui si afferma che Israele non rispetta i requisiti minimi richiesti per entrare nel programma. La lettera si riferisce direttamente alle “pesanti e discriminatorie” restrizioni del COGAT. “Spetta a Israele, alleato chiave degli USA e beneficiario di aiuti significativi, trattare i cittadini statunitensi con dignità e rispetto indipendentemente da razza, religione ed etnia, e ciò è particolarmente rilevante in questo momento perché attualmente Israele viene preso in considerazione per l’ingresso nell’United States’s Visa Waiver Program,” scrive Beyer.

La codificazione del trattamento discriminatorio dei viaggiatori USA stabilisce ancora che queste norme si applicano specificamente a Paesi che hanno “accettato un programma per l’esenzione dal visto con Israele,” continua. “Di conseguenza la loro decisione di accentuare la discriminazione attraverso una normativa è particolarmente sconcertante, dato il desiderio di Stati Uniti e Israele di ammettere quest’ultimo al VWP.”

A settembre il Dipartimento della Sicurezza Interna ha inviato a Beyer una lettera in cui afferma che Israele non soddisfa ancora i requisiti necessari per il VWP.

Le ultime restrizioni discriminatorie israeliane all’ingresso di palestinesi-americani entrate in vigore questa settimana sono draconiane e intendono rendere difficile, se non impossibile, ai palestinesi di questo Paese rimanere fisicamente legati alla loro patria e alla loro famiglia là,” dice a Mondoweiss il direttore delle relazioni con il governo dell’ Institute for Middle East Understanding [Istituto per la Comprensione del Medio Oriente] (IMEU) Josh Ruebner. “È parte del pervasivo sistema di apartheid e di controllo israeliano sui palestinesi. Il deputato Don Beyer e tutti i membri del Congresso che hanno firmato la sua lettera sono da lodare per aver sollevato tali preoccupazioni al Segretario di Stato Tony Blinken ed essersi aggiunti alla già significativa pressione congressuale per escludere Israele dal Visa Waiver Program.”

Durante la conferenza stampa del Dipartimento di Stato, alla domanda riguardo allo status di Israele e del VWP, Vedant Patel ha detto ai giornalisti che non intende avviare negoziati specifici, ma che l’amministrazione continua “a lavorare con Israele perché risponda a tutte le esigenze del Visa Waiver Program in modo da estendere i reciproci privilegi a tutti i cittadini e connazionali statunitensi, compresi i palestinesi americani.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Al-Haq: “65 organizzazioni inviano una lettera al nuovo alto commissario per i diritti umani, sollecitando misure concrete per assicurare giustizia e responsabilizzazione per il popolo palestinese”

Al-Haq

18 ottobre 2022 – IMEMC

Il 17 ottobre 65 organizzazioni palestinesi, regionali ed internazionali hanno inviato una lettera congiunta al nuovo alto commissario per i diritti umani, Volker Türk, dandogli il benvenuto per questa sua nuova posizione ed evidenziando alcune delle recenti e allarmanti politiche e pratiche israeliane imposte ai palestinesi.

In modo specifico la lettera sottolinea i 15 anni di chiusura e assedio della Striscia di Gaza da parte di Israele; l’inasprimento delle incursioni militari intrusive di Israele nelle città palestinesi nei mesi scorsi; la chiusura come atto di punizione collettiva dei campi profughi di Shuafat e ‘Anata, così come un aggravamento nell’uso della politica “sparare per uccidere” delle forze di occupazione israeliane.

Inoltre la lettera sottolinea l’incremento della campagna israeliana di arresti e detenzioni arbitrari di massa, inclusa l’arbitraria, coercitiva e punitiva politica della detenzione amministrativa [cioè senza processo né accuse e rinnovabile a tempo indeterminato, ndt.].

Notando come al popolo palestinese sia stato negato per decenni il diritto all’autodeterminazione, la lettera congiunta evidenzia che la situazione dei diritti umani in Palestina dovrebbe essere in cima all’agenda dell’alto commissario, incluso un incremento della priorità dell’aggiornamento annuale del database ONU sulle attività commerciali delle colonie, come prescritto [dalle norme dell’ONU, ndt.].

La lettera fa notare con preoccupazione i ripetuti e inspiegabili ritardi dell’aggiornamento del database che sono senza precedenti nel modo in cui l’ufficio dell’alto commissariato per i diritti umani (OHCHR) ha gestito i mandati precedenti e sono causati da pressioni e interferenze politiche esercitate su OHCHR.

A tal fine la lettera evidenzia gli sforzi sistematici di Israele per silenziare i difensori dei diritti umani che alzano la loro voce contro le politiche e pratiche illegali di Israele, inclusa la messa al bando arbitraria di sei importanti organizzazioni della società civile palestinese, e spingono per la giustizia e la responsabilizzazione internazionale Ciò detto, le organizzazioni hanno espresso la loro fiducia che tale pressione non farà sviare l’OHCHR dal suo impegno per i diritti umani, per la giustizia, e la responsabilizzazione e sollecitano il nuovo alto commissario e il suo ufficio a:

    1. Riconoscere e prendere atto delle cause prime della prolungata negazione dei diritti dei palestinesi, radicata nel colonialismo di insediamento e nell’apartheid dello Stato di Israele;
    2. Dare priorità all’aggiornamento annuale del database ONU, come prescritto dalla Risoluzione 31/36 del Consiglio per i Diritti Umani (HRC) ed assicurare che siano allocate le opportune risorse per permettere uno sviluppo continuativo del database;
    3. Continuare a lavorare con le organizzazioni della società civile e con i difensori dei diritti umani in piena trasparenza per il completamento e l’aggiornamento continuativo del database;
    4. Affrontare l’aggressione istituzionale e sistematica da parte di Israele del popolo palestinese, inclusi i 15 anni di blocco della Striscia di Gaza e le massicce e arbitrarie politiche di “sparare per uccidere” e detenzione amministrativa
    5. Indagare e segnalare, con visite in loco o altro, attacchi contro i difensori dei diritti umani che lavorano sulle questioni palestinesi e che affrontano intimidazioni o arbitrarie restrizioni legislative o amministrative e assicurarne la protezione

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)