I rabbini americani interrompono la riunione delle Nazioni Unite e chiedono a Biden di smettere di bloccare la pace a Gaza

Ephrem Kossaify

10 gennaio 2024, Arabnews

La riunione dell’Assemblea Generale fa seguito al recente veto degli Stati Uniti sull’emendamento alla risoluzione per il cessate il fuoco a Gaza. L’inviato palestinese chiede al mondo di porre fine alla “schizofrenia” di opporsi alle atrocità della guerra e allo stesso tempo mettere un veto alla pace.

NEW YORK: Martedì decine di rabbini americani hanno interrotto una riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York per chiedere che Washington smetta di impedire al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di intraprendere azioni urgenti a sostegno di un cessate il fuoco immediato e permanente a Gaza.

Durante la loro protesta – guidata dall’organizzazione Rabbis 4 Ceasefire e co-organizzata da Jewish for Racial and Economic Justice, Jewish Voice for Peace e IfNotNow – i 36 rabbini, provenienti da diversi Stati, hanno cantato, pregato e recitato brani tratti dalla Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite, e organizzato una cerimonia commemorativa. Portavano striscioni con la scritta “Biden: il mondo dice: Cessate il fuoco” invitando il presidente degli Stati Uniti a “smettere di porre il veto alla pace”.

Dopo essere stati scortati fuori dai locali dal personale di sicurezza, hanno indetto una conferenza stampa davanti all’ONU. La rabbina Alissa Wise, fondatrice di Rabbis 4 Ceasefire, ha riferito come avessero assistito con orrore al governo degli Stati Uniti che “da solo ha bloccato gli sforzi per fermare i bombardamenti e la morte per fame a Gaza per mano di Israele”.

Ha aggiunto: “Sappiamo che non esiste una soluzione militare a questa violenza. Siamo qui a pregare perché l’ONU è dove può avere luogo un’azione diplomatica significativa per fermare la violenza, e perché la preghiera è il modo in cui noi, come rabbini, possiamo esprimere le nostre paure, sogni, speranze e disperazione”.

La rabbina Abby Stein, appartenente a Jewish For Racial and Economic Justice, ha affermato che l’ONU è stata creata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto nazista che prese di mira il popolo ebraico con l’intento di garantire che tale atrocità non si ripetessero mai più.

“Sono qui come ebrea, come rabbina ordinata, come nipote di tre sopravvissuti all’Olocausto, per sollecitare le Nazioni Unite a portare avanti questa nobile missione”, ha detto. “‘Mai più’ significa mai più per nessuno.”

Il rabbino Elliot Kukla ha dichiarato: “Gli Stati Uniti stanno difendendo l’indifendibile in un’Assemblea Generale, usando il loro potere di veto per impedire da soli alle Nazioni Unite di intraprendere azioni significative per un cessate il fuoco. Sono qui come rabbino perché la tradizione ebraica richiede che facciamo tutto ciò che è in nostro potere per salvare vite umane, il che significa fornire assistenza umanitaria ai palestinesi che sono sfollati, muoiono di fame e non hanno un posto sicuro dove rifugiarsi mentre piovono bombe. Il nostro governo si rifiuta di rappresentare questa richiesta di una vasta maggioranza popolare; siamo venuti qui per rappresentare direttamente noi stessi e i nostri valori ebraici”.

L’incontro di martedì è avvenuto dopo che gli Stati Uniti hanno posto il veto alla proposta della Russia di modificare una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per includere un appello per il cessate il fuoco a Gaza.

Il 22 dicembre il Consiglio aveva adottato una risoluzione, redatta dagli Emirati Arabi Uniti, che chiedeva maggiori aiuti alla Striscia di Gaza, comprese misure urgenti tra cui un accesso umanitario sicuro, senza ostacoli e ampio, al territorio. Gli Stati Uniti si sono astenuti dal voto dei 15 membri del Consiglio ma non hanno usato il loro potere di veto e così la risoluzione è stata adottata.

La Russia aveva proposto un emendamento alla risoluzione chiedendo “una cessazione urgente e sostenibile delle ostilità”. Gli Stati Uniti hanno posto il veto a questa proposta di cambiamento.

Una risoluzione dell’Assemblea Generale stabilisce che ogni volta che un membro del Consiglio di Sicurezza usa il suo potere di veto, si indica una riunione e un dibattito in assemblea per esaminare e discutere la scelta.

Robert Wood, il vice rappresentante permanente degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, ha affermato che, sebbene gli Stati Uniti si siano astenuti dal voto, hanno comunque lavorato “in buona fede” per contribuire a forgiare una risoluzione forte.

Questo lavoro sostiene la diplomazia diretta in cui gli Stati Uniti sono impegnati per portare maggiori aiuti umanitari a Gaza e aiutare a far uscire gli ostaggi da Gaza”, ha aggiunto.

Alludendo all’emendamento russo, Wood ha accusato Mosca di avanzare proposte “scollegate dalla situazione sul campo”.

Ha detto che è “profondamente preoccupante che così tanti Stati membri sembrino aver smesso di considerare la difficile situazione degli oltre 100 ostaggi tenuti da Hamas e altri gruppi. Gli Stati Uniti restano impegnati a riportare a casa tutti gli ostaggi. Ognuno di loro.”

Ha aggiunto: “È anche sorprendente che, anche se sentiamo molti Paesi sollecitare la fine di questo conflitto, cosa che tutti vorremmo vedere, sentiamo pochissime richieste all’iniziatore di questo conflitto – Hamas – perché smetta di nascondersi dietro i civili, deponga le armi e si arrenda.

Tutto sarebbe finito se i leader di Hamas lo avessero fatto. Sarebbe positivo se ci fosse una forte voce internazionale che spinga i leader di Hamas a fare ciò che è necessario per porre fine al conflitto che hanno iniziato il 7 ottobre”.

Riyad Mansour, osservatore permanente dello Stato di Palestina presso le Nazioni Unite, ha affermato di trovarsi davanti all’Assemblea Generale “in rappresentanza di un popolo massacrato, con famiglie integralmente uccise, uomini e donne fucilati per le strade, migliaia di persone rapite, torturate e umiliate, bambini uccisi, amputati, orfani – segnati per tutta la vita”.

È incomprensibile, ha aggiunto, che al Consiglio di Sicurezza venga ancora impedito di chiedere un cessate il fuoco umanitario immediato anche se è proprio ciò che avevano chiesto 153 Stati membri dell’Assemblea Generale e il Segretario generale delle Nazioni Unite.

La “guerra delle atrocità” di Israele non ha precedenti nella storia moderna, ha detto Mansour. “Non si tratta della sicurezza israeliana, si tratta della distruzione della Palestina”, ha continuato. “Gli interessi e gli obiettivi di questo governo estremista israeliano sono chiari e incompatibili con gli interessi e gli obiettivi di qualsiasi Paese che sostenga il diritto internazionale e la pace”.
E ha chiesto: “Come si può conciliare l’opposizione alle atrocità con il veto alla richiesta di porre fine alla guerra che porta alla loro esecuzione?”

Ha chiesto che “questa schizofrenia” finisca e ha aggiunto: “Non invocate la pace mentre aprite il fuoco. Se volete la pace, iniziate con un cessate il fuoco. Ora.”

L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha condannato la richiesta di cessate il fuoco mentre gli ostaggi israeliani sono ancora tenuti prigionieri.

“Quanto è ormai moralmente in bancarotta questa istituzione?” ha chiesto, dicendo che “Nonostante il marciume morale delle Nazioni Unite” i cittadini di Israele sono resilienti, con la fede, la speranza e l’incrollabile determinazione a difendersi.

Ha accusato l’ONU di ignorare le vittime israeliane del conflitto, di preoccuparsi solo dei gazawi e di farsi “complice dei terroristi”, e ha affermato che l’organizzazione ha perso la sua ragione di esistenza.

L’ONU “è ossessionata solo dal benessere della gente di Gaza” che ha messo Hamas al potere e sostenuto le atrocità del gruppo, ha detto Erdan aggiungendo: “Voi ignorate tutte le vittime israeliane”.

La vice rappresentante permanente della Russia presso le Nazioni Unite, Anna Evstigneeva, ha affermato che quando il 22 dicembre Washington ha usato il suo veto al Consiglio di Sicurezza, si è resa colpevole di giocare un “ruolo senza scrupoli” nel tentativo di proteggere Israele dalle sue azioni a Gaza.

Ha detto che attraverso l’uso del ricatto e del braccio di ferro gli Stati Uniti hanno dato a Israele la licenza di continuare a uccidere i palestinesi e la benedizione alla “continuazione dello sterminio degli abitanti di Gaza”, motivo per cui Mosca ha proposto il suo emendamento.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I disordini di Nablus mettono in questione il futuro dell’ANP

Ramzi Baroud

26 settembre 2022 – Arab News

L’arresto la scorsa settimana da parte della polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese di due attivisti palestinesi, tra cui un importante militante, Musab Shtayyeh, non ha rappresentato la prima volta in cui il noto Servizio di Sicurezza Preventiva ha arrestato un palestinese ricercato da Israele.

Questo servizio è strettamente legato a continui arresti e torture di attivisti contrari all’occupazione israeliana. In passato molti palestinesi, il più recente dei quali è stato Nizar Banat, torturato a morte lo scorso giugno, sono morti in conseguenza della violenza del Servizio di Sicurezza Preventiva. L’uccisione di Banat ha provocato una rivolta popolare contro l’ANP in tutta la Palestina.

Per anni varie associazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno criticato, molto spesso all’interno degli stessi rapporti sui diritti umani critici contro l’occupazione militare israeliana della Palestina, le pratiche violente dell’ANP contro i palestinesi dissenzienti. Anche il governo di Hamas a Gaza ha ricevuto una giusta dose di critiche.

Nel suo “Rapporto sul mondo 2022”, pubblicato in gennaio, Human Rights Watch ha affermato che “l’Autorità Nazionale Palestinese…arresta e tortura sistematicamente e arbitrariamente i dissidenti.” Questa non è la prima volta né sarà l’ultima in cui un’associazione per i diritti umani solleva una simile accusa. Il rapporto tra la violenza israeliana e quella palestinese contro i dissidenti politici e gli attivisti è chiaro alla maggioranza dei palestinesi.

A un certo punto alcuni palestinesi possono aver creduto che il ruolo dell’ANP fosse di fungere da transizione tra il loro progetto di liberazione nazionale e la piena indipendenza e sovranità sul terreno. Tuttavia circa 30 anni dopo la formazione dell’ANP questa idea si è dimostrata una pia illusione. Non solo l’ANP non è riuscita a ottenere il desiderato Stato palestinese, ma si è trasformata in un apparato totalmente corrotto la cui esistenza è funzionale principalmente a una piccola classe di politici e uomini d’affari palestinesi – e, nel caso della Palestina, si tratta sempre dello stesso gruppo.

Oltre alla corruzione dell’ANP e alla conseguente violenza, ciò che continua a irritare molti palestinesi è che col tempo l’autorità è diventata un’altra incarnazione dell’occupazione israeliana, che riduce la libertà di espressione dei palestinesi e procede ad arresti per conto dell’esercito israeliano. Tristemente molti di quanti vengono arrestati dall’esercito israeliano in Cisgiordania sono stati arrestati anche dagli scagnozzi dell’ANP.

Le scene di violenti disordini a Nablus in seguito all’arresto di Shtayyeh hanno ricordato rivolte contro le forze di occupazione israeliane nella città del nord della Cisgiordania e altrove nella Palestina occupata. A differenza di precedenti scontri tra palestinesi e polizia dell’ANP – ad esempio in seguito all’uccisione di Banat -, questa volta la violenza è stata generalizzata ed ha coinvolto manifestanti delle organizzazioni politiche palestinesi, compresa la fazione di Fatah, che è al governo.

Il governo dell’ANP, forse inconsapevole del massiccio cambiamento psicologico collettivo avvenuto in Palestina negli ultimi anni, ha cercato disperatamente di contenere la violenza. Conseguentemente il comitato che rappresenta l’unità delle fazioni palestinesi a Nablus ha dichiarato di aver raggiunto una “tregua” con le forze di sicurezza dell’ANP in città. Il comitato, che include importanti personalità palestinesi, ha detto all’Associated Press e ad altri media che l’accordo esclude ogni futuro arresto di palestinesi a Nablus, a meno che siano implicati nella violazione delle leggi palestinesi, non di quelle israeliane. Questa clausola di per sé implica la tacita ammissione da parte dell’ANP che gli arresti di Shtayyeh e Ameed Tbaileh siano stati motivati dalle priorità israeliane e non da quelle palestinesi.

Ma perché l’ANP dovrebbe cedere così in fretta alle pressioni provenienti dalla piazza palestinese? La risposta riguarda il cambiamento del clima politico in Palestina.

In primo luogo, per anni il risentimento nei confronti dell’ANP è andato aumentando. Un sondaggio dopo l’altro ha indicato la scarsa considerazione che la maggior parte dei palestinesi ha nei confronti dei propri dirigenti, del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e in particolare del “coordinamento per la sicurezza” con Israele.

In secondo luogo, la tortura e la morte del dissidente politico Banat lo scorso anno hanno tolto di mezzo qualunque forma di sopportazione dei palestinesi nei confronti della loro dirigenza, in quanto hanno dimostrato loro che l’ANP non è un alleato ma una minaccia.

Terzo, la cosiddetta Intifada dell’Unità del maggio 2021 ha rinfrancato molti segmenti della società palestinese nei Territori Occupati. Per la prima volta da anni ora i palestinesi si sentono uniti intorno a un unico slogan e non sono più ostaggio della conformazione della politica e delle fazioni. Una nuova generazione di giovani palestinesi ha avviato un dialogo ben al di là di Abbas, dell’ANP e della loro sconfinata e inefficace retorica politica.

Quarto, la lotta armata in Cisgiordania è cresciuta in modo talmente rapido che questo mese [settembre, ndt.] il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi ha affermato che da marzo circa 1.500 palestinesi sono stati arrestati in Cisgiordania e che sarebbero stati sventati centinaia di attacchi contro l’esercito israeliano.

Di fatto stanno crescendo le prove di un’Intifada armata nelle regioni di Jenin e Nablus. Ciò che è particolarmente interessante e preoccupante dal punto di vista di Israele e dell’ANP riguardo alla natura del fenomeno della nascente lotta armata è che essa è in buona parte guidata dall’ala militare del partito Fatah al governo, in collaborazione diretta con Hamas e altre fazioni armate islamiste e nazionaliste.

Per esempio, lo scorso mese l’esercito israeliano ha assassinato, insieme ad altri due, Ibrahim Al-Nabulsi, un importante comandante militare di Fatah. Come reazione, non solo l’ANP ha fatto molto poco per impedire alla macchina militare israeliana di condurre ulteriori assassinii di questo tipo, ma sei mesi dopo ha arrestato Shtayyeh, un compagno di lotta molto vicino ad Al-Nabulsi. Cosa interessante, Shtayyeh non è un membro di Fatah, ma un comandante di Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Benché Fatah e Hamas siano considerati rivali politici accaniti, in Cisgiordania le loro divergenze politiche non sembrano essere rilevanti per i gruppi armati.

Sfortunatamente è probabile che ne segua un’ulteriore violenza, per varie ragioni: la determinazione israeliana a stroncare ogni Intifada armata in Cisgiordania prima che si diffonda in tutti i Territori Occupati, l’imminente transizione al comando dell’ANP a causa dell’età avanzata di Abbas e la crescente unità tra i palestinesi riguardo alla questione della resistenza.

Mentre la risposta israeliana a tutto ciò può facilmente essere dedotta dal suo retaggio di violenza, la futura linea di azione dell’ANP probabilmente determinerà i suoi rapporti da una parte con Israele e i suoi sostenitori occidentali e dall’altra con il popolo palestinese. Da quale parte si schiererà l’ANP?

Ramzy Baroud scrive di Medio Oriente da più di 20 anni. È un editorialista di fama internazionale, consulente dei media, autore di vari libri e fondatore del sito PalestineChronicle.com.

Avvertenza: gli autori di questa sezione sono responsabili delle opinioni da loro espresse, che non riflettono necessariamente il punto di vista di Arab News.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il cantante Assaf è l’ultima vittima della guerra contro la cultura palestinese

Ramzi Baroud

11 gennaio 2021- ArabNews

Perché le autorità israeliane odiano il cantante palestinese Mohammed Assaf? Avi Dichter, parlamentare della Knesset nel partito di destra Likud, ha annunciato questo mese che sarà revocato il permesso speciale di Assaf per entrare nella Cisgiordania occupata.
Assaf, originario di Gaza, ora vive con la sua famiglia negli EAU [Emirati Arabi Uniti, ndtr.]. È diventato una celebrità nel 2013 quando ha vinto il talent show “
Arab Idol”. La sua performance vincente della canzone “Raise Your Keffiyeh” ha suscitato un raro momento di unità in tutte le comunità palestinesi. Mentre pubblico, giudici e milioni di arabi ballavano con lui, Assaf ha conquistato il centro della scena a Beirut, offrendo alla cultura palestinese di dar nuovamente prova del suo valore come strumento politico che non può essere ignorato.
Da allora, Assaf ha cantato di tutto quello che è palestinese: dalla Nakba, la catastrofica perdita della patria palestinese, all’intifada e al dolore di Gaza, a ogni altro simbolo culturale palestinese.
Nato e cresciuto nella Striscia di Gaza, ha sperimentato in prima persona l’occupazione militare israeliana, parecchie guerre terribili e, naturalmente, l’assedio tuttora in corso. Entrambi i genitori sono rifugiati, la madre viene da Beit Daras [città a nord est di Gaza svuotata dei suoi abitanti dalle milizie sioniste nel 1948, ndtr.] e il padre da Beir Al-Saba [l’attuale Be’er Sheva, principale città del Negev, ndtr.]. L’abilità del giovane di andare oltre il doloroso vissuto della sua famiglia e restare ciononostante dedito ai valori culturali della sua società, merita alcune riflessioni e molte lodi.
L’annuncio di Dichter che ad Assaf sarà impedito di ritornare in patria non è così scandaloso come potrebbe sembrare. La guerra di Israele contro la cultura palestinese è vecchia quanto Israele stesso.

Negli ultimi settant’anni, Israele ha dimostrato la sua capacità di sconfiggere militarmente i palestinesi e persino interi eserciti arabi e inoltre, con l’aiuto dei suoi benefattori occidentali, è riuscito a dividere i palestinesi in gruppi rivali, spezzando nel contempo l’unita araba sulla Palestina. I palestinesi sono stati divisi geograficamente e isolati in tanti spazi ridotti nella speranza che ogni collettività avrebbe poi sviluppato aspirazioni diverse basate su priorità politiche completamente differenti. Di conseguenza i palestinesi sono stati assediati a Gaza, trattenuti in zone segregate in Cisgiordania e Gerusalemme Est, in comunità economicamente marginalizzate all’interno di Israele e dispersi nella “shatat” (diaspora).
Persino i palestinesi della diaspora, alcuni diventati più volte di seguito rifugiati, sopravvivono in contesti politici su cui hanno pochissimo controllo. I palestinesi dell’Iraq, per esempio, si sono trovati a dover fuggire all’inizio dell’invasione americana di quel Paese nel 2003; la stessa cosa è successa prima in Libano e poi in Siria.

I continui tentativi israeliani miranti a distruggere la Palestina si sono anche spostati dalla sfera fisica a quella virtuale, facendo pressioni per censurare le voci palestinesi sui social e persino rimuovendo dai menù delle linee aeree i riferimenti alla Palestina.
Naturalmente niente di tutto ciò avviene per caso, dato che i leader israeliani capiscono che la distruzione della Palestina, tangibile e presente, deve essere accompagnata dalla distruzione dell’idea palestinese, l’insieme di valori culturali e politici che garantiscono la sua coesione e continuità nelle menti di tutti i palestinesi, ovunque essi siano.
Dato che la cultura si basa su una miriade di forme di espressione, Israele ha dedicato molta energia e molte risorse a eliminare espressioni culturali palestinesi che permettono alla Palestina di esistere, nonostante le divisioni politiche, le divisioni fra arabi e la frammentazione geografica. Ci sono numerosi esempi che dimostrano ampiamente l’ossessione della dirigenza israeliana per sconfiggere la cultura palestinese. Come se l’obliterazione fisica della Palestina nel 1948 non fosse abbastanza, i politici israeliani inventano costantemente nuovi modi per rimuovere ogni rimanente simbolo di cultura palestinese e araba.
Nel 2009, per esempio, il governo di destra israeliano ha avviato il processo per cambiare i nomi dall’arabo all’ebraico su migliaia di cartelli stradali. E nel 2018 la “legge dello Stato-Nazione”, apertamente razzista, ha degradato lo status della lingua araba.
Ma questi esempi sono stati solo l’inizio della guerra israeliana contro la cultura palestinese. I fondatori di Israele erano consci dei pericoli che la cultura palestinese poneva per la sua capacità di unificare il popolo palestinese dopo la pulizia etnica di circa due terzi della popolazione dalla loro patria storica.

Una lettera ufficiale mandata a Yitzhak Gruenbaum, il primo ministro degli Interni israeliano, gli ordinava di cambiare i nomi di villaggi e regioni palestinesi recentemente spopolati con alternative in ebraico. “I nomi tradizionali devono essere sostituiti dai nuovi … dato che, in una anticipazione del rinnovamento dei nostri giorni come erano anticamente, per vivere la vita di un popolo sano con le sue radici nella terra del proprio Paese, noi dobbiamo cominciare con la fondamentale ebraicizzazione della sua carta geografica,” affermò. Subito dopo, fu creata una commissione governativa con il compito di cambiare nome a tutto ciò che era arabo palestinese.

Un’altra lettera, scritta nell’agosto 1957 da un funzionario del ministero degli Esteri israeliano, sollecitava il Dipartimento delle Antichità a velocizzare la distruzione delle case palestinesi svuotate durante la Nakba. “Le rovine dei villaggi e dei quartieri arabi o gli isolati di edifici che sono rimasti vuoti dal 1948 risvegliano connessioni sgradevoli che causano considerevole danno politico,” scrisse. “Devono essere spazzati via.”

Per Israele, cancellare dalla memoria la Palestina e strappare il popolo palestinese dalla storia della loro patria è sempre stata un’impresa di valore strategico. Spostiamoci velocemente all’oggi e la macchina ufficiale israeliana resta dedita alla stessa missione coloniale. L’accordo firmato nel 2016 fra il governo israeliano e Facebook per porre fine alla “istigazione ” palestinese online ha lo stesso obiettivo: zittire la voce del popolo palestinese.
La cultura palestinese è stata molto utile alla lotta del popolo palestinese. Nonostante l’occupazione israeliana e l’apartheid, gli ha dato un senso di continuità e coesione, tenendolo legato ad un senso collettivo di identità.
L’annuncio di Israele che vieterà a un cantante palestinese di ritornare e quindi di esibirsi per i palestinesi che vivono sotto occupazione non è, dal punto di vista israeliano, per niente scandaloso. È un altro tentativo di interrompere il flusso naturale della cultura palestinese che, nonostante la perdita della Palestina stessa, è forte e concreto, come sempre lo è stato.

  • Ramzy Baroud è giornalista e direttore di ‘The Palestine Chronicle’. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons[Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane] (Clarity Press, Atlanta).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)