Perché i torturatori dello Shin Bet non devono avere paura di essere puniti

Yael Stein

2 febbraio 2021 – +972

Liquidando le accuse allo Shin Bet per il brutale interrogatorio di un detenuto palestinese, il procuratore generale recita il suo ruolo nel nascondere l’approvazione israeliana della tortura.

La scorsa settimana il procuratore generale di Israele Avichai Mandelblit ha annunciato la sua decisione di archiviare un’inchiesta penale contro gli investigatori dello Shin Bet che avrebbero torturato un palestinese accusato di aver perpetrato un attacco violento nella Cisgiordania occupata.

Lo Shin Bet, servizio di sicurezza interna di Israele, ha incarcerato il quarantacinquenne Samer Arbeed dal 25 settembre 2019.[ vedi Zeitun ] L’agenzia lo ha interrogato in quanto sospettato di aver commesso un attentato dinamitardo che nell’agosto 2019 ha ucciso la diciassettenne israeliana Rina Shnerb presso una sorgente nella Cisgiordania occupata.

Secondo quanto riportato dai mezzi di informazione, Arbeed era stato visitato da un medico la notte del suo arresto, poi di nuovo la mattina seguente e ancora una volta quel pomeriggio. Ogni volta sarebbe stato trovato in condizioni “ragionevoli” e riportato all’interrogatorio.

Tuttavia la mattina seguente Arbeed è stato portato in ospedale in condizioni critiche. Gli sono state riscontrate costole rotte e segni di traumi alle gambe, al collo e al torace. Il giorno dopo un funzionario dello Shin Bet ha informato il legale della famiglia che Arbeed era in ospedale, incosciente e collegato a un respiratore.

Scrivere la sceneggiata

Torturare i palestinesi durante gli interrogatori è una prassi di lunga data dello Shin Bet. Eppure è raro che detenuti palestinesi vengano mandati in ospedale in seguito a questi interrogatori violenti.

Il ricovero di Arbeed è finito sulle prime pagine ed ha suscitato pesanti interrogativi riguardo al comportamento dello Shin Bet, spingendo subito i dirigenti israeliani a promettere che la questione sarebbe stata oggetto di riesame.

Il primo intoppo di questa revisione è stato l’Ispettorato per le Denunce contro il Servizio di Sicurezza di Israele, il dipartimento incaricato di prendere in esame i sospetti di comportamenti delittuosi. Nel corso degli anni sono state vagliate dal dipartimento centinaia di denunce; in tutti i casi tranne uno il dipartimento ha concluso che non ci fossero sospetti di comportamento scorretto e li ha archiviati.

La torre di guardia della prigione Gilboa  (Moshe Shai/Flash90)

In genere il processo di insabbiamento finisce lì, ma nel caso di Arbeed lo sceneggiatore della farsa ha deciso di andare avanti ed ha avviato un’inchiesta penale. Gli investigatori sono stati interrogati. Testimoni hanno fatto dichiarazioni. Sono stati sequestrati documenti. Il Centro Nazionale Israeliano di Medicina forense ha persino ordinato un rapporto.

Alla fine, dopo un tempo sufficiente a far sì che il sipario potesse essere calato senza provocare troppi sospetti, il 24 gennaio il procuratore generale ha annunciato di aver chiuso la causa sul caso di Arbeed per “mancanza di basi per sostenere che è stato commesso un reato.”

Perché la base probatoria era così vaga? Non per mancanza di prove. Il fatto è che le azioni dello Shin Bet che hanno mandato in ospedale Arbeed non sono in realtà proibite. Non sono neppure perfettamente legali: ahimé, il Paese più morale al mondo non fa di queste cose. Eppure queste prassi sono profondamente legate ai protocolli interni dello Shin Bet, rendendo inevitabile la conclusione di Mandelblit.

Giustificare la tortura

Ovviamente i dettagli precisi di quello che viene consentito agli investigatori sono tenuti segreti. Ma nel corso degli anni centinaia di testimonianze di palestinesi dipingono un chiaro e orripilante quadro di quello che succede durante questi interrogatori, alcuni dei quali possono durare settimane.

Per iniziare, gli investigatori possono tenere i prigionieri isolati in celle strette, senza luce e sudicie. Possono negare ai detenuti cibo per giorni o dargli solo alimenti avariati, non cotti e immangiabili.

Possono picchiarli e impedire loro di andare in bagno. Possono minacciare di far del male a loro o alle loro famiglie, insultarli e urlargli contro. Possono legarli a una sedia in posizioni che provocano dolore per lunghi periodi. Possono far entrare nelle loro celle raffiche di aria gelida e rifiutarsi di fornire loro coperte.

Possono impedire loro per giorni di fare la doccia, di cambiare vestiti o di lavarsi i denti. Possono negare cure mediche adeguate e privarli del sonno per giorni e giorni.

Niente di tutto questo è contro la legge. La commissione Landau, formata nel 1987 dal governo israeliano, concluse che “una moderata pressione fisica” è l’“unico” metodo che gli investigatori possono utilizzare. Ciò che questo tipo di pressione in realtà indichi non è mai stato definito, anche se il rapporto della commissione includeva un allegato riservato che permetteva ulteriori metodi per estorcere informazioni ai detenuti.

Attivisti il 10 dicembre 2020 a Tel Aviv illustrano le varie tecniche di tortura messe in atto da Shin Bet . (Oren Ziv)

Nella sua famosa sentenza del 1999 l’Alta Corte israeliana ribaltò le conclusioni della Commissione Landau e vietò l’uso di una serie di metodi di tortura. Tuttavia i giudici lasciarono ancora agli investigatori la possibilità di invocare la “necessità di difesa”, giustificando l’uso della tortura e sostenendo che era indispensabile per urgenti ragioni di sicurezza, riferendosi eufemisticamente a cose come una “bomba ad orologeria”.

È per questo che gli investigatori israeliani non hanno necessità di nascondere alcunché ai propri superiori. Al contrario registrano meticolosamente i loro interrogatori in documenti segreti, in cui dichiarano i metodi che utilizzano e per quanto tempo e che possono essere presentati ai tribunali se richiesti. Ci sono anche medici che visitano i detenuti, confermando agli investigatori se le loro condizioni consentono di continuare con gli interrogatori. I giudici approvano sistematicamente la custodia cautelare e spesso prolungano gli ordini per negare assistenza legale ai palestinesi in arresto.

Rifarsi il trucco

Presa nel suo complesso, questa rete di norme e istituzioni serve a Israele come trucco per mascherare il fatto che consente, e persino incoraggia, torture durante gli interrogatori. Questo trucco fa un ottimo lavoro per nascondere le rughe e le atrocità di Israele, ma ogni tanto qualcosa va storto e salta fuori la verità, come nel caso di Samer Arbeed.

Quando ciò avviene le autorità israeliane si impegnano non a togliersi il trucco, ma a spennellarsene ancora un po’. L’autorità giudiziaria israeliana, molto esperta nell’insabbiare questi crimini, si mobilita rapidamente per creare un’apparenza di inchiesta seria e accurata intesa a nascondere la verità. E quando è tutto finito, ognuno tira un respiro di sollievo.

Tutto torna al suo posto, viene data l’approvazione giudiziaria e, cosa più importante, la tortura stessa continua ad essere legale.

Perché, ci si potrebbe chiedere, Israele si affanna tanto a truccarsi? Perché non viene allo scoperto e dice che torturare i palestinesi è accettabile?

Forse perché gli israeliani pensano che “all’estero non capirebbero.” Forse Israele dovrebbe affrontare serie ripercussioni sulla sua politica, e persino subire qualche conseguenza. Ma forse c’è un’altra ragione. La tortura, per sua natura, disumanizza una persona, la rende un guscio vuoto, un oggetto destinato a nuocere. Gli israeliani non vogliono ammettere che è così che essi vedono un altro popolo.

Quando il volto che ti fissa nello specchio diventa insopportabile, ti rimetti subito la maschera.

L’avvocatessa Yael Stein è direttrice di ricerca di B’Tselem.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Netanyahu sta portando il proprio processo fuori dal tribunale

Ben Cospit

25 maggio 2020 Al Monitor

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu intende puntare sul tempo e rimandare il processo che lo riguarda per molti mesi e forse anche anni.

Il 24 maggio una scena una volta ritenuta impossibile è rimasta impressa come in un film. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha presieduto una riunione di governo al mattino ed è apparso in tribunale davanti a tre giudici nel pomeriggio. Il leader onnipotente di Israele ha già battuto il record del primo Primo Ministro israeliano David Ben-Gurion governando per 11 anni consecutivi – e 14 anni in totale. Ora, tuttavia, è sotto processo con l’accusa di corruzione, frode e violazione della pubblica fiducia. Da adesso in poi, Israele si trova di fronte a una situazione senza precedenti: lo stesso Stato muove accuse contro l’uomo che lo guida.

Non c’è dubbio che l’unica persona in grado di produrre uno scenario del genere senza batter ciglio sia lo stesso Netanyahu. A partire da ora, questa immagine farà parte del suo retaggio storico, oscurando tutte le altre sue attività e risultati. Nel prossimo anno e mezzo, prima di passare la propria carica al ministro della Difesa Benny Gantz, Netanyahu farà lo sforzo più ragionato della sua vita per rovesciare tale retaggio e crearsene uno più distinto. Vuole entrare nei libri di storia, non in prigione.

Netanyahu continua a sollevare la posta in gioco quasi ogni giorno. Chiunque pensasse che una volta comparso davanti alla corte avrebbe abbassato la testa, anche solo per la scena, e seguito le regole del gioco, si è sbagliato – e alla grande. Netanyahu ha salito i gradini della corte distrettuale di Gerusalemme alle 14:00 ora locale, un’ora prima dell’inizio del processo. Questo di per sé è insolito per lui. E si è presentato con un contingente di persone desiderose di difenderlo. Era circondato dai ministri del Likud, dai membri del parlamento e da altri a lui vicini, tutti nascosti dietro le mascherine. Si sono presentati per dichiarare: “Anche noi siamo sotto processo”.

Tuttavia, solo Netanyahu ha parlato. Ha pronunciato un lungo discorso bellicoso, lanciando durissime accuse a proposito di ogni fase dell’indagine contro di lui. Ha attaccato tutti, dalla polizia all’ufficio del procuratore di Stato, al procuratore generale Avichai Mandelblit. Con grande eleganza, ha ignorato il fatto di avere lui stesso nominato ai loro incarichi la maggior parte dei suoi inquirenti, tra gli altri il capo della polizia e il procuratore generale, persone considerate a lui vicine, sia politicamente che ideologicamente. Invece, Netanyahu ha tessuto una fantastica teoria della cospirazione, in cui una “mano invisibile” avrebbe trasformato l’intero sistema della legalità israeliana in un meccanismo al servizio del male, manovrato da lontano, con un’unica missione: rimuovere Netanyahu dalla sua carica.

Il punto più basso è stato toccato quando Netanyahu ha fatto ricorso agli orrori dell’Olocausto in propria difesa. Ha citato i sopravvissuti dell’Olocausto, che presumibilmente lo hanno chiamato prima che arrivasse in tribunale per dirgli: “Eravamo nelle foreste in Europa e stiamo pregando per te. I lupi stanno venendo a divorarti. ” Era Netanyahu al suo meglio, che toccava le corde più oscure della nazione, riferendosi alle eredità più sacre per il proprio tornaconto. Nulla è troppo quando si tratta di raggiungere il proprio obiettivo, in questo caso accelerare il processo di delegittimazione dell’intero sistema legale, continuare la politica della terra bruciata e scatenare la guerra totale che ha dichiarato contro tutti coloro che stiano cercando di fargli del male.

Netanyahu è un uomo di talento. È molto intelligente ed è navigato. Sa che i brutali attacchi lanciati da lui e dai suoi messaggeri contro il sistema legale israeliano non lo aiuteranno in tribunale. Se avranno un qualche impatto sui tre giudici, sarà negativo. Ma Netanyahu non è più padrone del suo destino. Sapeva che tutti stavano aspettando di vedere le foto di lui seduto in totale disgrazia nel gabbiotto degli imputati, quindi ha deciso di creare un’immagine di vittoria – una foto di lui in piedi sulle scale del tribunale come un moderno Alfred Dreyfus, che pronuncia il suo discorso di “J’accuse” basato su mezze verità, bugie e fatti irrilevanti, mentre si sbraccia come un pazzo e incolpa tutti tranne se stesso, ovviamente.

Netanyahu sa esattamente cosa sta facendo. La valutazione prevalente è che stia aumentando intenzionalmente la sua popolarità fra una metà del pubblico israeliano, cioè nel campo della destra. Seduto davanti ai suoi giudici non è più padrone del proprio destino. Lo sono loro. Ma mentre nelle piazze le tensioni si gonfiano e le proteste di massa si fanno sentire sempre più forti, finché manterrà il potere politico Netanyahu sarà in grado di negoziare con il procuratore generale un patteggiamento che non includa alcun giorno di prigione e alle condizioni che gli siano più vantaggiose.

Questa è la strategia di Netanyahu. Con la quale può vincere le prossime battaglie, ma c’è anche una ragionevole possibilità che alla fine perda la guerra. Anche l’ex presidente Moshe Katzav al suo processo decise di fare la guerra e attese fino all’ultimo minuto per rifiutare il patteggiamento senza periodo di detenzione che gli fu offerto dall’accusa. Questa decisione alla fine seppellì Katzav. Fu condannato per molestie sessuali con una lunga pena detentiva. Netanyahu sa che dal 24 maggio potrebbe anche ritrovarsi in prigione. Questa è un’altra immagine ancora inconcepibile per il pubblico israeliano. “Re Bibi” nell’uniforme arancione di prigioniero? Dopo tutto quello che abbiamo visto oggi, mai dire mai!

Cosa succede adesso? Gli avvocati che rappresentano Netanyahu – che viene processato insieme all’editore di Yedioth Ahronoth Arnon Mozes e a Shaul Elovitch ex direttore del sito web Walla – stanno giocando sul tempo. Ieri hanno chiesto una dilazione di almeno due mesi prima della prossima udienza e di molti altri mesi fino alla fase probatoria del processo. La strategia di Netanyahu è di attendere fino alla metà del 2021 prima di iniziare la fase probatoria, il che significherebbe che sarebbe di nuovo nel ruolo di primo ministro dopo il termine del previsto mandato di Gantz. Egli spera che allora il processo sia ancora in corso.

Di fronte a questa strategia ci sono tre giudici con la reputazione di duri. È difficile immaginare che la giuria, guidata dal veterano della giustizia Rivka Friedman-Feldman, consentirà a Netanyahu e ai suoi avvocati di trascinare il processo per anni prima di giungere a un verdetto per il primo grado di giudizio. Tutto indica che i giudici perseguiranno un processo rapido con tre sessioni a settimana al fine di completare il procedimento iniziale in due o tre anni al massimo.

Per quel che riguarda Netanyahu, questa è l’ennesima tappa di una guerra senza fine in cui è il perpetuo perdente anche se è un primo ministro che può fare ciò che vuole. Comunque tutti sono contro Netanyahu e Netanyahu è contro tutti. Finora è sempre stato il vincitore. Questa volta, tuttavia, sembra che la vittoria non dipenda da lui, indipendentemente da ciò che fa. Ci sono altri fattori in gioco, e lui non ha alcun controllo su di essi.

(traduzione dall’inglese di Luciana  Galliano)