La ‘normalizzazione’ di Israele: l’Arabia Saudita sta ammorbidendo la sua posizione?

16 settembre 2020 – Al Jazeera

Dopo gli accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrain, ci sono segnali che l’Arabia Saudita stia preparando la sua gente a relazioni amichevoli con Israele.

Quando nel corso del mese uno dei principali leader musulmani dell’Arabia Saudita ha chiesto ai suoi correligionari di evitare “emozioni irruente e passioni infuocate” nei confronti degli ebrei, ciò ha costituito un netto cambiamento di tono da parte di chi in passato ha versato lacrime durante le sue prediche a favore della Palestina.

Il sermone di Abdulrahman al-Sudais, imam della Grande Moschea della Mecca, trasmesso dalla televisione di Stato saudita il 5 settembre, è arrivato tre settimane dopo che gli Emirati Arabi Uniti avevano concordato uno storico accordo per normalizzare le relazioni con Israele e pochi giorni prima che lo Stato del Golfo del Bahrain, uno stretto alleato saudita, ne seguisse l’esempio.

Sudais, che in passato pregava nei suoi sermoni perché i palestinesi conseguissero la vittoria sugli ebrei “invasori e aggressori”, ha spiegato come il profeta Maometto fosse buono con il suo vicino ebreo e ha sostenuto che il modo migliore per persuadere gli ebrei a convertirsi all’Islam fosse “trattarli bene”.

Anche se non ci si aspetta che l’Arabia Saudita segua presto l’esempio dei suoi alleati del Golfo, le osservazioni di Sudais potrebbero essere un indizio su come il regno affronta il delicato tema dell’amicizia con Israele – una prospettiva un tempo inconcepibile. Nominato dal re, egli è una delle figure più influenti del paese, che riflette le opinioni della propria istituzione religiosa conservatrice e della corte reale.

I plateali accordi con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain hanno costituito un colpo di scena da parte di Israele e del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che si sta atteggiando a pacificatore in vista delle elezioni di novembre.

Ma il grande risultato diplomatico riguardo un accordo con Israele riguarderebbe l’Arabia Saudita, il cui re è il custode dei siti più sacri dell’Islam e governa il più grande Stato esportatore di petrolio del mondo.

“Testare la reazione del pubblico”

Marc Owen Jones, un accademico dell’Istituto di studi arabi e islamici dell’Università di Exeter, ha affermato che la normalizzazione degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain ha consentito all’Arabia Saudita di mettere alla prova l’opinione pubblica, ma un accordo formale con Israele sarebbe un “compito gravoso” per il regno.

“Dare una ‘spintarella’ ai sauditi tramite un influente imam è ovviamente un passo nel tentativo di testare la reazione del pubblico e di incoraggiare il concetto di normalizzazione”, ha aggiunto Jones.

L’appello di Sudais onde evitare emozioni accese è ben distante dal suo passato, quando decine di volte è scoppiato in lacrime nel pregare per la moschea Al-Aqsa di Gerusalemme, il terzo luogo più sacro dell’Islam.

Il sermone del 5 settembre ha suscitato una reazione mista, con alcuni sauditi che lo difendevano con la motivazione che egli stesse semplicemente comunicando gli insegnamenti dell’Islam. Altri su Twitter, per lo più sauditi all’estero e apparentemente critici nei confronti del governo, lo hanno definito “il sermone sulla normalizzazione”.

Ali al-Suliman, intervistato in uno dei centri commerciali di Riyadh, ha detto, in risposta all’accordo con il Bahrain, che da parte degli altri Stati del Golfo o facenti parte del più vasto Medio Oriente sarebbe stato difficile abituarsi alla normalizzazione con Israele, poiché “Israele è una nazione occupante e ha cacciato i palestinesi dalle loro case”.

Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MBS), il sovrano di fatto del regno, ha promesso di promuovere il dialogo inter-religioso come parte delle sue riforme interne. Il principe aveva affermato in precedenza che gli israeliani hanno il diritto di vivere pacificamente nella propria terra con la condizione di un accordo di pace che assicuri stabilità a tutte le parti.

La paura condivisa di Arabia Saudita e Israele nei confronti dell’Iran potrebbe essere un fattore chiave per lo sviluppo dei legami.

Ci sono stati altri segnali che l’Arabia Saudita, uno dei paesi più influenti del Medio Oriente, stia preparando la sua gente a stabilire rapporti di amicizia con Israele.

Una serie televisiva, “Umm Haroun” [La madre di Haroun, ndtr.], andata in onda alla televisione della MBC [la più grande compagnia privata di radio-telediffusione satellitare del Medio Oriente e del Nord Africa, controllata dai sauditi, ndtr.] ad Aprile durante il Ramadan, in un periodo in cui il numero di spettatori in genere aumenta, era incentrata sui processi subiti da un’ostetrica ebrea.

La serie immaginaria parla di una comunità multireligiosa in uno Stato non specificato del Golfo arabo dagli anni ’30 ai ’50. Lo spettacolo ha attirato le critiche del gruppo palestinese di Hamas, secondo cui [la serie] ritraeva gli ebrei sotto una luce di indulgenza.

All’epoca, la MBC ha sostenuto che lo spettacolo fosse lo sceneggiato ambientato nel Golfo più apprezzato in Arabia Saudita nel corso del Ramadan. Gli autori dello spettacolo, entrambi del Bahrain, hanno affermato che non conteneva nessun messaggio politico.

Ma esperti e diplomatici hanno detto che si trattava di un altro indizio dello spostamento del discorso pubblico su Israele.

All’inizio di quest’anno, Mohammed al-Aissa, ex ministro saudita e segretario generale della Muslim World League [organizzazione non governativa islamica che si propone di diffondere il panislamismo, ndtr], ha visitato Auschwitz. A giugno ha preso parte a una conferenza organizzata dall’American Jewish Committee [gruppo di difesa ebraica, ndtr.] dove ha auspicato un mondo senza “islamofobia e antisemitismo”.

“Certamente – ha affermato Neil Quilliam, ricercatore presso la Chatham House [Royal Institute of International Affairs, comunemente noto come Chatham House, centro di studi britannico, specializzato in analisi geopolitiche, ndtr.] – MBS è intenzionato a moderare i messaggi approvati dallo Stato condivisi dall’istituzione clericale, e ciò in parte probabilmente funzionerà per giustificare qualsiasi accordo futuro con Israele, che in precedenza sarebbe sembrato impensabile”.

Palestinesi isolati

La normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Israele, firmata martedì alla Casa Bianca, ha ulteriormente isolato i palestinesi.

L’Arabia Saudita, il luogo di nascita dell’Islam, non ha preso direttamente parte agli accordi di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, ma ha affermato di rimanere impegnata per la pace sulla base delle iniziative di pace arabe di vecchia data.

L’Arabia Saudita, che non riconosce Israele, ha elaborato l’iniziativa del 2002 con la quale le nazioni arabe si sono offerte di normalizzare i legami con Israele in cambio di un accordo con i palestinesi per uno Stato [indipendente] e del completo ritiro israeliano dal territorio occupato nel 1967.

Trump ha detto che si sarebbe aspettato che l’Arabia Saudita aderisse agli accordi per normalizzare i rapporti diplomatici e creare nuove e ampie relazioni.

Ma il re dell’Arabia Saudita Salman bin Abdulaziz ha detto al presidente degli Stati Uniti che il paese del Golfo intende prima vedere una soluzione equa e permanente per i palestinesi.

Non è chiaro se e come il regno cercherà di scambiare la normalizzazione con un accordo sui termini dell’Iniziativa di pace araba.

In un altro accattivante gesto di buona volontà, il regno ha consentito ai voli Israele-Emirati Arabi Uniti di utilizzare il suo spazio aereo. Il genero e alto consigliere di Trump, Jared Kushner, che ha uno stretto rapporto con MBS, ha elogiato la mossa la scorsa settimana.

Un diplomatico del Golfo ha detto che per l’Arabia Saudita la questione è più legata a quella che ha definito la sua posizione religiosa come guida del mondo musulmano, e un accordo formale con Israele richiederebbe tempo ed è improbabile che avvenga mentre il re Salman resta al potere.

“Qualsiasi normalizzazione da parte saudita aprirà le porte a Iran, Qatar e Turchia per chiedere l’internazionalizzazione delle due sacre moschee”, ha detto, riferendosi alle periodiche richieste degli oppositori di Riyadh affinché la Mecca e Medina siano poste sotto la supervisione internazionale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Politica, bugie e registrazioni audio

Omar Karmi

20 gennaio 2018, Electronic Intifada

Le ripercussioni del caotico lavoro di demolizione della soluzione dei due Stati da parte del presidente USA Donald Trump continuano.

Vi è invischiata una regione già in preda a caos e confusione. Vecchie certezze sono state sradicate e tradizionali alleati ed alleanze, alle quali il processo di pace forniva una copertura di comodo per non fare niente, sono stati sconvolti.

Il 14 gennaio persino Mahmoud Abbas, il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, finora così fiducioso in un processo della cui creazione e salvaguardia è stato determinante, è stato spinto a dichiarare che “oggi è il giorno in cui gli accordi di Oslo sono finiti.”

In un rabbioso discorso di due ore e mezza da Ramallah, egli ha annunciato poche conseguenze concrete e gli uomini del suo apparato inviati in seguito a spiegarle sono stati altrettanto vaghi (cosa mai può significare “congelare il riconoscimento di Israele”?).

Tuttavia la frustrazione era reale, e la sua descrizione dello stato delle cose – benché ovvia e in ritardo – esatta.

L’ANP è in effetti un’”autorità senza potere”; a Israele è sicuramente consentita – con la complicità dell’ANP, avrebbe dovuto aggiungere, ma non l’ha fatto – un’“occupazione senza nessun costo”; l’ambasciatore USA in Israele David Friedman è, in effetti, “un colono che si oppone al termine ‘occupazione’” e indubbiamente “un essere umano prepotente.”

Abbas ha avuto anche parole dure per i governi arabi, sostenendo che, se non offriranno ai palestinesi un “aiuto concreto”, possono “andare tutti all’inferno.”

Un problema si muove in Arabia

Non è un segreto che i Paesi arabi, soprattutto, ma non solo, quelli detti “moderati” che includono l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e la Giordania – che sono definiti tali dai circoli occidentali, soprattutto per la loro posizione verso Israele – sono stati per lo più tutto fumo e niente arrosto quando si tratta di Palestina.

Tuttavia essi hanno anche e pubblicamente da tempo tenuto (per lo più) drastiche linee rosse: a parte i Paesi confinanti come Giordania ed Egitto, non ci saranno relazioni diplomatiche complete con Israele finché la “questione” palestinese non sarà risolta. E le ricette per questa soluzione devono includere una (vagamente definita) “soluzione giusta” del problema dei rifugiati, così come (precisata più chiaramente) la costituzione di uno Stato e l’indipendenza per i palestinesi su tutta la Cisgiordania e la Striscia di Gaza con capitale a Gerusalemme est.

Quest’ultima non è mai stata vista come una questione solamente palestinese, ma come più generalmente araba e musulmana. Di conseguenza, la risposta ufficiale alla dichiarazione di Trump a dicembre che Gerusalemme è la capitale di Israele è stata unanime e priva di ambiguità.

Il 13 dicembre l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, composta da 57 membri, che include i Paesi arabi e musulmani del mondo, ha inequivocabilmente respinto come illegale la posizione del presidente americano su Gerusalemme e ha dichiarato capitale della Palestina Gerusalemme est.

Poi il 6 gennaio la Lega Araba ha annunciato che gli Stati arabi avrebbero intrapreso un’iniziativa diplomatica alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme est come sua capitale.

Fin qui, come molte altre volte. Stavolta, tuttavia, per almeno alcuni di questi Paesi, pare che questa non sia solo vuota retorica: è una totale menzogna.

Il nuovo ordine del mondo (arabo)

Prendete l’Egitto. Mentre l’incontro d’emergenza dell’OIC [Organizzazione della Cooperazione Islamica, ndt.] a Istanbul ha visto la partecipazione di alcuni importanti capi di Stato della regione, compreso il presidente turco che l’ospitava, Recep Tayyip Erdogan, così come del re di Giordania Abdullah e del presidente iraniano Hassan Rouhani, erano significative anche le assenze. Non erano presenti né il re dell’Arabia Saudita Salman (o il suo principe ereditario Mohammad bin Salman) né il presidente egiziano Abdulfattah al-Sisi.

Infatti, anche se il Cairo ha condannato la nuova posizione USA su Gerusalemme, un ufficiale dell’intelligence egiziana sarebbe stato registrato in audio mentre cercava di persuadere importanti personaggi della televisione egiziana a convincere i loro telespettatori ad accettarla, sostenendo in pratica che Ramallah è un posto altrettanto valido di Gerusalemme per stabilirvi la capitale.

Il Cairo ha negato l’informazione, il procuratore di Stato egiziano ha annunciato un’inchiesta sull’articolo del New York Times che ha fatto la denuncia e le personalità della televisione di cui sopra hanno da allora ritrattato alcuni dei commenti fatti in precedenza.

Ma il Times ha confermato le proprie informazioni e, nell’attuale clima politico, non suonano per niente false. E non ci dovrebbe essere alcun dubbio che quello che alcuni governi arabi stanno sostenendo in merito al destino di Gerusalemme evidenzi fino a che punto i dirigenti e governi arabi siano diventati vulnerabili alle pressioni esterne.

La debolezza degli Stati arabi corrisponde in generale ad una caratteristica in tutta la regione: scarsa capacità di governo come risultato di sistemi statali autocratici e clientelari che resistono alle idee che vengono da fuori ma dipendono dai finanziamenti e dalla protezione esteri o economie basate su una sola risorsa. Ne conseguono logicamente corruzione, nepotismo, servilismo e stagnazione, con – per parafrasare – il settarismo, l’ultima risorsa delle canaglie.

Gli ultimi anni di rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili, guerre e invasioni nelle regioni arabe hanno anche visto la questione palestinese scivolare in fondo alla lista delle priorità e perdere il suo ruolo come sfogo sicuro per la rabbia popolare. E poi c’è l’Arabia Saudita.

Rivoluzione a Ryadh

L’assunzione di una posizione di rilievo del principe ereditario Mohammad bin Salman, spesso indicato come MBS, ha sconvolto la tradizionale politica regionale e scosso le antiche alleanze e certezze. Decisa a quanto pare a rivolgersi a viso aperto verso uno scontro con l’Iran, la posizione di Riad su altre questioni regionali è improvvisamente diventata imprevedibile.

Yemen, Libano, Siria ed Egitto hanno risentito a vari livelli dei freddi venti del cambiamento in quanto il nuovo potere a Riad sonda il terreno e persegue quelli che ha identificato come gli interessi sauditi, giusti o sbagliati, con energia incontenibile e in modi senza precedenti per l’Arabia Saudita. Sono presunte informazioni saudite sulla prospettiva finale dell’amministrazione Trump per un accordo di pace – qualcosa meno di uno Stato per i palestinesi, non basato sulle frontiere del 1967 e senza Gerusalemme – che questa settimana hanno spinto davvero Abbas a perdere il controllo e gli hanno fatto venire un colpo apoplettico.

Oltretutto fonti vicine ad Abbas hanno fatto sapere che, durante una recente visita, MBS ha fatto pressione sul leader dell’ANP perché accetti il piano di Trump, indicando che Riad ora attribuisce molta più importanza al potenziale aiuto di Israele contro l’Iran rispetto ad ogni pressione per i diritti dei palestinesi.

Per quanto audaci, simili pressioni, su Abbas e su altri, probabilmente falliranno, così come finora sono fallite le recenti avventure saudite in politica estera in altre parti della regione.

In parte, un simile clamoroso scostamento è un cambiamento decisamente troppo rapido da assorbire per i pigri sistemi dello Stato arabo, soprattutto di fronte alla disapprovazione profonda e generalizzata dell’opinione pubblica. E in parte, mentre ciò potrebbe funzionare solo nei Paesi del Golfo, isolati dal denaro, né Egitto né Giordania sono probabilmente in grado di collaborare, anche se i loro dirigenti lo volessero.

Quello che i soldi non possono comprare

Al momento l’Egitto è semplicemente troppo instabile per assorbire troppi sconvolgimenti del sistema. Ancora scosso dalla rivoluzione del 2011 e dalla controrivoluzione del 2013, il Cairo se la deve vedere anche con la contagiosa guerra civile nella vicina Libia, con tensioni in Sudan, con una disputa con l’Etiopia per una diga sul Nilo che potrebbe avere effetti drammatici in Egitto e con una sempre più sanguinosa rivolta nel Sinai.

Al-Sisi potrebbe voler tentare di adeguarsi alla pressione di USA e Arabia Saudita. Le umilianti registrazioni del capitano Ashraf al-Kholi che implora i suoi interlocutori di spiegare la differenza tra Gerusalemme e Ramallah suggeriscono che il Cairo ci ha provato. Semplicemente non può.

L’ultima cosa di cui Al-Sisi ha bisogno, con tutto il resto, è di essere accusato di abbandonare Gerusalemme e i palestinesi. E solo mercoledì il presidente egiziano si è sentito obbligato a ribadire la politica egiziana di lunga data a favore dei due Stati, che rivendica Gerusalemme est come capitale palestinese.

La Giordania ha a lungo dovuto conciliare gli interessi palestinesi e giordani – o sponda ovest ed est del Giordano – e lo ha fatto in gran parte con successo. Ma la destinazione favorita da ogni rifugiato nella regione è satura, impoverita e non disposta a patteggiare la propria custodia di Al-Aqsa [la Spianata delle Moschee a Gerusalemme, ndt.] e dei luoghi sacri cristiani di Gerusalemme per avere la responsabilità di più di due milioni di palestinesi scontenti e riottosi in aree non contigue della Cisgiordania, come prospettato da qualcuno nell’amministrazione Trump.

Infatti Amman ha già messo in chiaro il proprio malcontento, e si dice che avrebbe cacciato tre principi per essere stati troppo vicini a Riad.

I soldi non possono comprarti l’amore, ma ti possono comprare un sacco di dispiaceri. E il dispiacere è ciò che attende Abbas, Abdullah e al-Sisi se dovessero stare al gioco del piano di Trump, che è un buco nell’acqua.

Probabilmente MBS lo capirà presto. Ma a quel punto il gioco sarà completamente cambiato.

Omar Karmi è un ex corrispondente da Gerusalemme e da Washington, DC, per il giornale The National [“Il Nazionale”, giornale degli Emirati Arabi Uniti, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La proposta saudita a Israele potrebbe essere l’essenza dell’accordo che sogna Trump in Medio oriente

Zvi Bar’el – 19 maggio 2017,Haaretz

Il silenzio dei media arabi in seguito alle informazioni sui piani degli Stati del Golfo per la normalizzazione con Israele suggerisce che abbiano solide basi. La sua tempistica deriva dagli interessi comuni dei dirigenti arabi e della destra israeliana.

Il silenzio è sceso sui media arabi dopo la pubblicazione di un reportage sul piano degli Stati del Golfo per una parziale normalizzazione con Israele. Non si è sentita nessuna risposta ufficiale da parte dell’Arabia Saudita, degli Stati del Golfo o del Qatar. I soliti opinionisti hanno preferito dedicarsi ad altri argomenti, come se non avessero né sentito né visto lo scoop sul ” Wall Street Journal”. I soliti portavoce del governo in Israele sembrano essere stati colti da una malattia alle corde vocali.

Quando sono stati pubblicati reportage simili nel passato, portavoce ufficiali, sia arabi che israeliani, hanno subito diffuso una smentita. Ma questa volta non c’è ancora stata. Ciò suggerisce che ci siano solide basi sui criteri della proposta – quanto meno tra l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e gli Stati uniti.

A quanto pare, dopo il primo incontro di Trump con Mohammed bin Salman, il trentunenne figlio del re saudita e sovrano di fatto del regno, nella loro riunione a Washington di martedì sono stati definiti gli ultimi dettagli tra il principe ereditario degli E.A.U., Mohammed bin Zayed Al Nahyan, e il presidente USA Donald Trump.

I tre punti principali dell’accordo si fondano sulla concessione di permessi alle imprese israeliane di aprire succursali negli Stati del Golfo, agli aerei israeliani di volare nello spazio aereo degli E.A.U. e sull’installazione di linee telefoniche dirette tra i due Paesi. Non è ancora la totale normalizzazione che era stata promessa con l’iniziativa araba di pace del 2002 o nella sua ratifica dettagliata al summit arabo di aprile in Giordania.

Ma se arrivasse una dichiarazione ufficiale da parte di Riyadh su questa iniziativa, meriterebbe il titolo di “storica”, perché per la prima volta per una completa normalizzazione non verrebbero più richiesti il totale ritiro da tutti i territori occupati e la fine del conflitto. Al contrario, questa proposta è un percorso, consistente in varie fasi, in cui la prima si accontenta della promessa di Israele di congelare la costruzione [di colonie] nei territori.

L’altra novità è che gli Stati del Golfo tradurranno il proprio impegno concreto in un linguaggio che l’opinione pubblica israeliana può capire. Potrebbero essere in grado di esercitare pressioni locali ed internazionali sul governo israeliano se questo decidesse di rifiutare l’iniziativa.

E’ questo il modo il cui Trump pensa di avverare l’accordo che sogna per la pace tra Israele ed i palestinesi, e, se così fosse, perché gli Stati del Golfo sarebbero disposti a collaborare proprio ora?

I dirigenti della maggior parte dei Paesi arabi hanno molte cose in comune con la destra israeliana. Entrambi vedono Trump come una boccata d’aria fresca dopo la fine della presidenza di Barack Obama. Entrambi hanno interesse a contenere l’influenza dell’Iran in Medio oriente e né Israele né gli Stati del Golfo dispongono di una superpotenza alternativa agli Stati uniti. La preoccupazione riguardo alla rottura del rapporto unico creato nel corso dei decenni tra gli Stati del Golfo, soprattutto l’Arabia saudita, e le amministrazioni USA, ha portato alla conclusione che non ci sono alternative al rafforzamento dei rapporti con un presidente americano, che può anche detestare i musulmani, ma capisce il linguaggio degli affari.

Quindi Trump è stato invitato non a un solo incontro, ma a tre: il primo con il re saudita, il secondo con i dirigenti degli Stati del Golfo e il terzo con i dirigenti dei Paesi musulmani sunniti, in cui rilascerà una dichiarazione “al mondo musulmano”.

Sarà interessante fare un confronto tra il discorso di Trump ai leader del mondo musulmano con quello di Obama al Cairo nel 2009, in cui si era impegnato a costituire un’alleanza con i Paesi musulmani dopo un periodo di gelo sotto la presidenza di George W. Bush.

Trump e il re saudita Salman firmeranno due accordi per un valore di centinaia di miliardi di dollari. Uno riguarda un vasto accordo sugli armamenti di circa 100 miliardi di dollari iniziali, con un’opzione fino a 300 miliardi in un decennio. Il secondo è un accordo di investimenti sauditi in infrastrutture negli Stati uniti per circa 40 miliardi di dollari. Tutto questo si aggiunge a un nuovo accordo di difesa che sarà firmato tra Washington e gli E.A.U.

Nel passato gli Stati del Golfo, guidati dall’Arabia saudita, si sarebbero uniti alle iniziative arabe, che provenivano principalmente dall’Egitto. Nel 2002 l’iniziativa saudita fu anomala a questo riguardo, ma dopo che è naufragata in un mare di obiezioni israeliane, l’Arabia saudita si è prestata ad iniziative locali, come la riconciliazione tra Hamas e Fatah, o si è occupata della politica interna in Libano. Salman, e soprattutto suo figlio, si sono trasformati in attivi propugnatori di politiche, anche se non sempre con molto successo. La fallimentare guerra in Yemen è un esempio, la debolezza nel fare i conti con la crisi in Siria un altro. Ora cercheranno di guidare un’iniziativa politica tra Israele e i palestinesi. Il vantaggio dell’Arabia saudita e dei suoi alleati del Golfo è che non hanno la necessità, né l’intenzione, di chiedere l’accordo degli arabi radicali per queste iniziative.

La partecipazione della Siria alla Lega Araba è stata sospesa, l’Iraq è considerato un alleato dell’Iran, la Libia si sta sgretolando, lo Yemen è in guerra, la Giordania e l’Egitto sono sostenute dall’Arabia saudita, come lo sono alcuni Stati del Maghreb. Quindi una parziale o totale normalizzazione tra gli Stati del Golfo ed Israele non impegnerà altri Paesi arabi. Ma ciò deciderà la questione di chi è da biasimare per lo stallo del processo di pace se l’iniziativa non prendesse il via. E se Israele e i palestinesi avanzassero verso la ripresa di negoziati sulle principali questioni, ciò potrebbe essere utile come essenziale effetto leva.

(traduzione di Amedeo Rossi)