“Queste catene saranno spezzate”: il libro di Ramzy Baroud sui prigionieri palestinesi – Recensione del libro

Michael Lescher

10 febbraio 2020 – Palestine Chronicle

(These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene verranno spezzate: storie palestinesi di lotta e resistenza nelle carceri israeliane], di Ramzy Baroud, Clarity Press, Inc., 2020)

Fyodor Dostoevsky ha scritto che “il grado di civiltà in una società può essere giudicato visitando le sue prigioni” – un’osservazione in nessun luogo più tristemente vera che in una società la cui stessa esistenza comporti il confinamento di un altro popolo. Il nuovo libro di Ramzy Baroud, “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons”, illustra con una straziante immediatezza il motivo per cui la Palestina contemporanea si riveli nel modo più chiaro all’interno delle prigioni che Israele ha costruito per coloro che resistono alla sua occupazione della loro terra. Viste attraverso il libro di Baroud, queste gabbie raccontano una doppia storia: da un lato, lo squallore di una società eretta sulle fondamenta di un’espropriazione; dall’altro, l’aspra determinazione dei palestinesi che, contro ogni previsione, si rifiutano di essere cancellati dalla storia.

“These Chains Will Be Broken” è una raccolta di testimonianze di prima mano che descrivono le esperienze dei detenuti palestinesi, prese o dai prigionieri stessi o da altri che li conoscono da vicino. (La storia di Faris Baroud, argomento del capitolo finale del libro e di un lontano parente dell’autore, è raccolta dagli scritti di sua madre Ria, morta nel 2017; suo figlio è morto quasi due anni dopo, ancora dietro le sbarre.)

Baroud, giornalista, studioso e consulente nel settore dei media, ha dedicato diversi precedenti libri alla lotta palestinese vista dal punto di vista degli stessi palestinesi. In “These Chains Will Be Broken”, fa un ulteriore passo avanti, tenendo sospesa la propria voce narrante in modo che i detenuti possano raccontare la propria storia a modo loro, trasportando così il lettore direttamente nella loro esperienza. Il risultato è un toccante e profondamente inquietante promemoria su come, in fondo, la storia della Palestina sia un costante ripetersi di prigionia e resistenza.

“La prigionia”, scrive Khalida Jarrar (lei stessa una dei protagonisti del libro) con una premessa illuminante, “rappresenta una posizione morale che deve essere presa ogni giorno e non può mai essere lasciata alle proprie spalle”. Che sia un avvertimento: il lettore di “These Chains Will Be Broken” è ripetutamente costretto ad assumere tale posizione morale mentre, capitolo dopo capitolo, i prigionieri palestinesi mettono a nudo le loro privazioni, le loro speranze, le loro delusioni e la loro determinazione a resistere.

Perfino quelli che hanno familiarità con le realtà della lotta possono trovarsi impreparati alle sue asprezze se le percepiscono, come accade a questi palestinesi, dietro le mura della prigione piuttosto che sepolte dentro la rete della propaganda israeliana. In un articolo denigratorio pubblicato (ahimè) dalla prestigiosa Yale University Press nel 2006, il portavoce della WINEP [organizzazione di esperti americana con sede a Washington DC che si occupa della politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente, ndtr.] Matthew Levitt ha liquidato con poche parole Majdi Hamad definendolo “un terrorista di Hamas condannato all’ergastolo per aver ucciso a Gaza dei compagni palestinesi, presumibilmente sospetti informatori.” Ma quando Hamad compare per la prima volta nel libro di Baroud attraverso gli occhi del compagno prigioniero Mohammad al-Deirawi, dà un’impressione molto diversa: “Veniva trascinato nella sua cella nel carcere sotterraneo di Nafha da un buon numero di guardie armate. Lo picchiavano e lo prendevano a calci dappertutto e, nonostante le sue catene, reagiva come il leone che era. Il suo volto era coperto di sangue. “(Apprendiamo dal libro che questo “leone” è anche “dolce e gentile con i suoi compagni”.)

Allo stesso modo i lettori occidentali possono essere sorpresi della dignità dello stesso al-Deirawi, a cui, dopo aver ricevuto una condanna a 30 anni in un tribunale militare israeliano, viene chiesto dal giudice non se abbia qualcosa da dire ma se sia disposto a “chiedere scusa”.

“Non ho nulla di cui scusarmi”, così al-Deirawi riferisce di aver risposto al giudice. “Non mi scuserò mai per aver resistito all’occupazione, per aver difeso il mio popolo, per aver lottato per i miei diritti rubati. Ma dovete scusarvi voi, e devono scusarsi coloro che demoliscono le case mentre i loro proprietari sono ancora dentro. Coloro che uccidono i bambini, che occupano la terra e commettono crimini contro persone disarmate e innocenti, sono loro che devono scusarsi.” “La mia risposta non gli è piaciuta”, aggiunge al-Deirawi, in uno dei rari momenti di ironia del libro.

I racconti nella raccolta di Baroud contengono descrizioni inevitabili di torture e maltrattamenti, ma alcuni dei dettagli più sconvolgenti riguardano atti di sadismo del tutto gratuito. Una guardia si offre di portare una tazza di tè a un prigioniero e poi versa acqua bollente sulla sua mano tesa. Una caviglia ridotta in frantumi viene “trattata” con un impacco di ghiaccio. Ad un minore incarcerato viene falsamente detto, la notte prima della sua liberazione, che sta per essere condannato all’ergastolo. Una donna tenuta in isolamento è costretta ad osservare un gatto con cui ha stretto amicizia mentre muore insieme ai suoi cuccioli dopo che sono stati avvelenati dalle guardie.

Per di più, i racconti dei prigionieri confermano che queste non sono azioni isolate; nascono dalla logica di un sistema progettato per disumanizzare le sue vittime e anche per intimidirle. Prigioniero dopo prigioniero, per esempio, offrono una descrizione orribile della “bosta” – il veicolo speciale usato per trasportare i palestinesi dalla prigione al tribunale militare e viceversa. La stravagante crudeltà di questa prigione su ruote non ha uno scopo dal punto di vista giudiziario; evidentemente per i loro carcerieri tenere i palestinesi rinchiusi in posizioni anguste, ammanettati e incatenati, dentro minuscole gabbie di metallo surriscaldate per 8-12 ore ogni volta, è fine a se stesso.

Ma tutto questo è solo una parte della storia raccontata nella raccolta di Baroud. Ci sono momenti notevoli di bellezza e coraggio. Un prigioniero separato dalla sua giovane figlia per decenni descrive la felicità provata nel sentire che sua figlia, frequentando la prima elementare, ha appreso la vera ragione della sua prigionia. Sottoposti a continui tormenti, alcuni prigionieri riescono a conseguire il diploma di scuola superiore. Una donna detenuta insulta “un omone” che le guardie hanno fatto entrare nella sua cella: “Se vuoi violentarmi, vai avanti; hai violentato la mia terra e la mia gente, quindi vai avanti e violentami.” La sua sfida mette fine alle minacce sessuali anche se le guardie hanno continuato a torturarla, dice, con sigarette e scosse elettriche sul seno.

Un altro prigioniero dedica quasi tutto il suo tempo allo studio delle lingue, traducendo libri e articoli su una vasta gamma di argomenti politici – un compito che persegue con immutato zelo anche dopo che il suo intero negozio di 4.000 articoli è stato confiscato (senza spiegazione) dalle guardie israeliane con un’incursione. Ancora, un altro prigioniero descrive come lui e i suoi compagni hanno perseverato nello sciopero della fame, nonostante le aggressioni e l’alimentazione forzata, fino a quando le loro richieste sono state finalmente soddisfatte.

La decisione di Baroud di non suddividere i suoi protagonisti in base alla natura dell’azione di resistenza per la quale sono stati imprigionati, violenta o non violenta, messa in atto all’interno di Israele o nei Territori Palestinesi Occupati, metterà a disagio alcuni lettori. Ciò è chiaramente intenzionale. Nella sua introduzione, Baroud insiste sul fatto che “sarebbe assolutamente ingiusto ingabbiare i prigionieri palestinesi in comode categorie di vittime o terroristi, in quanto le classificazioni rendono un’intera Nazione sia vittima che terrorista, un concetto che non riflette la vera natura della pluridecennale lotta palestinese contro il colonialismo, l’occupazione militare e il radicato apartheid israeliano”.

La spietata forma in prima persona di queste narrazioni conferma l’intuizione di Baroud. In mezzo alle ineludibili abiezioni e ai diritti violati della reclusione prolungata, le convinzioni politiche sono destinate a essere vissute in termini di passione condivisa, non di dettagli. Questo libro sostiene che chiunque ricerchi dei parametri diversi per comprendere la Palestina e le prassi dei suoi difensori deve prima distruggere le gabbie che pongono dei confini all’agire dei palestinesi. Fintanto che l’occupazione israeliana renderà la Palestina una vasta prigione, la resistenza sarà in ogni caso l’unico criterio in base al quale una vita palestinese possa essere valutata.

E i prigionieri qui rappresentati ne sono ben consapevoli. Come la poetessa (ed ex prigioniera) Dareen Tatour esclama alla fine del suo capitolo in “These Chains Will Be Broken”:

Lo spirito non si inchinerà,

la sua tenacia non morirà…

Per lune che sorgeranno nei nostri cieli

Dobbiamo vivere in questa oscurità.

Michael Lesher, scrittore e avvocato, ha pubblicato numerosi articoli che trattano di abusi sessuali su minori e altri argomenti, incluso il conflitto Israele-Palestina. È autore del recente libro Sexual Abuse, Shonda and Concealment in Orthodox Jewish Communities (McFarland & Co., Inc.) [Abuso sessuale, vergogna e copertura nelle comunità ebree ortodosse, ndtr.], incentrato sulla copertura di casi di abuso tra ebrei ortodossi. Vive a Passaic, nel New Jersey.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Perché di fronte al piano di Trump gli Stati arabi si sono “divisi”?

Farah Najjar

31 gennaio 2020 – Al Jazeera

Diversi Paesi che attraversano sconvolgimenti sociali ed economici e percepiscono l’Iran come minaccia non riescono a contestare il piano di Trump.

Le reazioni divergenti tra gli Stati arabi al cosiddetto piano per il Medio Oriente del presidente degli Stati Uniti Donald Trump non sono state una sorpresa, affermano gli analisti, osservando che il motivo principale del sostegno – forte o discreto che sia – è quello di garantire il sostegno a Washington contro un comune nemico nella regione, l’Iran.

Dicono che ciò è indicativo anche delle divergenze tra Paesi arabi e dell’impossibilità per alcuni, nelle loro relazioni con l’amministrazione Trump, di dare la priorità alla situazione del popolo palestinese rispetto alle agende economiche nazionali e ai calcoli politici.

Che non ci sia stato un ripudio compatto e deciso del piano di Trump presentato martedì segnala la volontà di alcuni Stati arabi di normalizzare i propri rapporti con Israele, per garantire un “fronte unito” contro le presunte minacce dell’Iran.

“Il breve conflitto militare USA-Iran a gennaio [a seguito dell’assassinio del generale Qassem Soleiman. ndtr.] ha convinto alcuni Paesi del Golfo che Washington è il loro unico protettore”, ha detto ad Al Jazeera Ramzy Baroud, scrittore e giornalista palestinese.

“Alcuni fra gli arabi hanno completamente abbandonato la Palestina e stanno abbracciando Israele per difendersi da una immaginaria minaccia iraniana”, ha detto Baroud.

Negli ultimi anni alcuni Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, che tradizionalmente sostenevano la causa palestinese, hanno cercato di ingraziarsi Israele perché vedono l’Iran come la maggiore minaccia nella regione.

Penso che ciò che è successo sia che queste persone abbiano adottato l’approccio secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico”, ha detto ad Al Jazeera Diana Buttu, analista ed ex consulente legale dei negoziatori di pace palestinesi.

“E non dovrebbe essere necessario neutralizzare l’Iran, o occuparsi dell’Iran … finirebbe per essere a spese dei palestinesi”, ha detto.

Stato di decadenza morale”

Trump, insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha presentato la sua proposta alla Casa Bianca ad un pubblico filoisraeliano. Tra i presenti alla riunione inaugurale c’erano gli ambasciatori del Bahrain, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Oman.

Muscat [capitale dell’Oman, ndtr.], che ha tradizionalmente condotto una politica estera neutrale, nel 2018 con una mossa a sorpresa ha ricevuto Netanyahu, prima visita in Oman di un leader israeliano in oltre due decenni.

Mentre l’Arabia Saudita ha affermato di apprezzare gli sforzi di Trump e ha auspicato colloqui diretti israelo-palestinesi, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Yousef al-Otaiba, ha dichiarato che il piano “offre un importante punto di partenza per un ritorno ai negoziati all’interno di un quadro internazionale guidato dagli Stati Uniti.”

L’Egitto ha seguito l’esempio, sollecitando “un attento e approfondito esame del progetto statunitense”, mentre la Giordania ha messo in guardia contro “l’annessione delle terre palestinesi”. Amman custodisce il complesso della moschea Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata, considerato il terzo sito santo dell’Islam.

Nonostante alcuni di questi Paesi si siano sempre opposti alla crescente influenza dell’Iran nella regione, in passato avevano preso posizioni più forti contro la politica israeliana in Palestina.

Da quando ha assunto la carica il 20 gennaio 2017, Trump è apparso sostenitore dichiarato di Israele e Netanyahu e delle loro politiche anti-palestinesi, che includono una serie di misure criticate come “razziste” e “discriminatorie”.

In particolare, il controverso riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento dell’ambasciata nel 2018 hanno suscitato una condanna unanime da parte dei leader arabi, mentre i leader palestinesi, che vedono Gerusalemme Est come capitale del loro futuro Stato, hanno affermato che gli Stati Uniti non sono più un mediatore onesto nei negoziati.

L’amministrazione Trump ha anche dichiarato che non considera più illegali gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, invertendo decenni di politica americana – una mossa contrastata con forza da palestinesi e associazioni per i diritti.

Washington ha anche chiuso gli uffici della missione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) a Washington per il rifiuto dell’autorità palestinese di avviare colloqui con Israele guidati dagli Stati Uniti.

A queste mosse contro il popolo palestinese e la sua leadership, le Nazioni arabe hanno reagito condannando apertamente le politiche USA-israeliane come violazioni del diritto internazionale, specialmente in merito allo status di Gerusalemme e al trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv.

“Penso che il valore simbolico di Gerusalemme renda più difficile per gli Stati legati agli USA andare contro l’opinione pubblica”, ha affermato Sam Husseini, direttore dell’Institute of Public Accuracy [Istituto per il contrasto alla falsa informazione, ndtr] con sede a Washington.

“È più facile abbandonare i palestinesi come popolo”, ha detto.

Analogamente, Baroud ha affermato che il sostegno al piano di Trump con il conseguente abbandono del popolo palestinese riflette lo “stato di decadenza morale e la disunione del mondo politico arabo”.

“Da un lato, cercano timidamente di mostrare il loro sostegno ai palestinesi, ma dall’altro non vogliono trovarsi in uno scontro politico con Washington e i suoi alleati”, ha detto.

Alaa Tartir, consulente politico di Al-Shabaka: Palestinian Policy Network [rete politica palestinese, ndtr.] afferma che i Paesi arabi non vogliono sfidare gli Stati Uniti.

“In assenza di una potente Lega di Stati arabi … i singoli Stati arabi danno priorità al proprio programma, ai propri bisogni e alle aspirazioni e ambizioni nella regione “, ha detto Tartir ad Al Jazeera.

“Dire un ‘no’ diretto all’amministrazione americana avrebbe conseguenze che molti Stati arabi non sono disposti a sostenere”, ha osservato.

Dipendenza dagli Stati Uniti”

La proposta di Trump ha tolto di mezzo i palestinesi e viola la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che invitava Israele a ritirare le sue forze dai territori occupati nella guerra dei Sei Giorni, e auspicava anche il ritorno dei rifugiati

Prevede l’annessione israeliana di vaste aree della Cisgiordania occupata, compresi gli insediamenti illegali e la Valle del Giordano, offrendo a Israele un confine orientale definitivo lungo il fiume Giordano.

Per contrastare il piano, gli Stati arabi dovrebbero elaborare un “piano e una visione operativa parallela e dettagliata”, ha affermato Tartir.

“Potrebbero iniziare un processo di riforma delle istituzioni di governance globale; e investire in procedure e norme internazionali per rafforzare quella governance di fronte alle continue violazioni americane-israeliane”.

Ma la maggior parte degli Stati arabi è intrappolata in una sequenza di “frammentazione, polarizzazione, debolezza” e, soprattutto, “dipendenza dall’amministrazione americana”, ha affermato Tartir, riferendosi agli sconvolgimenti sociali ed economici in diversi Paesi della regione.

Alcuni dipendono dagli Stati Uniti per mantenere il potere politico; altri, come la Giordania e l’Egitto, dipendono anche dai finanziamenti statunitensi – entrambi i Paesi sono tra i principali beneficiari degli aiuti statunitensi.

Dal 1979, l’Egitto ha ricevuto aiuti per una media di 1,6 miliardi di dollari l’anno, la maggior parte dei quali è stata destinata all’esercito. Il finanziamento statunitense è stato brevemente sospeso durante l’amministrazione del presidente Barack Obama in seguito al colpo di stato militare del 2012.

Amman e il Cairo, stretti alleati degli Stati Uniti e uniche Nazioni arabe ad avere legami diplomatici con Israele, sembrano essere economicamente troppo fragili per contrastare le politiche di USA e Israele nella regione.

“Parlare di potere politico arabo e di una eventuale unità a difesa dei diritti dei palestinesi sembra del tutto incompatibile con l’attuale natura della realtà politica”, ha osservato Baroud.

“I diritti del popolo palestinese e, diciamolo, i diritti dei popoli arabi al momento non incidono minimamente sull’agenda politica araba”, ha affermato.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Uno studio rivela che gli israeliani non si sentono più sicuri nonostante i letali attacchi contro Gaza

5 Gennaio 2020 PALESTINE CHRONICLE

Uno studio accademico ha recentemente rivelato che, nonostante il letale attacco israeliano dello scorso novembre alla Striscia di Gaza assediata, la maggioranza degli israeliani nel sud del Paese non si sente assolutamente più al sicuro.

Due settimane dopo la fine della campagna, i ricercatori del College Tel Hai e dell’università di Tel Aviv hanno svolto uno studio per misurare la resilienza degli israeliani che vivono nelle comunità del sud”, ha riferito il quotidiano israeliano Haaretz.

Lo studio prende in esame le opinioni di 503 residenti ebrei che vivono entro un raggio di 40 km. da Gaza. La principale domanda loro posta è in che modo abbia influito sul loro senso di sicurezza l’attacco israeliano contro la Striscia del 12 novembre, che ha ucciso 34 palestinesi e ferito altre decine.

Il 63% degli intervistati ha risposto che non si sentono più sicuri dopo l’operazione, mentre il 27% ha risposto che si sentono meno sicuri di prima. Solo il 10% ha risposto di essersi sentiti più al sicuro in conseguenza dell’attacco militare contro Gaza.

L’attacco israeliano a Gaza è iniziato con l’assassinio di Bahaa Abu Al Ata, un alto ufficiale della Jihad islamica. E’ proseguito per diversi giorni, con una serie di attacchi aerei mortali su varie aree dell’assediata e impoverita Striscia di Gaza.

Il documento israeliano rivela anche che gli abitanti del sud di Israele, che spesso chiedono più azioni militari contro Gaza, “si sentono cittadini di seconda classe rispetto agli israeliani che vivono più a nord, dicendo che l’IDF (l’esercito israeliano) risponde più duramente ai razzi sparati sulla più grande area di Tel Aviv.”

Gaza è stata l’obbiettivo di molte campagne militari israeliane, comprese parecchie importanti guerre che hanno provocato l’uccisione ed il ferimento di decine di migliaia di palestinesi.

Non è la prima volta che gli abitanti e i coloni del sud di Israele esprimono il loro disappunto riguardo a ciò che considerano “uno status di seconda classe”. Nel novembre 2018 centinaia di coloni hanno organizzato una protesta per chiedere maggiore sostegno del governo nel proteggerli dai lanci di razzi provenienti da Gaza.

All’epoca il redattore di Palestine Chronicle Ramzy Baroud ha sottolineato che “nonostante le loro continue lamentele, le comunità del sud di Israele hanno visto un costante incremento delle opportunità economiche e quindi della popolazione. Questo ha posto queste zone al centro dell’attenzione dei politici israeliani, tutti alla ricerca del consenso dei leader locali e del sostegno dei loro settori economici in forte espansione.”

Il recente impegno elettorale ha fatto delle richieste e delle aspettative dei leader delle comunità israeliane del sud un elemento centrale nelle principali politiche israeliane”, ha aggiunto.

(The Palestine Chronicle)

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La guerra alla verità: come i troll dei social media israeliani hanno conquistato Facebook

Ramzy Baroud

20 ottobre 2019,  Middle East Monitor

Il 9 ottobre la piattaforma di social media Facebook ha cancellato la pagina del nuovo e popolare sito web del Palestinian Information Center (PIC). Questa azione, avvenuta senza nemmeno contattare gli amministratori della pagina, conferma che la guerra di Facebook alle voci pro-Palestina continua senza sosta.

PIC ha quasi 5 milioni di follower su Facebook, un gruppo diversificato e ampio di palestinesi e loro sostenitori internazionali, a dimostrazione della sua popolarità e credibilità. Per i troll di Israele sui social, PIC era semplicemente troppo efficace per lasciargli divulgare il suo messaggio. Come al solito, Facebook ha obbedito.

Questo scenario, che si ripete spesso, è ora la norma: i troll dei social pro-Israele zumano su una piattaforma di media palestinesi, lavorando nel contempo in stretta collaborazione con i gestori di Facebook, per censurare il contenuto, bloccare individui o cancellare intere pagine. Semplicemente i punti di vista palestinesi su Facebook sono indesiderati e il margine di ciò che è permesso si sta rapidamente restringendo.

Sue, un’utente di Facebook, mi ha detto che è stata contattata dalla piattaforma per il suo presunto “odio verbale/bullismo” dopo aver affermato che gli “israeliani sono psicologicamente militarizzati” e che “la minaccia percepita ad opera dei palestinesi e un vero e proprio odio verso di loro (sono) tenuti vivi dal governo (israeliano).”

Sue’ naturalmente ha ragione nel suo giudizio, un’affermazione che è stata fatta molte volte, persino dallo stesso presidente israeliano. Il 14 ottobre 2014 il Presidente Reuven Rivlin ha detto che “è venuto il momento di ammettere che quella israeliana è una società malata di una malattia che ha bisogno di una cura.” Inoltre, il fatto che il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, abbia soffiato sul fuoco della paura, dell’odio e del razzismo per conquistarsi qualche voto alle elezioni israeliane ha fatto il giro dei giornali in tutto il mondo.

È poco chiaro dove esattamente ‘Sue’ abbia sbagliato e quale parte del suo commento costituisca “odio verbale” e “bullismo”. Ho chiesto ad altri di condividere le esperienze che avevano avuto con Facebook a causa dei loro discorsi pro-palestinesi. Le risposte che ho ricevuto indicano un disegno chiaro, cioè che Facebook non sta effettivamente prendendo di mira l’incitamento all’odio, ma le critiche alla guerra di Israele, all’assedio, al razzismo e all’apartheid. Per esempio, ‘José’ è stato censurato per aver scritto, in spagnolo, che “non c’è nulla di più vigliacco che attaccare o uccidere un bambino.”

Un esercito di dannati vigliacchi, assassini di bambini palestinesi, questa non è una guerra, questo è un genocidio,” ha commentato.

Derek’ è stato sospeso dall’uso di Facebook per 30 giorni, fatto avvenuto “molte volte” in passato con “accuse diverse.” Mi ha detto che “basta un certo numero di rapporti da parte dei troll che hanno dei gruppi segreti su chi prendere di mira.”

Lo stesso schema si è ripetuto con ‘Anissa’, ‘Debbie’, Erika’, ‘Layla’, ‘Olivia’, ‘Rich’, ‘Eddy’ e numerosissimi altri.

Ma chi sono questi “troll” e quali sono le radici del fatto che Facebook prenda costantemente di mira palestinesi e i loro sostenitori?

I troll

Secondo un documento ottenuto da Electronic Intifada, il governo israeliano ha finanziato con un enorme budget una “campagna globale di pressione” con l’unico scopo di influenzare l’opinione pubblica straniera e combattere il movimento palestinese di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Scrivendo su EI, Asa Winstanley ha descritto “un esercito di migliaia di troll” che è “parzialmente finanziato dal Ministero Israeliano per gli Affari Strategici”.

Per occultare il proprio coinvolgimento, il ministero ha ammesso di operare usando come facciata dei gruppi che ‘non vogliono rivelare il loro legame con lo Stato,’” ha scritto Winstanley.

Uno di questi gruppi di troll, che si stima includa 15.000 membri attivi, è Act.IL.

Sul sito web “Jacobin Magazine” [rivista on line della sinistra radicale americana, ndtr.], Michael Bueckert  ha descritto la funzione principale degli utenti dell’applicazione Act.IL:

Con le applicazioni su cellulari e la piattaforma online Act.IL, Israele mira a reclutare una folla di attivisti da tastiera e troll per unirsi alla loro guerra contro le più insidiose forme di violenza: i tweet pro-palestinesi e i post su Facebook.”

Act.IL è solo la punta dell’iceberg di un tentativo massiccio e centralizzato, guidato dal governo israeliano e che coinvolge legioni di sostenitori in tutto il mondo. Comunque, Israele non avrebbe mai raggiunto i propri obiettivi se Facebook non si fosse ufficialmente unita al governo israeliano nella sua “guerra” sui social contro i palestinesi.

Sembra che Sohaib Zahda, nel 2014, sia stato il primo palestinese a essere arrestato dall’esercito israeliano per un suo post sui social, seguendo una nuova strategia con cui si vuole dare un giro di vite a quello che Israele considera “incitamento all’odio”. Da allora la campagna di arresti si è allargata e ha incluso centinaia di palestinesi, la maggior parte giovani attivisti artisti, poeti e studenti.

Ma, secondo “Intercept”[sito di controinformazione e di denuncia, ndtr.], Israele ha cominciato a monitorare seriamente Facebook solo nel 2015.

Gli arresti di palestinesi per post su Facebook hanno aperto uno spiraglio su quale sia la situazione della sorveglianza in Israele, rivelando il lato oscuro dei social media,” ha scritto Alex Kane. “ Quella che una volta era vista come un’arma dei deboli è diventata il posto perfetto per stanare una resistenza potenziale.”

Israele ha rapidamente fabbricato una base legale per gli arresti (solo nel 2015 sono stati aperti 155 casi), dando in questo modo una copertura giuridica che è poi stata usata in accordi successivi con Facebook. Il Codice Penale israeliano del 1977, art. 144 D.2, è stato ripetutamente usato per contrastare un fenomeno sulle reti sociali che si è costituito molto più di recente, tutto in nome della repressione dell’ “incitamento alla violenza e al terrorismo”.

 

La strategia israeliana è cominciata con una massiccia campagna di propaganda, hasbara, che mira a creare una pressione pubblica e dei media su Facebook. Il governo israeliano ha attivato l’allora nascente armata di troll per costruire una narrazione globale centrata sull’idea presunta che Facebook sia diventata una piattaforma per idee violente, che i palestinesi stanno utilizzando sul campo.

Il team Facebook-Israele

Quando nel settembre 2016 il governo israeliano ha annunciato la sua intenzione di lavorare con Facebook per “contrastare l’istigazione all’odio”, il colosso dei social media era pronto a raggiungere un accordo, anche se ciò significava violare quella fondamentale libertà di espressione che aveva ripetutamente promesso di rispettare.

Secondo l’Associated Press, che cita funzionari israeliani di alto livello, in quel momento il governo israeliano e Facebook si sono accordati per “decidere come contrastare l’istigazione all’odio sul network dei social media.”

L’accordo è stato il risultato di due giorni di discussioni che hanno coinvolto, fra gli altri, il Ministro degli Interni israeliano, Gilad Erdan, e la Ministra della Giustizia, Ayelet Shaked.

In un comunicato l’ufficio di Erdan ha detto che, “si sono accordati con i rappresentanti di Facebook per creare dei team onde capire come monitorare nel modo migliore e rimuovere i contenuti provocatori.”

In essenza, ciò significa che ogni contenuto relativo alla Palestina e a Israele viene ora filtrato, non solo dagli editor di Facebook, ma anche dai funzionari israeliani.

Per i palestinesi il risultato è stato disastroso, dato che molte pagine, come quelle di PIC, sono state cancellate e innumerevoli utenti sono stati bannati, temporaneamente o per sempre.

La procedura che prende di mira i palestinesi e i loro sostenitori molto spesso segue lo stesso iter:

  • I troll pro-Israele si muovono in tutte le direzioni, monitorando e commentando i post palestinesi.

  • I troll riportano individui e contenuti presumibilmente offensivi al “team” di Facebook/Israele.

  • Facebook esegue le raccomandazioni relative agli account che sono stati segnalati come da censurare.

  • Gli account di pagine palestinesi e pro-palestinesi e quelli di individui singoli sono cancellati o bannati.

Anche se PIC non ha ricevuto nessun preavviso prima che il suo account molto popolare fosse cancellato, è probabile che la decisione abbia seguito lo stesso schema riportato qui sopra.

Quando i social media furono introdotti per la prima volta, molti ci videro un’opportunità per presentare idee e promuovere cause che, per una qualche ragione, erano state ignorate dai media tradizionali.

La Palestina improvvisamente trovò una piattaforma nuova e accogliente, non era influenzata da ricchi proprietari e pubblicitari pagati, ma da individui ordinari – milioni di loro.

Sembra che Israele abbia comunque trovato un modo per eludere l’influenza di Facebook sulle discussioni relative ai diritti palestinesi e all’occupazione di Israele.

Quando la denuncia dell’apartheid, la condanna degli assassini di bambini e la discussione la mentalità di paura che permea Israele diventano “incitamento all’odio” e “bullismo”, uno dovrebbe riflettere su cosa ne è della promessa di libertà e democrazia popolare fatta dai social media.

Se in anni recenti Facebook ha fatto molto di più per screditarsi, niente è più sinistro che censurare le voci di quelli che hanno il coraggio di sfidare violenza, razzismo e apartheid promossi dallo Stato, ovunque, ma specialmente in Palestina.

Romana Rubeo, scrittrice e editor italiana, ha contribuito a questo articolo.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Laburismo israeliano e colonizzazione

Come il partito Laburista israeliano ha concepito le colonie ebraiche illegali in Palestina

 

Ramzy Baroud

24 agosto 2019  Middle East Monitor

 

 

Dopo la vittoria israeliana nella guerra del 1967 diventò impossibile per gli ideologi sionisti mascherare la vera natura del loro Stato: un regime colonialista inflessibile con un progetto espansionista.

Anche se il sionismo fu fin da principio un’impresa coloniale, molti sionisti rifiutarono di vedere se stessi come colonizzatori. I “sionisti culturali”, i “sionisti riformisti” e i “sionisti laburisti” sostenevano progetti politici simili a quelli dei “revisionisti” [la corrente sionista di destra, ndtr.] e di altre forme estreme di sionismo. Quando venne messa alla prova, la differenza tra il sionismo di sinistra e di destra dimostrò di essere una semplice semantica ideologica. Entrambi i gruppi lavorarono per mantenere la stessa dissonanza cognitiva: vittime alla ricerca di una patria e coloni con un progetto razzista e violento.

Questo paradigma intellettuale egoista è ancora in vigore oggi, più definito nei discorsi politici apparentemente conflittuali dei partiti di destra (Likud e altri partiti nazionalisti religiosi e di estrema destra) e di sinistra (laburista e altri) israeliani. Per i palestinesi, tuttavia, entrambe le correnti politiche sono due facce della stessa medaglia.

Dopo la decisiva vittoria israeliana nella guerra del giugno 1967, il nazionalismo ebraico acquisì un nuovo significato. Nacque l’“esercito invincibile” di Israele, e anche gli ebrei scettici cominciarono a vedere Israele come uno Stato vittorioso, che ora era una forza regionale, se non internazionale, di cui tener conto. Cosa altrettanto importante, furono i cosiddetti “progressisti di sinistra” israeliani e altri “sionisti moderati” che progettarono completamente il periodo più riprovevole della storia.

L’occupazione israeliana del Sinai, delle Alture del Golan, di Gerusalemme est, della Cisgiordania e di Gaza e la distruzione degli eserciti uniti di Egitto, Siria e Giordania entusiasmarono la maggioranza degli israeliani, spingendo molti a sviluppare una prospettiva imperialista e ad adottare totalmente un progetto colonialista, basato sulla convinzione che il loro esercito fosse il più forte in Medio Oriente. Gli stessi istinti espansionisti contribuirono a santificare il principio sionista secondo cui “non si sarebbe dovuto dividere mai più Eretz Israel [la Terra di Israele, ndtr.].”

Di fatto, come ha sostenuto il professor Ehud Sprinzak (citato nel libro di Nur Masalha “Imperial Israel and the Palestinians: The Politics of Expansion” [Israele imperialista e i palestinesi: la politica di espansione]), dopo la vittoria israeliana nel 1967, il concetto di espansione imperialista e il rifiuto della “divisione” di Eretz Israel si convertì in “un principio più vigoroso e influente nel sionismo moderno.” Indipendentemente dal fatto se Israele abbia anticipato del tutto questa espansione territoriale di massa o meno, il Paese sembrava deciso a rafforzare rapidamente le proprie conquiste, rifiutando qualunque richiesta di tornare alle linee dell’armistizio del 1949.

Benché gli ebrei religiosi fossero intossicati dall’idea che la zona biblica di “Giudea e Samaria” “ritornasse” ai suoi lontani proprietari, il primo movimento per capitalizzare le conquiste territoriali fu, di fatto, un’organizzazione laica d’élite chiamata “Movimento per Tutta la Terra di Israele” (WLIM).

La conferenza ufficiale di fondazione del WLIM si celebrò poco dopo la vittoria di Israele. Benché fosse stata fondata e dominata da attivisti del partito Laburista, il WLIM superò i confini del partito e le divisioni ideologiche, unite nella loro determinazione a conservare tutta la Palestina, come tutto Israele. In quanto alla popolazione indesiderata, quelli che non vennero espulsi dovevano essere assoggettati a dovere.

Mentre l’Egitto e altri Paesi arabi denunciavano la loro sfortunata guerra, la Palestina si occupò totalmente della prigionia dei palestinesi nella loro stessa terra. Proprio quando Israele celebrava la sua vittoria sugli eserciti arabi ufficiali, i soldati israeliani si riprendevano sorridenti mentre facevano il segno di vittoria presso il cosiddetto “Muro del Pianto”, così come nei luoghi santi della Gerusalemme araba. I palestinesi si prepararono al peggio.

Di fatto, come Baruch Kimmerling scrive nel suo libro “The Palestinian People: A History” [I Palestinesi: la genesi di un popolo, La Nuova Italia, 2002], “fu il momento nella storia palestinese più privo di speranza”, i rifugiati palestinesi che sognavano di tornare alla Palestina precedente al 1948 si scontrarono con una immane difficoltà, nei fatti una nuova Nakba, perché il problema dei rifugiati ora peggiorò e si aggravò a causa della guerra e della creazione di 400.000 nuovi rifugiati. Le ruspe israeliane si spostarono rapidamente in molte parti dei territori palestinesi appena conquistati, come fecero in altre terre arabe occupate, demolendo realtà storiche e costruendone di nuove, come fanno tuttora.

Poco dopo la guerra, Israele cercò di rafforzare la sua occupazione, in primo luogo rifiutando le proposte di pace presentate dal nuovo presidente egiziano, Anwar Sadat, a partire dal 1971, e in secondo luogo attivando la costruzione di colonie in Cisgiordania e a Gaza.

Le prime colonie avevano scopi militari e strategici, dato che l’intenzione era quella di creare fatti sul terreno tali da alterare la natura di un qualunque futuro accordo di pace; di lì il piano Allon, così chiamato da Yigal Allon, un ex ministro e generale del partito laburista nel governo israeliano, che si assunse il compito di delineare un progetto israeliano per i territori palestinesi appena conquistati.

Il piano intendeva annettere per “ragioni di sicurezza” il 30% della Cisgiordania e tutta Gaza. Stabilì la costituzione di un “corridoio di sicurezza” lungo il fiume Giordano, oltre alla “Linea verde”, una delimitazione israeliana unilaterale delle proprie frontiere con la Cisgiordania. Il piano prevedeva l’annessione della Striscia di Gaza a Israele e intendeva restituire parte della Cisgiordania alla Giordania come primo passo verso la messa in pratica dell’“opzione giordana” per i rifugiati palestinesi, cioè la pulizia etnica con la creazione di una “patria alternativa” per i palestinesi.

Il piano fallì, ma non del tutto. I nazionalisti palestinesi garantirono che mai si sarebbe realizzata una patria alternativa, ma la confisca, la pulizia etnica e l’annessione della terra occupata furono un successo totale. Ciò che fu altrettanto importante e coerente fu che il piano di Allon fornì un indicatore inequivocabile che il governo laburista di Israele aveva tutte le intenzioni di conservare almeno grandi aree della Cisgiordania e di tutta Gaza, e non intendeva rispettare la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite [risoluzione del 1967, che imponeva il ritiro dai territori occupati, ndt.].

Per approfittare dell’interesse politico della colonizzazione in Cisgiordania per il governo, un gruppo di ebrei religiosi affittò un hotel nella città palestinese di Hebron (Al-Khalil) per passare la festa di Pesach [la Pasqua ebraica, ndtr.] nella “Tomba dei patriarchi” e si rifiutò semplicemente di andarsene. Ciò provocò la passione per la Bibbia degli israeliani religiosi ortodossi in tutto il Paese, che si riferivano alla Cisgiordania con la sua denominazione biblica, Giudea e Samaria. Il loro movimento risvegliò anche le ire dei palestinesi, che videro con totale costernazione come la loro terra venisse conquistata, chiamata con un nuovo nome e poi colonizzata da stranieri.

Nel 1970, per “espandere” la situazione, il governo israeliano costruì la colonia di Kiryat Arba nella periferia della città araba, che attirò altri ebrei ortodossi a Hebron. Il piano Allon poteva essere stato ideato per obiettivi strategici, ma poco dopo ciò che era strategico e politico si confuse con quello che diventò religioso e spirituale.

In definitiva i palestinesi stavano perdendo molto velocemente la loro terra, un processo che avrebbe portato a un grande spostamento di popolazione israeliana, inizialmente a Gerusalemme est occupata – che venne annessa illegalmente poco dopo la guerra del 1967 – e alla fine nel resto dei territori occupati. Nel corso degli anni l’aumento delle colonie strategiche si unì all’espansione per ragioni religiose, promossa da un movimento vitale, esemplificato nella creazione di Gush Emunim (Blocco dei Fedeli [movimento dei coloni nazional-religiosi, ndtr.]) nel 1974. Il movimento era deciso a insediare in Cisgiordania legioni di fondamentalisti ebrei.

Il piano di Allon si estese anche fino ad includere Gaza e il Sinai. Allon desiderava creare una “striscia” di territori che avrebbe fatto da zona cuscinetto tra Egitto e Gaza. “Zona cuscinetto” fu, in questo contesto, un nome in codice per colonie ebraiche illegali e posti militari nell’estremo sud della Striscia di Gaza e in zone adiacenti del nord del Sinai, una regione che Israele denominò la “pianura di Rafiah”.

All’inizio del 1972 migliaia di uomini, donne e bambini, per lo più beduini palestinesi, vennero espulsi dalle loro case nel sud di Gaza. Nonostante vivessero nella zona da generazioni, la loro presenza era un ostacolo rispetto ad un piano dell’esercito israeliano che presto avrebbe inglobato la metà di Gaza. Furono evacuati senza che venisse loro permesso di portare via neppure i propri beni, per modesti che fossero. L’esercito israeliano affermò che nella zona la pulizia etnica venne messa in atto “solo” a danno di 4.950 persone. Ma i capi delle tribù affermarono che più di 20.000 abitanti vennero obbligati ad abbandonare le proprie case e terre.

Allon aveva conferito ad Ariel Sharon e ad altri comandanti militari l’incarico di dividere i territori da poco occupati in piccole regioni, tra le quali inserire colonie strategiche e basi militari per indebolire la resistenza locale e consolidare il controllo israeliano.

“(Sharon) racconta di essersi trovato in una duna (nei pressi di Gaza) con ministri del governo”, scrisse Gershom Gorenberg, “a spiegare che, insieme alle misure militari, per controllare la Striscia voleva “strisce” di colonie che dividessero le città tagliando la regione in quattro parti. Un’altra “striscia” avrebbe attraversato il confine del Sinai, contribuendo a creare una “zona neutrale ebraica tra Gaza e il Sinai per interrompere il flusso di armi e dividere le due regioni, nel caso in cui il resto del Sinai fosse tornato all’Egitto.”

Il resto è storia. Benché negli ultimi giorni la presenza demografica dei coloni si sia spostata in larga misura verso destra e la loro influenza politica sia aumentata esponenzialmente a Tel Aviv, questi coloni, che ora rappresentano circa 600.000 persone che vivono in più di 200 insediamenti, sono l’orribile creazione della “sinistra” israeliana con il totale sostegno e appoggio della destra, tutti al servizio della causa originaria del sionismo, che è rimasto fedele ai principi fondativi: un movimento colonialista sostenibile solo con la violenza e la pulizia etnica.

 

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

 

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)

 




La guerra all’innocenza: bambini palestinesi nei tribunali militari israeliani

Ramzy Baroud |

7-agosto 2019 – Foreing Policy Journal

Non si deve permettere ai tribunali militari israeliani di continuare a brutalizzare impunemente i bambini palestinesi.

E’ stato riportato che il 29 luglio, nella Gerusalemme occupata, Muhammad Rabi Elayyan, di 4 anni, è stato convocato dalla polizia israeliana per essere interrogato.

La notizia, originariamente riportata dalla Palestinian News Agency (WAFA), è stata successivamente smentita dalla polizia israeliana, probabilmente per ridurre il successivo impatto mediatico disastroso.

Gli israeliani non negano la vicenda nel suo complesso, ma sostengono piuttosto che non sia stato convocato il bambino, Muhammad, ma suo padre, Rabi ‘, che sarebbe stato convocato presso la stazione di polizia israeliana in Salah Eddin Street a Gerusalemme, per essere interrogato riguardo alle azioni di suo figlio.

Il bambino è stato accusato di aver lanciato una pietra contro i soldati israeliani di occupazione nel quartiere di Issawiyeh, un obiettivo abituale delle violenze israeliane. Il quartiere è stato anche il luogo tragico della demolizione di case con il pretesto che i palestinesi avessero costruito senza i permessi. Naturalmente, a Issawiyeh, o ovunque a Gerusalemme, la stragrande maggioranza delle richieste di costruire dei palestinesi viene respinta, mentre i coloni ebrei possono costruire senza ostacoli sulle terre palestinesi.

A tale proposito, Issawiyeh non è nuovo a comportamenti assurdi e illegali da parte dell’esercito israeliano. Il 6 luglio, una madre residente nel quartiere assediato è stata arrestata per fare pressione sul figlio adolescente, Mahmoud Ebeid, affinché a sua volta si consegnasse. La madre “è stata arrestata dalla polizia israeliana come pedina di scambio”, ha riferito Mondoweiss, citando il Wadi Hileh Information Center di Gerusalemme.

Le autorità israeliane hanno ragione di sentirsi in imbarazzo per l’intero episodio riguardante il bambino di 4 anni, da cui il tentativo di insinuare dubbi sulla vicenda. Il fatto è che il corrispondente di WAFA a Gerusalemme aveva, in effetti, verificato che il mandato era a nome di Muhammad, non di Rabi.

Mentre alcune fonti di notizie hanno sposato l’ “hasbara” [propaganda in ebraico, ndtr] israeliana, trasmettendo prontamente le proteste da parte israeliana su “false notizie”, bisogna tenere presente che questo evento non è certo un incidente isolato. Nei confronti dei palestinesi, notizie riguardanti detenzioni, percosse e uccisioni di bambini sono tra le caratteristiche più ricorrenti dell’occupazione israeliana dal 1967.

Proprio il giorno dopo la convocazione di Muhammad, le autorità israeliane hanno interrogato anche il padre di un bambino di 6 anni, Qais Firas Obaid, dello stesso quartiere di Issawiyeh, dopo aver accusato il bambino di aver gettato il contenitore di carta di un succo contro i soldati israeliani.

L’International Middle East Media Center (IMEMC) ha rivelato che “secondo fonti locali a Issawiyeh, l’esercito (israeliano) ha inviato un mandato di comparizione alla famiglia di Qais perché si recasse per essere interrogato presso l’ufficio di polizia di Gerusalemme mercoledì (31 luglio) alle 8 di mattina”. In una foto, il bambino è raffigurato mentre gli viene sottoposto davanti ad una telecamera un ordine militare israeliano scritto in ebraico.

Le storie di Muhammad e Qais sono la norma, non l’eccezione. Secondo il gruppo di difesa dei prigionieri, Addameer, attualmente nelle carceri israeliane ci sono 250 minori, e circa 700 minori palestinesi che hanno a che fare ogni anno con il sistema giudiziario militare israeliano. “L’accusa più comune rivolta contro i minori, riferisce Addameer, è il lancio di pietre, un reato punibile in base alla legge militare [con la reclusione] fino a 20 anni”.

In effetti, Israele ha molto di cui essere imbarazzato. Dall’inizio della Seconda Intifada, la rivolta popolare del 2000, circa 12.000 minori palestinesi sono stati arrestati e interrogati dall’esercito israeliano.

Ma non sono solo i minori e le loro famiglie a essere presi di mira dai militari israeliani, ma anche coloro che prendono le loro difese. Il 30 luglio, un avvocato palestinese, Tariq Barghouth, è stato condannato a 13 anni di carcere da un tribunale militare israeliano per “aver sparato in diverse occasioni contro gli autobus israeliani e le forze di sicurezza “.

Per quanto fragile possa sembrare l’accusa riguardante un noto avvocato che spara agli “autobus”, è importante notare che Barghouth è molto stimato per le sue difese in tribunale di molti minori palestinesi. Barghouth era una fonte costante di grattacapi per il sistema giudiziario militare israeliano a causa della sua strenua difesa di un ragazzino, Ahmad Manasra.

Manasra, all’età di 13 anni, è stato processato e incriminato da un tribunale militare israeliano perché avrebbe pugnalato e ferito due israeliani vicino all’insediamento ebraico illegale di Pisgat Ze’ev nella Gerusalemme occupata. Il cugino di Manasra, Hassan, di 15 anni, è stato ucciso sul posto, mentre Ahmad, ferito, è stato processato in tribunale come un adulto.

Fu l’avvocato Barghouth a contestare e denunciare il tribunale israeliano per il duro interrogatorio e per aver filmato in segreto il bambino ferito mentre era legato al suo letto d’ospedale.

Il 2 agosto 2016, Israele ha approvato una legge che consente alle autorità di “imprigionare un minore condannato per crimini gravi come omicidio, tentato omicidio o omicidio colposo anche se ha meno di 14 anni”. La legge è stata predisposta all’uopo per trattare casi come quello di Ahmad Manasra, il quale il 7 novembre 2016 (tre mesi dopo l’approvazione della legge) è stato condannato a 12 anni di carcere.

Il caso di Manasra, i video trapelati dei maltrattamenti che ha subito da parte degli interrogatori israeliani e la sua dura condanna hanno determinato una maggiore attenzione internazionale sulla difficile situazione dei minori palestinesi all’interno del sistema giudiziario militare israeliano.

“Si ravvisa come gli interrogatori israeliani facciano uso di abusi verbali, intimidazioni e minacce a quanto pare per infliggere sofferenza mentale allo scopo di ottenere una confessione”, ha detto all’epoca Brad Parker, avvocato e responsabile ufficiale per la sensibilizzazione a livello internazionale di Defence for Children — Palestine.

La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, di cui Israele, a partire dal 1991, è firmataria, “proibisce la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti”. Tuttavia, secondo Parker, “maltrattamenti e torture di minori palestinesi arrestati dai militari e dalla polizia israeliani sono diffusi e sistematici “.

Così sistematici, in effetti, che video e notizie sull’arresto di minori palestinesi molto giovani sono quasi una costante sulle piattaforme di social media che si occupano di Palestina e diritti dei Palestinesi.

La triste realtà è che Muhammad Elayyan, 4 anni, e Qais Obaid, 6 anni, e molti bambini come loro, sono diventati un bersaglio di soldati israeliani e coloni ebrei in tutti i territori palestinesi occupati.

Questa orrenda realtà non deve essere tollerata dalla comunità internazionale. I crimini israeliani contro i minori palestinesi devono essere efficacemente affrontati perché Israele, le sue leggi disumane e gli iniqui tribunali militari non devono poter continuare la loro incontrastata brutalità nei confronti dei minori palestinesi.

(Traduzione di Aldo Lotta)




La corsa di Israele in Africa: vendere acqua, armi e menzogne

Ramzy Baroud

23 luglio 2019 – Al Jazeera

Israele sta cercando di riscrivere la storia per entrare nei cuori dei cittadini africani, ma non ci riuscirà

Per anni, il Kenya è stato la porta di Israele verso l’Africa. Israele ha usato le forti relazioni politiche, economiche e di sicurezza tra i due Stati per espandere la sua influenza sul continente e mettere altre Nazioni africane contro la Palestina. Malauguratamente la strategia di Israele sembra, almeno in apparenza, avere successo: il sostegno storico e dichiarato dell’Africa alla lotta palestinese sulla scena internazionale sta diminuendo.

Il riavvicinamento del continente a Israele è una sventura, perché, per decenni, l’Africa è stata all’avanguardia nell’opporsi a tutte le ideologie razziste, incluso il sionismo, ideologia alla base della fondazione di Israele sulle rovine della Palestina. Se l’Africa cedesse alle lusinghe e alle pressioni israeliane e accettasse pienamente lo Stato sionista, il popolo palestinese perderebbe un partner prezioso nella lotta per la libertà e i diritti umani.

Ma non tutto è perduto.

Il mese scorso ho visitato Nairobi, capitale del Kenya, per partecipare a incontri con giornalisti, intellettuali, attivisti per i diritti umani e cittadini comuni del Paese, nel tentativo di contrastare parte della propaganda imposta negli ultimi anni dalla macchina israeliana dell’hasbara [propaganda israeliana, ndtr.]. Considerando il successo di Israele nel penetrare i vari strati della società keniota, volevo indagare se fosse ancora in qualche modo possibile una solidarietà.

Alla fine della mia visita sono rimasto piacevolmente sorpreso, poiché ho scoperto che la “storia del successo” di Israele in Kenya e nel resto dell’Africa è superficiale e l’affinità tra Africa e Palestina è troppo profonda perché sia facilmente sradicata da una qualsiasi “campagna d’immagine” da parte di Israele.

La lunga storia della solidarietà africana con la Palestina

Secondo l’analista politico israeliano Pinhas Anbari, la “campagna d’immagine in Africa” di Israele è iniziata dopo che Israele ha fallito nel convincere gli Stati europei a sostenere le sue politiche nei confronti dei palestinesi.

“Quando l’Europa espresse apertamente il suo sostegno alla creazione di uno Stato palestinese”, ha detto Anbara, “Israele ha preso la decisione strategica di rivolgersi all’Africa”.

Ma il sostegno dell’UE a uno Stato palestinese e le critiche occasionali alle colonie ebraiche illegali nei territori occupati non sono state le uniche ragioni alla base della decisione di Israele di concentrarsi sull’Africa.

La maggior parte dei Paesi africani, come la maggior parte dei paesi del sud del mondo, ha votato a lungo a favore delle risoluzioni filo-palestinesi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA), contribuendo ulteriormente al senso di isolamento di Israele sulla scena internazionale. Di conseguenza, riconquistare l’Africa – “riconquistare” perché l’Africa non è sempre stata ostile a Israele e al sionismo – è diventato un modus operandi delle relazioni internazionali israeliane.

Il Ghana riconobbe ufficialmente Israele nel 1956, otto anni appena dopo la sua nascita, e iniziò una tendenza che continuò tra i Paesi africani negli anni seguenti. All’inizio degli anni ’70, Israele aveva conquistato una posizione forte nel continente. Alla vigilia della guerra arabo-israeliana del 1973, Israele aveva rapporti diplomatici con 33 Paesi africani.

“La guerra di ottobre”, tuttavia, ha cambiato tutto. Allora, i Paesi arabi, sotto la guida egiziana, agivano, in certa misura, con una strategia politica unitaria. E quando i Paesi africani dovettero scegliere tra Israele, un Paese nato da intrighi coloniali occidentali, e gli arabi, che soffrivano per mano del colonialismo occidentale quanto l’Africa, scelsero naturalmente la parte araba. Uno dopo l’altro, i Paesi africani iniziarono a recidere i legami con Israele. Ben presto nessuno Stato africano tranne Malawi, Lesotho e Swaziland intrattenne relazioni diplomatiche ufficiali con Israele.

In seguito, la solidarietà del continente con la Palestina è andata anche oltre. L’Organizzazione dell’Unità Africana – il precursore dell’Unione Africana – nella sua dodicesima sessione ordinaria, tenutasi a Kampala nel 1975, fu il primo organo internazionale a riconoscere su larga scala il razzismo intrinseco nell’ideologia sionista di Israele, adottando la Risoluzione 77 (XII) [di sostegno alla popolazione palestinese e forte condanna di Israele, ndtr]. La stessa risoluzione è citata nella risoluzione UNGA 3379, adottata nel novembre dello stesso anno, che stabiliva che “il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale”. La risoluzione 3379 è rimasta in vigore fino a quando non è stata revocata dall’Assemblea nel 1991, dietro una veemente pressione americana.

Purtroppo, la solidarietà dell’Africa con la Palestina ha iniziato a erodersi negli anni ’90. In quegli anni il processo di pace sponsorizzato dagli Stati Uniti ebbe un grosso slancio, dando luogo agli Accordi di Oslo e ad altri accordi che normalizzarono l’occupazione israeliana senza dare ai palestinesi i diritti umani fondamentali. Con molti incontri e strette di mano tra palestinesi e raggianti funzionari israeliani, presentati regolarmente sui media, molte Nazioni africane ebbero l’illusione che una pace duratura fosse finalmente a portata di mano. Alla fine degli anni ’90, Israele aveva riattivato i legami con ben 39 Paesi africani. Mentre i palestinesi perdevano sempre più terra grazie a Oslo, Israele ottenne molti nuovi alleati importanti in Africa e in tutto il mondo.

Eppure per Israele una “lotta per l’Africa” a tutto campo – come alleata politica, partner economico e cliente delle sue tecnologie della “sicurezza” e di armamenti – non si è manifestata apertamente che poco tempo fa.

La lotta di Israele per l’Africa

Il 5 luglio 2016, Benjamin Netanyahu ha dato il via alla corsa di Israele per l’Africa con una storica visita in Kenya, che ha fatto di lui il primo ministro israeliano a visitare l’Africa negli ultimi 50 anni. Dopo aver trascorso un po’ di tempo a Nairobi, dove ha partecipato al Forum economico Israele-Kenya accanto a centinaia di leader israeliani e kenioti, si è trasferito in Uganda, dove ha incontrato i leader di altri Paesi africani tra cui il Sud Sudan, il Ruanda, l’Etiopia e la Tanzania. Nello stesso mese, Israele ha annunciato il ripristino dei rapporti diplomatici tra Israele e Guinea.

La nuova strategia israeliana è iniziata lì. Sono seguite altre visite ad alto livello in Africa e annunci trionfali su nuove joint venture e investimenti economici.

Tuttavia, il primo ministro israeliano ha presto rilevato come gli sforzi diplomatici ed economici per conquistare l’Africa fossero insufficienti. Quindi, si è arreso alla riscrittura della storia per migliorare la posizione di Israele nel continente.

Nel giugno 2017, Netanyahu ha preso parte alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS), che si tiene nella capitale liberiana Monrovia. “Africa e Israele godono di una naturale affinità”, ha affermato Netanyahu nel suo discorso. “Abbiamo, sotto molti aspetti, storie simili. Le vostre Nazioni hanno sofferto duramente sotto il dominio straniero. Avete vissuto guerre e massacri orribili. La nostra storia è molto simile.”

Con queste parole, Netanyahu ha cercato non solo di coprire la brutta faccia del colonialismo sionista e di ingannare gli africani, ma anche di derubare i palestinesi della loro storia.

Nonostante l’evidente falsità delle “storie simili” di Netanyahu, l’offensiva del fascino di Israele in Africa è proseguita di successo in successo. Nel gennaio di quest’anno, ad esempio, il Ciad, nazione a maggioranza musulmana e geograficamente la più importante dell’Africa centrale, ha stabilito legami economici con Israele.

Cercando di affermarsi come partner delle Nazioni africane, Israele ha fornito alcuni aiuti a beneficio degli africani, come la fornitura di tecnologie solari, idriche e agricole alle regioni bisognose. Tuttavia, questi contributi hanno avuto un alto costo.

Quando, ad esempio, nel dicembre 2016, il Senegal ha sottoscritto la risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che condannava la costruzione di insediamenti ebrei illegali nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, Netanyahu ha richiamato l’ambasciatore israeliano a Dakar e prontamente cancellato tutti i progetti di irrigazione a goccia del Mashav [l’Agenzia israeliana per lo Sviluppo e la Cooperazione Internazionale, ntr.] – i progetti erano stati precedentemente “ampiamente pubblicizzati come parte importante del contributo di Israele alla ‘lotta contro la povertà in Africa’ “.

Israele non solo si è servito così di progetti come questi per punire le nazioni africane quando queste abbiano mancato di fornire supporto cieco a Israele nei contesti internazionali, ha anche usato le sue nuove relazioni per trasformare l’Africa in un nuovo mercato per la vendita di armi.

Paesi africani come Ciad, Niger, Mali, Nigeria e Camerun, tra gli altri, sono diventati clienti delle tecnologie israeliane di “antiterrorismo”, gli stessi strumenti mortali attivamente utilizzati per reprimere i palestinesi nella loro eterna lotta per la libertà.

E tutto questo mentre Israele continua a promuovere la medesima mentalità razzista e coloniale che ha asservito e soggiogato l’Africa per centinaia di anni. La cosa sembra essere sfuggita ai leader africani che si sono messi in fila per ricevere sussidi e appoggio israeliani nella loro dubbia “guerra al terrorismo”. Inoltre, lo sfacciato razzismo anti-africano che impronta in generale la politica e la società israeliane non sembra avere alcuna conseguenza per il crescente fan-club di Israele in Africa.

Molti governi africani, compresi quelli di Nazioni a maggioranza musulmana, stanno dando a Israele esattamente ciò che vuole: un modo per uscire dal suo isolamento e legittimare l’apartheid.

“Israele si sta facendo strada nel mondo islamico”, ha detto Netanyahu durante la prima visita di un leader israeliano nella capitale del Ciad, Ndjamena, il 20 gennaio 2019. “Stiamo facendo la storia e stiamo trasformando Israele in una potenza globale in crescita”.

I palestinesi e gli arabi, naturalmente, hanno una parte di colpa in tutto ciò, per aver abbandonato i loro alleati africani nell’ inseguimento insensato, dopo le promesse di Stati Uniti e Occidente, di una pace che non si è mai realizzata. La politica araba è enormemente cambiata dalla metà degli anni ’70. Non solo i Paesi arabi non parlano più con una sola voce e, quindi, non hanno una strategia unificata per quanto riguarda l’Africa o il resto del mondo, ma alcuni governi arabi stanno attivamente tramando con Tel Aviv e Washington contro i palestinesi. La conferenza economica del Bahrain, che si è tenuta a Manama dal 25 al 26 giugno, è stata l’ultimo di questi eventi.

La stessa leadership palestinese ha allontanato la propria attenzione politica dal sud del mondo, soprattutto dopo la firma degli Accordi di Oslo. Per decenni, l’Africa ha avuto poca importanza nei calcoli angusti e auto-referenziali dell’Autorità Nazionale Palestinese. Per l’ANP, solo Washington, Londra, Madrid, Oslo e Parigi avevano un’importanza strategica – un errore politico deplorevole sotto tutti gli aspetti. Questo errore storico deve essere corretto prima che la storia del successo di Israele escluda i palestinesi da qualsiasi influenza in Africa e nel resto del sud del mondo.

Eppure, nonostante i molti successi nell’attirare governi africani nella propria rete di alleati, Israele non è riuscito a entrare nei cuori degli africani, che ancora vedono la lotta palestinese per la giustizia e la libertà come un’estensione della propria lotta per la democrazia, l’uguaglianza e i diritti umani.

È vero, Israele ha ottenuto il sostegno di parte della classe dirigente in Africa, ma non è riuscito a conquistare il popolo africano, che rimane dalla parte dei palestinesi. Durante la mia visita di 10 giorni nel loro Paese, i kenioti di ogni estrazione sociale mi hanno dimostrato il loro sostegno alla Palestina nel modo più confortante, autentico e naturale. 

A Nairobi, studenti, accademici e attivisti per i diritti umani si rapportano al popolo palestinese non come osservatori esterni simpatizzanti della loro lotta, ma come partner in una battaglia collettiva per giustizia, libertà e diritti. La sanguinosa lotta del Kenya contro il colonialismo britannico, la sua orgogliosa guerra di liberazione e i molti sacrifici per ottenere la libertà sono un’immagine quasi speculare dell’attuale lotta palestinese contro un altro nemico coloniale e razzista.

La Palestina sarà sempre vicina al cuore di tutti gli africani a causa della dolorosa e orgogliosa storia di colonialismo e resistenza che condividiamo. Con questa considerazione, i palestinesi dovrebbero rendersi conto del fatto che Israele sta attivamente cercando di riscrivere la loro storia e privarli della solidarietà di popoli che forse comprendono la loro situazione meglio di chiunque altro.

Sarebbe un’ingiustizia morale alla quale non dovrebbe essere permesso di avere la meglio. 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è editorialista noto a livello internazionale, consulente per i media e scrittore.

(traduz. di Luciana Galliano)




Il giorno dopo: che succede se Israele annette la Cisgiordania?

Ramzy Baroud

24 giugno, 2019 – Middle East Monitor

Gli inviti all’annessione della Cisgiordania occupata sono all’ordine del giorno sia a Tel Aviv che a Washington. Ma Israele e i suoi alleati americani dovrebbero stare attenti riguardo a ciò che auspicano. Annettere i Territori Palestinesi Occupati non farà che rafforzare l’attuale ripensamento della strategia palestinese, invece di risolvere i problemi che Israele stesso si provoca.

Incoraggiati dalla decisione dell’amministrazione di Donald Trump di spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, i dirigenti del governo israeliano ritengono che questo sia il momento giusto per annettere l’intera Cisgiordania.

Infatti, “non vi è momento migliore di questo” è stata la frase esatta usata dall’ex Ministra della Giustizia israeliana Ayelet Shaked, quando ha sostenuto l’annessione in una recente conferenza a New York.

Certo, in Israele è nuovamente una stagione elettorale, poiché il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un governo dopo le ultime elezioni di aprile. Durante queste campagne politiche si assiste a molte dimostrazioni di forza, dato che i candidati fanno la voce grossa in nome della ‘sicurezza’, della lotta al terrorismo, eccetera.

Ma i commenti di Shaked non possono essere liquidati come effimere scaramucce elettorali. Rappresentano molto di più, se considerati all’interno di un più ampio contesto politico.

Sicuramente, da quando Trump è arrivato alla Casa Bianca, per Israele le cose non sono mai – e ripeto, mai – andate così bene. È come se il programma più radicale del governo di destra fosse diventato una lista dei desideri per gli alleati di Israele a Washington. Questa lista include il riconoscimento USA dell’annessione illegale da parte di Israele della Gerusalemme est palestinese occupata, delle Alture del Golan siriane occupate e l’abbandono totale del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Ma non è tutto. Affermazioni fatte da influenti dirigenti USA indicano un iniziale interesse per la completa annessione della Cisgiordania occupata o almeno di larga parte di essa. L’ultimo di questi auspici è stato fatto dall’ambasciatore USA in Israele David Friedman.

Israele ha il diritto di annettere parte…della Cisgiordania”, ha detto Friedman in un’intervista, citata dal New York Times l’8 giugno.

Friedman è molto coinvolto nel cosiddetto accordo del secolo, uno stratagemma politico sostenuto soprattutto dal primo consigliere e genero di Trump, Jared Kushner. La palese idea che sorregge questo ‘accordo’ è cancellare le fondamentali richieste dei palestinesi, rassicurando al contempo Israele sulla sua ricerca di maggioranza demografica e sulle preoccupazioni riguardo alla ‘sicurezza’.

Altri dirigenti USA che spalleggiano gli sforzi di Washington a favore di Israele sono l’inviato speciale USA in Medio Oriente, Jason Greenblatt, e l’ex ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Nicki Haley. In una recente intervista al giornale di destra israeliano ‘Israel Hayom’ Haley ha detto che il governo israeliano “non dovrebbe preoccuparsi” riguardo ai dettagli dell’accordo del secolo, che devono essere ancora del tutto svelati.

Conoscendo l’amore di Haley – e la sua sfrontata difesa – per Israele presso le Nazioni Unite, non dovrebbe essere troppo difficile capire il sottile ed ovvio significato delle sue parole.

Ecco perché il richiamo di Shaked all’annessione della Cisgiordania non può essere liquidato come un banale discorso da periodo elettorale.

Ma Israele può annettere la Cisgiordania?

In pratica sì, lo può fare. È vero che sarebbe una flagrante violazione del diritto internazionale, ma questo concetto non ha mai disturbato Israele, né gli ha impedito di annettere territori arabi o palestinesi. Per esempio, ha occupato Gerusalemme est e le Alture del Golan rispettivamente nel 1980 e 1981.

Inoltre in Israele il clima politico è sempre più disponibile a compiere un simile passo. Un sondaggio condotto dal quotidiano israeliano Haaretz lo scorso marzo ha rivelato che il 42% degli israeliani è favorevole all’annessione della Cisgiordania. Questa percentuale è destinata a crescere nei prossimi mesi, dato che Israele continua a spostarsi a destra.

È anche importante notare che diversi passi sono già stati compiuti in questa direzione, compresa la decisione della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] di applicare ai coloni ebrei illegali in Cisgiordania le stesse leggi civili applicate a chi vive in Israele.

Ma è qui che Israele si trova di fronte al suo più grande dilemma.

Secondo un sondaggio condotto congiuntamente dall’università di Tel Aviv e dal Centro palestinese per la Politica e la Ricerca nell’agosto 2018, più del 50% dei palestinesi si rende conto che la cosiddetta soluzione dei due Stati non può più reggere.

Inoltre un crescente numero di palestinesi ritiene anche che la coesistenza in un unico Stato, in cui ebrei israeliani e arabi palestinesi (sia musulmani che cristiani) vivano fianco a fianco, sia la sola formula possibile per un futuro migliore.

La dicotomia per i dirigenti israeliani che cercano di mantenere una maggioranza demografica ebraica e la marginalizzazione dei diritti dei palestinesi, è che non hanno più alternative valide.

Anzitutto comprendono che l’occupazione senza fine dei territori palestinesi non può essere sostenibile. La perdurante resistenza palestinese all’interno e la nascita del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) all’estero stanno minacciando la stessa legittimità politica di Israele in tutto il mondo.

In secondo luogo, devono anche tenere conto del fatto che, dal punto di vista dei dirigenti ebrei israeliani, l’annessione della Cisgiordania con milioni di palestinesi moltiplicherà proprio la “minaccia demografica” che hanno temuto per molti anni.

Terzo, la pulizia etnica di intere comunità palestinesi – la cosiddetta opzione “trasferimento” – come quella che fece Israele alla sua fondazione nel 1948, e nuovamente nel 1967, non è più possibile. Né i Paesi arabi apriranno le loro frontiere per i genocidi utili a Israele, né i palestinesi se ne andranno, per quanto il prezzo sia alto. Il fatto che gli abitanti di Gaza siano rimasti là, nonostante anni di assedio e di feroci guerre, ne è un esempio.

Al di là delle messinscene politiche, i dirigenti israeliani capiscono che non sono più al posto di comando e, nonostante la loro superiorità militare e politica rispetto ai palestinesi, sta diventando evidente che la potenza di fuoco ed il cieco sostegno di Washington non sono più sufficienti a determinare il futuro del popolo palestinese.

È altresì chiaro che il popolo palestinese non è, e non è mai stato, un soggetto passivo del proprio destino. Se Israele mantiene la sua occupazione da 52 anni, i palestinesi continueranno a resistere. Quella resistenza non verrà indebolita o domata da alcuna decisione di annettere la Cisgiordania, in parte o del tutto, esattamente come la resistenza palestinese a Gerusalemme non è cessata dopo la sua illegale annessione da parte di Tel Aviv quarant’anni fa.

Infine, l’annessione illegale della Cisgiordania può solo contribuire alla irreversibile consapevolezza tra i palestinesi che la loro lotta per la libertà, i diritti umani, la giustizia e l’uguaglianza può essere meglio sostenuta attraverso una battaglia per i diritti civili all’interno dei confini di un unico Stato democratico.

Nella sua cieca arroganza, Shaked e la sua genia di destra non fanno che accelerare la scomparsa di Israele come Stato etnico e razzista, mentre avviano una fase di possibilità migliori della continua violenza e apartheid.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Due narrazioni sulla Palestina

Le due narrazioni sulla Palestina: il popolo è unito, le fazioni no

 

Ramzy Baroud

8 maggio 2019 – Palestine Chronicle

 

Le due narrazioni sulla Palestina: il popolo è unito, le fazioni no

Ramzy Baroud

8 maggio 2019 – Palestine Chronicle

 

La conferenza internazionale sulla Palestina, tenutasi a Istanbul tra il 27 e il 29 aprile, ha riunito molti relatori e centinaia di accademici, giornalisti, attivisti e studenti, provenienti dalla Turchia e da tutto il mondo.

La conferenza è stata una rara occasione per sviluppare una discussione di solidarietà internazionale sia inclusivo che lungimirante.

Vi è stato un consenso quasi totale sul fatto che il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (contro Israele) (BDS) debba essere appoggiato, che il cosiddetto ‘accordo del secolo’ di Donald Trump debba essere respinto e che la normalizzazione debba essere evitata.

Tuttavia quando si è trattato di articolare gli obbiettivi della lotta palestinese, la narrazione si è fatta indecisa e poco chiara. Benché nessuno dei relatori abbia difeso una soluzione con due Stati, il nostro appello per uno Stato unico democratico fatto da Istanbul – o da ogni altro luogo fuori dalla Palestina – è apparso quasi irrilevante. Perché la soluzione di uno Stato unico diventi l’obiettivo principale del movimento mondiale a favore della Palestina, l’appello deve provenire da una leadership palestinese che rifletta le genuine aspirazioni del popolo palestinese.

Un relatore dopo l’altro ha invocato l’unità dei palestinesi, pregandoli di fare da guida e di articolare un discorso nazionale. Molti altri nel pubblico si sono detti d’accordo con quella posizione. Qualcuno ha addirittura lanciato la retorica domanda: “Dov’è il Mandela palestinese?” Fortunatamente il nipote di Nelson Mandela, Zwelivelile “Mandla” Mandela, era tra i relatori. Ha risposto con enfasi che Mandela era solo il volto del movimento, che comprendeva milioni di uomini e donne comuni, le cui lotte e sacrifici hanno infine sconfitto l’apartheid.

Dopo il mio intervento alla conferenza, nell’ambito della mia ricerca per il mio prossimo libro su questo argomento, ho incontrato alcuni prigionieri palestinesi scarcerati.

Alcuni degli ex prigionieri si definivano di Hamas, altri di Fatah. Il loro racconto è apparso per la maggior parte libero dal deprecabile linguaggio fazioso da cui siamo bombardati sui media, ma anche lontano dalle narrazioni aride e distaccate dei politici e degli accademici.

“Quando Israele ha posto Gaza sotto assedio e ci ha negato le visite dei familiari, anche i nostri fratelli di Fatah ci sono venuti in aiuto”, mi ha detto un ex prigioniero di Hamas. E ogni volta che le autorità carcerarie israeliane maltrattavano chiunque dei nostri fratelli, di qualunque fazione, compresa Fatah, tutti noi abbiamo resistito insieme.”

Un ex prigioniero di Fatah mi ha detto che, quando Hamas e Fatah si sono scontrate a Gaza nell’estate del 2007, i prigionieri hanno sofferto moltissimo.

 “Soffrivamo perché sentivamo che il popolo che dovrebbe combattere per la nostra libertà si stava combattendo al proprio interno. Ci siamo sentiti traditi da tutti.”

Per incentivare la divisione le autorità israeliane hanno collocato i prigionieri di Hamas e di Fatah in reparti e carceri diversi. Intendevano impedire ogni comunicazione tra i leader dei prigionieri e bloccare qualunque tentativo di trovare un terreno comune per l’unità nazionale.

La decisione israeliana non era casuale. Un anno prima, nel maggio 2006, i leader dei prigionieri si erano incontrati in una cella per discutere del conflitto tra Hamas, che aveva vinto le elezioni legislative nei Territori Occupati, e il principale partito dell’ANP, Fatah.

Tra questi leader vi erano Marwan Barghouti di Fatah, Abdel Khaleq al-Natshe di Hamas e rappresentanti di altri importanti gruppi palestinesi. Il risultato è stato il Documento di Riconciliazione Nazionale, probabilmente la più importante iniziativa palestinese da decenni.

Quello che è diventato noto come Documento dei Prigionieri era significativo perché non era un qualche compromesso politico autoreferenziale raggiunto in un lussuoso hotel di una capitale araba, ma una effettiva esposizione delle priorità nazionali palestinesi, presentata dal settore più rispettato e stimato della società palestinese.

Israele ha immediatamente denunciato il documento.

Invece di impegnare tutte le fazioni in un dialogo nazionale sul documento, il presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas, ha dato un ultimatum alle fazioni rivali: accettare o respingere in toto il documento. Abbas e le fazioni contrapposte hanno tradito lo spirito unitario dell’iniziativa dei prigionieri. Alla fine, l’anno seguente Fatah e Hamas hanno combattuto la loro tragica guerra a Gaza.

Parlando con i prigionieri dopo aver ascoltato il discorso di accademici, politici ed attivisti, sono stato in grado di decifrare una mancanza di connessione tra la narrazione palestinese sul campo e la nostra percezione di tale narrazione dall’esterno.

I prigionieri mostrano unità nella loro narrazione, un chiaro senso progettuale, e la determinazione a proseguire nella resistenza. Se è vero che tutti si identificano in un gruppo politico o nell’altro, devo ancora intervistare anche un solo prigioniero che anteponga gli interessi della sua fazione all’interesse nazionale. Questo non dovrebbe sorprendere. Di certo, questi uomini e queste donne sono stati incarcerati, torturati ed hanno trascorso molti anni in prigione per il fatto di essere resistenti palestinesi, a prescindere dalle loro tendenze ideologiche e di fazione.

Il mito dei palestinesi disuniti e incapaci è soprattutto un’invenzione israeliana, che precede l’avvento di Hamas, e persino di Fatah. Questa nozione sionista, che è stata fatta propria dall’attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, sostiene che ‘Israele non ha partner per la pace’. Nonostante le concessioni senza fine da parte dell’Autorità Palestinese a Ramallah, questa accusa è rimasta un elemento fisso nelle politiche israeliane fino ad oggi.

A parte l’unità politica, il popolo palestinese percepisce l’‘unità’ in un contesto politico totalmente diverso da quello di Israele e, francamente, di molti di noi fuori dalla Palestina.

‘Al-Wihda al-Wataniya’, ovvero unità nazionale, è un’aspirazione generazionale che ruota intorno a una serie di principi, compresi la resistenza come strategia per la liberazione della Palestina, il diritto al ritorno dei rifugiati e l’autodeterminazione per il popolo palestinese come obiettivi finali. È intorno a questa idea di unità che i leader dei prigionieri palestinesi hanno steso il loro documento nel 2006, nella speranza di scongiurare uno scontro tra fazioni e di mantenere al centro della lotta la resistenza contro l’occupazione israeliana.

La Grande Marcia del Ritorno, che è tuttora in atto a Gaza, è un altro esempio quotidiano del tipo di unità che il popolo palestinese persegue. Nonostante gravi perdite, migliaia di manifestanti persistono nella loro unità per chiedere la libertà, il diritto al ritorno e la fine dell’assedio israeliano.

Da parte nostra, sostenere che i palestinesi non sono uniti perché Fatah e Hamas non riescono a trovare un terreno comune è del tutto ingiustificato. L’unità nazionale e l’unità politica tra le fazioni sono due questioni differenti.

È fondamentale che non facciamo l’errore di confondere il popolo palestinese con le fazioni, l’unità nazionale intorno alla resistenza e ai diritti con i compromessi politici tra gruppi politici.

Per quanto riguarda la visione e la strategia, forse è tempo di leggere il ‘Documento di Riconciliazione Nazionale’ dei prigionieri. Lo hanno scritto i Nelson Mandela della Palestina, migliaia dei quali sono tuttora nelle carceri israeliane.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, Università di California, Santa Barbara.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 




Notre Dame di Gaza: anche le nostre moschee e chiese stanno bruciando

Ramzy Baroud

25 aprile 2019, MondoWeiss

Mentre la guglia alta 91 metri della cattedrale di Notre Dame a Parigi crollava tragicamente dal vivo in televisione, i miei pensieri si sono avventurati nel campo profughi di Nuseirat, dove ho passato la mia infanzia nella Striscia di Gaza.

All’epoca, sempre in televisione, vidi un piccolo bulldozer scavare disperatamente in mezzo ai detriti della moschea del mio quartiere. Sono cresciuto nei pressi della moschea. Ho passato molte ore là con mio nonno, Mohammed, un rifugiato dalla Palestina storica [ossia dal territorio diventato lo Stato di Israele, ndt.]. Prima che diventasse un profugo, mio nonno era un giovane imam di una piccola moschea nel suo villaggio di Beit Daras, distrutto da molto tempo.

Mohammed e molti della sua generazione trovarono conforto nella costruzione della propria moschea nel campo di rifugiati appena arrivati nella Striscia di Gaza alla fine del 1948. La nuova moschea in un primo tempo venne edificata con fango indurito, ma in seguito venne rifatta in mattoni, e poi in cemento. Passò lì la maggior parte del tempo, e quando morì il suo corpo vecchio e debole venne portato nella stessa moschea per un’ultima preghiera, prima di essere sepolto nell’adiacente cimitero dei martiri. Quando ero ancora un bambino soleva prendermi per mano e camminavamo insieme verso la moschea durante le ore di preghiera. Quando invecchiò e poteva a malapena camminare ero invece io a tenerlo per mano.

Ma al-Masjid al-Kabir – la Grande Moschea, in seguito rinominata moschea di al-Omari – è stata totalmente polverizzata dai missili israeliani durante la guerra estiva contro Gaza iniziata l’8 luglio 2014.

Centinaia di case di preghiera palestinesi erano state prese di mira dall’esercito israeliano nelle guerre precedenti, soprattutto nel 2008-09 [operazione Piombo Fuso, ndt.] e nel 2012 [operazione Pilastro di Difesa, ndt.]. Ma la guerra del 2014 fu la più brutale e ancora più distruttiva. Migliaia di persone vennero uccise e molte ferite. Niente rimase immune alle bombe israeliane. Secondo i dati dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina 63 moschee vennero totalmente distrutte e 150 danneggiate in quella sola guerra, spesso con dentro persone che vi avevano cercato rifugio. Nel caso della mia moschea, dopo una lunga e estenuante ricerca vennero estratti due corpi. Non avevano nessuna possibilità di essere salvati. Se fossero sopravvissuti alle esplosioni letali sarebbero stati schiacciati dalle enormi solette di calcestruzzo.

A dir la verità calcestruzzo, cemento, mattoni e strutture fisiche di per sé non hanno molta importanza. Siamo noi a dar loro importanza. Le nostre esperienze collettive, le nostre sofferenze, gioie, speranze e fede rendono un luogo di culto quello che è.

Fin dal XII° secolo molte generazioni di francesi cattolici hanno assegnato alla cattedrale di Notre Dame i suoi significati stratificati e il suo simbolismo.

Mentre il fuoco consumava il tetto di quercia e buona parte della struttura, cittadini francesi e molti in tutto il mondo hanno assistito sbalorditi. È come se le memorie, le preghiere e le speranze di una Nazione radicate nel tempo venissero improvvisamente svelate, levandosi tutte in una volta con le colonne di fumo e fuoco.

Ma proprio i mezzi di comunicazione che informavano dell’incendio di Notre Dame sembravano dimenticare la distruzione di ogni cosa che consideriamo sacra in Palestina, mentre, giorno dopo giorno, la macchina da guerra israeliana continua a spazzar via, distruggere con i bulldozer e dissacrare.

È come se le nostre religioni non meritassero rispetto, nonostante il fatto che la Cristianità sia nata in Palestina. È lì che Gesù vagò tra colline e valli della nostra patria storica insegnando alla gente la pace, l’amore e la giustizia. La Palestina è fondamentale anche per l’Islam. L’ Haram al-Sharif [la Spianata delle Moschee, nella città vecchia di Gerusalemme, ndt.], dove si trovano la moschea di Al-Aqsa e la Cupola della Roccia, è il terzo luogo più sacro per i musulmani di tutto il mondo. Eppure i luoghi santi cristiani e musulmani sono assediati, spesso spogliati e distrutti in base a dictat militari. Inoltre gli estremisti messianici ebrei protetti dall’esercito israeliano vogliono demolire Al-Aqsa e per molti anni il governo israeliano ha fatto scavi sotto le sue fondamenta.

Tuttavia niente di tutto ciò è fatto in segreto; lo sdegno internazionale rimane in sordina. In effetti molti ritengono giustificate le azioni israeliane. Alcuni si sono lasciati ingannare dalle ridicole spiegazioni offerte dall’esercito israeliano secondo cui bombardare le moschee è una necessaria misura di sicurezza. Altri sono stati motivati dalle loro stesse cupe profezie religiose.

Tuttavia la Palestina è solo un microcosmo di tutta la regione. Molti di noi si sono abituati alle orripilanti distruzioni portate avanti da frange di gruppi di miliziani contro patrimoni mondiali dell’umanità in Siria, Iraq e Afghanistan. Le più clamorose tra queste sono state la distruzione di Palmira in Siria, dei Buddah di Bamyan in Afghanistan e della Grande Moschea di al-Nuri a Mosul [in Iraq, ndt.].

Niente tuttavia potrebbe essere confrontato con quello che l’esercito di invasione USA fece all’Iraq. Non solo gli invasori violarono un Paese sovrano e ne brutalizzarono la popolazione, devastarono anche la sua cultura che risale all’inizio della civilizzazione umana. Anche solo nel periodo immediatamente successivo all’invasione provocarono il saccheggio di oltre 15.000 antichità irachene, compresa la “dama di Warka”, nota anche come la Monna Lisa della Mesopotamia, un artefatto sumero la cui storia risale al 3.100 a. C.

Ho avuto il privilegio di vedere molti di questi oggetti durante una visita al museo dell’Iraq solo qualche anno prima che venisse saccheggiato quando le forze USA non protessero il luogo. All’epoca i curatori iracheni avevano migliaia di pezzi preziosi nascosti in un sotterraneo in previsione di una campagna di bombardamenti USA. Ma niente avrebbe potuto preparare il museo alla ferocia scatenata dall’invasione di terra. Da allora la cultura irachena è stata largamente ridotta dagli stessi invasori occidentali che hanno devastato quel Paese in oggetti sul mercato nero. Il valoroso lavoro dei guerrieri della cultura irachena e dei loro colleghi in tutto il mondo ha cercato di ripristinare parte della dignità rubata, ma ci vorranno molti anni perché la culla della civiltà umana ricuperi il suo onore svanito.

Ogni moschea, ogni chiesa, ogni cimitero, ogni oggetto d’arte e ogni manufatto è significativo perché è carico di significato, il significato conferito loro da coloro i quali hanno costruito o cercato in essi una fuga, un momento di conforto, di consolazione, di speranza, di fede e di pace.

Il 2 agosto 2014 l’esercito israeliano ha bombardato la storica moschea di al-Omari nel nord di Gaza. L’antica moschea datava al VII° secolo e da allora ha rappresentato per il popolo di Gaza un simbolo di resilienza e di fede.

Mentre Notre Dame bruciava ho pensato anche ad al-Omari. Mentre il fuoco nella cattedrale francese è stato probabilmente casuale, le case e i luoghi di culto palestinesi sono stati presi di mira volontariamente. I responsabili israeliani devono ancora essere chiamati a risponderne.

Ho pensato anche a mio nonno, Mohammed, il gentile imam con la bella barbetta bianca. La sua moschea era la sua unica evasione da un’esistenza difficile, un esilio che è finito solo con la sua morte.

Su Ramzi Baroud

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, UCSB.

(traduzione di Amedeo Rossi)