In questo giorno – 42 anni dal massacro di Sabra e Shatila

Redazione Palestine Chronicle

16 settembre 2024 – Palestine Chronicle

Il 16 settembre si commemora il giorno in cui nel 1982 migliaia di palestinesi furono brutalmente massacrati nei campi profughi di Sabra e Shatila in Libano; atrocità considerata una delle più orrende della storia moderna.

Dopo aver assediato e bombardato la zona per giorni le milizie delle falangi libanesi sostenute da Israele attaccarono, uccidendo almeno 3.000 rifugiati palestinesi e civili libanesi.

Dopo l’assedio dei due campi il 15 settembre l’esercito israeliano sotto il comando di Ariel Sharon illuminò i cieli con razzi mentre le milizie libanesi armate entravano attraverso le linee dell’esercito israeliano e procedevano a uccidere chiunque si trovasse sul loro cammino, indipendentemente dal fatto che fossero anziani, donne o bambini.

Fecero anche irruzione nell’ospedale del campo e uccisero infermieri, medici e pazienti fuggiti dal massacro.

Nel corso di tre giorni, e sotto la sorveglianza dell’esercito di Sharon, le milizie continuarono il loro massacro finché la notizia non trapelò dal campo e le immagini terrificanti dei morti non furono viste in tutto il mondo. Solo allora venne esercitata pressione su Israele affinché fermasse le milizie.

La Commissione Kahan del 1983, istituita dal governo israeliano, rilevò che Sharon, all’epoca Ministro della Difesa, aveva la “responsabilità personale” del massacro.

Nonostante ciò, Sharon divenne in seguito, nel 2001, Primo Ministro di Israele.

Il 16 dicembre 1982 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite condannò il massacro e lo dichiarò un atto di genocidio.

Genocidio in corso

Direi così: Israele sta conducendo dal 7 ottobre una guerra devastante contro Gaza ed è attualmente sotto processo presso la Corte Internazionale di Giustizia per genocidio contro i palestinesi.

Inoltre il governo continua a ignorare una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiede un cessate il fuoco immediato, ed è oggetto di una condanna internazionale a causa del persistere della sua brutale offensiva contro Gaza.

Secondo il Ministero della Salute di Gaza nel genocidio in corso a Gaza operato da Israele a partire dal 7 ottobre 41.226 palestinesi sono stati uccisi e 95.413 feriti.

Inoltre, almeno 11.000 persone risultano disperse, presumibilmente morte sotto le macerie delle loro case in tutta la Striscia.

Israele afferma che durante l’operazione Al-Aqsa Flood del 7 ottobre sono stati uccisi 1.200 soldati e civili. I media israeliani hanno pubblicato report che suggeriscono che quel giorno molti israeliani sono stati uccisi da “fuoco amico”.

Le organizzazioni palestinesi e internazionali affermano che per la maggior parte le persone uccise e ferite sono donne e bambini.

La guerra di Israele ha provocato una grave carestia, soprattutto nel nord di Gaza, con conseguente morte di molti palestinesi, per lo più bambini.

L’aggressione israeliana ha anche provocato lo sfollamento forzato di quasi due milioni di persone da tutta la Striscia di Gaza, con la stragrande maggioranza degli sfollati costretti a trasferirsi nella sovraffollata città meridionale di Rafah, vicino al confine con l’Egitto, in quello che è diventato il più grande esodo di massa della Palestina dalla Nakba del 1948.

Col protrarsi della guerra centinaia di migliaia di palestinesi hanno iniziato a spostarsi dal sud alla zona centrale di Gaza in una continua ricerca di sicurezza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il ricordo del massacro di Sabra e Shatila nelle sofferenze palestinesi passate e presenti

Rami Rmeileh

18 settembre 2023, TheNewArab

Ancora nessuna giustizia per i palestinesi a 41 anni dal massacro di Sabra e Shatila quando 3.500 persone furono uccise dalle milizie libanesi alleate di Israele. Dato che l’oppressione dei rifugiati palestinesi continua la loro lotta dev’essere sempre ricordata, scrive Rami Rmeileh.

Il 16 settembre 1982 gli abitanti dei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut, per la maggior parte donne, bambini e anziani, pensavano che gli orrori della guerra civile libanese e dell’invasione israeliana sarebbero cessati dopo la partenza dei loro difensori, dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Erano rimasti completamente disarmati e indifesi.

I residenti dei due campi, molti rifugiati provenienti da Beirut est e da altri campi che erano stati distrutti dalle milizie israeliane o libanesi, stavano raccogliendo i pochi brandelli di speranza rimasti dopo 34 anni di sfollamento e 7 anni di sanguinosi scontri. Avevano cieca fiducia nell’umanità, convinti che vite innocenti e disarmate non sarebbero state uccise – in particolare in seguito alla promessa fatta dalle forze di occupazione israeliane (IOF) al diplomatico americano Philip Habib che aveva facilitato il ritiro dell’OLP dal Libano. Tuttavia le Forze di occupazione e i loro alleati di destra in Libano avevano altri piani.

I palestinesi scampati alla morte nei massacri precedenti erano tutt’altro che al sicuro.

Nessuna vita risparmiata

Prima del tramonto i carri armati e le truppe israeliane assediarono i confini di Sabra e Shatila, posizionando i cecchini intorno alle uscite dei campi. Gli israeliani distribuirono sacchi per cadaveri ai combattenti del Partito Cristiano di destra Kataeb (noto anche come Falange) e all’esercito del Libano meridionale e diedero loro il via libera per assaltare il campo. Quei combattenti erano motivati dall’assassinio del comandante delle forze libanesi Bachir Gemayel che era stato eletto presidente settimane prima di cui erano stati ingiustamente incolpati i palestinesi.

Per 43 ore, giorno e notte, intere famiglie furono rastrellate e uccise in modi orribili mentre gli israeliani lanciavano razzi per illuminare la zona. Le donne furono violentate e uccise davanti ai loro figli, i neonati furono mutilati e pugnalati, ci furono donne incinte sventrate, altri furono sepolti vivi e/o gettati in fosse comuni. Le testimonianze rivelano che i libanesi usarono anche i bulldozer delle Forze d’occupazione israeliane per distruggere le case ed assicurarsi che le persone fossero morte.

Nessuna vita fu risparmiata.

In totale circa 3.500 palestinesi, libanesi e altre persone di nazionalità non documentata furono brutalmente assassinati. Le Nazioni Unite lo definirono un atto di genocidio e l’opinione pubblica internazionale si indignò quando furono diffuse immagini orribili. Ciò contribuì solo a disumanizzare ulteriormente le vittime nella loro morte.

Per quel che riguarda le condanne globali, l’unica azione che ne seguì furono alcune donazioni.

L’assenza di giustizia

Ad oggi gli autori dei reati non sono stati processati.

Sebbene Ariel Sharon, ministro della Difesa israeliano, sia stato ritenuto “indirettamente” responsabile del massacro dalla Commissione d’inchiesta Kahan della Knesset israeliana, fu successivamente ricompensato con la carica di Primo Ministro. Nel 2001 un gruppo di 28 sopravvissuti intentò una causa contro Sharon nei tribunali belgi, ma il loro caso fu archiviato su pressione degli Stati Uniti e di Israele.

Non solo, Elie Hobeika, il signore della guerra cristiano libanese che comandava la milizia che entrò nei campi e compì i massacri, che aveva accettato di testimoniare contro Sharon in tribunale fu assassinato nel 2002.

Altri leader rimangono liberi, tra cui Fadi Ephram, che era il capo di stato maggiore falangista, e molti altri leader delle milizie ancora in posizioni di potere nei partiti di destra in Libano.

Per quanto riguarda i combattenti della milizia, quando il regista Lokman Slim intervistò sei dei responsabili nel suo documentario Massaker (2005), nessuno mostrò alcun rimorso e nemmeno raccontò in dettaglio i gesti più raccapriccianti. Spiegano come prima del massacro le Forze d’occupazione israeliane li avessero portati in campi di addestramento nella Palestina occupata e gli avessero fatto guardare documentari sull’Olocausto e detto ai combattenti che sarebbe successo anche a loro come minoranza in Libano se non avessero preso provvedimenti contro i palestinesi. I combattenti svilupparono di conseguenza un rinnovato odio per i palestinesi. Israele aveva generato dei mostri.

In effetti, i massacri di Sabra e Shatila segnarono un’era nuova e difficile per i palestinesi in Libano, dove affrontavano terrore ed esclusione. E nello stesso tempo gli veniva negato il diritto al ritorno da parte di Israele, erano dimenticati dalla leadership palestinese e circondati dal silenzio globale.

Per di più al massacro seguirono anni di torture, interrogatori, rapimenti, sparatorie e intimidazioni. L’obiettivo di questa violenza, facilitata e incentivata da Israele, era quello di spingere i palestinesi fuori dal Libano e il più lontano possibile dai villaggi da cui erano stati sradicati nella Palestina occupata.

Oggi i palestinesi continuano ad essere oggetto di violenze in Libano, strangolati dal sistema legale del paese e dalle sue restrizioni economiche.

Persino la strategia adottata dalla destra libanese negli anni ’80 di espellere i palestinesi dal paese è oggi diventata praticamente impossibile. Le persone sono intrappolate in campi chiusi, soffocate dalla povertà cronica, dalla disoccupazione, dalla cattiva salute e dalla mancanza di istruzione.

La situazione ha spinto alcuni palestinesi a prendere decisioni drastiche, a volte pagando con la vita il tentativo di lasciare il Libano. Proprio l’anno scorso, quando la barca Tartus affondò al largo di Tripoli, 25 palestinesi di cui 6 di Shatila annegarono.

I palestinesi sono inoltre lasciati senza risorse per combattere i signori della droga e le milizie islamiste che utilizzano i campi come basi. Gli scontri ad Ain al Hilweh nelle ultime settimane sono stati agevolati dal governo libanese e da altre fazioni complici il cui obiettivo è la distruzione dei campi palestinesi e del loro tessuto sociale.

Proprio come i massacri, questi fatti servono a soddisfare antiche aspirazioni di alcuni partiti libanesi e cooperano allo stesso tempo all’obiettivo di Israele di allontanare i palestinesi dai propri confini.

Resistenza

I campi profughi in Libano sono sempre stati luoghi di gravi sofferenze ad opera di alcuni dei peggiori sistemi di oppressione che l’umanità abbia prodotto. E i palestinesi sanno fin troppo bene che le loro difficoltà sono il prodotto di questioni intrecciate che si manifestano all’interno dei campi: imperialismo, colonialismo d’occupazione, capitalismo e neoliberismo. Questo è il motivo per cui in passato si sono ribellati piuttosto che aspettare di essere ulteriormente abbandonati da forze esterne.

Anche se la popolazione continua a vivere all’ombra della morte, spesso definendosi “dimenticata”, si descrive anche come “quelli che non dimenticano mai”. Rimangono incrollabilmente fedeli alla lotta per la liberazione e continuano a vivere per il ritorno in Palestina.

Possono essere stati traditi dalle nazioni e dai paesi vicini, ma hanno ancora fiducia nell’umanità. Affinché questo continui, e in assenza di una leadership palestinese unita, è compito della diaspora palestinese e degli alleati globali rafforzare l’impegno per la lotta dei rifugiati palestinesi in Libano. Vanno ricordati non solo in occasione di anniversari significativi.

Lodare i palestinesi per la loro resilienza e ricordare i momenti peggiori della loro storia è ipocrita se non è seguito dall’impegno politico per ottenere il loro diritto al ritorno e alla giustizia.

Il massacro di Sabra e Shatila ripropone l’ininterrotta richiesta dei diritti di tutti i palestinesi – vivi e martiri.

Rami Rmeileh è psicologo sociale e ricercatore dottorando presso l’Università di Exeter – Istituto di studi Arabi e Islamici.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Sabra e Shatila: una lezione di vasta portata

Ramzy Baroud

12 settembre 2022 – Middle East Monitor

Il quarantesimo anniversario del massacro di Sabra e Shatila cade il 16 settembre. Circa 3.000 profughi palestinesi furono uccisi dalle milizie falangiste libanesi che agivano sotto il comando dell’esercito israeliano.

Sono passati quattro decenni, eppure i sopravvissuti dell’eccidio o i parenti delle vittime non hanno ottenuto giustizia. Da allora molti sono morti e altri invecchiano, con le cicatrici di ferite fisiche e psicologiche, sperando che, forse, durante il corso della vita, vedranno i carnefici dietro le sbarre.

In ogni caso molti dei comandanti israeliani e falangisti che ordinarono l’invasione del Libano e orchestrarono o eseguirono gli efferati massacri nei due campi di profughi palestinesi nel 1982 sono già morti. Ariel Sharon che, un anno dopo, fu accusato per la sua “responsabilità indiretta” nel macabro omicidio di massa e stupri dalla Commissione ufficiale israeliana Kahan, in seguito fece carriera e divenne il primo ministro di Israele nel 2001. Morì nel 2014.

Anche prima della strage a Sabra e Shatila, il nome di Sharon era sempre stato sinonimo di eccidi e distruzioni su larga scala. Nel 1953 fu la cosiddetta “Operazione Shoshana” nel villaggio di Qibya, nella Cisgiordania palestinese, [quando a capo dell’Unità 101 fece saltare 45 abitazioni uccidendo 69 persone, ndt.] che guadagnò a Sharon la sua infamante reputazione. Se in seguito all’occupazione israeliana di Gaza nel 1967 il generale israeliano divenne noto come “il bulldozer”, dopo Sabra e Shatila diventò “il macellaio”.

Anche il primo ministro israeliano dell’epoca, Menachem Begin, è morto. Non mostrò mai rimorso per l’uccisione di oltre 17.000 libanesi, palestinesi e siriani durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982. La sua reazione d’indifferenza verso i delitti nei campi profughi nei quartieri occidentali di Beirut incarna l’atteggiamento israeliano verso tutte le uccisioni di massa e tutti i massacri compiuti contro i palestinesi negli ultimi 75 anni: “I goyim uccidono i goyim,” [gentili, non ebrei, ndt.] disse “e danno la colpa agli ebrei.”

Testimoni che arrivarono a Sabra e Shatila dopo i giorni del massacro descrivono una realtà che richiede una profonda riflessione, non solo fra palestinesi, arabi e specialmente israeliani, ma da parte dell’intera umanità.

La giornalista americana Janet Lee Stevens, scomparsa nel 1983, descrisse ciò a cui aveva assistito: “Ho visto donne morte nelle loro case con le gonne sollevate fino alla cinta e le gambe spalancate, decine di ragazzi a cui avevano sparato dopo averli messi in fila davanti al muro di un vicoletto, bambini con le gole tagliate, una donna incinta con l’addome martoriato, gli occhi spalancati, la faccia annerita in un silenzioso urlo d’orrore, innumerevoli bimbi e neonati accoltellati o squartati buttati su mucchi di immondizia.”

La dottoressa Swee Chai Ang era appena arrivata in Libano come chirurga volontaria, assegnata alla Società della Mezzaluna Rossa [la Croce Rossa nei Paesi musulmani, ndt.] nell’ospedale di Gaza a Sabra e Shatila. Il suo libro, From Beirut to Jerusalem: A Woman Surgeon with the Palestinians [Da Beirut a Gerusalemme: una chirurga tra i palestinesi] ,resta una delle letture più critiche sull’argomento.

In un recente articolo la dottoressa Swee ha scritto che alla pubblicazione delle fotografie dei “cumuli di cadaveri nelle stradine del campo”, era seguito uno sdegno internazionale, ma di breve durata: “Le famiglie delle vittime e i sopravvissuti furono rapidamente lasciati soli a tirare avanti con le proprie vite e rivivere il ricordo di quella doppia tragedia del massacro e delle precedenti dieci settimane di bombardamenti intensivi da terra, aria e mare e il blocco di Beirut durante l’invasione.”

Le perdite libanesi e palestinesi nella guerra israeliana furono devastanti in termini di numeri. Comunque la guerra cambiò per sempre anche il Libano e, in seguito all’esilio forzato di migliaia di palestinesi, oltre a tutti i leader dell’OLP, le comunità palestinesi nel Paese rimasero politicamente vulnerabili, socialmente svantaggiate ed economicamente isolate.

La storia di Sabra e Shatila non è stata solo un capitolo nero di un’era passata, ma un’ininterrotta crisi morale che continua a definire le relazioni di Israele con i palestinesi, mettendo in luce la trappola demografica e politica in cui vivono numerose comunità palestinesi in Medio Oriente e accentuando l’ipocrisia della comunità internazionale, dominata dall’Occidente che sembra preoccuparsi solo di alcuni tipi di vittime, ma non di altri.

Nel caso dei palestinesi le vittime sono spesso ritratte dai governi e dai media occidentali come aggressori. Anche durante la spaventosa guerra israeliana contro il Libano 40 anni fa alcuni leader occidentali ripetevano l’abusato mantra che “Israele ha il diritto di difendersi.” È questo incrollabile sostegno a Israele che ha reso l’occupazione israeliana, l’apartheid e l’assedio di Cisgiordania e Gaza politicamente possibili e finanziariamente sostenibili, anzi redditizi.

Se non fosse per il supporto militare, finanziario e politico americano e occidentale Israele sarebbe in grado di invadere e massacrare a piacimento? La risposta è un netto “no”. A coloro che mettono in dubbio questa conclusione basterebbe solo considerare il tentativo, nel 2002, dei sopravvissuti dei massacri dei campi profughi libanesi di considerare responsabile Ariel Sharon. Hanno portato la loro causa in Belgio, sfruttando una legge belga che permetteva [di avviare] un’azione penale contro sospettati di crimini di guerra internazionali. Dopo varie contrattazioni, ritardi e intensa pressione da parte del governo USA, il tribunale belga archiviò del tutto il caso. Alla fine Bruxelles cambiò le proprie leggi per garantire che queste crisi diplomatiche con Washington e Tel Aviv non si ripetessero.

Comunque per i palestinesi il caso non sarà mai chiuso. Kifah Sobhi Afifi’, nel suo saggio “Avenging Sabra and Shatila” [Vendicare Sabra e Shatila], ha descritto l’attacco congiunto falangista-israeliano contro il suo campo profughi quando aveva solo 12 anni.

“Quindi siamo scappati, cercando di stare il più vicino possibile ai muri del campo,” ha scritto. “È stato in quel momento che ho visto le montagne di cadaveri tutto intorno a noi. Bambini, donne e uomini, mutilati o che gemevano dal dolore mentre spiravano. Ovunque volavano le pallottole. Intorno a me la gente cadeva, abbattuta. Ho visto un padre che con il corpo cercava di proteggere i propri figli. Tutti furono comunque uccisi.”

Kifah ha perso parecchi familiari. Anni dopo si unì a un gruppo della resistenza palestinese e, dopo un raid sul confine libanese-israeliano, fu arrestata e torturata in Israele.

I massacri israeliani intendono porre termine alla resistenza palestinese ma senza volerlo la alimentano. Mentre Israele continua ad agire impunemente, anche i palestinesi continuano a resistere. Questa non è solo la lezione di Sabra e Shatila, ma anche la più ampia lezione su vasta scala dell’occupazione israeliana della Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La divisione ‘temporale e spaziale’ della moschea Al-Aqsa: perché qui l’obiettivo finale di Israele fallirà

Ramzy Baroud

27 aprile 2022 – Palestine Chronicle

A partire dal 15 aprile l’esercito di occupazione israeliana e la polizia hanno attaccato giornalmente la moschea Al-Aqsa nella Gerusalemme Est occupata. Con la scusa di proteggere le provocatorie ‘visite’ di migliaia di coloni ebrei israeliani illegali e fanatici di destra l’esercito israeliano ha ferito centinaia di palestinesi, fra cui dei giornalisti, e ne ha arrestati a centinaia.

I palestinesi sanno che per Israele questi attacchi contro Al-Aqsa hanno un significato politico e strategico più profondo di quelli precedenti.

Nel passato Al-Aqsa ha subito raid di routine da parte delle forze israeliane in varie forme. Tuttavia negli ultimi anni la valenza della moschea ha acquisito ulteriori significati, specialmente dopo la ribellione popolare palestinese, le proteste di massa, gli scontri e una guerra contro Gaza lo scorso maggio, che significativamente i palestinesi chiamano Saif Al Quds – Operazione Spada di Gerusalemme.

Storicamente Haram Al-Sharif o il Nobile Santuario, oltre ad essere il cuore della lotta della lotta popolare in Palestina, è anche al centro delle politiche di Israele. Il santuario, situato nella Città Vecchia della Gerusalemme Est occupata, è considerato uno dei luoghi più sacri per tutti i musulmani. Ha un posto speciale nell’Islam poiché è citato sia nel sacro Corano che frequentemente anche negli Hadith, i detti del profeta Maometto. Il complesso ospita parecchie moschee storiche e 17 porte e altri importanti siti islamici. Al-Aqsa è una di queste moschee.

Ma per i palestinesi il valore di Al-Aqsa ha acquisito ulteriori significati a causa dell’occupazione israeliana che, nel corso degli anni, ha preso di mira moschee, chiese e altri luoghi sacri palestinesi. Per esempio, il ministero palestinese degli Affari Religiosi ha riferito che, durante la guerra israeliana del 2014 contro l’assediata Striscia di Gaza, 203 moschee furono danneggiate da bombe israeliane che causarono la completa distruzione di 73 edifici.

Quindi i palestinesi musulmani, ma anche i cristiani, considerano Al-Aqsa, il santuario e altri siti musulmani e cristiani a Gerusalemme, una linea rossa che non deve essere superata da Israele. Generazioni dopo generazioni si sono mobilitate per proteggere i siti, talvolta senza riuscirci come nel 1969, quando l’ebreo estremista australiano Denis Michael Rohan compì un attacco incendiario dentro Al-Aqsa.

Anche i recenti raid contro la moschea non si sono limitati a lesioni personali e arresti di massa di fedeli. Il 15 aprile, il secondo venerdì di Ramadan, Al-Aqsa ha subito gravi danni con le famose vetrate multicolori della moschea in frantumi e gli arredi sfasciati.

I raid contro Haram Al-Sharif stanno continuando al momento della stesura di questo articolo. Gli estremisti ebrei si sentono sempre più forti grazie alla protezione che ricevono dall’esercito israeliano oltre alla libertà d’azione fornita da influenti politici israeliani. Molti degli attacchi sono spesso guidati da Itamar Ben-Gvir parlamentare di estrema destra della Knesset israeliana, da Yehuda Glick, politico del Likud [il principale partito israeliano di centro destra, ndtr.], e dall’ex ministro Uri Ariel.

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett sta indubbiamente usando i raid contro Al-Aqsa come un modo per tenere in riga la sua estrema destra spesso ribelle e l’elettorato religioso. Il 6 aprile le improvvise dimissioni dal partito di estrema destra Yamina della deputata Idit Silman hanno lasciato Bennett ancora più disperato nel suo tentativo di mantenere in vita la sua litigiosa coalizione. Bennett, un tempo leader di Yesha Council, un’organizzazione ombrello delle colonie illegali della Cisgiordania, è salito al potere con il sostegno degli zeloti religiosi, sia in Israele che nei Territori della Palestina Occupata. Perdere il sostegno dei coloni potrebbe semplicemente costargli la carica.

Il comportamento di Bennett è coerente con quello dei precedenti leader israeliani che hanno causato un’escalation di violenza ad Al-Aqsa per distrarre i votanti dai propri guai politici o per far appello al potente elettorato israeliano di destra e degli estremisti religiosi. Nel settembre 2000 l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon fece irruzione nella moschea con migliaia di soldati israeliani, polizia ed estremisti con opinioni simili. Lo fece per provocare una reazione palestinese e per far cadere il governo del suo arcinemico Ehud Barak. Sharon ci riuscì, ma a caro prezzo dato che la sua ‘visita’ scatenerà la Seconda Intifada palestinese, detta anche l’Intifada di Al-Aqsa, durata cinque anni.

Nel 2017 migliaia di palestinesi hanno protestato contro un tentativo israeliano di installare ‘telecamere di sicurezza’ agli ingressi del luogo sacro. La misura era anche un tentativo dell’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di accontentare i suoi sostenitori di destra. Ma le proteste di massa a Gerusalemme e la conseguente unità palestinese all’epoca costrinsero Israele ad annullare i propri piani.

Tuttavia questa volta i palestinesi temono che Israele miri a qualcosa di più di una semplice provocazione. Secondo Adnan Ghaith, massimo rappresentante dell’Autorità Palestinese a Gerusalemme Est, Israele progetta di “imporre una divisione temporale e spaziale della moschea Al-Aqsa”. Questa particolare espressione, ‘divisione temporale e spaziale’, è anche usata da molti palestinesi che temono che si ripetano gli eventi della moschea di Ibrahimi (la tomba dei Patriarchi).

Nel 1994, dopo il massacro di 29 fedeli per mano di un estremista ebreo israeliano, Baruch Goldstein, e le successive uccisioni di molti altri palestinesi da parte dell’esercito israeliano presso la moschea Ibrahimi a Hebron (Al-Khalil), Israele la divise. Uno spazio più ampio fu destinato ai coloni ebrei limitando l’accesso ai palestinesi, a cui è permesso di pregare in certi orari, ma non in altri. Questo è esattamente quello che i palestinesi intendono con divisione temporale e spaziale che per molti anni è stata al centro della strategia israeliana.

Comunque Bennett deve muoversi con cautela. I palestinesi sono molto più uniti ora che nel passato nella loro resistenza e consapevolezza riguardo ai disegni israeliani. Una componente importante di quest’unità è la popolazione araba palestinese nella Palestina storica, che ora sta sostenendo un discorso politico simile a quello dei palestinesi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Infatti molti dei difensori di Al-Aqsa provengono proprio da queste comunità. Se Israele continua con le sue provocazioni ad Al-Aqsa rischia un’atra rivolta palestinese come quella di maggio, che significativamente è cominciata a Gerusalemme Est.

Ingraziarsi l’elettorato di destra attaccando, umiliando e provocando i palestinesi non è più così facile come spesso è stato in passato. Come la ‘Spada di Gerusalemme’ ci ha insegnato, i palestinesi sono ora capaci di rispondere in modo unitario e, nonostante i loro mezzi limitati, anche facendo pressione su Israele per rovesciare le sue politiche. Bennett deve tenerlo bene in mente prima di scatenare altre violente provocazioni.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders andIntellectuals Speak out” (La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Dopo 20 anni ancora non c’è giustizia per Muhammad Al-Dura

Amjad Ayman Yaghi*

9 dicembre 2020 – Chronique de Palestine

Da qualche parte, nel centro del campo profughi di Bureij nel centro della Striscia di Gaza, Jamal al-Dura guarda una foto di suo figlio Muhammad.

Come altri genitori in lutto, questo vecchio operaio edile di 55 anni non si riprenderà mai dalla perdita di suo figlio.

Ma, diversamente da altri genitori in lutto, Jamal deve anche vivere con continui ricordi sui media o da parte di stranieri.

Sono ormai passati 20 anni da quando l’assassinio di Muhammad al-Dura è stato filmato.

E le immagini del ragazzino dodicenne rannicchiato dietro ai disperati, e alla fine vani, tentativi di suo padre di proteggerlo sono state una delle icone che hanno caratterizzato la seconda intifada.

Queste immagini echeggiano ancora oggi, in particolare a Gaza isolata ed assediata.

Servono a ricordare dolorosamente e simbolicamente che – anche se l’ONU esorta ancora una volta alla fine del blocco israeliano su Gaza, che ha visto più della metà della popolazione scendere sotto la soglia della povertà – i palestinesi sono senza protezione contro un’occupazione israeliana brutale ed implacabile.

Jamal ricorda ancora molto bene quell’ultimo fatidico giorno del settembre 2000.

Lui e suo figlio, a cui piacevano le macchine, erano andati a vedere delle automobili d’occasione in un mercato ad est della città di Gaza.

Il programma era che Muhammad scegliesse un’auto che gli piaceva per la famiglia, ha detto Jamal a The Electronic Intifada. Ma dato che nessuno dei due aveva trovato qualcosa di interessante, decisero di rientrare.

Al ritorno passarono dall’incrocio di Netzarim, un posto di controllo militare a Gaza, che al tempo era al servizio della colonia di Netzarim [composto da] una sessantina di famiglie israeliane, che separava il nord di Gaza dal resto della città.

Calunnie e menzogne

Quel giorno all’incrocio c’erano delle manifestazioni. Erano passati solo pochi giorni da quando il capo dell’opposizione israeliana dell’epoca, Ariel Sharon, aveva deciso di recarsi provocatoriamente addirittura sul luogo della moschea di Al-Aqsa, nel territorio occupato di Gerusalemme est.

Questo comportamento aggressivo di Sharon fu l’elemento scatenante di un’intifada che era già in gestazione, dal momento che diventava sempre più evidente che gli accordi di Oslo non erano riusciti a portare ad una vera pace.

L’autista del taxi di Muhammad e Jamal decise che non poteva andare oltre. Così, padre e figlio scesero incamminandosi per cercare un altro taxi per tornare a casa nel campo di Bureiji, dall’altro lato del checkpoint.

Ma mentre camminavano gli spari si fecero più vicini.

Ho afferrato Muhammad e ci siamo nascosti dietro ad un bidone”, dice Jamal.

La sua intenzione era di restare al riparo fino alla fine della sparatoria. Ma la sparatoria li prese in trappola.

Il resto venne filmato dal giornalista Talal Abu Rahma, che lavorava con Charles Enderlin [giornalista franco-israeliano ed esperto di Medio Oriente, ndtr.] di France 2, un canale della televisione pubblica [francese].

La violenta e tragica scena di un ragazzino ucciso dietro a suo padre privo di sensi fece il giro dei giornali di tutto il mondo. L’esercito israeliano non smentì la sua autenticità e presentò anche timide scuse.

Ma cinque anni più tardi, dopo che dei filoisraeliani appassionati di complotti tentarono di confondere le acque suggerendo sia che la sparatoria fosse una messa in scena dei palestinesi, sia che il ragazzo fosse morto sotto i colpi dei palestinesi, l’esercito ritrattò.

Non è stata mai presentata alcuna prova che suggerisse che il ragazzo fosse stato ucciso in modo diverso da come si era capito da subito, e né Abu Rahma né Enderlin, lui stesso nipote di ebrei austriaci fuggiti prima dell’invasione nazista del 1938, hanno mai espresso il minimo dubbio su quanto avevano reso pubblico.

Infatti nel 2013, dopo molte udienze in tribunale e l’annullamento di un ricorso, un tribunale francese ha sentenziato che uno di quegli appassionati di complotti, Phillipe Karsenty, capo dell’organizzazione filoisraeliana “Media Ratings”, era colpevole di diffamazione per aver accusato Enderlin e France 2 di aver messo in scena la sparatoria.

Nessuna giustizia

Per Jamal tutto ciò non fa che aumentare il suo dolore. Non soltanto suo figlio è stato ucciso proprio dietro di lui, ma deve anche affrontare gli “scettici” che girano il coltello nella piaga quando cercano di instillare dubbi circa quel che è successo.

Ed in fin dei conti di certo non c’è stata giustizia per suo figlio. Nessuno ha mai dovuto rendere conto dell’accaduto.

Jamal vuole andare in Francia per sostenere la propria causa nel processo contro Karsenty, ha dichiarato a The Electronic Intifada, nel tentativo di risvegliare l’interesse internazionale sull’assassinio di suo figlio.

Chiede anche che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) denunci Israele davanti alla Corte Penale Internazionale per l’omicidio di suo figlio.

Attualmente disoccupato e dipendente dall’assistenza sociale dell’ANP, continua a ricevere cure di fisioterapia a causa delle ferite subite quel giorno. Ma, dice, l’ANP non è stata di grande aiuto nei suoi tentativi di mantenere viva la questione.

Questo lo lascia perplesso.

L’uccisione di suo figlio, ha dichiarato, forse “non è il crimine più odioso compiuto dall’occupazione…ma è pienamente documentato”.

Mostra il lato più orribile dell’umanità, in cui non c’è alcuna pietà per un bambino e per un padre che cerca di proteggere suo figlio.”

La famiglia, come tutte le famiglie di Gaza, ha dovuto affrontare altre difficoltà. Dopo che Muhammad è stato ucciso, Gaza ha subito tre attacchi militari israeliani devastanti, nel 2008-2009, nel 2012 e nel 2014.

Durante il primo attacco la casa della famiglia Dura è stata bombardata. Jamal ricorda di aver ricevuto un avvertimento in piena notte da qualcuno che gli ha detto che doveva lasciare la casa entro cinque minuti.

Io ho detto ‘siete matti? Entro cinque minuti? Ci sono dei bambini in casa’”, ha dichiarato Jamal a The Electronic Intifada. Ha cercato di guadagnare tempo il più possibile mentre sua moglie Amal faceva uscire di casa i bambini.

Alla fine la persona dall’altra parte ha perso la pazienza ed ha gridato di uscire in meno di 15 minuti.

Questo è l’ IDF (l’esercito israeliano), stiamo per bombardare la casa sulla vostra testa”, ha detto Jamal.

Siamo andati in una casa accanto alla nostra ed abbiamo avvertito i vicini. Poi abbiamo sentito un missile di avvertimento sganciato da un aereo e la casa è stata bombardata.”

La famiglia di 10 persone ha ricostruito la casa. Ma durante l’attacco del 2014 è stata nuovamente danneggiata, questa volta da carri armati.

Ancora una volta la famiglia l’ha dovuta ricostruire.

Amal, la madre di Muhammad, dice di non riuscire a capire come le madri israeliane possano continuare a mandare i loro figli a combattere a Gaza.

Il vostro Paese è democratico. Come possono obbligare i vostri figli ad andare a Gaza a scatenare guerre e costruire barriere intorno a Gaza e alla Cisgiordania?”, ha detto Amal, rivolgendosi alle madri israeliane.

Se amate veramente i vostri figli teneteli a casa. Ogni guerra ne uccide molti come Muhammad.”

Oggi Muhammad avrebbe circa 30 anni.

Anche se suo figlio è morto, quest’anno Jamal ha nuovamente tirato fuori le foto di Muhammad per il suo compleanno, come ha fatto ogni anno dal 2001.

Jamal immagina un mondo diverso, in cui suo figlio è vivo e sposato, ed ha dei bambini.

* Amjad Ayman Yagh è un giornalista che vive a Gaza.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Intifada palestinese: come Israele orchestrò una sanguinosa conquista

Ali Adam

20 settembre 2020 – Al Jazeera

Nel ventesimo anniversario della Seconda Intifada i palestinesi ricordano come Israele cercò di consolidare la sua occupazione.

Gaza City – La Seconda Intifada, comunemente definita dai palestinesi l’Intifada di Al-Aqsa, iniziò dopo che il 28 settembre del 2000 l’allora capo dell’opposizione israeliana Ariel Sharon scatenò la rivolta quando fece irruzione con più di 1.000 poliziotti e soldati pesantemente armati nel complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata.

L’iniziativa scatenò sdegno unanime tra i palestinesi che avevano appena celebrato l’anniversario del massacro del 1982 a Sabra e Shatila [due campi profughi a Beirut in cui i falangisti libanesi, con l’appoggio dell’esercito israeliano occupante, commisero una terribile strage, ndtr.] per il quale Sharon [allora ministro della Difesa israeliano, ndtr.] era stato considerato responsabile per non aver bloccato lo spargimento di sangue, a seguito dell’invasione israeliana del Libano.

Ma già prima della controversa iniziativa di Sharon la frustrazione e la rabbia erano aumentati anno dopo anno tra i palestinesi sullo sfondo del rifiuto dei successivi governi israeliani di rispettare gli accordi di Oslo e porre fine all’occupazione.

Diana Buttu, analista residente a Ramallah ed ex- consigliera dei negoziatori palestinesi a Oslo, dice ad Al Jazeera: “Tutti, compresi gli americani, avevano avvertito gli israeliani che i palestinesi stavano raggiungendo un punto critico, e che fosse necessario acquietare la situazione. Invece alimentarono ancor di più il fuoco.

La visita di Sharon fu la scintilla che accese l’Intifada, ma le sue basi erano state poste negli anni precedenti.”

Secondo gli accordi di Oslo entro il 4 maggio 1999 avrebbe dovuto nascere una Palestina indipendente, nota Buttu, aggiungendo che dall’inizio dei negoziati nel 1993 fino all’inizio dell’Intifada “quello che vedemmo fu una rapida espansione delle colonie israeliane.”

“Di fatto vedemmo che solo nel breve periodo dal 1993 all’anno 2000 il numero dei coloni raddoppiò da 200.000 a 400.000. Si vedeva che quello che stava succedendo sul terreno era progettato per garantire che non ci sarebbe stato uno Stato palestinese indipendente,” afferma.

Soluzioni israeliane”

Le tensioni e la frustrazione crebbero anche dopo il fallimento dei colloqui di pace di Camp David che si tennero nel luglio 2000, quando l’allora leader palestinese Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Ehud Barak non trovarono un accordo di pace a causa delle divergenze sullo status di Gerusalemme, la contiguità territoriale [del futuro Stato palestinese, ndtr.] e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Hani al-Masri, direttore generale di Masarat, il Palestinian Center for Policy Research and Strategic Studies [Centro Palestinese per la Ricerca Politica e gli Studi Strategici, Ong palestinese indipendente, ndtr.] aggiunge: “La principale ragione che stava dietro l’Intifada fu che i dirigenti israeliani volevano punire Arafat e i palestinesi per obbligarli ad accettare le soluzioni israeliane, in sostanza lo status quo dell’occupazione. Intendevano obbligare la coscienza palestinese ad accettare quello che voleva Israele.

Attraverso l’Intifada i palestinesi volevano migliorare le condizioni del dopo Oslo, che avevano raggiunto un punto bassissimo nel summit di Camp David, quando ad Arafat venne chiesto di lasciar perdere Gerusalemme e la questione dei rifugiati.”

Wasel Abu Yusuf, un importante politico palestinese e membro del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) afferma: “Dopo il summit di Camp David, in cui Israele cercò di privare i palestinesi della loro capitale Gerusalemme est, del diritto al ritorno per i palestinesi, così come della contiguità territoriale, il panorama politico si era chiuso in faccia ai palestinesi.

“Con la visita di Sharon Israele voleva provocare i palestinesi perché reagissero con la violenza. Gli israeliani pensarono che, assestando un duro colpo militare ai palestinesi, essi avrebbero ridotto le richieste politiche nei negoziati all’indomani del summit di Camp David.”

Come Israele esacerbò la violenza nella Seconda Intifada

I primi giorni della rivolta vennero caratterizzati da grandi manifestazioni non violente che includevano la disobbedienza civile e qualche lancio di pietre. Iniziò a Gerusalemme e rapidamente si diffuse alla Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est.

Le autorità israeliane reagirono alle manifestazioni con un uso eccessivo della forza che incluse proiettili ricoperti di gomma e pallottole vere. Subito dopo seguirono incursioni militari con il coinvolgimento di elicotteri e carrarmati in zone palestinesi densamente popolate.

Come rivelò Amos Malka, allora direttore dell’intelligence militare israeliana, si stima che durante i primi 5 giorni della Seconda Intifada i soldati israeliani abbiano sparato circa 1.3 milioni colpi di arma da fuoco. Ciò avvenne nonostante il fatto che nelle prime settimane la violenza dei palestinesi fosse minima.

“La violenza israeliana dimostrò che gli israeliani non erano interessati a una rapida fine del conflitto,” dice Abu Yusuf. “Il fatto che Israele abbia sparato più di un milione di proiettili, provocato molte vittime tra i palestinesi e violato i luoghi santi musulmani, tutto ciò dimostra che Israele voleva militarizzare l’Intifada. L’uso eccessivo della forza da parte dell’esercito israeliano intendeva trascinare i palestinesi in uno scontro militare.”

Buttu afferma che i leader israeliani volevano distogliere l’attenzione dalla costruzione delle colonie. “Fu una copertura per tutto quello che avevano voluto fare fino ad allora.”

Nei primi cinque giorni dell’Intifada vennero uccisi 47 palestinesi e altri 1.885 vennero feriti. Amnesty International scoprì che la maggioranza delle vittime palestinesi era composta da spettatori e che l’80% degli uccisi nel primo mese non rappresentava una minaccia letale per le forze israeliane. Durante quello stesso periodo vennero uccisi dai palestinesi cinque israeliani.

Gli analisti hanno a lungo sostenuto che l’uso eccessivo della forza sia stata la ragione per cui la fase della resistenza popolare palestinese nella Seconda Intifada terminò rapidamente e venne rimpiazzata dalla rivolta armata.

“Il livello dell’aggressione israeliana e delle perdite da parte palestinese non consentiva di conservare il carattere non violento dell’Intifada palestinese,” sostiene al-Masri.

Vittime di massa

Parlando della Seconda Intifada, gli israeliani citerebbero gli attentati suicidi palestinesi, ma alcuni osservatori affermano che fu solo dopo più di un mese che i palestinesi subivano mortali attacchi militari che alcuni fecero ricorso alla violenza suicida.

Secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani, nel corso della Seconda Intifada vennero uccisi almeno 4.973 palestinesi. Tra essi ci furono 1.262 minorenni, 274 donne e 32 operatori sanitari.

Secondo Defence for Children International, un’organizzazione indipendente con sede in Svizzera che si dedica alla promozione e alla protezione dei diritti dell’infanzia, più di 10.000 minori rimasero feriti nel corso dei cinque anni dell’Intifada.

Oltre ai morti e ai feriti, l’esercito israeliano demolì più di 5.000 case palestinesi e ne danneggiò in modo irreparabile altre 6.500, secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani.

In generale la Seconda Intifada adottò una resistenza non violenta, ignorata dai principali mezzi di comunicazione, mentre i palestinesi si organizzavano e protestavano in modo non violento contro la campagna militare, le colonie israeliane, le demolizioni di case palestinesi, così come contro la barriera di separazione.

“La stragrande maggioranza della Seconda Intifada fu non violenta. Ciò non venne metodicamente ignorato perché non rientrava nella narrazione tramessa ai media occidentali,” afferma Buttu.

“Ricordo di aver partecipato a molte di quelle manifestazioni a cui gli israeliani risposero con molta violenza. Venni colpita da un proiettile ricoperto di gomma alla gamba destra.”

Durante gli anni dell’Intifada i palestinesi fecero tentativi di porre fine alla violenza, ma gli israeliani rifiutarono questa disponibilità.

Nel febbraio 2003 fonti israeliane rivelarono una proposta presentata dall’Autorità Nazionale Palestinese a Israele. Si impegnava a porre totalmente fine agli attacchi contro Israele in cambio di un graduale ritiro dell’occupazione israeliana alle posizioni precedenti all’Intifada.

Nel 2002, quando Arafat appoggiò l’iniziativa di pace araba lanciata dall’Arabia Saudita, i leader palestinesi rinnovarono i tentativi di porre fine allo scontro militare. Israele, da parte sua, ignorò la proposta e continuò le sue operazioni militari.

Come Israele continui a utilizzare la Seconda Intifada come pretesto

Buttu nota che in seguito Israele ha utilizzato la rivolta per accampare pretese basate sulla necessità di “sicurezza”.

“Iniziarono a fare pesanti richieste per prendersi tutta la valle del Giordano, tutta Gerusalemme, mantenendovi le colonie. In seguito si sono trasformate nella costruzione del muro, nei posti di controllo e nelle basi dell’esercito all’interno della terra palestinese.

“È per questo che il piano di Trump è così com’è oggi. Il piano di Trump si conforma a tutte le richieste che Israele ha posto in seguito alla Seconda Intifada, che Israele ha cercato e voluto.”

Abu Yusuf, politico palestinese, afferma che 20 anni dopo l’inizio della Seconda Intifada Israele rifiuta ancora diritti ai palestinesi in qualunque forma.

“Continua ad espandere le colonie, demolisce case palestinesi e mette in pratica la sua annessione di fatto dei territori palestinesi con l’appoggio dell’amministrazione Trump,” afferma Abu Yussuf.

“Esattamente come 20 anni fa il popolo palestinese, nonostante tutto, è ancora impegnato a resistere contro l’occupazione e per i propri diritti in base alle leggi internazionali, e lo rimarrà finché otterrà la libertà in uno Stato palestinese sovrano e indipendente con Gerusalemme est come capitale e la soluzione del dramma dei rifugiati in base alla risoluzione 194 dell’ONU.

Anni dopo gli attacchi israeliani contro i palestinesi durante la Seconda Intifada, Israele ancora “commette ogni sorta di crimini”, dice al-Masri. “Il silenzio da parte della comunità internazionale è ciò che ancora incoraggia Israele a commettere crimini e flagranti violazioni dei diritti umani.”

Abu Yusuf afferma che le recenti sfide, come il cosiddetto piano per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump, l’annessione israeliana e la normalizzazione tra Israele ed alcune Nazioni Arabe, mirano tutte “a obbligare i palestinesi ad accettare di vivere in cantoni e bantustan [territori destinati alla popolazione nera nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.].”

“Ma come hanno fatto negli anni dell’Intifada e in quelli prima di Oslo, i palestinesi rifiutano di accettare qualcosa meno della fine dell’occupazione e continueranno a farlo ora e in futuro.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




«I palestinesi non hanno mai perso l’occasione di perdere un’occasione»?

Alain Gresh

16 marzo 2020 ORIENT XXI

La citazione è vecchia, ma è stata modificata per favorire una propaganda che addossa ai palestinesi la colpa del fallimento della pace durante questi ultimi decenni. Si era appena dopo la guerra dell’ottobre 1973 e per la prima volta si tenne una conferenza a Ginevra che coinvolse Israele, la Giordania e l’Egitto. Il Cairo, che aveva proposto di invitare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che stava per essere ammessa alle Nazioni Unite come osservatore, si vide opporre un veto israeliano.

Fu in seguito al fallimento di questa conferenza che Abba Eban, allora rappresentante di Israele alle Nazioni Unite, pronunciò questa frase destinata ad essere infinite volte ripetuta e rivolta contro i palestinesi: “Gli arabi non perdono mai l’occasione di perdere un’occasione”, accusa ripresa in occasione del rifiuto dei palestinesi del piano di Trump, che avalla l’annessione da parte di Israele di un terzo della Cisgiordania e di Gerusalemme e la creazione di uno “Stato” palestinese senza alcuna sovranità.

Questa narrazione corrisponde alla realtà? Nel 1982 la Lega Araba riunì i suoi vertici a Fèz: per la prima volta il mondo arabo adottò collettivamente un progetto di pace globale che avrebbe visto riconosciuto il diritto di “tutti gli Stati della regione a vivere in pace”, in cambio della creazione di uno Stato palestinese. Iniziativa storica accettata dall’OLP, respinta da Israele al momento stesso in cui l’insieme del mondo arabo si dichiarava pronto a riconoscerlo.

In seguito alla guerra condotta contro l’Iraq (dopo l’invasione del Kuwait da parte di questo Paese), il 30 ottobre 1991 il presidente George H. Bush presentò un piano di pace e convocò, insieme all’agonizzante URSS, una conferenza a Madrid. Il Primo Ministro israeliano non volle parteciparvi: per una volta Washington torse il braccio a Israele e lo costrinse, sotto minaccia di sanzioni economiche, ad andarci. Ma il veto israeliano contro la presenza dell’OLP fu mantenuto.

Negoziare finalmente con l’OLP

Alla fine Israele negoziò segretamente con l’OLP e nel settembre 1993 firmò insieme ad essa gli Accordi di Oslo. Il loro carattere iniquo saltava agli occhi: l’OLP riconosceva ufficialmente Israele, il quale in cambio si limitava a riconoscere….l’OLP. Tuttavia i palestinesi fecero la scommessa della pace. Speravano che l’autonomia che veniva loro concessa avrebbe portato alla creazione di uno Stato.

Ma l’applicazione degli accordi si procrastinava, mentre la costruzione delle colonie accelerava. Nel settembre 1995, intervenendo al parlamento israeliano, il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin precisò le rivendicazioni del suo Paese:

  • annessione di Gerusalemme e di molte colonie, cioè circa il 15% del territorio della Cisgiordania;
  • creazione del confine di sicurezza di Israele sul fiume Giordano

Un’altra volta, Israele perdeva un’occasione di pace!

Come noto, l’impasse degli accordi di Oslo portò alla seconda Intifada nel contesto di una rinnovata violenza. Per uscirne, il 27 e 28 marzo 2002 si tenne a Beirut un vertice della Lega Araba. Esso propose, con l’avallo dell’OLP, di considerare che il conflitto con Israele fosse terminato e di stabilire delle “normali relazioni con Israele” a tre condizioni:

  • il ritiro totale di Israele dai territori occupati nel 1967;
  • la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale;
  • una soluzione giusta” del problema dei rifugiati.

Nuovo rifiuto israeliano.

La situazione nei territori [palestinesi] occupati si deteriorò, con una repressione israeliana senza precedenti e sanguinosi attentati palestinesi. Fu in questo contesto che il 30 aprile 2003 il Quartetto – composto da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite – adottò una “road map”. Non era un nuovo piano di pace, bensì un quadro che fissava dei parametri e un calendario per favorire i negoziati e la loro applicazione. L’OLP accettò, Israele anche, ma con così tante condizioni da svuotare la proposta di ogni senso.

Dal mese seguente il Primo Ministro Ariel Sharon pretese come requisito per i negoziati la rinuncia da parte dei palestinesi al loro “diritto al ritorno”. Il 2 febbraio 2004 annunciò la sua decisione di smantellare le colonie a Gaza e ritirarsi da quel territorio. Progresso della pace? Egli rifiutò di discutere del ritiro con l’Autorità Nazionale Palestinese – che viveva sotto blocco militare a Ramallah. I suoi consiglieri spiegarono che l’obbiettivo era di allentare la pressione internazionale per colonizzare meglio la Cisgiordania.

Chi è, alla fine, che non ha perso occasione di perdere un’occasione?

Alain Gresh

Esperto di Medio Oriente, è autore di diversi libri, tra cui ‘De quoi la Palestine est-elle le nom?” (Che cosa è ciò che si chiama Palestina?)

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)