Decade di nuovo la causa contro Palestine Action

Kit Klarenberg

10 ottobre 2022 The Electronic Intifada

Il 22 settembre cinque attivisti di Palestine Action [rete di protesta pro-palestinese che pratica la disobbedienza civile, ndt.] avrebbero dovuto presentarsi in tribunale per un’udienza di patteggiamento per avere intrapreso quest’estate un’azione contro il produttore di armi israeliano Elbit Systems.

Tuttavia, prima ancora che il procedimento fosse iniziato, i cinque sono stati informati all’ultimo minuto che tutte le accuse erano state ritirate. Le autorità hanno stabilito che nella causa “non c’erano prove sufficienti per fornire una prospettiva realistica di condanna”, come hanno confermato i rappresentanti di Palestine Action.

I cinque attivisti erano stati arrestati all’inizio di luglio per danni penali e violazione di domicilio aggravata per aver interrotto l’attività della fabbrica di motori UAV [unmanned aerial vehicle, velivolo senza pilota, drone ndt] di Elbit a Shenstone, Staffordshire, nelle Midlands occidentali inglesi. Avevano spruzzato la fabbrica, i cancelli e i sistemi di sicurezza esterni con vernice rossa, a simboleggiare il sangue dei palestinesi, e si erano incatenati ai cancelli della fabbrica.

Il sito è stato reso inutilizzabile. Elbit è stata costretta a interrompere temporaneamente la produzione di componenti per droni come i motori.

L’azienda fornisce circa l’85% della flotta di droni israeliani.

La fabbrica di Shenstone, UAV Engines, produce componenti per droni ed è una parte fondamentale degli investimenti di Elbit in Gran Bretagna.

Fra i droni con componenti realizzati a Shenstone c’è il Watchkeeper, utilizzato dall’esercito britannico nelle guerre all’estero e dalla forza di frontiera britannica per sorvegliare e attaccare i migranti.

Perciò il sito è stato a lungo bersaglio degli attacchi di Palestine Action e quello di luglio è stato solo l’ultimo di una campagna ad ampio raggio per distruggere le strutture di Elbit e rendere impossibile la normale produzione.

Nel corso di questa campagna alcuni attivisti del gruppo sono stati arrestati, ma i conseguenti procedimenti giudiziari sono falliti.

A febbraio, quattro attivisti erano stati liberati, perché di nuovo non c’era “alcuna possibilità realistica di condanna”.

Considerazioni su chi indaga

Uno dei cinque di Shenstone, un attivista che desidera essere chiamato Randeep, non è particolarmente sorpreso dalla notizia.

Randeep è comunque leggermente irritato dal fatto che le accuse siano state ritirate dopo che ha sostenuto la spesa per l’acquisto dei biglietti del treno per partecipare all’udienza di patteggiamento.

Questo conferma ulteriormente ciò che già sapevamo. Non siamo noi i criminali e ostacolare la colonizzazione israeliana della Palestina non solo un è dovere morale, è anche giuridicamente valido”, ha affermato in una nota.

Un altro accusato, Richard Spence, ha detto a The Electronic Intifada che la conclusione dell’accusa di mancanza di “prove sufficienti per fondare una realistica prospettiva di condanna” è particolarmente degna di nota, dato che né lui né i suoi colleghi attivisti hanno fatto alcun tentativo di eludere l’arresto o hanno negato di aver agito. In altre parole, un caso facile da risolvere, se mai avessero fatto qualcosa di criminale.

“Il CPS [Crown Prosecution Service, la Procura della Corona] deve aver capito, dopo che altri portati in tribunale per aver preso di mira lo stesso sito sono stati dichiarati non colpevoli, che non c’è ragione per punire degli attivisti che difendono i diritti umani”, ha affermato.

Ad oggi, diversi attivisti di Palestine Action sono stati arrestati e perseguiti per aver violato i siti Elbit e quelli dei suoi fornitori in Gran Bretagna.

Solo un caso si è concluso con una effettiva condanna. L’attivista in questione ha ricevuto una sospensione condizionale della pena di tre mesi e una multa trascurabile di soli 25 dollari.

È raro che i casi anche solo raggiungano il tribunale. In uno di questi casi nel dicembre 2021, tre attivisti – che avevano ugualmente preso di mira il sito di Shenstone – sono stati dichiarati non colpevoli di danni penali dopo un processo di due giorni.

Gli avvocati dei tre attivisti, tra cui l’avvocata palestinese Mira Hammad, hanno sostenuto con successo che, sebbene le loro azioni avessero apportato un danno alla fabbrica, non erano di natura criminale, ma costituivano un’azione proporzionata per prevenire crimini molto più gravi in Palestina.

All’epoca Huda Ammori, co-fondatore di Palestine Action, sostenne che la sentenza equivaleva ad un sostegno del tribunale per la campagna del gruppo. Secondo le stime della polizia britannica ad agosto, e come riportato in un cortometraggio su Palestine Action, nell’arco di un anno il gruppo avrebbe inflitto perdite per oltre 22 milioni di dollari ai siti Elbit in tutto il paese.

Le prossime sfide

Tuttavia, sono in vista importanti sfide legali per il gruppo e i suoi attivisti. In tutto, da qui al prossimo anno sono previsti 13 diversi procedimenti giudiziari contro gli attivisti di Palestine Action.

Il 21 novembre, gli attivisti che hanno scalato il tetto della fabbrica di Elbit a Oldham, vicino a Manchester, e sono entrati nel sito danneggiando dei macchinari, sono accusati di danni penali e furto con scasso.

All’inizio di ottobre, inoltre, presso la Corte di Snaresbrook a Londra sarebbe dovuto iniziare un processo contro un gruppo di attivisti che è stato soprannominato “gli otto di Elbit”. Come apparso su The Electronic Intifada il mese scorso, devono affrontare una marea di accuse per le quali potrebbero essere incarcerati individualmente e collettivamente per molti anni.

Degli otto, tre – Ammori, il suo collega co-fondatore di Palestine Action Richard Barnard e la loro compagna Emily Arnott – affrontano l’accusa più grave di tutte, quella di associazione a delinquere a fini di ricatto.

L’accusa si basa sul fatto che gli attivisti hanno scritto alla società che ha affittato gli uffici londinesi di Elbit incoraggiandone i dirigenti a sfrattare la produzione di armi e minacciando di intensificare la campagna se questa richiesta non fosse stata soddisfatta. La pena massima per il ricatto secondo la legge inglese è di 14 anni di carcere.

Tuttavia, per ragioni poco chiare, tale processo è stato rinviato almeno fino al novembre 2023.

Forse si spera che un lungo periodo da trascorrere con un futuro incerto smorzi la passione. Nel frattempo, però, gli otto attivisti accusati rimangono sulle loro posizioni e considerano il loro eventuale processo un’opportunità d’oro per mettere Elbit sul banco degli imputati.

Sperano di porre ai rappresentanti dell’azienda domande sgradite sulle sue operazioni e, nel processo, impegnarsi a rendere pubbliche sicure prove degli scopi distruttivi per cui quelle armi vengono regolarmente usate a Gaza e in Cisgiordania.

Palestine Action sospetta fortemente che uno dei motivi principali per cui i casi precedenti sono decaduti prima di arrivare in tribunale è che i rappresentanti di Elbit non vorrebbero trovarsi a dover ammettere in una udienza pubblica la loro complicità attiva, continua e diretta negli abusi perpetrati contro i civili palestinesi. In termini di pubblicità negativa, il prossimo processo potrebbe produrre grande disagio ai potenti – ciò che il gruppo considererebbe un grande successo anche in caso di condanna.

“Il governo britannico e Elbit sanno che stiamo decostruendo la loro violenza, il loro apartheid, le loro spudorate violazioni del diritto internazionale”, ha detto un attivista di Palestine Action che ha chiesto di essere chiamato Finn.

“Hanno paura che i loro crimini vengano smascherati, e hanno ragione ad essere spaventati”, ha aggiunto Finn, uno degli attivisti che è uscito dal tribunale il mese scorso. “Questo è un appello a chiunque stia pensando di prendere parte all’azione diretta. Noi siamo innocenti e loro colpevoli, non importa quello che dicono i tribunali”.

Kit Klarenberg è un giornalista investigativo che indaga il ruolo dei servizi di intelligence nel plasmare la politica e la percezione del pubblico.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




ONG internazionali di difesa dei diritti umani condannano fermamente il vertice UE-Israele

Elis Gjevori

3 ottobre 2022 – Middle East Eye

Mentre l’Unione Europea affronta una crisi energetica legata alla guerra in Ucraina, Israele intende approfittare del vertice per consolidare i propri interessi.

Organizzazioni internazionali di difesa dei diritti umani condannano il vertice UE-Israele previsto oggi, affermando che non farebbe altro che legittimare l’“apartheid” che colpisce attualmente i palestinesi.

Secondo un comunicato di Amnesty International “Israele commette un crimine di apartheid nei confronti dei palestinesi” e “qualunque forma di cooperazione deve focalizzarsi sullo smantellamento del brutale sistema di oppressione e di dominazione attuato da Israele.”

L’UE cerca di rilanciare i suoi rapporti con Israele in occasione del vertice previsto questo lunedì, il primo tra le due parti dal 2012, soprattutto a causa della necessità di diversificare le proprie risorse energetiche in seguito alla guerra in Ukraina.

Questo vertice, denominato “Consiglio di associazione UE-Israele”, è stato annullato da Israele nel 2013 dopo la pubblicazione da parte dell’UE di una direttiva che ha avuto l’effetto di una bomba, in base alla quale tutti i futuri accordi con Israele escluderebbero le colonie israeliane nei territori palestinesi occupati.

Gli organismi israeliani che vogliono ottenere un finanziamento dall’UE dovevano quindi dimostrare attivamente l’assenza di qualunque legame diretto o indiretto con la Cisgiordania, Gerusalemme est o le alture del Golan occupate.

Pur se la politica ufficiale dell’UE a questo riguardo non è cambiata, Israele ha deciso di confermare il vertice. Tuttavia alcune organizzazioni in difesa dei diritti umani temono che Bruxelles finisca per cedere.

Le autorità israeliane impongono ai palestinesi requisizioni di terre, omicidi illegali, trasferimenti forzati e severe restrizioni alla circolazione, negando la loro umanità e l’eguaglianza di cittadinanza e di status”, afferma Amnesty International a proposito del vertice.

L’UE non può pretendere di condividere degli impegni in materia di diritti umani con uno Stato che pratica l’apartheid e che nei mesi scorsi ha chiuso gli uffici di note organizzazioni della società civile palestinese”, sottolinea Amnesty.

All’inizio di quest’anno le forze israeliane hanno perquisito e chiuso gli uffici di sette ONG palestinesi: Al-Haq, Addameer, Centro Bisan per la ricerca e lo sviluppo, Difesa dei Bambini Internazionale-Palestina, Unione dei comitati di donne palestinesi, Unione dei comitati del lavoro agricolo e Unione dei comitati dei lavoratori della sanità.

Crimini contro l’umanità”

In un comunicato anche Human Rights Watch (HRW) ha condannato il vertice.

I responsabili europei devono sapere che stringeranno la mano a rappresentanti di un governo che commette crimini contro l’umanità e che ha messo al bando importanti associazioni della società civile che si oppongono a questi abusi”, afferma la ONG.

Grace O’Sullivan, eurodeputata del partito dei verdi irlandesi, intervistata da Middle East Eye, sottolinea che è anche improbabile che questo vertice offra ai dirigenti UE l’occasione di esternare le loro preoccupazioni ai dirigenti israeliani.

Mi è stato detto che il Primo Ministro Lapid non vi parteciperà nemmeno di persona”, aggiunge, ritenendo “deludente il fatto che l’UE abbia organizzato questo incontro nella settimana di Yom Kippur (importante ricorrenza religiosa ebraica, ndt.), poiché questo limiterà il (suo) impegno nei confronti dei dirigenti israeliani.”

L’eurodeputata precisa che seguirà da vicino ciò che Josep Borrell, alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, dichiarerà dopo l’incontro con i suoi interlocutori israeliani, in particolare per sapere se verranno menzionati i diritti umani e le colonie occupate.

Il trattamento dei palestinesi e la messa in atto di misure reali a favore di uno Stato palestinese dovranno essere al centro di questi incontri”, ritiene.

Mi piacerebbe anche vedere dei progressi per quanto riguarda l’uccisione della giornalista americana-palestinese Shireen Abu Akleh e l’arresto di oltre 25 giornalisti palestinesi da parte di Israele solo in quest’anno. La libertà di stampa è gravemente minacciata in Israele e nei territori occupati.”

Un ordine del giorno completamente diverso

Tuttavia l’attuale atmosfera a Bruxelles e a Tel Aviv lascia prevedere un ordine del giorno completamente diverso.

La visita effettuata il mese scorso in Israele dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, allo scopo di rafforzare la cooperazione energetica, non è passata inosservata in Israele, alla luce delle opportunità che potrebbe offrire al Paese.

Traduzione [del discorso di Von der Leyen]: “Sono molto felice di essere in Israele. Lavoriamo fianco a fianco per rafforzare la collaborazione tra UE ed Israele. La mia visita sarà incentrata sulla sicurezza energetica e alimentare, l’intensificazione della cooperazione nell’ambito della ricerca, della sanità e della protezione ambientale. Discuteremo anche della situazione regionale e degli sforzi verso la costruzione di un Medio Oriente sicuro.”

Contemporaneamente alla visita della dirigente, Oded Eran, ex ambasciatore di Israele presso l’Unione Europea, ha dichiarato che la delicata situazione energetica in Europa offre a Israele l’occasione di approfondire i suoi rapporti con Bruxelles.

In agosto Israele ha registrato un aumento del 50% delle tariffe derivanti dalle esportazioni di gas nel 2022, sostenuto da prezzi mondiali record, mentre l’Europa affronta una imminente scarsità energetica in seguito all’invasione russa dell’Ucraina.

Anche se limitata, la capacità di Israele di rispondere alla domanda europea non è trascurabile. Così, mentre nel 2021 l’UE ha importato circa 155 miliardi di m3 dalla Russia, Israele potrebbe essere in grado di fornirle circa 10 miliardi di metri cubi all’anno.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Sarebbe un disastro se Liz Truss spostasse l’ambasciata del Regno Unito a Gerusalemme

Avi Shlaim

28 settembre 2022 – Middle East Eye

Minacciando un’improvvisa svolta della pluriennale politica britannica, lei ha promesso di prendere in considerazione lo spostamento dell’ambasciata in Israele a Gerusalemme.

Durante la sua campagna per diventare leader del partito conservatore britannico, Liz Truss ha detto ai Conservatori Amici di Israele (CFI) che, se eletta, avrebbe preso in considerazione il trasferimento dell’ambasciata britannica da Tel Aviv a Gerusalemme. Successivamente, durante una sessione all’ONU, il primo ministro Truss ha ripetuto al suo “caro amico” Yair Lapid, il premier israeliano ad interim, la promessa di revisione. 

Lo status di Gerusalemme è il tema più spinoso del conflitto israelo-palestinese, uno dei conflitti internazionali più aspri, prolungati e irrisolvibili dell’epoca contemporanea. Gerusalemme Est, con il resto della Cisgiordania e la Striscia di Gaza, fu conquistata da Israele nella guerra [dei Sei Giorni] del giugno 1967 e da allora è sempre stata vista dalla comunità internazionale come territorio occupato. 

Israele reclama l’intera città quale sua eterna e indivisa capitale, mentre i palestinesi rivendicano la parte orientale come capitale del loro futuro Stato.

I politici israeliani naturalmente sono stati felicissimi che Truss, con una delle sue prime decisioni di politica estera da primo ministro, abbia ventilato l’idea di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, in tal modo riconoscendo in tal modo la sovranità israeliana sulla città.

I leader palestinesi hanno avvertito che spostare l’ambasciata minerebbe la soluzione dei due Stati e compromesso le loro relazioni con la Gran Bretagna. Husam Zomlot, l’ambasciatore palestinese nel Regno Unito, ha detto che è stato “estremamente increscioso” che Truss abbia usato la sua prima apparizione all’ONU come primo ministro per “impegnarsi a violare potenzialmente il diritto internazionale”. 

Violare le risoluzioni dell’ONU

È difficile pensare a un problema di politica estera che abbia meno bisogno di una revisione che l’ubicazione dell’ambasciata britannica in Israele. Spostare la sede a Gerusalemme violerebbe una serie di risoluzioni dell’ONU ed equivarrebbe a un’improvvisa svolta delle politiche britanniche dal 1967. Esse, parte di un ampio consenso internazionale, hanno statuito che tutte le ambasciate dovevano restare a Tel Aviv fino a quando si fosse raggiunto un accordo generale di pace tra Israele e i palestinesi, con Gerusalemme quale capitale condivisa tra i due Stati. 

Quando era ministra degli Affari Esteri, Truss non ha fatto tentativi di spostare l’ambasciata. Si può solo supporre che abbia promosso la revisione per motivi di opportunismo politico: per ingraziarsi Israele e i suoi sostenitori in Gran Bretagna e, più precisamente, il CFI, i cui membri includono la maggior parte del governo e circa l’80% dei parlamentari conservatori senza vincolo di mandato. 

Recentemente una delle testate israeliane ha descritto Truss come potenzialmente “il primo ministro britannico più filoisraeliano di sempre”. Questo senza dubbio voleva essere un complimento, ma ignora le responsabilità storiche dell’Inghilterra di aver generato il problema sin dall’inizio.

Il conflitto israelo-palestinese fu creato in Gran Bretagna. Tutto cominciò nel 1917 con la Dichiarazione Balfour per sostenere un focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina, sebbene all’epoca gli ebrei fossero solo il 10% della popolazione del Paese. L’impegno che non sarebbe stato a spese delle “comunità non ebraiche” fu completamente ignorato dai successivi governi britannici. La dichiarazione quindi permise una sistematica occupazione coloniale sionista della Palestina, un processo che continua ancora oggi.

Nel giugno 1967, Israele completò l’occupazione dell’intera Palestina storica. Due settimane dopo la fine degli scontri, Israele annetté unilateralmente Gerusalemme Est, accorpandola a Gerusalemme Ovest. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU denunciò immediatamente quelle misure come illegali e non valide.

Nel 1980, quando la Knesset annetté formalmente Gerusalemme Est, il Consiglio di Sicurezza censurò Israele “nel modo più assoluto”. Il Regno Unito votò tutte quelle risoluzioni.

Sdegno e condanna

Il presidente USA Donald Trump è stato il primo leader al mondo a rompere l’accordo di lunga data della comunità internazionale di non insediare le ambasciate a Gerusalemme fino al raggiungimento di una soluzione a due Stati del conflitto israelo-palestinese. Nel 2018 la sua decisione di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme suscitò lo sdegno nel mondo arabo e provocò diffusa condanna internazionale. Portò anche a scoppi di violenza in cui decine di palestinesi furono uccisi dalle forze israeliane. Theresa May, premier britannica dell’epoca, criticò la decisione.

Il tanto magnificato “accordo del secolo” di Trump fu un rozzo tentativo di ridefinire la soluzione dei due Stati come un Grande Israele che includesse un terzo della Cisgiordania e tutta Gerusalemme, e un mini-Stato palestinese frammentato e circondato da colonie e basi militari israeliane. Fu immediatamente respinta con disprezzo dall’Autorità Palestinese (ANP).

Nonostante tutti gli sforzi di Trump solo tre Stati hanno seguito il suo esempio di spostare le loro ambasciate a Gerusalemme: Kosovo, Guatemala e Honduras. Tutti gli altri 82 Paesi con missioni diplomatiche in Israele hanno optato per tenere le loro ambasciate a Tel Aviv. Alcuni, inclusa la Gran Bretagna, hanno anche un consolato generale a Gerusalemme Est che funge da canale di comunicazione con l’ANP a Ramallah. 

Nella sua singolare postura filoisraeliana e apparente indifferenza riguardo ai diritti palestinesi, Truss appartiene alla maggioranza del suo partito. Tutti e tre i primi ministri per i quali è stata ministra sono stati convinti sostenitori di Israele. David Cameron si è descritto come un “amico appassionato” di Israele, sostenendo che nulla avrebbe potuto rompere tale amicizia. 

Quando era premier,Teresa May fu probabilmente la leader più filoisraeliana in Europa. In un discorso al CFI nel 2016 descrisse Israele come un “Paese straordinario… una democrazia fiorente, un faro di tolleranza, un motore di imprenditorialità e un esempio per il resto del mondo”. Respinse accanitamente una petizione pubblica, di cui io fui uno dei firmatari, per porgere scuse ufficiali per la Dichiarazione di Balfour. 

Rapporti tesi

Boris Johnson fece fare un ulteriore passo in avanti alla politica conservatrice di ‘Israele First’, collocando Israele al di sopra del diritto internazionale. Resistette ai tentativi di far sì che dovesse render conto delle sue azioni illegali e dei suoi crimini di guerra. Nel 2021 annunciò che si opponeva alle indagini del Tribunale Penale Internazionale sui presunti crimini di guerra nei territori occupati, osservando in una lettera al CFI che, anche se il suo governo rispettava l’indipendenza del Tribunale, si opponeva a questa particolare inchiesta.

Questa indagine dà l’impressione di essere un attacco fazioso e pregiudiziale contro un amico e alleato del Regno Unito,” scrisse. La logica perversa di questa dichiarazione sta nel fatto che essere un amico e alleato del Regno Unito colloca Israele al di sopra del diritto e del controllo internazionali.

Come Johnson, Truss è un’appassionata sostenitrice di una Gran Bretagna dopo-Brexit globale. Però violare il diritto internazionale non farà nulla per promuovere questa immagine, né aiuterà a ottenere quell’accordo commerciale con gli USA sbandierato come uno dei più grandi vantaggi di una politica estera indipendente.

Quando era ministra degli Esteri, Truss dichiarando a gran voce l’intenzione di annullare unilateralmente l’accordo con l’Unione Europea sull’Irlanda del Nord, aveva già danneggiato la sua relazione con il presidente USA Joe Biden, che pensava avrebbe posto in pericolo l’accordo del Venerdì Santo [firmato nel 1998, pose fine alla guerra civile nell’Irlanda del Nord, N.d.T.].

Seguire l’esempio di Trump e spostare l’ambasciata britannica a Gerusalemme non sarebbe ben accolto alla Casa Bianca. Sebbene non abbia annullato la decisione di spostare l’ambasciata americana, Biden ha preso una serie di misure per limitare i danni fatti dal suo predecessore ed è ritornato a collaborare con gli alleati attraverso l’ONU.

Trasferire l’ambasciata britannica da Tel Aviv a Gerusalemme sarebbe moralmente indifendibile, legalmente discutibile e politicamente dannoso. Sarebbe uno dei più violenti attacchi britannici a un futuro Stato palestinese dalla Dichiarazione di Balfour. Incoraggerebbe inoltre Israele a continuare ad agire impunemente, rafforzando l’arroganza del suo potere.

Israele e i suoi sostenitori in questo Paese [la Gran Bretagna, N.d.T.] sicuramente accoglierebbero positivamente questa decisione, nonostante i danni alla reputazione britannica nel mondo.

Piuttosto che riconsiderare la sede della sua ambasciata, il governo britannico dovrebbe rivalutare la sua relazione con Israele alla luce della realtà di oggi. Negli ultimi due anni i rapporti di tre importanti organizzazioni per i diritti umani hanno concluso che Israele è diventato uno Stato di apartheid. Tali relazioni documentano attentamente la continua pulizia etnica attuata da Israele, la confisca delle terre, le demolizioni delle abitazioni, la persecuzione dei difensori dei diritti umani, l’incarcerazione di minori e la tolleranza nei confronti della violenza dei coloni. 

La triste verità è che dal 1967 Israele è diventato dipendente dall’occupazione. Un vero amico non è indulgente con chi ha una dipendenza, ma cerca di aiutarlo a disintossicarsi. 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Middle East Eye.

Avi Shlaim è professore emerito di Relazioni Internazionali presso l’Università di Oxford e autore di The Iron Wall: Israel and the Arab World (2014) [Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo, edizioni Il Ponte, 2003] e di Israel and Palestine: Reappraisals, Revisions, Refutations (2009) [Israele e Palestina: riesami, revisioni, refutazioni] (2009).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




“Ingegneria razziale” dietro alle nuove restrizioni di Israele in Cisgiordania

Maureen Clare Murphy

26 settembre 2022 – The Electronic Intifada

Quando verranno imposte il mese prossimo, le nuove restrizioni del Ministero della Difesa israeliano all’ingresso degli stranieri nella Cisgiordania occupata violeranno i diritti fondamentali dei palestinesi, inclusa la vita famigliare.

Secondo una rete di associazioni palestinesi per i diritti umani, la procedura di 97 pagine è funzionale all’ “ingegneria razziale” della popolazione della Cisgiordania, “all’interno dello schema del regime di apartheid, che costituisce un crimine contro l’umanità”.

Queste associazioni affermano che le restrizioni limitano la libertà di movimento dei palestinesi, la possibilità di ricevere assistenza umanitaria e per lo sviluppo e di ospitare medici specialisti e altri esperti.

Queste misure colpiscono i diritti sovrani del popolo palestinese, compreso il diritto ad ospitare studiosi, artisti, atleti, studenti, turisti e volontari.”

Le associazioni chiedono all’Unione Europea di fare pressione su Israele perché “sospenda le crescenti restrizioni”. Chiedono anche che si istituisca da parte del Consiglio ONU sui Diritti Umani una missione permanente di accertamento dei fatti “per indagare su questa misura come grave violazione che rientra nella categoria della discriminazione razziale”.

Le nuove restrizioni, pubblicate all’inizio di questo mese, entreranno in vigore il 20 ottobre. Non si applicheranno agli stranieri in visita a Gerusalemme est occupata, che Israele ha annesso illegalmente ed è governata dalla legislazione civile dello Stato [di Israele].

Gli stranieri che intendono visitare la Cisgiordania, esclusa Gerusalemme est, devono farlo attraverso il confine del ponte di Allenby con la Giordania, invece che dall’aeroporto internazionale di Israele vicino Tel Aviv.

Secondo la rete delle associazioni per i diritti, coloro che intendono lavorare o studiare in Cisgiordania “devono richiedere il visto d’ingresso 45, 60 o fino a 153 giorni prima dell’arrivo e anche consegnare un dettagliato questionario relativo al loro CV (in sintesi) e a qualunque legame familiare o coniugale in Cisgiordania”.

Una precedente bozza delle restrizioni avrebbe richiesto agli stranieri di comunicare all’esercito israeliano se fossero fidanzati, sposati o conviventi con una persona palestinese.

Secondo le associazioni palestinesi per i diritti, “questa previsione scandalosa è stata in seguito rimossa dietro pressioni internazionali”.

Tuttavia le procedure modificate prevedono ancora che ogni rinnovo del visto a chi sia in possesso di visto per lavoro o per altro speciale motivo debba essere accompagnato dalla comunicazione, se è così, riguardo all’ avere un rapporto di coppia con una persona palestinese registrata all’anagrafe in Cisgiordania”.

Draconiane”

Le nuove procedure draconiane per l’ingresso e la residenza degli stranieri in Cisgiordania comprometteranno la libertà accademica delle università palestinesi e danneggeranno l’economia e la società locale”, secondo HaMoked, un’associazione israeliana per i diritti umani che ha avviato un’azione legale contro la precedente bozza di restrizioni.

Secondo HaMoked, “le visite brevi in Cisgiordania sono limitate ai parenti di primo grado dei palestinesi, agli uomini d’affari, agli investitori e ai giornalisti accreditati.

La procedura non consente le visite di altri familiari o amici in Cisgiordania, né quelle di turisti, pellegrini o a carattere culturale.”

Chiunque voglia entrare in Cisgiordania per lavorare, fare volontariato, insegnare o studiare, o chi è coniuge straniero di un palestinese, deve pagare cauzioni dal costo proibitivo” fino a 20.000 dollari, aggiunge HaMoked.

Queste direttive si applicano al personale e ai volontari delle agenzie dell’ONU e delle organizzazioni internazionali. Perciò esse impediscono “il flusso dell’assistenza umanitaria e allo sviluppo…necessaria per far fronte alle terribili condizioni di vita create dalle azioni discriminatorie di Israele”, affermano le associazioni palestinesi per i diritti.

Le nuove restrizioni distruggeranno la vita familiare di migliaia di palestinesi.

Secondo HaMoked, esse stabiliscono che Israele ha l’autorità di approvare le richieste di coniugi stranieri di risiedere in Cisgiordania e affermano che tali richieste sono “soggette a valutazioni politiche del governo israeliano.”

Israele ha congelato per oltre due decenni il processo di ricongiungimento familiare, costringendo migliaia di persone, soprattutto i coniugi stranieri di palestinesi, a vivere in Cisgiordania senza uno status legale.

Le nuove norme renderanno impossibile a uno straniero sposato con un palestinese ottenere un visto per lavoro o per studio.

Inoltre ai sensi della procedura tutti i visti verranno valutati alla luce del ‘rischio di radicamento in Cisgiordania’”, afferma HaMoked.

Con le nuove restrizioni il Ministero della Difesa di Tel Aviv ha anche l’autorità di valutare i titoli accademici dei docenti presso istituzioni della Cisgiordania.

I visti a studenti e docenti possono essere rinnovati per un massimo di 27 mesi e non c’è possibilità di garantire la titolarità della cattedra per i docenti stranieri.

Le nuove restrizioni non si applicano agli stranieri che si recano nelle colonie israeliane in Cisgiordania. Secondo HaMoked chiunque voglia studiare o insegnare all’università di Ariel nella colonia per la quale viene nominato “continuerà ad essere sottoposto alle norme molto più permissive stabilite dal Ministero dell’Interno di Israele”.

Il ministero della Difesa inoltre “stabilirà i criteri economici per l’ingresso degli uomini d’affari e degli investitori e deciderà quali professioni e progetti ‘sono importanti per la regione’”, afferma l’associazione per i diritti.

Gli stranieri possono fare volontariato presso le istituzioni palestinesi per soli 12 mesi e poi dovranno rimanere all’estero per un anno prima di poter rientrare in Cisgiordania.

Discriminatorie”

In base alle nuove restrizioni i cittadini di Giordania, Egitto, Marocco, Bahrein e Sud Sudan sono esclusi dall’ingresso in Cisgiordania, nonostante i rapporti diplomatici di questi Paesi con Israele.

Ai fini di questa procedura questa esclusione discriminatoria si applica anche a chi ha doppia nazionalità: per esempio, chi possiede sia un passaporto USA che uno giordano verrà trattato come giordano”, afferma HaMoked.

I cittadini di questi Stati devono passare attraverso “un processo separato limitato a casi eccezionali ed umanitari”.

Questa politica potrebbe causare frustrazione a Washington riguardo al trattamento discriminatorio da parte di Israele dei palestinesi americani che cercano di entrare in Israele e in Cisgiordania.

L’amministrazione Biden ha cercato di assicurarsi l’accondiscendenza israeliana con il Programma ‘US Visa Waiver’ [esonero USA dai visti], e l’ambasciatore Tom Nides a giugno ha affermato di aver lavorato “24 ore al giorno dal mio arrivo per aiutare Israele a soddisfare tutti i requisiti” per entrare nel programma.

Il programma richiede reciprocità di trattamento per i cittadini USA ad ogni passaggio di confine.

Le associazioni palestinesi per i diritti umani sottolineano che le nuove restrizioni all’ingresso in Cisgiordania coincidono con “un’escalation senza precedenti in tutto il territorio palestinese occupato, compresi trasferimenti forzati su entrambi i lati della Linea Verde”.

Le misure repressive di Israele hanno lo scopo di indebolire “le potenzialità della società palestinese, la sua resilienza e sopravvivenza e le organizzazioni della società civile”, affermano.

L’anno scorso tre delle organizzazioni firmatarie – Al-Haq, Addameer e Defense for Children International-Palestine – sono state dichiarate organizzazioni terroriste dal Ministero della Difesa israeliano ed in agosto i loro uffici in Cisgiordania sono stati assaltati dall’esercito e ne è stata ordinata la chiusura.

Maureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada.

(traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Apartheid in Palestina. Origini e prospettive della questione palestinese,

Gabriel Traetta. Apartheid in Palestina.Origini e prospettive della questione palestinese DeriveApprodi, Roma 2022

Recensione di Amedeo Rossi

25 settembre2022

Il libro rappresenta una denuncia della situazione che nel corso dei decenni è andata progressivamente deteriorandosi in Medio Oriente. Nelle due autorevoli prefazioni Luisa Morgantini e Wasim Dahmash evidenziano uno dei pregi di questo libro: “Chiamare le cose con il proprio nome”, come afferma Dahmash, cioè “colonialismo d’insediamento, apartheid, occupazione militare”, come enumera Morgantini. Inoltre, aggiungono, la peculiarità di questo libro è il riferimento puntuale al contesto internazionale. L’autore ne tratta con cognizione di causa, avendo collaborato con l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite specificamente dedicata ai profughi palestinesi. E il fulcro di questo lavoro è proprio la contraddizione tra dichiarazioni di principio, denunce e risoluzioni ONU e la sostanziale inanità, quando non connivenza e sostegno, della comunità internazionale nei confronti di Israele a rappresentare.

La tragedia di cui i palestinesi sono vittime è maturata soprattutto a partire dal Mandato britannico e dalla dichiarazione Balfour, che impegnava l’impero a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina. Fin da allora alla popolazione autoctona è stato riservato un ruolo marginale, ignorandone il diritto all’autodeterminazione e liquidandola come “popolazione non ebraica” da tutelare solo dal punto di vista religioso e sociale. È singolare che i sostenitori di Israele citino questa dichiarazione come una delle fonti di legittimazione di Israele, nonostante si tratti di un documento di chiaro stampo colonialista. E d’altra parte il colonialismo di insediamento è una delle caratteristiche che definiscono l’impresa sionista.

Il secondo momento cruciale su cui si sofferma Traetta è rappresentato dalla risoluzione 181 dell’ONU che nel 1947 stabilì la spartizione della Palestina tra uno Stato ebraico e un altro arabo, ignorando la situazione demografica sul terreno e le legittime aspirazioni del popolo palestinese. Si tratta, scrive l’autore, “dell’unico caso nella storia delle Nazioni Unite e del diritto internazionale in cui è stato conferito a un movimento politico-coloniale il diritto di fondare uno Stato e per di più a evidente discapito del popolo indigeno.” Ciò fu possibile grazie alla maggiore capacità del gruppo dirigente sionista rispetto alla controparte araba di muoversi nel contesto internazionale e trovare quindi legittimazione alle proprie pretese non solo in Occidente, ma anche nel blocco socialista. Infatti, pur nell’imminenza della Guerra fredda, la risoluzione 181 venne votata sia dagli Stati Uniti che dal blocco socialista in via di formazione. Da allora lo Stato ebraico ha continuato a violare impunemente le disposizioni delle Nazioni Unite, a cominciare proprio dalla stessa risoluzione 181. I territori occupati andavano ben oltre quelli destinati al cosiddetto Stato ebraico, ma vennero annessi senza conseguenze. La capitale venne spostata da Tel Aviv a Gerusalemme ovest, che era invece destinata ad essere un territorio gestito dalla comunità internazionale. Infine, Israele si rifiutò di consentire il ritorno delle centinaia di migliaia di profughi palestinesi, nonostante nell’atto di adesione all’ONU accettasse di riaccoglierli.

Dal problema dei profughi nacque nel dicembre 1949 la United Nation Relief and Works Agency for Palestinian Refugees in the Near East (l’UNRWA), incaricata di fornire una serie di servizi ai profughi palestinesi. Logicamente a questa agenzia Traetta dedica particolare attenzione, in quanto essa sintetizza tutte le contraddizioni e le incongruenze della comunità internazionale rispetto al conflitto israelo-palestinese. Egli evidenzia che l’UNRWA non ha un mandato specifico: “Non esiste infatti una dichiarazione esplicativa del termine unica ed esaustiva, ma vari documenti e risoluzioni ONU contengono elementi che, se correlati, forniscono la descrizione dell’istituto del mandato.” Il risultato è che “le risoluzioni sulle quali poggiano i mandati utilizzano prevalentemente […] una terminologia che lascia spazio all’arbitrio e non prevede l’esecutività della richiesta.”

Questa voluta ambiguità si manifestò anche nel 1967, quando circa altri 350.000 palestinesi vennero cacciati dalla Cisgiordania e da Gaza. L’ulteriore pressione sull’UNRWA ne accrebbe il ruolo dal punto di vista quantitativo, ma Israele scaricò sui finanziatori internazionali dell’agenzia il costo della sua espansione territoriale.

Nel 2000 l’UNRWA aveva 30.000 dipendenti, al 95% palestinesi (rappresentando quindi una fonte di lavoro imprescindibile per i rifugiati) e forniva ai suoi beneficiari servizi nei campi della salute, dell’istruzione, della formazione, dei servizi sociali, ecc. Tuttavia queste attività sono soggette alla disponibilità di fondi, a loro volta subordinati alle erogazioni da parte dei Paesi donatori, che per ragioni di politica internazionale possono decidere di ridurre o negare gli stanziamenti. È quanto ha fatto l’amministrazione Trump, che ha contribuito alla campagna di discredito e il boicottaggio promosso da Israele per eliminare alla radice la questione dei profughi palestinesi.

Nella seconda parte del libro Traetta parla delle radici colonialiste dello Stato di Israele e delle sue innumerevoli violazioni delle leggi internazionali, della Convenzione di Ginevra e delle risoluzioni ONU. Ricorda che dal 2008 Israele nega impunemente al relatore speciale ONU l’accesso sia al suo territorio che a quelli occupati. Non c’è quindi da stupirsi che oltre il 50% delle risoluzioni di denuncia per violazioni dei diritti umani, sia da parte del Consiglio ONU per i diritti umani che dell’Assemblea generale riguardino Israele.

Una serie di pratiche e di politiche discriminatorie in atto già dalla fondazione dello Stato nel 1948 hanno dato vita a sistema di apartheid istituzionalizzato sia nei territori occupati che sul territorio israeliano. Lo hanno affermato nel 2021 rapporti dell’ONU, di ong internazionali come Amnesty International e Human Rights Watch e israeliane come B’Tselem, ma i palestinesi lo denunciano da decenni. Ancora più grave è la situazione a Gaza, sottoposta dal 2007 a un assedio asfissiante che sta distruggendo l’economia, l’ambiente e la vita stessa di 2 milioni di persone. I periodici attacchi israeliani hanno provocato migliaia di vittime e preso di mira le infrastrutture fondamentali per la sopravvivenza della popolazione, compresi i servizi dell’UNRWA. Nel 2019, durante la Grande Marcia del Ritorno, i cecchini israeliani hanno fatto strage dei manifestanti. A questo proposito Traetta cita il rapporto del relatore speciale ONU, secondo il quale, nonostante la comunità internazionale sia pienamente consapevole di quanto sta avvenendo in Palestina, essa si dimostra “riluttante ad agire in merito a tali prove schiaccianti e a utilizzare gli abbondanti strumenti politici e legali a sua disposizione per porre fine all’ingiustizia.”

Proprio tra il 2018 e il 2020, afferma l’autore, ci sono stati tre cambiamenti epocali che hanno riconosciuto come legittime le violazioni operate da Israele: lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, la legge sullo Stato-Nazione ebraico e infine l’Accordo del secolo proposto dall’amministrazione Trump, che ha escluso la partecipazione dei palestinesi persino dalla definizione dei suddetti “accordi”. Questi avvenimenti non solo rafforzano il progetto sionista, ma fanno a pezzi le leggi internazionali e ogni norma che pretenda di regolare i rapporti tra gli Stati e i popoli. Come afferma in chiusura Traetta, “la questione palestinese ricorda al mondo intero, ogni giorno, quanto l’ordinamento internazionale contemporaneo sia una farsa: nel nome del diritto internazionale, i cinque membri permanenti possono utilizzare secondo le proprie esigenze nazionali il potere vastissimo conferito loro dal Consiglio di sicurezza ma al tempo stesso, tramite il diritto di veto, sono immuni dalla possibilità di esserne oggetto.”

Come dimostra questo libro, la questione palestinese non riguarda solo un’area relativamente marginale del mondo, ma i diritti di tutti, e non è un problema di carattere umanitario, ma è eminentemente politico.




I palestinesi del Cile celebrano la cancellazione da parte di Boric della cerimonia delle credenziali dell’ambasciatore israeliano e si aspettano altro ancora

Eman Abusidu

17 settembre 2022 – Middle East Monitor

Giovedì mattina il trentaseienne Gabriel Boric, il più giovane presidente cileno che sia mai stato eletto, ha rifiutato di ricevere il nuovo ambasciatore israeliano in Cile, Gil Artzyeli, che è stato convocato presso il palazzo presidenziale cileno per presentare le sue credenziali.

La notizia è stata riferita dal giornale cileno Ex-Ante, tuttavia il governo cileno ha negato il fatto, dichiarando che la presentazione dei documenti diplomatici è stata semplicemente rimandata: “Non è stato sospeso, ma gli è stato chiesto di rimandare fino alla seconda settimana di ottobre”. Ex-Ante ha confermato che la decisione è stata presa in considerazione: “a causa dell’uccisione di minori da parte dello Stato di Israele nella recente escalation in Cisgiordania e la crescente attività militare israeliana contro i palestinesi”.

In risposta ad una domanda da parte di Ex-ante, il ministero degli Esteri cileno ha dichiarato: “La presentazione delle credenziali dello Stato di Israele è stata riprogrammata per la seconda settimana di ottobre perchè oggi è un giorno molto sensibile a causa dell’uccisione di un ragazzo nella Cisgiordania”. Artzyeli afferma che il ministero degli Esteri cileno si è scusato con lui e con il governo israeliano per il rinvio [della cerimonia, ndt.].

Il rifiuto di Boric di ricevere il nuovo ambasciatore israeliano è stato accolto calorosamente dalla comunità palestinese in Cile. La comunità palestinese si è precipitata a complimentarsi per la decisione di Boric mediante una dichiarazione firmata dal suo presidente, Maurice Khamis Massu. La dichiarazione afferma: “La comunità palestinese del Cile apprezza molto la decisione del presidente Gabriel Boric Font di rimandare la cerimonia di accettazione delle credenziali diplomatiche del nuovo ambasciatore israeliano, perché l’esercito di occupazione israeliano ha ucciso l’adolescente Oday Salah, abitante di Kafr Dan a Jenin, nei territori palestinesi occupati.”

Massu ha anche ringraziato il presidente per il suo continuo appoggio a favore della Palestina: “Crediamo fermamente che fino a quando il mondo continuerà a trattare Israele e i suoi diplomatici come se niente fosse, la situazione dei palestinesi non migliorerà. Israele commette sistematicamente crimini di guerra, crimini contro l’umanità, violazioni dei diritti umani e sottomette la popolazione palestinese ad un regime di apartheid.




Israeliani, prendete atto: la resistenza armata all’occupazione è legale, non è terrorismo

Orly Noy

13 settembre 2022 – Middle East Eye

Nonostante ciò che afferma il diritto internazionale, l’opinione pubblica israeliana ha interiorizzato la nozione secondo cui, per definizione, non esiste una legittima lotta palestinese per la liberazione nazionale.

È improbabile che più di una manciata di ebrei in Israele sappia riferire correttamente quante incursioni abbia effettuato l’esercito israeliano la settimana scorsa in città palestinesi della Cisgiordania, quanti arresti abbia compiuto, o quante persone abbia ucciso.

Al tempo stesso è improbabile che vi sia stata più di una manciata di israeliani che non fosse a conoscenza della sparatoria su un autobus di soldati nella Valle del Giordano, avvenuta domenica 4 settembre.

Spari di palestinesi contro soldati israeliani –invece che israeliani che sparano a palestinesi – non è solo un inquietante episodio di “un uomo che morde un cane”, che ribalta l’ordine consueto richiedendo di essere raccontato dettagliatamente; in tutti quei reportage l’evento è stato definito come attacco terroristico ed i palestinesi armati come terroristi.

Non una parola sul fatto che gli spari erano rivolti contro un esercito occupante e sono avvenuti in una terra occupata.

I media israeliani hanno un ruolo chiave nel formare l’opinione pubblica al servizio della macchina di propaganda del potere, mantenendo l’opinione pubblica israeliana nella totale ignoranza dei fatti più importanti.

L’opinione pubblica israeliana, in generale, ha completamente interiorizzato la nozione secondo cui, per definizione, non esiste una lotta palestinese per la liberazione nazionale che sia legittima.

Analogamente alla radicale rimozione dalla coscienza israeliana della linea dell’armistizio del 1949, conosciuta anche come Linea Verde – al punto che la sola menzione della sua esistenza da parte della municipalità di Tel Aviv provoca minacce del Ministero dell’Educazione – anche la costante etichettatura di ogni lotta palestinese come terrorismo occulta l’importante distinzione ai sensi del diritto internazionale tra un’azione che prende di mira dei combattenti ed una diretta contro civili.

Un diritto legittimo

Il fatto è che il diritto internazionale riconosce il diritto legittimo di un popolo di lottare per la propria libertà e per la “liberazione dal controllo coloniale, dall’apartheid e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”, come confermato, per esempio, dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1990.

L’uso della forza per ottenere la liberazione è legittimo. Il modo in cui viene usata la forza è disciplinato dalle leggi di guerra, il cui scopo principale è proteggere i civili non coinvolti da entrambe le parti.

I colpi sparati nella Valle del Giordano non erano diretti contro civili e non possono essere considerati un’azione terroristica. Sono stati un atto di resistenza contro un potere occupante, in una terra occupata.

Il regime israeliano e i suoi ossequiosi portavoce, i media israeliani, trattano ogni azione contro le forze di occupazione in una terra occupata esattamente come se fossero azioni contro civili nel cuore di Tel Aviv: atti terroristici perpetrati da terroristi.

Questa equiparazione non solo nega un fondamento legale o morale all’azione; è anche contraria agli interessi dei cittadini di Israele.

Le leggi di guerra pertinenti sono finalizzate anzitutto e soprattutto a proteggere i civili che non partecipano al ciclo di violenza e a circoscrivere tale violenza a chi effettivamente combatte.

Tuttavia Israele non riconosce la categoria di combattenti palestinesi: dal punto di vista israeliano ogni forma di resistenza, anche nonviolenta, alla sua occupazione ed oppressione costituisce un pericolo alla sicurezza che è facilmente riconosciuto come terrorismo, come quando recentemente Israele ha dichiarato che le sei più importanti ONG palestinesi sono organizzazioni terroristiche.

Questa è una doppia distorsione da parte di Israele. Se da un lato tratta tutte le azioni palestinesi, anche quelle dirette contro soldati, come atti di terrorismo, dall’altra Israele descrive ogni azione israeliana contro i palestinesi come legittima, anche quando quei palestinesi sono civili.

Tipica brutalità

Come esempio particolarmente vergognoso di questa politica, considerate le conclusioni finali pubblicate dall’esercito israeliano riguardo all’uccisione di Shireen Abu Akleh. L’esercito ha inizialmente sostenuto che Abu Akleh è stata uccisa da colpi d’arma da fuoco palestinesi, una palese menzogna che è stata smascherata da una serie di organi di stampa che hanno esaminato minuziosamente le prove. La versione riveduta che l’esercito ha pubblicato in seguito è anch’essa lontana dall’essere coerente con le prove.

Il Procuratore Generale dell’esercito ha annunciato che non sarebbe stata aperta alcuna inchiesta, nonostante l’agghiacciante ammissione che Abu Akleh, che indossava un giubbotto che la identificava chiaramente come giornalista, è stata colpita a morte da un soldato che usava un fucile di precisione con mirino telescopico – che ingrandisce il bersaglio di quattro volte.

Altrettanto deprecabile la risposta israeliana alla richiesta americana davvero modesta di “riconsiderare” le procedure dell’esercito in Cisgiordania riguardo a quando è consentito aprire il fuoco.

Non che l’esercito smetta di assassinare persone innocenti, Dio non voglia, né che interrompa le incessanti irruzioni nelle città della Cisgiordania, gli arresti di massa, i prelevamenti notturni dei bambini dai loro letti – soltanto che si sforzi un po’ di più, se non è troppo difficile, di evitare altri casi simili.

I potenti Stati Uniti preferiscono non trovarsi coinvolti in casi del genere perché può succedere che la vittima abbia cittadinanza americana, come nel caso di Abu Akleh.

Israele, che ha risposto con la solita brutalità, non è disposto neppure all’atto formale di accettare a parole questa modesta richiesta. Il Primo Ministro Yair Lapid si è affrettato a dire agli americani che “nessuno ci imporrà le regole di ingaggio”.

Con lo stesso spirito il Ministro della Difesa Benny Gantz ha affermato: “Il capo di stato maggiore, e lui solo, decide e continuerà a decidere le politiche di ingaggio.”

In altri termini, Israele mette sull’avviso gli americani, in realtà il mondo intero: nessuno dirà mai a Israele quanti, chi, quando, dove o come uccideremo. E la questione è chiusa, fino alla prossima volta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Orly Noy è la direttrice di B’Tselem – Centro israeliano di Informazione per i Diritti Umani nei territori occupati.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Kafka a Gaza: come Israele ha trasformato un operatore umanitario palestinese in un “terrorista”

Antony Loewenstein

8 settembre 2022 – +972 Magazine

Nel processo di sei anni contro Mohammed Halabi tutte le prove erano “segrete” o non plausibili. Ciò non ha impedito a Israele di condannarlo a 12 anni di prigione.

Dopo uno dei processi più lunghi nella storia israeliana, che ha compreso più di 160 udienze in sei anni, il 30 agosto un tribunale israeliano ha condannato l’operatore umanitario palestinese Mohammed Halabi a 12 anni di prigione con l’accusa di aver dirottato denaro verso Hamas. A giugno Halabi, che era a capo dell’ufficio di Gaza dell’organizzazione umanitaria cristiana World Vision, è stato dichiarato colpevole dal tribunale distrettuale di Be’er Sheva di aver deviato 50 milioni di dollari dei fondi dell’organizzazione alle autorità di Hamas che governano la Striscia di Gaza bloccata.

Durante il processo kafkiano, condotto in quasi totale segretezza dal momento dell’arresto di Halabi nel giugno 2016, e condannato da diverse delle principali organizzazioni mondiali per i diritti umani, il palestinese di 45 anni ha sempre proclamato la sua innocenza. È stato separato dai suoi cinque figli e dalla sua famiglia a Gaza dal momento in cui si è rifiutato di capitolare alle richieste di Israele di ammettere la sua colpevolezza e accettare un patteggiamento fraudolento.

World Vision, che ha sostenuto Halabi durante tutto il processo, ha continuato a difendere il proprio collaboratore dopo la condanna. “Non abbiamo verificato nulla che ci faccia mettere in dubbio le nostre conclusioni che Mohammed sia innocente da tutte le accuse”, ha scritto in una dichiarazione ufficiale.

Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, è stato più diretto, definendo la sentenza un “grave errore giudiziario”. Ha condannato Israele per aver “trattenuto Halabi per sei anni sulla base di prove segrete confutate da numerose indagini” aggiungendo: “Il caso Halabi mostra come Israele usi il suo sistema giudiziario per fornire una patina di legalità al fine di mascherare il suo orrendo sistema di apartheid nei confronti di milioni di palestinesi. “

Il caso di Halabi è l’ultimo esempio di un sistema giudiziario israeliano truccato ed impegnato in una discriminazione contro palestinesi e non ebrei. Ma la sua storia fornisce più di un semplice spaccato dell’occupazione israeliana. Oltre al silenzio assordante degli alleati di Israele che pretendono di sostenere la democrazia, la sentenza di Halabi è un paradigma di quanto lontano si possa spingere Israele nel suo assalto alla società civile palestinese.

Parlando da Gaza alla rivista +972 dopo la sentenza il padre di Mohammed, Khalil, ha detto che “continuerà a lottare prima nei tribunali [distrettuali] israeliani e poi appellandosi [alla Corte suprema israeliana]” per ottenere giustizia. “Dopodiché [si rivolgerà] ai tribunali dei Paesi europei e in America”, fino a quando Israele non avanzerà le sue scuse per aver arrestato Mohammed, aggiunge.

Khalil, che ha lavorato per anni presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro (UNRWA) a Gaza, ha affermato che i figli di Mohammed comprendono che il loro padre è innocente. Ho sollevato loro il morale fornendo delle spiegazioni. Dico sempre loro che nel procedimento contro il padre la giustizia prevarrà. Il mondo è con lui così come gli israeliani che amano la giustizia e la pace”.

Una totale mancanza di prove

Israele ha arrestato Halabi al valico di Erez tra Israele e la Striscia di Gaza assediata nel giugno 2016 e per settimane non si è saputo niente di lui. Due mesi dopo, Israele ha annunciato che Halabi avrebbe confessato di aver dirottato 50 milioni di dollari nelle casse di Hamas, mentre l’allora primo ministro Benjamin Netanyahu ha fatto riferimento all’arresto senza menzionare il nome di Halabi.

Organizzazioni umanitarie internazionali e Paesi donatori come la Germania e l’Australia hanno interrotto immediatamente tutti gli aiuti in denaro alla sede di World Vision a Gaza, lasciando migliaia di palestinesi in uno stato di incertezza sugli aiuti e centinaia senza lavoro. Da allora World Vision non è più stata in grado di operare a Gaza.

World Vision ha intrapreso una costosa verifica del suo lavoro a Gaza per determinare se mancasse del denaro. La società di revisione Deloitte e lo studio legale statunitense DLA Piper non hanno trovato prove di illeciti, azioni illegali e nessuna prova credibile che Halabi lavorasse per Hamas (in effetti, la sua famiglia era nota per l’opposizione al gruppo). L’organizzazione umanitaria ha anche affermato che il suo intero budget decennale per Gaza era di 22,5 milioni di dollari, ridicolizzando l’affermazione che El-Halabi avrebbe rubato 50 milioni di dollari.

L’Australia, uno dei principali finanziatori dei programmi di World Vision a Gaza, ha immediatamente condotto la propria indagine sulle gravi accuse di Israele. Anch’esso non ha trovato nulla.

L’allora capo di World Vision Australia, il ministro battista Tim Costello, ha detto a +972 che l’intero caso era un “insulto ai contribuenti australiani, alla nostra integrità. Il bilancio degli aiuti australiani è stato sottoposto ad un’indagine e tuttavia nessun denaro dei contribuenti è scomparso. Ci deve essere una risposta ufficiale del governo australiano, anche se a porte chiuse e in privato, per condannare la sentenza [contro Halabi]”.

Fino al momento in cui scrivo, il governo australiano è rimasto in silenzio, anche se tre senatori verdi del parlamento federale hanno condannato la sentenza. L’Australia è da molti anni uno degli alleati più fedeli di Israele.

È una decisione chiaramente ideologica”, dice Costello a +972. Israele vuole dire: siamo una democrazia con uguaglianza davanti alla legge, ma i palestinesi non godono di questa uguaglianza. Lascia che la giustizia scorra come un fiume” [ “Let justice roll on like a river” è una famosa frase, tratta dalla Bibbia, che Martin Luther King pronunciò nel 1963 a Washington, ndt.].

Confessione sotto costrizione

Halabi afferma di essere stato torturato dalle autorità israeliane durante la detenzione nel 2016, e di aver ricevuto tra l’altro un pugno alla testa che gli ha lasciato persistenti problemi di udito. È stato sottoposto forzatamente a prolungate posizioni di stress, privato del cibo e del sonno e rinchiuso in una cella con un informatore palestinese, un sedicente membro di Hamas. Tali tattiche coercitive non sono insolite: Israele ha una lunga storia di torture nei confronti dei palestinesi sotto custodia per costringerli a una falsa confessione e ad accettare un patteggiamento con una pena ridotta.

Dopo essere rimasto intrappolato per giorni in una stanza con quell’uomo Halabi ha detto al suo avvocato palestinese, Maher Hanna, che non poteva più sopportare quel trattamento. Halabi ha ammesso tutto ciò che volevano gli inquisitori dopo essere stato sottoposto a una coercizione intollerabile, ha detto Hanna. Diversi relatori speciali delle Nazioni Unite hanno ritenuto che la detenzione e l’interrogatorio di Halabi “potrebbero essere equiparati a tortura”.

Nel frattempo Halabi non credeva che nessun tribunale israeliano credibile avrebbe preso sul serio il processo, e così ha ritrattato la sua confessione. Ma per sei lunghi anni ha dovuto sopportare interminabili ritardi, mancanza di prove in aula e un sistema giudiziario israeliano che ha rifiutato di consentire l’audizione di testimoni credibili.

Per l’accusa israeliana il semplice fatto che i numeri non tornassero – che Halabi non avesse mai avuto accesso a nessun quantitativo di denaro che si avvicinasse a 50 milioni di dollari – era irrilevante. Avevano quella che sostenevano fosse un’ammissione da parte dell’operatore umanitario durante la sua detenzione, e questo era sufficiente. Niente di tutto questo è mai stato sottoposto a verifica in un tribunale equo e pubblico; al contrario, l’accusa è stata autorizzata a presentare tutte le sue cosiddette “prove segrete” nel corso di udienze a porte chiuse.

Durante questo processo-farsa la maggior parte della comunità internazionale è rimasta in silenzio o ha affermato di non poter intervenire fino alla sua conclusione, una posizione che andava a pennello per Israele.

Dopo la sentenza di fine agosto, ad esempio, il consolato britannico a Gerusalemme si è limitato a twittare di essere “preoccupato”, mentre la delegazione dell’Unione europea presso i palestinesi ha twittato che “si rammarica dell’esito“. L’UE è il principale partner commerciale di Israele, una solida relazione che sta crescendo nonostante la preoccupazione pubblica per i tentativi di Israele di schiacciare importanti organizzazioni della società civile palestinese, molte delle quali ricevono fondi da governi europei.

“Un moderno processo Dreyfus”

Il nocciolo della questione, come la scorsa settimana ha rilevato l’avvocato Maher Hanna a +972, è stata la riluttanza di Halabi ad ammettere un crimine che non ha commesso. Durante un’udienza del marzo 2017 un giudice del tribunale distrettuale israeliano lo ha incoraggiato a patteggiare perché avrebbe avuto “poche possibilità” di non essere ritenuto colpevole. “Ha letto i numeri e le statistiche”, ha continuato il giudice, alludendo ai tassi di condanna dei tribunali militari. “Sa come vengono gestite queste situazioni.”

“All’inizio gli sono stati offerti tre anni, poi quattro, poi sei e infine otto”, spiega Hanna da Gerusalemme. Ma Halabi ha rifiutato di accettare ognuna di queste offerte, e di conseguenza è stato condannato a 12 anni di carcere.

Nonostante la sentenza l’accusa ha minacciato di ricorrere in appello per ottenere una sentenza più severa. “È difficile capire il cambio di posizione dell’accusa”, dice Hanna. “Era disposta ad accontentarsi di una condanna a tre anni in caso di confessione, ma non ad accettare una condanna a 12 anni quando l’imputato si è dichiarato innocente per lo stesso presunto reato“.

Hanna aggiunge: “L’accusa, e anche la corte, ritengono importante trasmettere un messaggio a tutti i detenuti e prigionieri palestinesi secondo cui chiunque non accetti una pena detentiva in un patteggiamento e costringa il tribunale ad ascoltare la propria difesa sarà severamente punito”.

In un’indagine del 2019 per la rivista +972 Magazine ho dettagliato la serie dei motivi per cui il processo non è riuscito a soddisfare nemmeno i più elementari standard internazionali di equità. Lo stesso Halabi mi ha detto nello stesso anno che credeva che l’intero caso contro di lui fosse una battuta di pesca per tentare di accentuare l’assedio contro gli abitanti di Gaza. Non stavano attaccando soltanto me, ma l’intero sistema di aiuti umanitari a Gaza, di cui ero solo una parte”.

Hanna è rimasto scioccato dalla sentenza della corte e sconvolto dal fatto che i giudici abbiano respinto la maggior parte delle rimostranze di Mohammed. Hanno puntualmente ignorato tutte le incongruenze presenti nel caso come se quelle rimostranze non fossero state presentate. Sono rimasti molto sorpresi quando hanno ascoltato le rimostranze durante le argomentazioni per la condanna e hanno ammesso la possibilità di aver sbagliato, ma per loro “è necessario mantenere una coerenza”.

Israele sta attualmente conducendo una guerra più estesa contro la società civile palestinese, con la determinazione di chiudere le ONG principali e neutralizzare la loro autorevolezza nella battaglia davanti all’opinione pubblica globale. Come per il caso Halabi, in cui non esistono prove per dimostrare la sua colpevolezza, il governo israeliano spera che le sue false accuse di terrorismo contro le principali ONG palestinesi le metteranno a tacere e le dissuaderanno.

Intanto Hanna continua a nutrire delle speranze per Halabi. “A questo punto ci aspettiamo che la Corte Suprema annulli una simile sentenza”, afferma. “Questo è un moderno processo Dreyfus e lo Stato di Israele non può permettersi di portare una macchia del genere nel suo sistema giudiziario”.

Antony Loewenstein è un giornalista indipendente, autore di best seller, regista e co-fondatore di Declassified Australia [Rivista australiana progressista di giornalismo investigativo, ndt.]. Ha scritto per The Guardian, The New York Times, The New York Review of Books e molte altre testate. I suoi libri includono Pills, Powder and Smoke: Inside The Bloody War On Drugs, Disaster Capitalism: Making A Killing Out Of Catastrophe e My Israel Question. I suoi documentari includono Disaster Capitalism e i film inglesi di Al Jazeera: West Africa’s opioid crisis e Under the Cover of Covid. Ha lavorato a Gerusalemme Est dal 2016 al 2020. Il suo prossimo libro, in uscita nel 2023, è The Palestine Laboratory: How Israel Exports the Technology of Occupation Around the World.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un esperto di antisemitismo sostiene che i progressisti “hanno il diritto di escludere i sionisti”

Nasim Ahmed

7 settembre 2022-Middle East Monitor

 

Un importante esperto di antisemitismo ha affermato che i gruppi dei campus universitari “hanno il diritto di escludere i sionisti”. Scrivendo sul Times of Israel, Kenneth Stern ha affermato che, sebbene possa essere “offensivo” e controproducente, il diritto dei gruppi progressisti di escludere i sostenitori dello stato di occupazione deve essere rispettato. Stern è un avvocato statunitense che ha avuto un ruolo chiave nella stesura della controversa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA).

Il suo intervento fa seguito al crescente dibattito sull’esclusione degli studenti sionisti dagli spazi progressisti. Fondato sugli ideali etno-nazionalisti del sionismo, Israele è visto da lungo tempo nei circoli progressisti come un paese razzista che sostiene il colonialismo di insediamento e la pulizia etnica. Questo punto di vista si è progressivamente diffuso negli ultimi tempi dopo che importanti gruppi per i diritti umani hanno accusato Israele di commettere il crimine di apartheid.

Con il sionismo sempre più visto come un’ideologia razzista e imperialista, i gruppi che sostengono l’uguaglianza, i diritti umani, i diritti delle minoranze e i valori progressisti in generale, escludono sempre più spesso i sostenitori di Israele dai loro spazi. Ciò è accaduto nonostante le affermazioni che il sionismo e l’affinità elettiva con lo stato dell’apartheid siano parti intrinseche dell’identità ebraica. I critici, tuttavia, hanno a lungo messo in discussione questa argomentazione e hanno respinto l’affermazione che un’ideologia politica dovrebbe essere trattata come una “categoria da proteggere [dalle discriminazioni, ndt.]” allo stesso modo del genere, della religione e della razza.

La recente polemica sulla definizione dell’IHRA è in gran parte una richiesta da parte di gruppi filo-israeliani di un consenso più ampio nel sostenere la loro affermazione che il sionismo e il sostegno allo Stato di Israele siano accettati come una categoria del genere. È una forma di difesa eccezionalista che viene respinta in blocco quando altri gruppi nella società fanno richieste simili. Ad esempio, l’ideologia politica dell'”islamismo” o il desiderio di creare uno “Stato islamico” non solo sono violentemente contrastati e condannati, ma anche qualsiasi musulmano che insista affinché le proprie opinioni politiche e la propria religione ricevano una protezione speciale viene prontamente e giustamente respinto.

Un esempio simile sarebbe se il governo indiano del BJP di estrema destra sotto il primo ministro Narendra Modi e i sostenitori di Hindutva [forma predominante di nazionalismo indù, ndt.] affermassero che è razzista e anti-indù mettere in discussione la loro richiesta di creare uno Stato esclusivamente indù. Come sta diventando sempre più chiaro, nella loro ricerca di rimodellare l’India come Stato indù, gli estremisti Hindutva si sono messi in rotta di collisione con la costituzione laica del Paese. L’istanza che l’India sia l’unico stato indù al mondo non dovrebbe fare la differenza, ma l’obiettivo è comunque la riforma dell’India come Stato etno-religioso che offre diritti e privilegi speciali agli indù all’interno di un sistema di cittadinanza a più livelli [di diritti, ndt] Lo stato modello che questi indù aspirano a replicare è Israele. Il parallelo tra le due ideologie è un potente esempio dello status speciale concesso al sionismo.

A Israele e ai suoi sostenitori viene concesso un privilegio che non è esteso a nessun’altra comunità politica. Gli enti pubblici e le istituzioni private in tutto il mondo occidentale non solo hanno acconsentito alla loro richiesta, ma hanno anche adottato la presunta “definizione funzionale” di antisemitismo prodotta dall’IHRA che confonde le legittime critiche a Israele e al sionismo con il razzismo antiebraico.

Stern non compara il sionismo a ideologie simili nel resto del mondo, ma insiste nel trattare Israele e la sua ideologia fondante allo stesso modo di qualsiasi altra ideologia politica e dei suoi seguaci. Il diritto di criticare liberamente senza essere etichettato come razzista dovrebbe essere salvaguardato, sostiene. Ammette che il sionismo stesso è termine controverso ma, tuttavia, i sentimenti su ciò che il sionismo significa personalmente per alcuni ebrei non dovrebbero essere una scusa per reprimere la libertà di parola etichettando le persone come “antisemiti” per aver criticato l’ideologia fondatrice di Israele.

Commentando le diverse percezioni del sionismo e le ragioni per cui i progressisti escludono i sostenitori di Israele, Stern ha detto: “Alcuni studenti progressisti possono interpretare il sionismo come un termine per il trattamento riservato da Israele ai palestinesi; altri possono comprendere il sionismo come la maggior parte degli studenti ebrei: il diritto degli ebrei all’autodeterminazione nella loro patria storica”.

Ha spiegato che un numero significativo e crescente di ebrei è “agnostico” riguardo al sionismo o è antisionista, il che sembra suggerire che il sionismo e l’affinità con Israele non sono così rilevanti per l’identità ebraica come affermano i gruppi filo-israeliani.

“Gli studenti antisionisti possono pensare che lasciare che un sionista lavori tra loro equivalga a non considerare se qualcuno sia nazista”, ha detto Stern, “proprio come alcune organizzazioni ebraiche potrebbero ritenere che ammettere ebrei che sostengono il Boicottaggio/Disinvestimento/Sanzioni (Il movimento BDS) contro Israele sia sottovalutarne l’antisemitismo”. Stern non è d’accordo con entrambe le posizioni ma gli studenti del campus devono poter scegliere la loro politica.”

Alle prese con la questione centrale del pezzo sul Times of Israel — se sia antisemita escludere i sionisti dagli spazi progressisti — Stern difende il diritto dei gruppi progressisti ad essere selettivi. “Se un gruppo decide che per essere un membro bisogna avere una visione particolare di Israele e del sionismo, il diritto a prendere tale decisione deve essere rispettato. Chi non è ammesso, anche se l’esclusione fa male, può trovare altri modi per esprimersi, anche creando nuovi gruppi e coalizioni”.

Stern ha criticato il modo in cui la definizione IHRA di antisemitismo è stata utilizzata da gruppi filo-israeliani contro i critici dello Stato di apartheid. Il suo ultimo intervento è un’altra difesa della libertà di associazione e di parola contro ciò che molti dicono essere una repressione delle voci pro-palestinesi e contro i pericoli di sovrapporre antisionismo ad antisemitismo.

“I gruppi ebraici hanno usato la definizione come arma per affermare che le espressioni antisioniste sono intrinsecamente antisemite e devono essere soppresse”, aveva scritto Stern sul Times of Israel due anni fa. Le preoccupazioni da lui sollevate rafforzano l’affermazione che la lotta contro l’antisemitismo, come sostiene il commentatore ebreo americano Peter Beinart, ha “perso la strada”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Dopo 12 anni in cui mi è stato insegnato a odiare, oggi andrò in prigione per dire “No”

Naveh Shabtai Levine 

6 settembre 2022, Haaretz

Lo Stato di Israele gestisce un sistema di apartheid. Gli studi di organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International pubblicati negli ultimi anni che l’hanno accertato sono solo la conferma finale di una situazione che è chiara già da anni. Dall’occupazione dei territori nel 1967, sotto il dominio israeliano si è consolidato un intrinseco regime di discriminazione che antepone un gruppo etnico rispetto a un altro.

Nella società israeliana ebraica, quella dalla parte giusta dell’apartheid, c’è un alto livello di libertà di espressione e libertà di stampa. E nonostante ciò, l’opposizione all’apartheid all’interno della società è un fenomeno marginale, quasi impercettibile. Nell’attuale campagna elettorale, ad esempio, nessuno dei partiti della “sinistra sionista” sta ponendo al centro della sua campagna la scottante questione del controllo israeliano sui palestinesi. Al contrario, tutti cercano di sfuggire alla questione dell’apartheid come dal fuoco.

Perché l’opposizione pubblica è così scarsa? Perché in Israele non c’è un grande e influente numero di ebrei che dice “basta”. Com’è possibile che una società tecnologicamente avanzata, ben istruita e ricca non abbia espresso quasi alcuna opposizione a quello che è chiaramente un crimine orribile? Uno dei motivi principali è l’indottrinamento di cui ci nutrono da bambini e adolescenti. Avendo appena concluso 12 anni di studio posso dire che mattina, mezzogiorno e sera il sistema scolastico ci alimenta di ultranazionalismo, militarismo e violenza.

Nelle lezioni di storia ci insegnano che il popolo ebraico emigrò in Terra d’Israele e iniziò a costruire uno Stato in una “terra vuota”, grazie ai pionieri che prosciugarono le paludi e costruirono i kibbutz. In mezzo a questa terra vuota si presentarono all’improvviso degli arabi, ai quali per ragioni incomprensibili non piaceva la nostra presenza qui. Diventano violenti e intraprendono gli “eventi” (gli scontri tra ebrei e arabi nel periodo pre-statale).

Un’opportunità mancata

La storia del terrorismo palestinese inizia così. Non ci parlano dell’aggressività dei coloni ebrei, non ci insegnano l’equilibrio di potere tra gli immigrati europei che ricevevano un enorme sostegno economico dal resto del mondo e il popolo palestinese composto per la maggior parte da contadini poveri e tenaci in una remota parte dell’Impero Ottomano. Non ci dicono che l’idea del “lavoro ebraico” è un mezzo per opprimere i lavoratori arabi. E poi, quando ci insegnano che i palestinesi erano contrari al Piano di Partizione, l’unica conclusione logica è che i palestinesi siano cattivi.

Già allora – lo Stato di Israele non era ancora stato fondato e gli arabi non hanno perso l’occasione di perdere un’occasione.

Alle cerimonie del Memorial Day [dal 1963 giorno ufficiale della memoria dedicato ai soldati caduti e alle vittime del terrorismo, ndt.] ci insegnano che ogni soldato morto a causa del sanguinoso ciclo dell’occupazione israeliana è un eroe che “con la sua morte ci ha chiesto di vivere”. Ci insegnano che tutti coloro che sono caduti in battaglia lo hanno fatto per il bene del Paese, piuttosto che a causa sua e della sua politica. Nelle lezioni di educazione civica ci insegnano che lo Stato di Israele è un Paese ebraico e democratico – proprio così, semplice ed evidente, come un assioma chiaro ed eterno.

La militarizzazione raggiunge l’apice al liceo: i soldati visitano le scuole, abbiamo ore di discussioni preparatorie sull’esercito, la scuola ci prepara a essere buoni soldati. Non si accontentano solo della teoria, ci forniscono anche un’esperienza pratica con il Gadna, un programma che prepara gli studenti delle scuole superiori al servizio militare. Ci mandano in Polonia per conoscere l’Olocausto, ma lì dobbiamo alzare la bandiera israeliana “per rafforzare il senso del dovere per la continuazione della vita ebraica e l’esistenza sovrana dello Stato di Israele”. Ci insegnano nelle scuole una situazione fittizia e unilaterale secondo cui il popolo palestinese è una nazione di terroristi che ci odia senza motivo, mentre noi stiamo solo cercando di difendere la nostra casa.

C’è qualcuno che, con grande difficoltà, riesce a superare tutto questo, a volte con l’aiuto dei genitori, a volte in maniera autonoma. Sono riuscito a vedere la realtà dietro la propaganda con l’aiuto di mia madre, che mi ha portato a Sheikh Jarrah a Gerusalemme per manifestare contro le ingiustizie dello Stato ebraico. I miei amici ed io oggi rifiuteremo di arruolarci, e probabilmente passeremo del tempo in prigione perché vogliamo dire ai nostri compagni di scuola, ai giovani israeliani, che c’è una verità completamente diversa dietro la dieta di ultranazionalismo di cui siamo stati nutriti. E per chiunque stia iniziando l’anno scolastico, ho solo un suggerimento: tapparsi bene le orecchie.

L’autore è un obbiettore renitente alla leva per motivi politici.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)