L’autoritarismo dell’ANP affonda le sue radici negli accordi di Oslo

Yara Hawari

13 settembre 2023 – Al Jazeera

L’Autorità Nazionale Palestinese non è mai stata concepita per costituire un governo democratico e difendere gli interessi del popolo palestinese.

Il 13 settembre 1993 il leader palestinese Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin si strinsero la mano sul prato della Casa Bianca affiancati dal presidente americano Bill Clinton molto compiaciuto. Avevano appena firmato un accordo che sarebbe stato salutato come uno storico accordo di pace che avrebbe posto fine al “conflitto” decennale tra palestinesi e israeliani.

In tutto il mondo la gente festeggiò l’accordo che divenne noto come Accordi di Oslo. Fu ritenuto un grande successo diplomatico. Un anno dopo Arafat e Rabin ricevettero il Premio Nobel per la pace.

Molti palestinesi speravano anche di ottenere finalmente uno Stato sovrano, anche se avrebbe occupato meno del 22% della loro patria originaria. In effetti questa era la promessa degli Accordi di Oslo – un processo graduale verso uno Stato palestinese.

Trent’anni dopo i palestinesi sono più lontani che mai da un proprio Stato. Hanno perso ancora più terra a causa degli insediamenti israeliani illegali e sono costretti a vivere in bantustan sempre più piccoli in tutta la Palestina colonizzata. Ormai è chiaro che Oslo aveva il solo scopo di aiutare Israele a consolidare la sua occupazione e colonizzazione della Palestina.

Peggio ancora, ciò che i palestinesi ottennero dagli accordi di Oslo fu una forma piuttosto perniciosa di autoritarismo palestinese nei territori occupati nel 1967.

Uno dei termini dell’accordo era che alla leadership in esilio dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sarebbe stato permesso di ritornare solo nei territori occupati da Israele nel 1967 – Cisgiordania e Gaza – e le sarebbe stato permesso di creare un governo ad interim noto come come Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per un periodo di cinque anni.

L’Autorità Nazionale Palestinese, composta da membri del partito di Arafat, Fatah, si assunse la responsabilità degli affari del popolo palestinese mentre l’occupazione militare israeliana rimaneva in vigore. Con il sostegno della comunità internazionale e del regime israeliano Arafat perseguì un governo basato sul clientelismo e sulla corruzione, con scarsa tolleranza per il dissenso interno.

Il successore di Arafat, il presidente Mahmoud Abbas, ha continuato sulla stessa strada. Oggi, all’età di 87 anni, non solo è uno dei leader più anziani del mondo, ma ha anche superato da più di 14 anni il suo mandato legale, nonostante il decrescente sostegno al suo governo da parte dei palestinesi.

Da quando è salito al potere Abbas ha più volte indetto in malafede delle elezioni, l’ultima delle quali nel gennaio 2021. Quell’anno le votazioni sono state infine cancellate dopo che l’Autorità Nazionale Palestinese ha accusato il regime israeliano di rifiutarsi di consentire la partecipazione dei palestinesi di Gerusalemme Est occupata.

Questo succedersi di false promesse di elezioni soddisfa temporaneamente il desiderio della comunità internazionale per quella che chiama “democratizzazione” delle istituzioni dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma la realtà è che il sistema è così profondamente corrotto – in gran parte grazie agli Accordi di Oslo – che le elezioni porterebbero inevitabilmente alla continuazione delle strutture di potere esistenti o all’arrivo al potere di un nuovo leader autoritario.

Oltre ad avere un’avversione per le elezioni, Abbas ha anche lavorato sodo per erodere ogni spazio democratico in Cisgiordania. Ha unito tutti e tre i rami del governo – legislativo, esecutivo e giudiziario – in modo che non ci siano controlli sul suo potere. Avendo il controllo assoluto sugli affari palestinesi, governa per decreto. Negli ultimi anni ciò ha portato a processi decisionali sempre più assurdi.

L’anno scorso, ad esempio, ha sciolto il Sindacato dei Medici dopo che il personale medico aveva scioperato. Ha poi creato il Consiglio Supremo degli Organi e dei Poteri Giudiziari e se ne è nominato capo, consolidando così il suo potere sui tribunali e sul Ministero della Giustizia.

Più recentemente, il 10 agosto, ha costretto 12 governatori al pensionamento senza informarli. Molti dei licenziati hanno appreso delle loro dimissioni forzate dai media locali.

Per mantenere il potere Abbas dispone anche di un vasto apparato di sicurezza. Il settore della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, finanziato e formato a livello internazionale, impiega il 50% dei dipendenti pubblici e assorbe il 30% del budget totale dell’Autorità Palestinese – più dell’istruzione, della sanità e dell’agricoltura messe insieme.

Questo apparato è responsabile di un’enorme quantità di violazioni dei diritti umani, tra cui l’arresto di attivisti, le minacce nei confronti dei giornalisti e la tortura dei detenuti politici.

In molti casi, la repressione da parte dell’apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese è complementare a quella israeliana. Ad esempio, nel 2021, durante quella che divenne nota come Intifada dell’Unità [le mobilitazioni che nel maggio del 2021 coinvolsero anche i palestinesi cittadini israeliani, ndt.], molti attivisti furono arrestati e brutalmente interrogati dalle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. Quest’anno, dopo l’invasione del campo profughi di Jenin da parte delle forze del regime israeliano, l’Autorità Nazionale Palestinese ha arrestato molti dei presenti sul campo che erano stati precedentemente incarcerati dagli israeliani in una pratica nota come “porta girevole”.

In effetti una delle clausole degli Accordi di Oslo era che l’Autorità Nazionale Palestinese dovesse cooperare pienamente con il regime israeliano nelle questioni di “sicurezza”. Per soddisfare questa disposizione l’apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese ha lavorato sodo per sopprimere qualsiasi attività ritenuta una minaccia dal regime israeliano.

L’ANP consegna costantemente informazioni sulla sorveglianza dei palestinesi all’esercito israeliano e non fa nulla per contrastarne gli attacchi mortali contro villaggi, città e campi palestinesi che si ripetono a cadenze regolari. In effetti le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese lavorano fianco a fianco con il regime israeliano per reprimere la resistenza palestinese.

Infatti, date le disposizioni degli accordi di Oslo, l’Autorità Nazionale Palestinese non avrebbe potuto essere diversa. Un organo di governo responsabile nei confronti dei donatori internazionali che lo finanziano e del regime israeliano che mantiene il controllo finale non avrebbe mai potuto essere al servizio del popolo palestinese.

Sorprendentemente l’idea che gli accordi di Oslo siano stati un processo di pace ben intenzionato, ma fallito, ha ancora una forte presa in alcuni ambienti occidentali. La verità è che gli artefici di Oslo non erano interessati alla creazione di uno Stato palestinese o alla liberazione, ma volevano piuttosto trovare un modo per convincere la leadership palestinese ad accettare tranquillamente la capitolazione e a sopprimere ogni ulteriore resistenza della base.

Questi accordi hanno incoraggiato e sostenuto l’autoritarismo dell’ANP perché è funzionale a quegli obiettivi. In sostanza Oslo non ha portato la pace ai palestinesi, ma un altro grosso ostacolo alla loro liberazione.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele teme di essere paragonato al regime di apartheid

10 gennaio 2022 – Middle East Monitor

Gli allarmi recentemente espressi da Yair Lapid, Ministro degli Esteri israeliano, riguardo all’insistenza di coloro che ha descritto come nemici dell’occupazione in quanto descrivono la politica israeliana nei confronti dei palestinesi “uno Stato di apartheid”, che equivale a dire “regime di apartheid”, stanno tuttora provocando ulteriori reazioni interne ad Israele ed anche malumori che si stanno diffondendo nella comunità diplomatica israeliana.

Gli israeliani sono spaventati da ciò che considerano una politica adottata dalle organizzazioni per i diritti umani per stravolgere la reputazione dello Stato di occupazione e paragonarlo al sistema di apartheid dominante in Sudafrica decenni fa, basato sull’etnicità e sulla separazione tra bianchi e africani neri, che erano la grande maggioranza. Questo sistema è stato predominante per oltre 40 anni in una situazione di disprezzo, poiché i neri erano privati del diritto al voto e di altre libertà.

Dan Perry, che scrive sul sito “The Times of Israel” [principale quotidiano israeliano in lingua inglese, ndtr.] ed è capo dell’Associazione Stampa Estera, ha affermato nel suo articolo tradotto da “Arabi 21” che “i timori israeliani sono dovuti agli sforzi delle organizzazioni giuridiche internazionali per i diritti umani di paragonare la politica israeliana verso i palestinesi a ciò che è avvenuto in passato ai neri in Sudafrica. Oggi essi sono perseguitati negli Stati Uniti; sono privati della maggior parte dei diritti e vengono considerati vittime di apartheid da parte di un gruppo etnico di minoranza.”

Ha aggiunto che “le posizioni delle forze anti-israeliane ritengono che vi sia un’ampia base originaria comune tra i Paesi che praticano l’apartheid, come il precedente regime sudafricano ed ora gli Stati Uniti insieme a Israele, che pratica la stessa politica verso i palestinesi in Cisgiordania, attuando una politica genocidaria e collegando i palestinesi al termine ‘illegale’ senza alcun riferimento alle colonie israeliane.”

Prendendo in esame le statistiche, gli israeliani sono preoccupati dal fatto che la maggioranza della popolazione mondiale è nata dopo il crollo del regime di apartheid in Sudafrica. Perciò le persone si affrettano a descrivere Israele con la stessa immagine, cosa che richiede che Israele si attivi per impedire l’uso dell’espressione “sistema di apartheid”, anche se controlla le terre palestinesi da 54 anni. Non si prevede che modificherà la sua politica ostile verso di loro. Adesso costruisce colonie per ebrei e crea delle università in quei luoghi, nonostante il biasimo del mondo.

Al tempo stesso ciò che rafforza la riproposizione a livello mondiale del concetto di governo di apartheid è il fatto che le terre dell’Autorità Nazionale Palestinese sono diventate delle isole circondate da territori sotto il controllo totale dell’esercito israeliano. Ciò provoca un deprimente riconoscimento dei bantustan, che ricordano a tutto il mondo la situazione dominante negli anni ’70 e ’80 sotto il regime sudafricano. Forse la politica praticata dalle forze di occupazione contro i palestinesi è razzismo.

Vale la pena di ricordare che le pessimistiche previsioni israeliane ipotizzano che nel nuovo anno 2022 si assisterà ad una campagna da parte delle organizzazioni internazionali e dell’ONU per scegliere termini e parole collegati all’apartheid in relazione alle politiche israeliane verso i palestinesi, cosa che ha spinto il Ministero degli Esteri israeliano e le rappresentanze diplomatiche in tutto il mondo a lanciare un allarme per contrastare ciò che ritengono uno tsunami politico contro di loro.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




È ora che Israele e l’Occidente riconoscano che la soluzione dei due-Stati è morta

 

 

È ora che Israele e l’Occidente riconoscano che la soluzione dei due-Stati è morta

Un recente sondaggio rivela che persino gli esperti occidentali e israeliani sanno che due Stati in Palestina sono impossibili.

Haidar Eid*

19 settembre 2021 – Al Jazeera

 

Lo scorso agosto l’autorevole rivista USA Foreign Affairs ha condotto un sondaggio sulla soluzione dei due Stati in Palestina fra “autorità con conoscenze specialistiche e i maggiori generalisti del campo”. I 64 esperti dovevano rispondere alla domanda “la soluzione dei due Stati al conflitto israelo-palestinese non è più praticabile?” e spiegare la propria posizione con un breve commento.

La metà ha risposto che la soluzione dei due Stati non è morta, sette non si sono espressi e 25 hanno risposto di sì – quella soluzione è morta.

Tra chi ha risposto di no, qualcuno ha tuttora oppure ha avuto in precedenza a che fare con istituti di ricerca sionisti, quali il Washington Institute for Near East Policy. Uno di loro è Martin Indyk, ex ambasciatore USA allo Stato segregazionista di Israele, che prima di iniziare la carriera diplomatica ha prestato servizio come vicedirettore per la ricerca dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, considerata la più potente lobby negli USA, che sostiene lo Stato di Israele, ndtr].

L’elenco comprende anche Dennis Ross e altri fortemente impegnati nel cosiddetto “processo di pace”, una storia infinita il cui obiettivo è salvaguardare lo Stato segregazionista di Israele e liquidare del tutto i diritti basilari dei palestinesi.

Ovviamente chi ha avuto parte nel “processo di pace” continua a restare attaccato all’illusione che sia possibile instaurare un bantustan [territori del Sudafrica riservati alle popolazioni native dal governo sudafricano nell’epoca dell’apartheid, ndtr.] palestinese.

Chi ha difeso la soluzione dei due Stati ha ammesso che alcune “barriere” ne ostacolano la realizzazione; fra queste la più citata è stata “la mancanza di volontà politica” da “entrambe le parti”. Qualcuno ha persino suggerito che la responsabilità sia esclusivamente della dirigenza palestinese, in quanto Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese non hanno il sostegno del popolo palestinese necessario per fare i sacrifici richiesti ed accettare l’apartheid e le politiche di insediamento coloniale di Israele.

È curioso che alcuni di quelli che non si sono espressi abbiano preferito adottare una posizione relativista post-moderna su un tema di libertà, uguaglianza e giustizia – perché ciò altro non è. Altri ancora hanno adottato un approccio alla questione palestinese incentrato sui diritti umani, rifiutandosi di assumere una posizione politica.

Sta a ciascuno giudicare che cosa significhi restare “neutrali” su un’evidente questione di giustizia. Solo pochi decenni fa chi avrebbe osato essere “neutrale” sulla fine dell’apartheid in Sudafrica?

In generale gran parte dei sostenitori della soluzione dei due Stati nel mondo accademico, nei circoli di politica estera e così via sono israeliani, americani o europei che non trovano nulla da ridire su un progetto di insediamento coloniale. I pochi palestinesi che sono a favore di questo approccio razzista alla questione palestinese non riconoscono i fatti compiuti: il sistema fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo è in realtà quello di un unico Stato, uno Stato di apartheid dove una comunità gode di tutti i privilegi di cittadinanza, mentre l’altra è privata dei suoi diritti umani fondamentali.

È piuttosto difficile non notare il razzismo e l’ingiustizia connaturati alla realtà segregazionista in Palestina, dove a soffrire non sono soltanto i palestinesi che vivono nei territori occupati dal 1967, come lascia intendere la domanda di Foreign Affairs.

Da parte mia, ho partecipato al sondaggio credendo che fosse importante far sentire la mia voce di palestinese. Ecco ciò che ho scritto nel limitato spazio a disposizione:

“Oltre al fatto che Israele ha intrapreso passi irreversibili che hanno reso impossibile questa soluzione – ossia l’espansione delle colonie ebraiche; l’annessione di altra terra in Cisgiordania oltre che a Gerusalemme; la costruzione del muro dell’apartheid che separa i palestinesi da altri palestinesi; il blocco della Striscia di Gaza; l’approvazione da parte della Knesset della razzista Nation-State Law [Legge sullo Stato-Nazione: questa legge, approvata dal parlamento israeliano nel 2018, restringe ai cittadini ebrei il diritto di autodeterminazione, legittimando così la discriminazione dei cittadini non ebrei, ndtr] – in linea di principio la soluzione dei due Stati non garantisce al popolo palestinese i diritti fondamentali previsti dal diritto internazionale (l’uguaglianza e il diritto al ritorno). Una soluzione di tipo bantustan è una soluzione razzista per antonomasia.”

Che una pubblicazione USA così autorevole sollevi questa domanda sulla realtà dei due Stati in Palestina e si assicuri che ci siano voci palestinesi fra gli intervistati è sicuro indizio della capacità dei palestinesi di fare sentire la propria voce nel cuore dell’impero. È anche rivelatrice del fatto che lentamente ma inesorabilmente il dibattito internazionale sulla Palestina si sta allontanando dagli argomenti del “processo di pace” o della “intransigenza” della dirigenza palestinese.

Se un intervistato ha espresso totale sconcerto per la semplice decisione da parte di Foreign Affairs di fare una simile domanda, ciò dà evidentemente fastidio ai sionisti USA e israeliani. Il tono difensivo adottato in molte delle risposte negative alla domanda indica che persino i più accaniti sostenitori di Israele sono consapevoli che la soluzione dei due Stati non può risolvere la questione palestinese e che essa è già morta a causa delle politiche israeliane di apartheid in Palestina.

L’alternativa è evidente: uno Stato unico per tutti gli abitanti della Palestina storica, senza distinzione di razza, etnia e religione; uno Stato simile al Sudafrica post-apartheid, che non sia basato sulla oppressione di una comunità da parte di un’altra. Non si può arrivare ad una vera soluzione della questione palestinese se si parte da idee razziste sulla separazione dei popoli. Soltanto il recupero dell’identità multiculturale della Palestina, che sia davvero inclusiva, laica e democratica, può portare ad una pace duratura non solo fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ma anche oltre.

*Haidar Eid è professore associato all’Università Al-Aqsa di Gaza.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




È apartheid, dicono gli ambasciatori di Israele in Sudafrica

Ilan Baruch e Alon Liel

8 giugno 2021 – GroundUp

È chiaro più che mai che l’occupazione non è temporanea e che non c’è una volontà politica del governo israeliano di porvi fine.”

Nel corso delle nostre carriere nel corpo diplomatico siamo stati entrambi ambasciatori di Israele in Sudafrica. Ricoprendo questo ruolo abbiamo fatto esperienza diretta con la realtà dell’apartheid e con gli orrori che ha inflitto. Ma oltre a ciò, l’esperienza e la conoscenza che abbiamo acquisito in Sudafrica ci hanno aiutato a comprendere la realtà della nostra patria.

Per oltre cinquant’anni Israele ha governato i territori palestinesi occupati con un sistema legale a due regimi, secondo cui in Cisgiordania, nello stesso territorio, i coloni israeliani sono soggetti alla legge civile israeliana mentre i palestinesi sono soggetti alla legge militare. Il sistema contiene un’intrinseca diseguaglianza. In questo contesto, Israele ha operato per cambiare sia la geografia che la demografia della Cisgiordania tramite la costruzione di insediamenti che sono illegali ai sensi del diritto internazionale.

Israele ha sviluppato progetti per collegare tali insediamenti a Israele propriamente detto con investimenti intensivi per lo sviluppo di infrastrutture e di una vasta rete di superstrade, servizi idrici ed elettrici che hanno trasformato l’impresa degli insediamenti in un’agiata periferia. Questo è successo in contemporanea con l’esproprio e l’occupazione di enormi quantità di terra palestinese, inclusi sfratti e demolizioni di case palestinesi. Ciò significa che gli insediamenti sono costruiti e ampliati a spese delle comunità palestinesi che sono finite confinate in tratti di territorio sempre più piccoli.

Questa situazione ci ricorda una storia che l’ex ambasciatore Avi Primor ha descritto nella sua autobiografia a proposito di un viaggio in Sudafrica agli inizi degli anni ’80 con Ariel Sharon, allora ministro della Difesa. Durante la visita, Sharon aveva espresso grande interesse per il progetto dei bantustan. Anche solo una rapida occhiata alla mappa della Cisgiordania lascia pochi dubbi su dove Sharon abbia tratto ispirazione.

Oggi la Cisgiordania consiste di 165 “enclavi”, cioè comunità palestinesi circondate da territori occupati dagli insediamenti. Nel 2005, con lo smantellamento delle colonie di Gaza e l’inizio dell’assedio, essa è diventata semplicemente un’altra enclave, un territorio senza autonomia, circondato per la gran parte da Israele e perciò anch’esso controllato da Israele.

I bantustan del Sudafrica in regime di apartheid e la mappa dei territori palestinesi occupati oggi sono basati sulla stessa idea di concentrare la popolazione “indesiderabile” nell’area più piccola possibile, in una serie di enclavi non contigue. Cacciando gradualmente queste popolazioni dalle loro terre e ammassandole in sacche densamente popolate e frammentate, sia il Sudafrica allora, che Israele oggi, hanno operato per impedire l’autonomia politica e una vera democrazia.

Questa settimana commemoriamo i 55 anni dall’inizio dell’occupazione della Cisgiordania. È chiaro ora più che mai che l’occupazione non è temporanea e che non c’è la volontà politica del governo israeliano per porvi fine. s Human RightWatch [notissima ong per i diritti umani con sede negli USA, ndtr.] ha recentemente concluso che Israele ha varcato la soglia e che le sue azioni nei territori occupati ora rispondono alla definizione giuridica di crimine di apartheid secondo il diritto internazionale.

Israele è il solo potere sovrano che opera in questa terra e discrimina sistematicamente in base a nazionalità ed etnia. Tale realtà è, come abbiamo visto noi stessi, apartheid. È ora che il mondo riconosca che quello che abbiamo visto in Sudafrica decenni fa sta succedendo anche nei territori palestinesi occupati.

E proprio come il mondo si è unito nella lotta contro l’apartheid in Sudafrica, è ora che intervenga con un’azione diplomatica decisiva nel nostro caso e operi per costruire un futuro di uguaglianza, dignità e sicurezza sia per i palestinesi che per gli israeliani.

Ilan Baruch ha ricoperto la carica di ambasciatore di Israele in Sudafrica, Namibia, Botswana e Zimbabwe.

Alon Liel ha ricoperto la carica di ambasciatore di Israele in Sudafrica e di direttore generale del Ministero degli affari esteri israeliano.

Le opinioni espresse non sono necessariamente quelle di GroundUp.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Comunicato Relatori speciali ONU contro l’annessione,l’apartheid e l’occupazione

Ginevra 16 giugno 2020

Comunicato Esperti Onu

L’annessione israeliana di parti della Cisgiordania palestinese violerebbe il diritto internazionale – gli esperti dell’ONU chiedono alla comunità internazionale che ne paghi le conseguenze.

GINEVRA (16 giugno 2020) – Oggi esperti dell’Onu hanno detto che l’accordo del nuovo governo di coalizione di Israele per annettere dopo il 1° luglio ampie zone della Cisgiordania palestinese occupata violerebbe un principio fondamentale del diritto internazionale e deve essere contrastato in modo efficace dalla comunità internazionale. Quarantasette degli inviati indipendenti per le procedure speciali nominati dalla Commissione per i diritti umani hanno rilasciato la seguente dichiarazione:

L’annessione dei territori occupati è una grave violazione della Carta delle Nazioni Unite e delle Convenzioni di Ginevra ed è contraria alle norme fondamentali più volte affermate dal Consiglio di Sicurezza e dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, secondo cui l’acquisizione di territori con la guerra o con la forza è inammissibile.

La comunità internazionale ha vietato l’annessione proprio perché incita a guerre, devastazioni economiche, instabilità politica, sistematiche violazioni dei diritti umani e diffuse sofferenze.

I piani dichiarati da Israele per l’annessione estenderebbero la sovranità su gran parte della Valle del Giordano e su tutti gli oltre 235 insediamenti israeliani illegali in Cisgiordania. Ciò equivarrebbe a circa il 30% della Cisgiordania. L’annessione di questo territorio è stata approvata dal Piano Americano di Pace per la Prosperità, reso noto alla fine di gennaio 2020.

Le Nazioni Unite hanno dichiarato in molte occasioni che l’occupazione israeliana, che risale a 53 anni fa, è fonte di gravissime violazioni dei diritti umani contro il popolo palestinese. Queste violazioni includono confisca di terre, violenza dei coloni, leggi di pianificazione urbanistica discriminatorie, confisca delle risorse naturali, demolizione delle case, trasferimento forzato della popolazione, uso eccessivo della forza e tortura, sfruttamento del lavoro, violazioni estese dei diritti alla privacy, restrizioni sui media e sulla libertà di espressione, prendere di mira le donne attiviste e i giornalisti, detenzione di minorenni, avvelenamento da esposizione a rifiuti tossici, sfratti ed espulsioni forzate, deprivazione economica e povertà estrema, detenzione arbitraria, mancanza di libertà di movimento, insicurezza alimentare, applicazione discriminatoria delle leggi e imposizione di un sistema a due livelli di diritti politici, legali, sociali, culturali ed economici diversi in base all’etnia ed alla nazionalità. I difensori dei diritti umani palestinesi e israeliani, che portano pacificamente l’attenzione dell’opinione pubblica su queste violazioni, sono calunniati, criminalizzati o etichettati come terroristi. Soprattutto, l’occupazione israeliana ha significato la negazione del diritto all’ autodeterminazione dei palestinesi.

Dopo l’annessione queste violazioni dei diritti umani non farebbero che intensificarsi. Ciò che rimarrebbe della Cisgiordania sarebbe un Bantustan palestinese, isole di territorio completamente scollegate, circondate da Israele e senza alcun legame territoriale con il mondo esterno. Recentemente Israele ha promesso che manterrà il controllo permanente della sicurezza tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Quindi il giorno dopo l’annessione sarebbe la cristallizzazione di una realtà già di per sé ingiusta: due popoli che vivono nello stesso spazio, governati dallo stesso Stato, ma con diritti profondamente disuguali. Questa è la visione di un’apartheid del XXI secolo.

Già per due volte in precedenza Israele ha annesso territori occupati – Gerusalemme Est nel 1980 e le Alture del Golan siriane nel 1981. In entrambe le occasioni il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha immediatamente condannato le annessioni come illegali, ma non ha preso alcuna contromisura significativa per opporsi alle azioni di Israele.

Allo stesso modo, il Consiglio di Sicurezza ha ripetutamente criticato le colonie israeliane in quanto flagrante violazione del diritto internazionale. Tuttavia, la sfida di Israele a queste risoluzioni e il suo continuo rafforzamento delle colonie è rimasto senza risposta da parte della comunità internazionale.

Questa volta deve essere diverso. La comunità internazionale ha la grave responsabilità giuridica e politica di difendere un ordine internazionale basato su regole, di opporsi alle violazioni dei diritti umani e dei principi fondamentali del diritto internazionale e di dare attuazione alle sue numerose risoluzioni che criticano la condotta da parte di Israele durante questa prolungata occupazione. In particolare, gli Stati hanno il dovere di non riconoscere, aiutare o assistere un altro Stato in qualsiasi forma di attività illegale, come l’annessione o la creazione di insediamenti civili in territorio occupato. Le lezioni del passato sono chiare: le critiche senza conseguenze non impediranno l’annessione né porranno fine all’occupazione.

La responsabilizzazione e la fine dell’impunità devono diventare una priorità immediata per la comunità internazionale. Essa ha a sua disposizione un’ampia gamma di misure di responsabilizzazione che sono state ampiamente applicate e con successo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU in altre crisi internazionali negli ultimi 60 anni. Le misure di responsabilizzazione che vengono selezionate devono essere prese in piena conformità con il diritto internazionale, essere proporzionate, efficaci, soggette a revisione periodica, coerenti con i diritti umani, umanitari e con il diritto dei rifugiati, progettate per annullare le annessioni e por fine all’occupazione e al conflitto in modo giusto e duraturo. I palestinesi e gli israeliani non meritano di meno.

Esprimiamo grande rammarico per il ruolo degli Stati Uniti d’America nel sostenere e incoraggiare i piani illegali di Israele per l’ulteriore annessione dei territori occupati. Negli ultimi 75 anni in molte occasioni gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo importante nel promuovere i diritti umani a livello mondiale. In questa occasione dovrebbero opporsi decisamente all’imminente violazione di un principio fondamentale del diritto internazionale, piuttosto che favorirne concretamente la violazione”.

(*) Gli esperti:

Mr. Michael Lynk, Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian Territory occupied since 1967; Ms. Agnès Callamard, Special Rapporteur on extrajudicial, summary or arbitrary executions; Mr. Ahmed Reid (Chair), Ms. Dominique Day, Mr. Michal Balcerzak, Mr. Ricardo A. Sunga III, and Mr. Sabelo Gumedze, Working Group of experts on people of African descent;Ms. Alena Douhan, Special Rapporteur on the negative impact of the unilateral coercive measures on the enjoyment of human rights; Ms Alice Cruz, Special Rapporteur on the elimination of discrimination against persons affected by leprosy and their family members, Ms. Anaïs Marin, Special Rapporteur on the situation of human rights in Belarus; Mr. Aristide NONONSI, Independent Expert on the situation of human rights in the Sudan; Mr. Alioune Tine,Independent Expert on the situation of human rights in Mali; Mr. Balakrishnan Rajagopal, Special Rapporteur on adequate housing as a component of the right to an adequate standard of living, and on the right to non-discrimination in this context; Mr. Baskut Tuncak, Special Rapporteur on human rights and hazardous substances and wastes; Ms. Catalina Devandas-Aguilar, Special Rapporteur on the rights of persons with disabilities; Ms. Cecilia Jimenez-Damary, Special rapporteur on the human rights of internally displaced persons; Mr. Chris Kwaja (Chair), Ms. Jelena Aparac, Ms. Lilian Bobea, Mr. Saeed Mokbil,Ms. Sorcha MacLeod, Working Group on the use of mercenaries as a means of violating human rights and impeding the exercise of the right of peoples to self-determination; Ms. Claudia Mahler, Independent Expert on the enjoyment of all human rights by older persons; Mr. Clément Nyaletsossi Voule, Special Rapporteur on the right to peaceful assembly and association; Mr. Dainius Pūras, Special Rapporteur on the right to physical and mental health; Mr. David Kaye, Special Rapporteur on the promotion and protection of the right to freedom of expression; Mr. David R. Boyd, Special Rapporteur on human rights and the environment; Mr. Diego García-Sayán, UN Special Rapporteur on the independence of judges and lawyers; Ms. Dubravka Šimonovic, Special Rapporteur on violence against women, its causes and consequences; (Chair) Ms. Elizabeth Broderick (Vice Chair) Ms. Melissa Upreti, Ms. Alda Facio, Ms. Ivana Radačić, Ms. Meskerem Geset Techane, Working Group on discrimination against women and girls; Mr. Fernand de Varennes, Special Rapporteur on minority issues; Ms. Fionnuala D. Ní Aoláin, Special Rapporteur on the promotion and protection of human rights and fundamental freedoms while countering terrorism; Mr. Githu Muigai (Chair), Ms. Anita Ramasastry (Vice-chair), Mr. Dante Pesce, Ms. Elżbieta Karska, and Mr. Surya Deva, UN Working Group on Business and Human Rights; Ms. Isha Dyfan, Independent Expert on the situation of human rights in Somalia; Mr. Joe Cannataci, Special Rapporteur on the right to privacy; Mr. José Francisco Calí Tzay, Special Rapporteur on the rights of indigenous peoples;Mr. José Antonio Guevara Bermúdez (Chair), Ms. Elina Steinerte (Vice-Chair), Ms. Leigh Toomey (Vice-Chair), Mr. Seong-Phil Hong, and Mr. Sètondji Adjovi, Working Group on Arbitrary Detention; Ms. Karima Bennoune, Special Rapporteur in the field of cultural rights; Ms. Kombou Boly Barry, Special Rapporteur on the right to education; Mr. Léo Heller,Special Rapporteur on the human rights to water and sanitation; Mr. Livingstone Sewanyana, Independent Expert on the promotion of a democratic and equitable international order; Ms. Mama Fatima Singhateh, Special Rapporteur on sale and sexual exploitation of children; Ms Maria Grazia Giammarinaro, Special Rapporteur on trafficking in persons, especially women and children; Ms. Mary Lawlor, Special Rapporteur on the situation of human rights defenders; Mr. Michael Fakhri, Special Rapporteur on the right to food; Mr. Nils Melzer, Special Rapporteur on torture and other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment; Mr. Obiora C. Okafor, Independent Expert on human rights and international solidarity,Mr. Olivier De Schutter, Special Rapporteur on extreme poverty and human rights; Mr. Saad Alfarargi, Special Rapporteur on the right to development; Ms. E. Tendayi Achiume, Special Rapporteur on Contemporary Forms of Racism; Mr. Thomas Andrews. Special Rapporteur on the situation of human rights in Myanmar; Mr. Tomás Ojea Quintana, Special Rapporteur on the situation of human rights in the Democratic People’s Republic of Korea; Mr. Tomoya Obokata, Special Rapporteur on contemporary forms of slavery, including its causes and consequences; Mr. Victor Madrigal-Borloz, Independent Expert on protection against violence and discrimination based on sexual orientation and gender identity; Ms. Yuefen LI, Independent Expert on the effects of foreign debt and other related international financial obligations of States on the full enjoyment of all human rights, particularly economic, social and cultural rights; Mr. Yao Agbetse, Independent Expert on the situation of human rights in Central African Republic

Gli osservatoti speciali fanno parte di quelle che sono note come le Procedure Speciali della Commissione per i Diritti Umani. Procedure Speciali, l’ente più grande di esperti indipendenti nel sistema dell’ONU per i Diritti Umani, è il nome complessivo del sistema di accertamento dei fatti e dei meccanismi di controllo che si occupano sia della situazione di Paesi specifici sia di questioni tematiche in ogni parte del mondo. Gli esperti delle Procedure Speciali lavorano su base volontaria: non fanno parte del personale dell’ONU e non ricevono uno stipendio per il loro lavoro. Non dipendono da nessun governo o organizzazione e prestano servizio nell’ambito delle loro competenze individuali.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele/Cisgiordania. Yehoshua: “L’annessione è apartheid. È tempo di uno Stato unico”.

 Michele Giorgio 

16 maggio 2020, Nena News da Il Manifesto

Dialogo con lo scrittore israeliano divenuto sostenitore di uno Stato per ebrei e palestinesi insieme. «In Cisgiordania – spiega – nello spazio di un chilometro trovi gli abitanti di una colonia israeliana con pieni diritti e quelli di un villaggio palestinese che invece diritti non ne hanno. Non è accettabile»

 Il Tunnel di A.B. Yehoshua non è un romanzo a sfondo politico, o almeno non lo è nella sua finalità originaria. Il protagonista, Zvi Luria, è un ingegnere che fa i conti con il declino delle sue facoltà mentali e che deve trovare un compromesso con la sua malattia.

Il racconto, con tratti autobiografici, di Yehoshua tuttavia include due episodi con un significato politico.

Nel primo Luria va al kibbutz Sde Boker a visitare la tomba di David Ben-Gurion, uno dei principali leader sionisti e padre fondatore di Israele.

Nel secondo, trovandosi di fronte a una famiglia palestinese che vive sul percorso della strada che sta costruendo nel deserto del Negev, pensa che non vada espulsa e di dover costruire un tunnel sotto quell’abitazione.

La visita di Zvi Luria alla tomba di Ben Gurion è un omaggio o un addio al Sionismo classico che l’83enne Yehoshua ha abbracciato per quasi tutta la sua vita? Il tunnel alternativo all’espulsione della famiglia palestinese è il segnale di strada diversa che lo scrittore propone per il rapporto con i palestinesi in Israele e nei Territori occupati?

Yehoshua non risponde direttamente questi interrogativi durante la conversazione telefonica che abbiamo avuto con lui sul tema dell’annessione unilaterale a Israele di una larga porzione di Cisgiordania palestinese al centro del programma del nuovo governo Netanyahu atteso oggi al giuramento.

«Spero che Netanyahu non muova questo passo (l’annessione), finirebbe per rafforzare l’apartheid che già esiste in Cisgiordania», ci dice lo scrittore, uno degli autori israeliani più conosciuti e tradotti all’estero.

«Ci sono Bantustan palestinesi» prosegue «non so come altro potrei definirli. In Cisgiordania nello spazio di un chilometro trovi gli abitanti di una colonia (israeliana) che godono di pieni diritti e quelli di un villaggio palestinese che diritti invece non ne hanno. E questo non è accettabile».

Apartheid, Bantustan, termini che Yehoshua usa sempre più spesso da qualche tempo a questa parte. Una netta frattura rispetto al passato recente in cui lo scrittore è stato un accanito sostenitore della «separazione» tra ebrei e arabi e che inizialmente vide nel Muro fatto costruire da Ariel Sharon in Cisgiordania parte della soluzione dei problemi.

Oggi pensa che la soluzione invece sia uno Stato unico, binazionale, per ebrei e palestinesi su tutta la Palestina storica, unica possibilità per evitare l’apartheid. «Israele di fatto è già uno Stato binazionale» spiega «due milioni di palestinesi sono cittadini di Israele, lavorano negli ospedali come medici e infermieri, svolgono tutte le attività professionali, sono ovunque pur soffrendo delle discriminazioni. E 72 anni dopo (dalla nascita di Israele, oggi è l’anniversario, ndr), sulla base di questa lunga esperienza, dico che come i palestinesi in Israele anche quelli della Cisgiordania possono e devono ottenere residenza e cittadinanza. Possiamo vivere insieme in un unico Stato, senza annullare le nostre rispettive identità».

Yehoshua peraltro non esclude che nello Stato unico che ha in mente un palestinese possa diventare premier di Israele: «Perché no?» ci dice.

Lo Stato per ebrei e arabi di Yehoshua non è uguale a quello che è oltre il Sionismo, il nazionalismo, il colonialismo che teorizzano l’accademico Ilan Pappè e altri intellettuali, studiosi e attivisti ebrei e palestinesi. Ma senza dubbio è una voce autorevole fuori dal coro del sostegno acritico a qualsiasi politica di Israele nei confronti del territorio e dei palestinesi. E contro il mantra della soluzione a Due Stati, Israele e Palestina.

«Quell’idea è morta – conclude lo scrittore – l’hanno uccisa le tante colonie (israeliane) che sono state costruite negli ultimi decenni con l’approvazione degli Stati uniti. L’Europa protesta eppure sino ad oggi non ha fatto nulla di concreto, proprio nulla, per fermare la colonizzazione israeliana».

Parole che avrebbero dovuto ascoltare i ministri degli esteri dell’Ue che ieri pomeriggio si sono riuniti per discutere delle intenzioni di Netanyahu.

Nei giorni scorsi giravano indiscrezioni su sanzioni richieste da alcuni paesi dell’Ue, tra cui la Francia, da esplicitare subito per scoraggiare il governo israeliano dal compiere passi unilaterali, non negoziati, nella Cisgiordania palestinese sotto occupazione militare.

Tra queste il congelamento del programma Horizon Europe 2021-2027, che garantisce ingenti risorse a Israele, e la sospensione dell’accordo che dà a Tel Aviv accesso libero ai mercati europei.

L’Alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell, butta acqua sul fuoco: «Siamo molto lontani dal parlare di sanzioni, comunque è importante sapere quale sia la posizione degli Stati membri sul mancato rispetto della legge internazionale (da parte di Israele)».

Da Washington al contrario arrivano solo approvazioni e regali per il premier israeliano. L’idea dell’annessione è stata partorita proprio dall’Amministrazione Trump che l’ha poi confezionata nel piano conosciuto come “Accordo del Secolo”.

Qualche giorno fa Netanyahu ne ha discusso a Gerusalemme per tre ore con Mike Pompeo. Non è chiaro se abbia ottenuto dagli Usa luce verde all’annessione, come vorrebbe, già dal prossimo 1 luglio. Gli americani forse hanno meno fretta del primo ministro israeliano. Sembra suggerirlo il segretario di stato parlando della necessità di fare altri «progressi» sull’attuazione del piano di pace americano.

Contro i progetti di Trump e Netanyahu il presidente palestinese Abu Mazen ha formato una task force incaricata di mobilitare i governi, specie quelli europei, e l’opinione pubblica internazionale.  Sulle speranze palestinesi gravano però le posizioni morbide di Cina e Russia che mantengono ancora una posizione di basso profilo.

Invoca provocatoriamente l’annessione il noto giornalista israeliano Gideon Levi che da anni racconta al mondo le forme dell’oppressione dei palestinesi.

«Sarà la fine del mondo? No, perché i Territori palestinesi occupati sono già stati annessi a Israele più di 52 anni fa» spiega Levi in un podcast postato online dal suo giornale, Haaretz, «questo passo mette fine alla vecchia bugia che l’occupazione sarebbe stata temporanea. L’occupazione non è mai stata intesa come temporanea». Levi avverte che l’annessione sarà un altro passo verso «la costruzione dell’apartheid».

L’eco di questo dibattito arriva a stento nella Valle del Giordano, il primo territorio destinato ad essere incluso in quella che Netanyahu descrive come «l’estensione della sovranità israeliana» sulla biblica Eretz Israel.

«Ci aspettiamo un netto peggiomento della nostra condizione quando sarà realizzata l’annessione» ci dice Rashid Khudiri, attivista dei diritti della popolazione palestinese nella Valle del Giordano «Israele assorbirà il territorio senza garantirci diritti e accesso alle risorse naturali». Con ogni probabilità, prevede, «avremo maggiori difficoltà a spostarci e subiremo un incremento delle demolizioni di case, delle strutture per i nostri animali e delle misure repressive. Il mondo deve intervenire per fermare Trump, il piano americano è contro la legge internazionale».

Lo sceriffo che occupa la Casa Bianca conosce solo la legge del Far West. Nena News




Il Futuro della Palestina : il punto di vista dei giovani sulla soluzione dei due stati.

Hugh Lovat

ecfr, 28 maggio 2019

Un quarto di secolo dopo gli accordi di pace di Oslo, alcuni giovani scrittori palestinesi espongono il loro punto di vista sulla soluzione dei due stati.

Mai come oggi la validità del modello dei due stati è stata messa in dubbio. Una delle cause determinanti è senz’altro la comparsa sulla scena di una amministrazione americana che mostra un allineamento senza precedenti con l’ideologia della Grande Israele tipica dell’estrema destra israeliana. Tuttavia, già prima dell’elezione di Donald Trump, il modello dei due stati presentava segni di logoramento. A ciò hanno contribuito non poco lo stallo interminabile del processo di pace in Medio Oriente e l’impegno deliberato dei governi israeliani per ostacolare il processo di crescita dello stato palestinese, mentre consolidavano il loro controllo su Gerusalemme Est e sulla Cisgiordania. Un altro fattore determinante è stata senz’altro l’incapacità dell’Unione Europea di mettere in atto azioni conseguenti alla propria fervente presa di posizione in favore della soluzione dei due stati.

È difficile dire se la prospettiva dei due stati andrà avanti e la situazione attuale non depone certo a favore della sua futura realizzazione. Quello che tuttavia sembra più che certo oggi è che le misure politiche di USA e Israele stanno consolidando una realtà fatta di un solo stato senza uguali diritti per i Palestinesi. Il modo in cui il movimento di liberazione palestinese risponderà a questa sfida sarà cruciale. Se un cambio di strategia da parte dei leader palestinesi più anziani pare improbabile, i giovani attivisti della Cisgiordania, di Gaza, di Israele e della diaspora stanno già sviluppando un approccio diverso.

Questa serie di brevi saggi scritti da giovani intellettuali costituisce una rassegna parziale del dibattito sulla validità attuale del modello dei due stati e su cosa chiedere all’Unione Europea in questo momento critico.

Le opinioni espresse di seguito non rappresentano certo la totalità delle posizioni palestinesi e senz’altro mancano alcune voci, quali quelle degli Islamisti e dei rifugiati nei paesi limitrofi. Tuttavia questi brevi contributi riflettono le posizioni di molti giovani palestinesi sulla situazione attuale e danno un’indicazione sulla direzione in cui si svilupperà il futuro movimento nazionale palestinese. Per questo motivo dovrebbero essere presi in seria considerazione dai responsabili politici.

Yasmeen Al Khodary, scrittrice e ricercatrice. Londra/Gaza

La domanda se si debba o no lasciar cadere la soluzione dei due stati è obsoleta. È difficile pensare che la gente la creda ancora possibile: siamo nel 2019 e non nel 1995 e molte cose sono cambiate in peggio. E poi, come sarebbe una soluzione a due stati?

La gente che quotidianamente subisce le conseguenze di questo progetto –i Palestinesi di Gaza e della Cisgiordania– hanno problemi ben più importanti, quali la sopravvivenza. Le conseguenze devastanti dell’occupazione israeliana hanno gradualmente trasformato i Palestinesi in popolazioni divise, che non godono dei diritti fondamentali e sono senza alcun sostegno, costrette ogni giorno a fronteggiare difficoltà sempre diverse: sono assediati, attaccati militarmente, circondati dagli insediamenti, bloccati da strade con divieto di transito, sottoposti a coprifuoco, arresti e prigione, per nominarne solo alcune. Provate a chiedere a un Palestinese che sta soffocando a Gaza a causa di un blocco che va avanti da 12 anni che cosa pensa della soluzione dei due stati. Molto probabilmente non otterrete risposta. La gente non ne po’ più di discorsi, non ne può più di ripetere sempre la stessa richiesta: ponete fine all’occupazione. Questo è il solo modello che possiamo portare avanti ora.

Yasmeen Al-Khoudary è una scrittrice e ricercatrice indipendente, è specializzata in archeologia e patrimonio e culturale palestinese dell’area di Gaza. Ha co-fondato Diwan Ghazza e scritto per numerose testate fra cui il Guardian, CNN, Al Jazeera English. Account twitter @yelkhoudary

Zaha Hassan, avvocata esperta in diritti umani e visiting fellow presso il Carnegie Endowment for International Peace di Washington.

Venticinque anni di trattato di pace di Oslo hanno confinato i Palestinesi in un buco nero politico e legale. Nella realtà attuale i Palestinesi sono privi del diritto all’autodeterminazione in quello che dovrebbe essere il loro stato sovrano e sono privi di uguali diritti di cittadinanza nello stato di Israele. Benjamin Netanyahu lo chiama lo ‘stato ridotto (state minus)’ palestinese.

Attualmente la scelta fra un unico stato binazionale e due stati è quindi illusoria. Entrambe queste soluzioni sono impraticabili in questo momento e lo saranno anche in futuro, per quanto è dato prevedere. La necessità più urgente è quella di definire con precisione la natura del conflitto attuale e quale dovrebbe essere la risposta a livello internazionale e dell’Europa in particolare.

I Palestinesi subiscono da oltre settant’anni un colonialismo insediativo che li costringe ad abbandonare i loro territori. Ridefinire il conflitto in questi termini non significa che il quadro del diritto internazionale, entro cui sono definiti gli obblighi di Israele quale forza occupante dal 1967, diventi inapplicabile o impraticabile. Il diritto umanitario internazionale non viene disatteso quando si chiede il rispetto delle norme internazionali sui diritti umani. I due quadri normativi si completano a vicenda e forniscono un orientamento per gli stati terzi su come inquadrare e che risposta dare alle azioni di Israele contro i Palestinesi.

Nel passato l’Europa è stata pioniera nel riconoscimento dell’OLP e del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. L’Unione Europea è particolarmente impegnata nel rispetto della legge e dei diritti umani; per questo l’Europa, in accordo con l’ONU, può agire come baluardo nella protezione dei diritti del popolo palestinese e condurre un dibattito che individui una soluzione durevole del conflitto, rispettosa delle richieste individuali e collettive dei Palestinesi.

Ma prima di tutto la UE e i suoi stati membri devono riconoscere la realtà attuale per quella che è, ossia che Israele impone oggi ai Palestinesi un solo stato con un’occupazione e un conflitto perenne che non prevedono uguali diritti.

Zaha Hassan è avvocata specializzata in diritti umani e visiting fellow alla Carnegie Endowment for International Peace. È stata coordinatrice e senior legal advisor del team palestinese di negoziazione durante la richiesta della Palestina di ammissione all’ONU come stato membro, ha fatto parte della delegazione palestinese nei colloqui esplorativi sponsorizzati dal ‘quartetto per la pace’ nel 2011/2012. Account twitter: @zahahassan

Yara Hawari, policy fellow di Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network, Ramallah

Molti stati dell’Unione Europea temono che l’annessione formale della Cisgiordania da parte di Israele sia imminente e metta così l’ultima pietra sulla tomba degli accordi di pace di Oslo e della soluzione dei due stati. Se questa preoccupazione include un interesse nella difesa dei diritti dei Palestinesi, essa però non riconosce che gli accordi di Oslo e il modello dei due stati hanno fornito, nei 26 anni trascorsi, una complice copertura all’imposizione di un regime di apartheid che si estende dalla valle del Giordano al Mediterraneo e istituisce un controllo assoluto di Israele sulla vita dei Palestinesi.

Israele accusa continuamente i Palestinesi di non volere la pace e allo stesso tempo colonizza le loro terre costringendoli in ‘bantustan’ sempre più ristretti. La leadership palestinese, ostaggio del dibattito sul processo di pace di Oslo, ha fallito nel proprio progetto democratico e rivoluzionario e di conseguenza il popolo palestinese, con i suoi diritti e le sue aspirazioni all’autodeterminazione, non è mai stato così vulnerabile come in questo momento.

È necessario che gli stati dell’Unione Europea compiano un atto di umiltà e di onestà e riconoscano che un progetto in cui essi avevano investito tempo, denaro e energie non ha avuto gli esiti sperati né ha ottenuto risultati concreti.

Anziché impegnarsi in negoziati che ormai avvengono in un contesto e all’interno di una cornice politica ormai impraticabili, l’UE dovrebbe impegnarsi a far rispettare i diritti internazionalmente riconosciuti ai Palestinesi, ovunque essi si trovino, e garantire l’applicazione del diritto umanitario internazionale. Usando i propri canali diplomatici e di scambio, l’UE dovrebbe chiedere conto a Israele delle violazioni compiute, creando così un ambito più equo di discussione.

Contestualmente, abbandonato il sostegno caparbio alla politica dei due stati, l’Unione Europea potrà contribuire a creare spazi e opportunità anche per i Palestinesi, perché essi possano elaborare altre soluzioni al di fuori dal contesto della divisione in due stati che li ha paralizzati per tutto questo tempo.

Yara Hawari è Palestine policy fellow per Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network. Ha tenuto diversi corsi alla Università di Exeter; come giornalista free-lance collabora con diverse testate fra cui Al Jazeera English, Middle East Eye, e Independent. Account twitter:@yarahawari

Amjad Iraqi, scrittore, +972 Magazine, Haifa

Una regola elementare della politica ci insegna che se un piano non produce gli esiti desiderati, allora va rivisto. Purtroppo i governi europei, quando si tratta del processo di pace in Medio Oriente

prefigurato degli accordi Oslo, ignorano questo principio.

Per anni l’Europa ha creduto che l’occupazione fosse insostenibile e indesiderabile tanto per gli Israeliani quanto per i Palestinesi. Questa idea si è rivelata fatalmente sbagliata. Nella situazione attuale gli Israeliani possono permettersi di abitare in ‘Giudea e Samaria’, godersi le risorse naturali del territorio sentendosi sicuri perché sanno che i loro ‘nemici’ a Gaza sono tenuti a bada dall’occhio vigile dell’esercito. La maggioranza delle forze politiche di Israele non considera più l’occupazione una situazione transitoria, ma una soluzione permanente del ‘problema’ palestinese.

L’incapacità dell’Europa di comprendere questa situazione la colloca dieci passi indietro rispetto alla realtà odierna. Sebbene la Green Line compaia come una linea tratteggiata in Google Maps, nella realtà essa non esiste più e di certo non esiste nella mente della potenza occupante. Anche quando il governo israeliano palesa apertamente i propri obiettivi –incluse le leggi sull’annessione di terre e la legge sullo Stato Nazione– le autorità europee continuano a negare le intenzioni di Israele, si dicono preoccupate, ma non sanzionano questa deliberata cancellazione della soluzione dei due stati.

Perciò questo modello non solo è liquidato, ma risulta addirittura deleterio. L’Europa deve aggiornarsi su una situazione di cui i Palestinesi sono ormai consci da decenni: che la realtà in cui viviamo è quella di un solo stato, in cui siamo governati da un regime complesso, ma comunque gestito da uno stato unico, di apartheid. Finché l’Europa non giocherà le proprie carte contro questo sistema, Israele riterrà logico insistere nel mantenimento di questo stato di cose.

Amjad Iraqi è un palestinese con cittadinanza israeliana e attualmente risiede a Haifa. È advocacy coordinator al Centro Legale Hadala, scrive su + 972 Magazine ed è analista politico per Al-Shabaka. Account twitter: @aj_iraqi

Inès Abdel Razek, consulente free-lance, ha lavorato come consulente per l’Ufficio del Primo Ministro Palestinese, Ramallah.

Dobbiamo prendere le distanze dai fallimenti dal processo di pace in Medio Oriente (PPME) gestito dagli USA e dalla soluzione dei due stati, che sono diventati esercizi interconnessi di retorica politica e non tengono conto della realtà. Dobbiamo liberarcene sia perché Israele non ha mai riconosciuto i parametri internazionalmente fissati per la soluzione dei due stati, sia soprattutto se vediamo i passi compiuti dall’amministrazione Trump per porre fine all’autodeterminazione e al diritto al ritorno del popolo palestinese e la sua aperta adesione al punto di vista israeliano.

Bisogna articolare un nuovo modello politico basato sul diritto internazionale, che adotti una strategia imperniata sulle persone, tesa a promuovere uguali diritti e uguale libertà di autodeterminazione per Palestinesi e Israeliani. A prescindere dal fatto che ciò venga realizzato da un unico stato o da due stati, un nuovo modello deve prima di tutto sconfiggere la realtà di un unico stato che espande continuamente gli insediamenti coloniali, e deve contrastare ogni discriminazione su base etnica. La pace non può venire prima della libertà.

Questo nuovo modello politico dovrà quindi controllare che l’abbandono dei parametri tradizionali previsti ad Oslo per il Processo di Pace in Medio Oriente (PPME) non lasci spazio a interpretazioni ambigue e che il governo di Israele non sfrutti eventuali ambiguità per consolidare l’attuale situazione di un solo stato con un regime di apartheid.

Il movimento nazionale palestinese deve impegnarsi a questo cambio di metodo, abbandonare le tattiche usate da Oslo in poi e fare un uso strategico del diritto al ritorno e all’auto-determinazione come vengono riconosciuti a livello internazionale, senza cadere nella trappola della sovranità nazionale. Dal punto di vista della diplomazia, occorreranno una serie di sforzi multilaterali che facilitino questa nuova strategia, mentre gli attori geopolitici fondamentali del Sud globale e dell’Europa dovranno assumere un ruolo determinante e cambiare la deleteria agenda politica ora dominata dagli USA.

Inès Abdel Razek è consulente diplomatica e per la cooperazione internazionale in Palestina e nell’area del Mediterraneo. Attualmente collabora con il Palestinian Institute for Public Diplomacy e si occupa di advocacy internazionale. Account twitter: @InesAbdelrazek

https://www.ecfr.eu/article/commentary_the_future_of_palestine_youth_views_on_the_two_state_paradigm

Traduzione di Nara Ronchetti

A cura di AssopacePalestina




Ho chiesto all’unica giornalista israeliana in Palestina di mostrarmi qualcosa di scioccante – e questo è ciò che ho visto

Robert Fisk

 a Bir Naballa, Cisgiordania

18 settembre, The Indipendent 

È la vecchia strada da Ramallah a Gerusalemme, lungo la quale si trovano ricchezze perdute, speranze dimenticate e case una volta amate. Tutto ciò ora finisce, ovviamente, al muro

Mostrami qualcosa che mi scioccherà, ho detto ad Amira Hass. Così l’unica giornalista israeliana nella Cisgiordania palestinese – o in Palestina, se si crede ancora a una parola così in disuso – mi ha portato lungo una strada fuori Ramallah che ricordavo come un’autostrada che portava a Gerusalemme. Ma ora, appena sopra una collina, si trasforma in una strada semi-asfaltata, una serie di porte arrugginite di negozi chiusi e spazzatura. Lo stesso vecchio odore estivo di scarichi fognari si insinua su per la strada. Giace, verde e tranquillo, in uno stagno alla base del muro.

O il “Muro”. O, per scribacchini più prudenti, il “Muro di Sicurezza”. O, per anime più delicate, la “Barriera di Sicurezza”. O per penne ancora più sciatte la “Barriera”. O, se ti preoccupi davvero delle implicazioni politiche, la “Recinzione”. La Recinzione – come i familiari pali e travi di legno che si possono trovare lungo il confine di un campo. O – se vuoi davvero spaventare i direttori di televisione e far arrabbiare gli israeliani – il “Muro della Segregazione”, o persino il “Muro dell’apartheid”. Perché presto parleremo dei “Bantustan” palestinesi che si ritrovano tagliati fuori dal Muro, da strade solo per israeliani e dal vasto impero delle colonie israeliane su terra araba.

Fidati di Amira perché ti dia degli spunti. Della frase “Bantustan palestinese” è disseminata la sua irata digressione mentre mi porta in giro nelle enclave palestinesi in Cisgiordania e, dopo un’ora o due, al Muro: torreggiante otto metri sopra di noi, severo, mostruoso nella sua determinazione, ritto e serpeggiante tra blocchi di abitazioni e che si insinua in uad [letti asciutti di torrenti, ndtr.] e si ritorce indietro su se stesso finché trovi due muri uno dietro all’altro, un muro doppio ma lo stesso muro, così sono i tornanti alpini di questa creatura. Scuoti la testa per un momento quando – improvvisamente, sicuramente per via di qualche errore di calcolo – non c’è assolutamente nessun muro ma una via commerciale o una semplice collina di boscaglia e pietre. E poi il massiccio progetto colonialista degli insediamenti israeliani, tutto alberi verdi e case con il tetto rosso e strade ordinate e, sì, più muri e recinzioni di filo spinato e muri ancora più grandi. E poi la bestia vera e propria. Il Muro.

Ma la parte di muro a cui Amira Hass mi porta – guida turistica e analista della società israeliana, ammette, non vanno insieme – è un posto veramente miserabile. Non epico come Dante. Forse un corrispondente di guerra potrebbe descriverlo meglio. È la vecchia strada tra Ramallah e Gerusalemme, lungo la quale si trovano ricchezze perdute, speranze dimenticate e case una volta amate, che ora finisce, ovviamente, al Muro.

“Ora, se questo non è scioccante, non so cosa lo possa essere,” dice Amira. “Questa è la distruzione della vita della gente – è la fine del mondo. Vedi qui? Andavamo dritti verso Gerusalemme. Ora non più. Questa era una via trafficata e qui puoi vedere come la gente ha investito in case con un po’ di grazia, la solidità delle case, la pietra. Guarda i cartelli in ebraico – perché questi palestinesi solevano avere molti clienti israeliani. Persino il nome ‘falegname’ è in ebraico.”

Ma quasi tutti i negozi sono chiusi, le case sprangate, erbacce e rami secchi lungo i marciapiedi rotti. I graffiti sono patetici, il sole senza pietà, il cielo così incrostato di calore che il grigio del muro a volte si fonde nel grigio pietra del cielo. “È penoso” dice Amira Hass, senza emozione. “Questo posto – ho sempre mostrato questo alla gente; sempre, sai, probabilmente un centinaio di volte ormai, e non smette mai di scioccarmi.”

Il liquame, una volta che ci fai l’abitudine, è in qualche modo adeguato. È come un posto in cui l’immaginazione si è esaurita, lasciando dietro solo uno squallido stagno, il verde sempre più luminoso perché il Muro sta acquisendo la patina del tempo.

Il silenzio non è opprimente – come potrebbe essere in un romanzo – ma richiede una risposta. Chiedo ad Amira cosa ci dice il Muro. “Penso a quello che dice a me…”, comincia. “Poiché si rende conto di non poter cacciare via i palestinesi, deve nasconderli. Deve occultarli ai nostri occhi. Qualcuno deve uscire per lavorare là per gli ebrei. E ciò è visto come se gli si facesse un favore. Gli israeliani non entrano, perché noi israeliani non abbiamo bisogno di queste zone – non ci servono – questa è spazzatura, questo è liquame. Il Muro dice quanto forte è la necessità di essere puri – e quante persone hanno preso parte a questo atto di violenza? Dicono che è a causa degli attacchi suicidi, ma l’infrastruttura giuridica e amministrativa per questa separazione esisteva da prima del Muro, per cui il Muro è una specie di manifestazione grafica o concreta o tangibile di leggi di separazione che c’erano già.”

Ed è un’israeliana che mi parla, la tenace e instancabile figlia di una madre partigiana bosniaca che dovette consegnarsi alla Gestapo e di un ebreo rumeno sopravvissuto all’Olocausto, e il cui socialismo, penso, le ha dato un coraggio forte, marxista.

Lei probabilmente non è d’accordo, ma penso a lei come a una figlia della Seconda Guerra Mondiale, anche se è nata 11 anni dopo la morte di Hitler. Suppone che le siano rimasti da 100 a 500 lettori israeliani; grazie a dio, dicono molti di noi, il suo giornale, “Haaretz”, esiste ancora.

La madre di Amira rimase colpita, lungo la strada dalla stazione del treno di Bergen Belsen nel 1944, dalle casalinghe tedesche che arrivavano per vedere la fila di prigionieri distrutti, da come le donne tedesche “stavano lì a guardare”. Amira Hass, sospetto, non starà mai lì a guardare. È cresciuta abituandosi all’odio e alla violenza del suo stesso popolo. Ma lei è realista.

“Guarda, non possiamo ignorare che per un certo periodo (il Muro) è servito alla funzione immediata della sicurezza,” dice. Ed ha ragione. La campagna palestinese di attentati suicidi è stata stroncata. Ma il Muro è stato anche una macchina per l’espansione [territoriale]; si è insinuato nelle terre arabe che non erano parte dello Stato di Israele più di quanto lo fossero le vaste colonie che ora ospitano circa 400.000 ebrei in Cisgiordania. Non ancora, in ogni caso.

Amira porta occhiali rotondi che la fanno sembrare un po’ come uno di quei dentisti che tutti abbiamo incontrato, che studiano con disappunto, cinismo e una certa demoralizzazione il terribile stato dei nostri denti. Scrive così. Ha appena finito un lungo articolo per Haaretz – sarà pubblicato tra due giorni, una feroce dissertazione sugli accordi di Oslo del 1993 che arriva quasi a provare che gli israeliani non hanno mai inteso l’accordo di “pace” come finalizzato a dare uno Stato ai palestinesi.

“La situazione dei Bantustan, riserve o enclave palestinesi,” scrive nel triste venticinquesimo anniversario degli accordi di Oslo, “è un fatto concreto… contrariamente a quello che avevano ritenuto i palestinesi, molte persone nel campo pacifista israeliano all’epoca e i Paesi europei, da nessuna parte [Oslo] stabiliva che l’obiettivo fosse la fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967.” Amira dice che ad ‘Haaretz’ “il problema è che i correttori di bozze – li chiamo i ragazzi – cambiano ogni paio di anni e ogni volta mi chiedono: ‘Come sai che Oslo non riguardava la pace?’…Ora il giornale è orgoglioso perché ha qualcuno che aveva ragione. Vent’anni fa pensavano che fossi matta.”

Il giro di Hass continua attorno a quella che definisce come “la prigione a 5 stelle”. Ci soffermiamo sulla città di Ramallah, temporanea pseudo-capitale dell’inesistente Stato palestinese. Lei immagina – lo fa spesso – che un marziano arrivi in Cisgiordania dallo spazio. Il marziano, dice, noterebbe che le case palestinesi hanno cisterne nere sul tetto – perché la loro acqua arriva razionata dall’Autorità Nazionale Palestinese – mentre le colonie ebraiche hanno un acquedotto. “Non hanno di che preoccuparsi.” Le colonie sulle colline – “così lussureggianti, così attraenti, con un’aria molto buona” – hanno tetti rossi spioventi, in stile europeo. Ora le famiglie palestinesi più ricche stanno imitando i tetti rossi dei loro occupanti.

Il marziano di Amira Hass ricompare: “Vede una città tentacolare (Ramallah), edifici eleganti…ci sono cinema, negozi e commerci. Laggiù vede le auto. Il nostro extraterrestre dice: ‘Qual è il problema? Perché vi lamentate dell’occupazione?’ Per cui il problema è che c’è l’illusione di non essere sotto occupazione in questo spazio limitato, in un luogo in gabbia, in questa prigione a cinque stelle…I contorni, i confini sono molto chiari. Ma le persone all’interno dei confini si sono abituate a un certo tipo di normalità che adesso per loro è molto difficile lasciare.”

“Fondamentalmente sanno che se si impegnano in un’altra ondata di resistenza possono perdere persino questo – persino il poco che hanno, questa normalità… Per me una delle prove migliori che qui c’è un certo tipo di normalità sono i palestinesi con cittadinanza israeliana che ogni fine settimana vengono in questo bantustan palestinese per sfuggire al razzismo israeliano e all’arroganza che affrontano quotidianamente in Israele – e vengono qui per sfuggirvi, per trovarsi in un ambiente totalmente palestinese.”

L’analisi è severa e con una prospettiva storica. “I palestinesi sanno che questa non è l’indipendenza. Ma ora ritengono che non ne varrebbe la pena. Durante gli ultimi due o tre anni, quando qualche giovane era impegnato in attacchi all’arma bianca e c’era qualche studente che veniva qui ai posti di blocco per scontrarsi con l’esercito israeliano, si emozionavano per loro. Ma non vedevi le masse uscire per affrontare l’esercito. Ora non si tratta di paura, non è la polizia palestinese che li blocca. Adesso, con la divisione palestinese tra Hamas e Fatah, i palestinesi nel fondo della loro ‘saggezza’ politica, e con l’America – Trump – e tutto questo, [sanno che] non c’è ragione di sacrificarsi per niente.”

Lei guida, supera una base militare dove evidenzia le parole scritte – in inglese – con la bomboletta su un muro. “Gli ebrei hanno fatto l’11 settembre.” Con simili parole i palestinesi non potrebbero incolpare in modo più assoluto la loro società agli occhi dell’Occidente? Ma ci sono altre scritte. In un piccolo villaggio palestinese, forse a 200 metri dalla colonia ebraica di Beit El – telecamere puntate verso l’esterno lungo la sua recinzione – [Amira] sottolinea le parole scritte con lo spray sul muro di una casa palestinese dopo che i coloni hanno fatto un’incursione nel villaggio. “Giudea e Samaria”, dice in ebraico, riferendosi alla Cisgiordania. “Verrà versato sangue.” Aisha Fara ci mostra il tetto della sua casa, dove il pannello solare è stato rotto da piccole pietre – sparate con la fionda da studenti religiosi, dice, solo tre giorni prima – e nonostante i suoi 74 anni non usa mezzi termini. Intuisco in silenzio che è nata nel 1944 nella Palestina originaria del Mandato [britannico], lo stesso anno in cui la madre di Amira è stata mandata a Bergen-Belsen.

“I ladri sono arrivati prima del tramonto,” dice Fara dei lanciatori di pietre. “Hanno bruciato per tre volte i nostri alberi. Ma i ladri non restano per sempre. E la gente spaventata tornerà alle proprie case, se dio vuole…Mi chiedi chi sono (i coloni)? Voi li avete mandati. Voi li avete tutti nelle vostre telecamere…Voglio che i porci americani lo sappiano – non siamo pellerossa!” Amira ascolta con attenzione. “Per lei la storia è una lunghissima catena di espulsioni,” dice di Aisha Fara. “Ci sono cose su cui smetti di scrivere. La solita routine.”

Ciò, penso, ha ferito Amira Hass, il modo in cui una storia giornalistica viene lasciata perdere una volta che diventa un avvenimento quotidiano. Un lancio di pietre, un incendio, un’altra colonia. E i privilegi di essere cittadino israeliano sono sempre presenti. “In certo modo, quando siamo stati bombardati, era più facile perché ero con gli altri. È una cosa che posso percepire – la paura delle bombe, ovviamente, la condivido. Ma per esempio il fatto di essere rinchiusi, è una cosa che non posso capire. Non posso comprenderlo. Per me un muro è semplicemente una cosa brutta lungo la strada per Gerusalemme. Ma per i palestinesi è dove finisce il mondo. Quando vado a Gerusalemme non posso dire ai miei vicini che ci vado – mi vergogno. Mi sento in imbarazzo… perché per loro Gerusalemme è come la luna.”

Quindi vivrà tutto il resto della sua vita tra i palestinesi della Cisgiordania, l’unica inviata israeliana dalla parte dura della storia? “Non avrei mai pensato che avrei vissuto a El-Bireh, ma ora è la città dove ho vissuto più a lungo che in qualunque altro posto,” risponde. “Non l’ho mai pianificato – ma è quello che è successo. E so che se dovesse succedere qualcosa – se me ne dovessi andare, sia perché smetto di lavorare o gli israeliani mi dicono di andarmene o me lo dicono i palestinesi, fa lo stesso, non riuscirò mai a tornare in un quartiere esclusivamente ebraico. Andrò ad Acri o ad Haifa [città israeliane, ndtr.]…Ad Haifa ci sono palestinesi.”

Quando mi appresto a tornare a Gerusalemme, sulla “luna”, ringrazio Amira Hass per il suo tour istruttivo, accademico ed anche giornalistico e – agli occhi dei suoi non-lettori israeliani – per un commento altrettanto terribile delle mail di odio che le hanno mandato. “Ho la tendenza a dire alla gente quello che non vuole sentire,” dice. A me sembra una vera giornalista. E capisco allo stesso tempo che lei non sarà mai una spettatrice.

(traduzione di Amedeo Rossi)

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Per ottenere uno Stato, i palestinesi devono lavorare anche per i due Stati.

Nadia Hijab 

7 febbraio 2018, Al Shabaka

In seguito al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente USA Donald Trump, e rafforzato dalla promessa del vice presidente Mike Pence di spostarvi l’ambasciata USA prima della fine del 2019, c’è stata una raffica di articoli che hanno sostenuto l’imminente spostamento della strategia palestinese verso la soluzione dello Stato unico con pari diritti. Sia i negoziatori palestinesi direttamente coinvolti nel moribondo processo di pace di Oslo che palestinesi che fin da allora hanno avuto poche speranze in Oslo hanno dichiarato che è tempo di modificare la lotta. Nel contempo Israele ha continuato ad espandere le colonie, reprimere le proteste e pianificare l’annessione di parte o di tutta la Cisgiordania.

La soluzione dei due Stati è davvero destinata al fallimento ed è tempo di passare ad una lotta per uno Stato unico? Questo commento sostiene che entrambi gli esiti statali possono essere messi in atto per ottenere le aspirazioni ed i diritti dei palestinesi, e che, oltretutto, soddisfare i diritti dei palestinesi richiede alcune delle risorse di potere associate ad un sistema statale. Invita inoltre a dedicare tempo ed energie per chiarire gli obiettivi palestinesi e per comprendere perché non sono ancora stati raggiunti, e in seguito concentrarsi sugli elementi di forza necessari per raggiungerli. L’ultima parte discute nel dettaglio uno di questi elementi di forza, quello della narrazione palestinese, e chiede una ridefinizione di questa narrazione, compresa quella relativa al BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni). 1

Obiettivi palestinesi negli esiti di uno Stato unico e dei due Stati

L’obiettivo della lotta palestinese continua ad essere espresso in termini di strutture statuali. Anche nei termini del raggiungimento dei diritti palestinesi, cosa otterrebbe un esito politico dello Stato unico che non otterrebbero i due Stati? È il caso di esaminare brevemente entrambi i risultati. La prospettiva di una soluzione dello Stato unico, come quella stabilita dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1968 è sempre stata più convincente per i palestinesi di quella dei due Stati. Uno Stato unico è strettamente legato al diritto al ritorno dei rifugiati alle proprie case e terre.

Con uno Stato unico i palestinesi avrebbero esercitato il proprio diritto all’autodeterminazione ritornando e vivendo su tutta la terra che era stata Palestina, accanto agli ebrei che vi vivono, con gli stessi diritti per tutti. Mentre la carta dell’OLP del 1968 parlava degli ebrei che abitavano in Palestina prima della conquista sionista che ha determinato la creazione di Israele, gli attuali sostenitori palestinesi della soluzione di uno Stato unico riconoscono che debba comprendere tutti i suoi abitanti.

Riguardo alla soluzione dei due Stati, è importante distinguere tra la visione espressa nel 1988, quando il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) la adottò, e la parodia di giustizia monca, economicamente e politicamente bloccata istituita dagli accordi di Oslo che iniziarono ad essere firmati nel 1993. Quando venne adottata nel 1988, la soluzione dei due Stati era vista come un riconoscimento pragmatico, realizzabile della realtà. I palestinesi avrebbero esercitato il diritto all’autodeterminazione attraverso uno Stato sovrano che avrebbe garantito i diritti dei suoi cittadini. Un simile Stato avrebbe consentito alla Palestina di unirsi alla comunità delle Nazioni. Inoltre la risoluzione del CNP sosteneva le risoluzioni ONU relative ai diritti dei rifugiati palestinesi. E la lotta per i due Stati non significa abbandonare la lotta vitale per l’uguaglianza dei cittadini palestinesi di Israele.

Fin dall’inizio Oslo ha destinato alla rovina un progetto di Stato basato sui diritti. Da parte palestinese l’accettazione degli accordi incluse un implicito riconoscimento che i diritti dei rifugiati palestinesi sarebbero stati gravemente limitati, sacrificando quindi un diritto fondamentale dei palestinesi. Da parte israeliana non c’è mai stata nessuna intenzione di consentire la costituzione di uno Stato palestinese sovrano accanto ad Israele. Yitzhak Rabin, sbandierato come un grande pacificatore, mise in chiaro poco dopo il primo accordo di Oslo che egli intendeva garantire che i palestinesi non avrebbero avuto nient’altro che un’entità che fosse “meno di uno Stato”, con i confini di sicurezza di Israele nella valle del Giordano. Queste posizioni vennero mantenute nel corso degli anni di negoziati. Le posizioni israeliane si sono notevolmente indurite da allora: più di recente il comitato centrale del Likud ha votato all’unanimità per chiedere ai dirigenti del partito di annettere la Cisgiordania.

Se la soluzione dei due Stati fosse rimasta all’interno del quadro originario, avrebbe potuto soddisfare i diritti dei palestinesi all’autodeterminazione ed al ritorno, come lo avrebbe fatto la soluzione dello Stato unico, se i palestinesi fossero stati in grado di costruirsi un potere sufficiente a garantire che Israele avrebbe rispettato il diritto al ritorno ed uguali diritti in uno Stato unico, il diritto al ritorno e la sovranità in due Stati.

Oggi la realtà è che il popolo palestinese non ha il potere di ottenere nessuno dei due risultati nel futuro prevedibile e di imporre ad Israele o alla comunità internazionale il riconoscimento e la messa in pratica dei suoi diritti. Infatti la dirigenza palestinese, convinta che Oslo stesse portando a uno Stato palestinese, lasciò disperdersi i punti di forza che aveva accumulato negli anni ’70 e ’80, compresi un vivace movimento di solidarietà e forti legami con i Paesi del Sud, l’Unione Sovietica e la Cina.

Il presidente dell’OLP Mahmoud Abbas non ha dichiarato la fine della soluzione dei due Stati e chiaramente spera che gli europei interverranno ora che egli si è, forse temporaneamente, allontanato dagli USA. Tuttavia chiedere agli Stati europei di fungere da mediatori non farà progredire la causa palestinese. Non c’è niente da mediare: gli israeliani hanno messo in chiaro i loro obiettivi: il meglio che i palestinesi possono sperare sono bantustan [entità pseudo-statali istituite nel Sudafrica dell’apartheid per la popolazione nera, ndt.] divisi tra loro. Uno scenario peggiore sarebbe un “accordo” che apparirebbe come la realizzazione di alcuni diritti dei palestinesi, dopo il quale il mondo se ne tirerebbe fuori, lasciando i palestinesi alla mercé di Israele. Nessuno farà niente per il popolo palestinese – non gli europei, né gli USA, né Israele – finché non sarà obbligato a farlo.

In breve, i palestinesi dovranno costruirsi un potere consistente per esercitare le pressioni necessarie a raggiungere una soluzione che garantisca i loro diritti. E per fare ciò avranno bisogno di alcune delle risorse di potere che hanno acquisito attraverso la partecipazione al sistema statale, sia legale, diplomatico o attraverso la partecipazione ad organizzazioni internazionali. Tuttavia queste risorse di potere devono essere utilizzate in modo molto più efficace e strategico di quello superficiale con cui le ha utilizzate l’OLP. Persino la combattuta adesione all’UNESCO, che è costata parecchio all’organizzazione, avrebbe potuto essere utilizzata per stabilire la sovranità palestinese su terra e mare.

Inoltre immaginate la diversa situazione oggi se l’OLP avesse “attivato” la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 sul muro illegale di Israele che serpeggia nei TPO [Territori Palestinesi Occupati, ndt.]. Benché fosse un’opinione consultiva, il suo chiaro richiamo a ogni Stato a “non riconoscere la situazione illegale determinata dalla costruzione del muro” e, cosa ancora più importante, a non fornire alcun aiuto o assistenza che potesse mantenere la situazione, avrebbe potuto essere utilizzato per spingere i Paesi europei consapevoli delle regole a garantire in modo molto più decisivo che le loro relazioni con Israele non appoggiassero le illegali colonie israeliane.

È stato a causa del fatto che l’OLP non ha capitalizzato quello che all’epoca un membro della delegazione palestinese descrisse in privato come questa “grande vittoria” che la società civile palestinese, esattamente un anno dopo, ha lanciato il movimento BDS, con il chiaro intento di difendere le leggi internazionali e investire un’importante fonte di potere in esse.

La strada che abbiamo davanti è lunga. Nessuno si affretta ad aiutare i palestinesi a ottenere i loro diritti. Perciò non c’è fretta per decidere sul definitivo risultato politico: entrambe [le soluzioni] possono servire pur di raggiungere i diritti dei palestinesi. Questo è stato l’intelligente approccio strategico dei fondatori del movimento BDS. Data la confusione del movimento nazionale e la mancanza di consenso riguardo agli obiettivi politici, i fondatori si sono piuttosto concentrati sui diritti come obiettivi, chiedendo la realizzazione dell’autodeterminazione attraverso la liberazione dall’occupazione, l’uguaglianza per i palestinesi cittadini di Israele e la giustizia per i rifugiati palestinesi nel rispetto del loro diritto al ritorno. Ciò ha permesso al movimento di raggiungere il più ampio spettro della società palestinese così come degli attivisti della solidarietà internazionale – e di costruire una considerevole posizione di forza.

Ogni elemento di forza a disposizione dovrebbe essere analizzato e compreso per quello che può offrire, per le sue positività e i suoi tranelli, e la società civile palestinese dovrebbe allearsi con l’OLP (o ciò che ne rimane) per quanto possibile per portare avanti gli interessi nazionali palestinesi e per opporsi ai rappresentanti politici palestinesi quando mettono a rischio questi interessi. 2 Nella discussione che segue mi concentrerò su uno dei principali punti di forza, la narrazione palestinese, e sui modi in cui possa essere più efficacemente utilizzata per portare avanti i diritti dei palestinesi.

Ridefinire la narrazione sulla Palestina (e sul BDS)

Parte della narrazione palestinese ha a che fare con il passato, e parte con gli obiettivi della lotta palestinese e guarda più verso il futuro. La parte rivolta al futuro rimane in silenzio e poco efficace, mentre quella sul passato è molto più dettagliata.

La narrazione del passato è, per i palestinesi, una questione esistenziale: esigono che la realtà di quanto successo alla Palestina e ai palestinesi sia vista come l’ingiustizia che è stata. È per questo che lo scorso anno durante il centesimo anniversario della dichiarazione Balfour [con cui l’impero inglese si impegnò a favorire la formazione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.] così tanto tempo è stato dedicato a chiedere le scuse da parte della Gran Bretagna, i cui obiettivi coloniali consentirono la perdita della Palestina e la creazione di Israele. E questa è la ragione per cui così tanto tempo verrà dedicato quest’anno, il settantesimo anniversario della Nakba (catastrofe), a quella narrazione della perdita.

Le scuse da parte della Gran Bretagna sarebbero bastate ma non sono mai state in discussione: gli ex-poteri coloniali non vogliono offuscare le loro stesse narrazioni, per quanto orribili possano essere, o aprire loro stessi la strada a richieste di riparazione. Ma la situazione è diversa nel caso di Israele. Se ci deve essere un diverso, miglior futuro tra Israele e il popolo della Palestina storica ci dev’essere non solo il riconoscimento dell’ingiustizia che il progetto sionista ha perpetrato sui palestinesi, ma anche una manifestazione di pentimento, e un risarcimento. È necessario per sanare la ferita nazionale del popolo e di ogni singolo palestinese.

Può sembrare donchisciottesco parlare di questa richiesta in un momento in cui Israele appare così potente e i palestinesi così oppressi e senza aiuti. Eppure il riconoscimento, le scuse e le riparazioni sono anche necessarie per esorcizzare il fantasma che perseguita gli israeliani. C’è un timore profondamente radicato che la narrazione che sostiene la creazione dello Stato di Israele – quella di coraggiosi pionieri che fanno miracoli in un deserto ostile e disabitato – sia messa in evidenza per la vergogna che è stata, come lo sarebbe tutta la crudeltà deliberata che l’accompagnò e ancora l’accompagna. Ciò danneggerebbe il progetto sionista alla radice.

Di fatto andare oltre questa narrazione non è affatto impossibile: ciò è stato ottenuto dai molti ebrei che si stanno allontanando o si sono allontanati dall’ideologia del sionismo per difendere diritti umani universali. Ed è la base di un futuro alternativo in cui palestinesi ed ebrei vivano insieme come uguali. Questo futuro è già presente in alcune organizzazioni degli Stati Uniti, tali come “Jewish Voice for Peace” [“Voci ebraiche per la Pace, ndt.], in rapida crescita, che comprende parecchi palestinesi tra i suoi membri, così come gruppi di “Studenti per la Giustizia in Palestina” nei campus negli USA, che comprendono palestinesi, ebrei e un insieme di altre etnie e religioni.

Ma i palestinesi hanno urgentemente bisogno di una narrazione che guardi oltre, che li unifichi e che comunichi la forza della loro visione. Israele continua a dominare la narrazione in Occidente, dove ha la maggior parte della sua base di potere, nonostante gli attacchi realizzati da scrittori ed analisti palestinesi e da numerose organizzazioni ed individui del movimento di solidarietà con i palestinesi. È in parte la mancanza di una visione unitaria che guardi avanti e sia positiva da parte dei palestinesi che consente ad Israele di farlo.

Inoltre una narrazione rivolta al futuro può fornire una visione ed una direzione al movimento palestinese finché non verrà il tempo in cui si prenda una decisione se l’esito politico finale possa essere uno o due Stati. Una narrazione unificata è anche importante perché è improbabile che l’unità politica dei palestinesi sia raggiunta nel prossimo futuro. Fatah e Hamas sono troppo divisi, e la frammentazione fisica del popolo palestinese ad opera di Israele ha creato con successo barriere tra loro. Una narrazione unitaria consentirebbe ad ogni parte del popolo palestinese di lavorare verso gli stessi obiettivi – e di continuare la lotta fino a che siano raggiunti questi obiettivi, piuttosto che fermarsi a metà strada del percorso, come è successo con Oslo.

Questa narrazione unitaria palestinese esiste già: libertà, giustizia, uguaglianza. Questi sono gli obiettivi identificati dal movimento BDS. Questi sono anche gli obiettivi a cui tutti i palestinesi possono aspirare e che possono appoggiare, e parlano alla situazione di ogni segmento del popolo palestinese, di quelli che vivono sotto occupazione, dei palestinesi cittadini di Israele o dei rifugiati ed esiliati. Deve essere evitata una trappola: chiedendo l’uguaglianza, bisogna adottare ogni cautela per specificare che questo riguarda i palestinesi cittadini di Israele e non l’uguaglianza tra i palestinesi che vivono sotto occupazione e i coloni che vivono nelle illegali colonie israeliane.

Comunque perché questi obiettivi prendano con successo il proprio posto in prima linea nel movimento nazionale palestinese, il discorso riguardo al BDS deve essere ridefinito. Di solito l’attenzione è concentrata sulla strategia del BDS e non sugli obiettivi identificati dall’appello per il BDS, benché siano ospitati in primo piano del suo sito web. Da sola, la strategia del BDS non può ottenere libertà, giustizia ed uguaglianza, come ben sanno i suoi fondatori. Proprio perché nessun’ altra strategia è così efficacemente utilizzata e proposta quanto quella del BDS, esso domina la scena. Bisogna porre attenzione a presentare il BDS come una delle molte strategie che i palestinesi devono utilizzare, comprese quelle legali e diplomatiche. Anche cultura ed arte giocano un ruolo fondamentale nella richiesta dei diritti palestinesi, e stanno prosperando.

E’ urgente che gli obiettivi siano messi in prima linea: sono un’esaltante e positiva visione che può rapidamente occupare il primo piano. Politici palestinesi, società civile e movimento di solidarietà dovrebbero unificarsi attorno ad essa e chiedere libertà, giustizia ed uguaglianza. E libertà, giustizia ed uguaglianza possono essere ottenute con uno Stato unico o con due Stati.

Note:

  1. Parte del materiale di questo articolo è stato presentato in un discorso all’assemblea annuale della Campagna di Solidarietà con la Palestina il 27 gennaio 2018. Il discorso è stato pubblicato da Mondoweiss il 31 gennaio 2018.

  2. Le fonti di potere e le opzioni palestinesi sono l’argomento di un altro articolo con suggerimenti di numerosi analisti.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è co-fondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete politica palestinese, e scrittrice, conduttrice e commentatrice nei media. Il suo primo libro, “Womanpower: The Arab debate on women at work” [Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne al lavoro], è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è co-autrice di “Citizens Apart: A Portrait of Palestinians in Israel” [Cittadini in disparte: un ritratto dei palestinesi in Israele] (I. B. Tauris). È stata capo redazione della rivista londinese “Medio Oriente” prima di essere assunta alle Nazioni Unite a New York. È co-fondatrice ed ex-co-direttrice della campagna USA per i diritti dei palestinesi ed ora fa parte del suo consiglio di amministrazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)