Israele: processi segreti per mettere in carcere con accuse false e ingiudicato l’operatore di un’associazione benefica palestinese

Asa Winstanley

5 settembre 2020 – MiddleEastMonitor

Il rilascio un mese fa di Mahmoud Nawajaa, dirigente palestinese del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), è stato un gradito promemoria del fatto che il potere delle persone può essere efficace.

Quando alla fine di luglio Nawajaa è stato rapito da una banda di soldati israeliani nel cuore della notte, il Comitato Nazionale Palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni ha mobilitato i suoi sostenitori in tutto il mondo.

L’appello è partito e in tutto il mondo le persone hanno risposto, chiedendo il suo rilascio. È stato liberato dopo 19 giorni di prigione senza accusa né processo.

“L’occupazione israeliana e il regime dell’apartheid coloniale e dei coloni mi hanno arrestato per ostacolare il movimento BDS, distorcerne l’immagine e intimidire gli attivisti”, ha affermato Nawajaa.

Le pressioni funzionano. Una forte pressione internazionale funziona ancora meglio. Sono profondamente grato a tutti coloro che hanno fatto pressione sull’apartheid Israele perché mi liberasse, la vostra solidarietà mi ha dato forza e ha mantenuto viva la speranza di riunirmi alla mia amata famiglia e alla più grande famiglia del BDS.”

Per quanto questo sia stato un risultato felice, Nawajaa è solo uno delle migliaia di prigionieri politici palestinesi detenuti in gravissime condizioni nelle prigioni israeliane.

L’associazione per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer afferma che attualmente i detenuti sono 4.500, tra cui 160 bambini, e 360 “detenuti amministrativi”, cioè prigionieri a tempo indeterminato senza accusa o processo.

Uno di loro era Daoud Talat Al-Khatib, morto mercoledì all’età di soli 45 anni per quello che pare sia stato un infarto.

Il Palestinian Prisoners Club ha accusato Israele di incuria sanitaria nei confronti di Al-Khatib. Mancavano solo pochi mesi alla fine della sua condanna a 18 anni.

La sua morte ha amaramente ricordato che i prigionieri politici palestinesi continuano a soffrire sotto l’occupazione, anno dopo anno, mese dopo mese. Il mondo fuori dimentica i loro nomi, ma il popolo palestinese ha la massima stima di chi venga fatto prigioniero nella lotta di liberazione.

Questa lotta assume molte forme.

Ricordate il nome di Mohammed El-Halabi?

Da quattro anni è chiuso nelle carceri israeliane per il “crimine” di aver operato nella beneficenza.

El-Halabi è il direttore di programma dell’associazione di beneficenza cristiana World Vision a Gaza. Secondo i suoi familiari, El-Halabi è stato torturato perché “confessasse” di aver finanziato il “terrorismo” a Gaza.

Suo padre, Khalil El-Halabi, è da lungo tempo un dipendente dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Aveva dichiarato a The Electronic Intifada di aver insistito perché nelle scuole dellagenzia fossero inclusi l’insegnamento dei diritti umani e gli studi sull’Olocausto.

“Educhiamo i nostri figli a rispettare le persone indipendentemente dalla razza o dalla religione”, ha spiegato. “Questo rispetto non è garantito a mio figlio, che è in prigione e viene torturato fisicamente e psicologicamente per qualcosa che non ha fatto. È questa la pace di cui parla Israele? “

Il giornalista palestinese Amjad Ayman Yaghi ha riferito da Gaza che “Khalil è convinto che Israele stia usando suo figlio per prendere di mira i programmi umanitari a Gaza”.

Sarebbe molto più facile per Israele bloccare i programmi di aiuto internazionale a Gaza se avesse la “confessione” di El-Halabi (non importa quanto forzata) di essersi appropriato indebitamente dei fondi di un importante ente di beneficenza internazionale.

Le accuse di Israele contro El-Halabi sono evidentemente false e non sono state provate in tribunale. Negli ultimi quattro anni è stato costretto a quasi 150 udienze in tribunale – per lo più segrete – e il suo avvocato è stato sottoposto a restrizioni senza precedenti. Gli è stato offerto un patteggiamento, ma ha rifiutato.

Amnesty International ha condannato il suo imprigionamento e ha detto: “I processi segreti sono la più flagrante violazione del diritto a un’udienza pubblica. Tenere procedimenti giudiziari a porte chiuse renderebbe infondate le condanne emanate “.

Le accuse contro El-Halabi sono state inventate senza nemmeno grande sforzo. Si vede chiaramente che sono fittizie e sono state costruite ad arte.

È stato accusato di aver stornato decine di milioni di dollari di aiuti finanziari a favore di Hamas, il partito politico palestinese al governo nella Striscia di Gaza che ha anche un’ala armata.

Ma c’è una grossa falla in questa storia: secondo World Vision, l’importo che è stato accusato di aver rubato sarebbe in realtà più del doppio dell’intero budget del programma di beneficenza a Gaza.

Non sarebbe stato possibile che una tale somma “scomparisse”.

Sia World Vision che il governo australiano (che ha fornito i fondi all’ente di beneficenza) hanno condotto approfondite indagini di polizia e hanno dichiarato infondate le accuse israeliane.

Nel 2017, il ministero degli Affari esteri australiano ha scagionato World Vision ed El-Halabi. “Il nostro costante monitoraggio legale non ha scoperto alcun denaro sottratto e secondo DFAT [il ministero] la loro indagine non è stata e non è fondata, e questa è un’ottima notizia”, ha rivelato il capo di World Vision Australia.

Che El-Halabi stia resistendo così a lungo alla pressione dei torturatori israeliani è un atto di resistenza al regime di occupazione israeliano non meno eroico della resistenza armata.

Le opinioni espresse in questo articolo sono all’autore e non riflettono necessariamente la politica redazionale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Negli USA un’associazione che ha contribuito a stilare leggi contro il BDS non ha dichiarato di aver ricevuto sovvenzioni da Israele…immaginate se la Russia avesse fatto qualcosa del genere.

Michael Arria

3 settembre 2020 – Mondoweiss

Ci sono state molte discussioni riguardo a governi stranieri che negli ultimi anni si sono intromessi nel nostro processo politico, ma alcune vicende sono di certo rimaste fuori dal discorso generale.

Un esempio emblematico è emerso questa settimana. The Forward [storico giornale della comunità ebraica USA, ndtr.] ha informato che lo scorso anno l’Israel Allies Foundation [Fondazione degli Alleati di Israele] (IAF) ha ricevuto una sovvenzione di più di 100.000 dollari [circa 85.000 €] dal governo israeliano. La IAF è un’organizzazione senza fini di lucro fondata nel 2007 per rafforzare la cooperazione tra forze filo-israeliane e governi in tutto il mondo. Nel 2014 l’associazione ha contribuito all’elaborazione della legge della Carolina del Sud contro il BDS, che vieta ad enti pubblici di firmare contratti con gruppi che boicottino Israele. L’IAF ha fatto pressioni su altri 25 Stati perché adottassero misure contro il BDS dopo che è stata approvata quella della Carolina del Sud.

L’IAF non ha dichiarato la sovvenzione (che probabilmente è illegale), ma non è sicuramente l’unica organizzazione del genere che riceve soldi da Israele. The Forward riferisce che dal 2018 11 gruppi filo-israeliani hanno ricevuto 6,6 milioni di dollari da quel governo. Ci sono regole pensate per cercare di evitare cose come il Foreign Agents Registration Act [egge per la registrazione di agenti stranieri] (FARA). Tuttavia Israele evidentemente utilizza società di facciata per aggirare questi fastidiosi dettagli. L’avvocato di Washington Amos Jones, che lavora su casi relativi al FARA, ha detto a The Forward: “Possono avere tutte le imprese fittizie che vogliono o comunque tu le voglia chiamare. Se si tratta di un’organizzazione o di un gruppo di persone stranieri, allora possono essere committenti stranieri, e dunque le persone che lavorino sotto la loro direzione all’interno degli Stati Uniti si devono registrare.”

Proviamo a fare un semplice esperimento mentale. Immaginate che un’associazione senza fini di lucro a favore della Russia accetti una sovvenzione dal governo di Putin, si schieri con dei politici USA e poi contribuisca a far approvare un certo numero di leggi che vietino, per esempio, di boicottare la vodka russa a favore dei diritti LGBTQ. Come reagirebbero i progressisti USA a un simile avvenimento? Quante ore di programmi dedicherebbe Rachel Maddow [nota conduttrice televisiva lesbica, ndtr.] a una storia simile?

Questo è ovviamente solo esempio del tutto inadeguato. Perché il confronto sia sensato, gli USA dovrebbero dare ogni anno 3,8 miliardi di dollari in aiuti militari alla Russia. La questione è già stata chiarita un sacco di volte, ma vale la pena di ripeterla in seguito a storie come questa: negli USA la gente può condannare le azioni di governi stranieri, ma non può in generale assumersene la responsabilità. Siamo tutti complici dell’apartheid israeliano.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Vittoria in tribunale per i 3 di Humboldt e per la Palestina

Qassam Muaddi

24 agosto 2020  Quds News Network

Il movimento di solidarietà con la Palestina nel mondo sta crescendo. Così come la pressione esercitata contro di esso da gruppi di lobby ed organizzazioni pro-Israele; alcune sponsorizzate dallo stesso governo d’Israele.

In Europa, dove il movimento BDS ha affrontato gravi tentativi di delegittimazione, il movimento è stato al centro di un dibattito pubblico negli ultimi anni, soprattutto in Francia e in Germania, polarizzando le posizioni intorno alla questione palestinese.

La vittoria giudiziaria dei tre attivisti nei tribunali tedeschi, due settimane fa, ha segnato un precedente in questa storia. I tre di Humboldt – Ronnie Barkan, Stavit Sinai e Majed Abusalama – hanno affrontato un’accusa per aver protestato contro la visita dell’israeliana Aliza Lavie, membro della Knesset,  a Berlino nel 2017, e la Corte tedesca ha alla fine li ha assolti, condannando solo Sinai per accuse di lievissima entità.

Il caso è particolarmente importante in Germania, un paese che ha stretti legami con lo Stato di occupazione e il cui parlamento ha condannato il movimento BDS come forma di antisemitismo.

Il Network Quds News ha intervistato Majed Abusalama, che ha condiviso le sue opinioni sul caso Humboldt 3, così come alcuni dettagli del processo, che è diventato una storia a sé quando gli attivisti lo hanno usato per dar voce al loro messaggio.

Ha condiviso anche le sue opinioni e quelle dei suoi compagni sul rapporto tra la Germania e lo Stato di occupazione, la battaglia per la narrazione storica, e il ruolo del movimento di solidarietà con la Palestina in questo momento.

Qual è l’importanza della vostra vittoria per il movimento di solidarietà con la Palestina in Europa e nel mondo?

Dovremmo considerare che il nostro caso è avvenuto in un contesto molto complicato, in cui la lobby sionista cerca continuamente di far sembrare noi, il movimento di solidarietà con la Palestina, dei perdenti senza alcuna possibilità di vincere. Siamo stati in grado di dimostrare che non lo siamo. L’abbiamo fatto nell’ambiente più ostile, perché la Germania, come Stato, è smisuratamente complice dello Stato di apartheid di Israele.

I palestinesi in Germania costituiscono la più grande comunità palestinese in Europa, ma noi siamo soffocati. Il nostro diritto di protestare ed esprimerci ci è rubato, sempre intimiditi dalle accuse di antisemitismo, fatta sparire completamente ed esclusa la nostra narrativa palestinese.

Che cosa definisce esattamente come complicità tedesca con lo Stato di apartheid, e come lo spiega?

La Germania è in prima linea nel nascondere i crimini d’Israele contro l’umanità. Attraverso il suo ruolo guida nell’Unione Europea, lo Stato tedesco impone la soppressione del movimento di solidarietà con la Palestina e la sua condanna.

La Germania ha persino venduto sottomarini nucleari allo Stato dell’apartheid. In parte ciò deriva dal senso di colpa tedesco verso la Seconda Guerra Mondiale. Ma questo uso della colpevolezza, a mio parere, non si basa sui valori umani. Si tratta più che altro di un tentativo da parte dello Stato tedesco di costruire un atteggiamento di comodo nei confronti del passato della Germania, anche se è a scapito del discorso sui diritti umani del popolo palestinese.

Credo che questo atteggiamento, e ripulitura dell’apartheid israeliana e del crimine contro l’umanità che ne deriva, dicano molto di quanto questo Stato non abbia imparato la lezione della Seconda Guerra Mondiale. Questa lezione non riguarda la protezione di un gruppo specifico o di uno Stato, ma piuttosto la protezione dei diritti umani e dei valori umani. Questo è il motivo per cui diciamo che lo Stato tedesco ha fallito sul piano dell’umanità nella questione della Palestina.

Vede qualche evoluzione nella società tedesca rispetto alla posizione verso la causa palestinese?

Recenti sondaggi mostrano che un numero crescente di tedeschi è favorevole alla causa palestinese e direi piuttosto che la maggioranza sostiene la Palestina. Questo sostegno è aumentato dopo la seconda Intifada e l’assedio e l’aggressione continua a Gaza.

Inoltre, il pubblico tedesco non poteva restare cieco di fronte all’atteggiamento di Israele verso i diritti umani degli attivisti, come la deportazione del direttore locale in Palestina di Human Rights Watch, Omar Shakir, lo scorso novembre. Il flusso di informazioni libere grazie a Internet ha mostrato troppo perché i tedeschi rimanessero ciechi e indifferenti.

Come ha reagito il pubblico tedesco al vostro caso?

C’era una solidarietà schiacciante con noi, nel tribunale e fuori di esso. Abbiamo trasformato il nostro processo in un processo in cui eravamo gli accusatori, e siamo andati con un messaggio e il pubblico tedesco lo ha ricevuto. Poiché vogliamo che lo Stato dell’apartheid sia processato in un tribunale tedesco, abbiamo deciso di ricorrere al nostro stesso processo per farlo.

Ci siamo concentrati sul membro della knesset Aliza Lavie. Eravamo sotto processo per aver protestato contro la sua visita a Berlino nel 2017. Aliza Lavie è stata direttamente responsabile dell’attacco a Gaza nel 2014 perché ha partecipato nel prendere la decisione di quell’attacco, che ha ucciso oltre 2000 palestinesi, tra cui 500 bambini.

E’ anche la presidentessa della lobby anti-BDS, che promuove la repressione del BDS e di tutti gli attivisti palestinesi. La lobby sionista ha cercato di manipolare il caso, come al solito rigirando e fabbricando la verità sul fatto che saremmo violenti, ma questo non ha avuto successo. Era un tentativo di spostare l’attenzione nostra e del pubblico, ma ci siamo concentrati sul nostro messaggio politico e morale.

Ho detto al giudice che sono di Gaza e che Lavie aveva la responsabilità criminale dell’uccisione dei miei amici e della mia gente a casa, e che era a pochi metri da me. L’ho sfidato su come si sarebbe sentito al mio posto.

I miei compagni hanno anche sfidato Lavie direttamente e le hanno detto che è una criminale e che appartiene alla prigione della Corte Penale Internazionale. Quella era l’intera discussione durante il processo. Non abbiamo deviato da essa.

Com’è stato l’atteggiamento della corte nei confronti del vostro messaggio?

Non hanno trovato niente e siamo stati assolti. Ma hanno multato Sinai per la pena minima di 450 euro, perché ha bussato alla porta tre volte, chiedendo di chiedere i dettagli di qualcuno che l’aveva assalita quando eravamo stati tirati fuori. La decisione della corte è ridicola. Era solo un tentativo di salvare la faccia del tribunale difronte alla lobby sionista e a Israele, e dice quanto le istituzioni tedesche sono prigioniere della pressione di questa lobby, e persino complici dell’occupazione e dello Stato di apartheid.

Qualcuno potrebbe dire che è un’accusa dura per le istituzioni tedesche. Perché, secondo voi, sono complici?

Il parlamento tedesco dichiarò il movimento BDS antisemita contro il sistema giudiziario tedesco. In tutta la Germania, molti tribunali hanno dichiarato il movimento BDS una forma legittima di libertà di espressione e di protesta, ma il parlamento tedesco mantiene la sua accusa diffamatoria verso di noi, cosa che mostra che quella del BDS è solo una dichiarazione politica.

Ora c’è anche una decisione giuridica europea, dopo che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata a favore dei nostri compagni in Francia, anch’essi accusati di antisemitismo nei tribunali francesi. Questa complicità è politica ai massimi livelli.

Quali lezioni si possono trarre dal vostro caso?

Vogliamo chiarire che questa storia non riguarda noi personalmente. Questa è la storia della Palestina e della solidarietà globale con essa. La nostra vittoria è una vittoria per la lotta palestinese, che è lotta di tutti gli uomini e le donne di coscienza in tutto il mondo. In secondo luogo, vogliamo potenziare la nostra comunità, in Germania, in Europa, in tutto il mondo e in Palestina. Noi non siamo soli. Tutti quelli che si oppongono al colonialismo, alle violazioni dei diritti umani e all’apartheid nel mondo intero sono dalla parte della lotta palestinese.

Quale messaggio trasmette la vostra storia al popolo palestinese, nel momento in cui alcuni Stati arabi stanno normalizzando le loro relazioni con lo Stato di occupazione, specialmente dopo gli accordi di pace tra Israele e gli Emirati?

La narrazione di Israele è rimasta così a lungo perché molte persone non conoscevano la realtà della nostra causa, ma questa narrazione sionista sta cadendo a pezzi e Israele non può più nascondere il suo vero volto criminale e di apartheid. Questo è il momento giusto per il nostro popolo di diventare più autosufficiente e contare su se stesso nella lotta.

Sappiamo troppo bene che gli Stati cercheranno di normalizzare, ma noi possiamo contare sul movimento di base di persone coscienti nei paesi arabi e su tutte le persone di coscienza nel mondo per continuare a sfidare la normalizzazione, intensificando il BDS e tutte le forme di resistenza per ritenere Israele responsabile. La causa palestinese sarà sempre sul tavolo per esaminare la coscienza delle persone in tutto il mondo ed è un movimento di cittadinanza globale che la sostiene.

Ma siamo noi, palestinesi, a dover condurre questa lotta. Noi, il popolo palestinese, e la Palestina siamo al centro della nostra lotta.

Traduzione di Flavia Lepre

da Contropiano




Come le università fungono da avamposti del controllo colonialista israeliano

Josh Ruebner

11 agosto 2020 – The Electronic Intifada

Enforcing Silence: Academic Freedom, Palestine and the Criticism of Israel [Imporre il silenzio: libertà accademica, Palestina e le critiche contro Israele], David Landy, Ronit Lentin e Conor McCarthy (a cura di), Zed Books (2020).

Oggi sono poche le persone in ambito accademico che possano raccontare meglio di Rabab Abdulhadi l’oppressione amministrativa e le aggressioni giudiziarie che sono pena e tormento per molti professori.

Abdulhadi, docente associata presso la San Francisco State University [università dello Stato della California], è stata oggetto di tre fallite denunce da parte del filoisraeliano Lawfare Project [organizzazione lobbystica filoisraeliana USA, ndtr.] intese a mettere a tacere la sua militanza per i diritti dei palestinesi.

La sua introduzione a questa raccolta di saggi sui tentativi di Israele e dei suoi sostenitori di zittire il dibattito accademico è appropriata: “Non vedo la mia vicenda come una questione privata o un’esperienza individuale: riflette e rappresenta storie comuni a noti intellettuali dentro e fuori l’ambito accademico che intendano esprimersi a favore della giustizia per la e nella Palestina.”

Il fatto che non abbia potuto contribuire al volume con un capitolo, come aveva precedentemente previsto, è proprio un esempio del fenomeno descritto in dettaglio nelle pagine del libro. Il tempo che avrebbe avuto a disposizione per scriverlo è stato impegnato a rispondere a un ricorso amministrativo inviatole con la minaccia di un’azione disciplinare a causa del suo impegno.

In un altro capitolo del volume David Landy, professore associato di Sociologia al Trinity College di Dublino, fa riferimento a questa strategia come “attacchi price tag [prezzo da pagare, termine usato da coloni israeliani estremisti negli attacchi contro i palestinesi, ndtr.] contro chi critica Israele, nel senso che chi critica sarà costretto a pagare per ogni critica fatta a Israele.”

Correttamente Landy identifica questi attacchi – il termine è preso dalle aggressioni dei coloni contro i palestinesi e le loro proprietà nella Cisgiordania occupata – “come estensione delle pratiche di controllo colonialista.”

Analogamente altri contributi al libro considerano la repressione di ogni discorso accademico critico nei confronti di Israele come una logica derivazione delle politiche di dominio del colonialismo d’insediamento contro il popolo nativo palestinese.

Ronit Lentin, docente associata di sociologia in pensione, anche lei del Trinity College di Dublino, specifica come Israele abbia “reclutato con successo professori universitari israeliani come collaboratori partecipi nella colonizzazione della Palestina.” Scrive che questo modello serve come “risorsa, o schema, per ostacolare la libertà accademica e la libera discussione sulla colonizzazione israeliana della Palestina nel resto del mondo.”

Altri tentativi di esportare il controllo colonialista di Israele sul popolo palestinese sono più sottili, come documenta Hilary Aked nel suo saggio sul proliferare dei dipartimenti di studi su Israele nelle università della Gran Bretagna.

Questi dipartimenti sono ben finanziati da una piccola congrega di donatori filo-israeliani a corollario della propaganda ufficiale “Brand Israel” [Marchio Israele] che intende “approfondire il discorso su Israele in modo che il Paese non venga visto solo attraverso la prospettiva della violenza di stato,” spiega Aked.

Eliminazionismo”

In questa raccolta sono ampiamente documentati in modo persuasivo gli attacchi ben finanziati e orchestrati contro il dibattito accademico critico con Israele.

Il caso di Steven Salaita ritorna continuamente in quasi tutti i saggi del libro. Salaita venne licenziato da un incarico appena ottenuto all’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign e cacciato dal corpo accademico per i suoi tweet “incivili” in risposta al massacro di bambini palestinesi da parte di Israele a Gaza nel 2014.

Il licenziamento di Salaita fu una propaggine delle “macchinazioni punitive degli eliminazionisti del colonialismo di insediamento,” scrive nel contributo più provocatorio ed importante del libro C. Heike Schotten, che insegna scienze politiche all’università del Massachussett di Boston.

La logica è quella di eliminare i nativi attraverso la totale assimilazione nella “missione civilizzatrice” del colonizzatore o con la loro cancellazione se si rifiutano.

Assunto per insegnare nel dipartimento di studi sui nativi, Salaita venne licenziato perché rappresentava [in quanto figlio di due immigrati ispanici ma di origine palestinese e giordana, ndtr.] e insieme sosteneva l’esistenza e la resistenza dei popoli nativi (in Palestina o altrove), e sono esattamente questa rappresentatività e questo sostegno ad essere inconcepibili,” afferma Schotten (corsivo nell’originale).

Anche l’influenza neoliberista, l’integrazione nella logica di mercato e la mercificazione delle università rende il corpo insegnante suscettibile di pressioni interne ed esterne affinché righi dritto su Israele.

Nick Riemer, docente di inglese e linguistica all’Università di Sidney, sostiene che le amministrazioni delle università utilizzano le lamentele dei sionisti come “strumento per il controllo sociale nei campus.”

Quelle rimostranze forniscono “argomentazioni contro membri del corpo docente che sono in genere anche impegnati in una serie di altre attività che li mettono regolarmente in conflitto con le autorità universitarie”, come la partecipazione sindacale e lo schierarsi apertamente contro l’amministrazione dell’università.

Sinead Pembroke, che ha conseguito un dottorato in sociologia all’University College di Dublino, critica il crescente ricorso a personale docente a contratto come misura per limitare i costi, privando molti accademici di un rapporto stretto con i colleghi e di protezione legale qualora vengano presi di mira per le loro opinioni politiche. In conseguenza di ciò molti si autocensurano.

Controintuitivo

Molti dei saggi del libro mettono in dubbio l’utilità di appellarsi alla libertà accademica per proteggere il dibattito sulla Palestina.

A prima vista ciò sembra controintuitivo, in quanto i docenti universitari potrebbero sostenere in modo credibile e convincente la loro prerogativa di fare ricerca, insegnare e parlare come meglio credono senza intromissioni.

Tuttavia questi stessi principi potrebbero essere utilizzati dai sionisti nella loro opposizione al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) in appoggio ai diritti dei palestinesi.

La nozione di libertà accademica “non offre la necessaria chiarezza politica per mostrare cosa sia effettivamente in gioco nella differenza tra i sostenitori e gli oppositori del boicottaggio,” scrive Riemer.

Invece, aggiunge Riemer, “la ragione più efficace per boicottare e difendere chi boicotta è porre fine all’apartheid contro i palestinesi,” chiedendo a chi propone il BDS di favorire un discorso fondato sui valori (corsivo nell’originale).

E, come nota John Reynolds, del dipartimento giuridico dell’Università Statale d’Irlanda Maynooth, la libertà accademica è utilizzata sempre più spesso dalla destra per dare corpo a razzismo e suprematismo. “Quando si tratta di esprimere posizioni anticolonialiste e antirazziste, la libertà accademica risulta vulnerabile e condizionata,” afferma.

Al contrario, “gli argomenti riguardanti la libertà accademica messi al servizio del colonialismo” hanno avuto una rinascita “che diffonde forme e progetti di destra molto particolari,” come l’apologia di atrocità colonialiste.

Studenti e governo

Questa raccolta avrebbe potuto prestare maggiore attenzione alla repressione sia amministrativa che fuori dalle università contro studenti che si organizzano per appoggiare i diritti dei palestinesi.

Gli studenti attivisti sono sottoposti a una sopraffazione forse ancor più dura rispetto al corpo docente, attraverso misure disciplinari amministrative, con i discorsi di monitoraggio di personale professionale filo-israeliano nei campus e con la deleteria schedatura da parte di siti in rete come “Canary Mission” [che si dedica a schedare, denunciare e calunniare chi sostiene la causa palestinese, ndtr.].

Il libro collettivo avrebbe anche beneficiato di un approfondimento sui tentativi autoritari del governo USA di assimilare le critiche contro Israele al fanatismo antiebraico con lo scopo di ridurre i finanziamenti alle università considerate troppo permissive nei confronti di discorsi che critichino lo Stato.

Questa problematica intrusione e prevaricazione del governo è incarnata da Kenneth Marcus, recentemente nominato sottosegretario per i diritti civili presso il ministero dell’Educazione USA.

Marcus ha aperto la strada alla strategia di sporgere reclami, con il ministero che sostiene falsamente che gli studenti ebrei vengono maltrattati e discriminati a causa delle critiche contro Israele nei campus.

Prestando servizio nell’amministrazione Trump, Marcus ha portato avanti questo programma pretestuoso con conseguenze potenzialmente di lunga durata Se non prende in considerazione queste pressioni da parte del governo, qualunque discussione riguardo al far tacere le università sulla Palestina è incompleto.

Josh Ruebner è professore associato del Dipartimento di Studi su Giustizia e Pace presso la Georgetown University [prestigiosa università privata USA con sede a Washington, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’università di Manchester disinveste dalle aziende complici dell’occupazione israeliana

Asa Winstanley

3 Agosto 2020 – The Electronic Intifada

L’università di Manchester ha disinvestito oltre 5 milioni di dollari dalla Caterpillar e dalla società madre del sito di viaggi Booking.com.

Lunedì gli attivisti hanno detto che si è trattato di “un’enorme vittoria del movimento di solidarietà con la Palestina in Gran Bretagna” e di “una svolta decisiva”.

L’università è stata un bersaglio della campagna fin dal 2016, a causa dei suoi investimenti in aziende complici dell’occupazione israeliana della terra palestinese.

L’anno scorso gli studenti hanno interrotto una riunione del consiglio chiedendo di disinvestire da Caterpillar.

Caterpillar fornisce all’esercito israeliano bulldozer che vengono usati come armi per distruggere le case palestinesi e per condurre uccisioni extragiudiziarie.

Booking Holdings Inc. compare nel database delle Nazioni Unite, pubblicato all’inizio di quest’anno, delle aziende coinvolte nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.

La società madre e Booking.com sono entrambe inserite nella lista nera a causa delle loro inserzioni di immobili in affitto in colonie israeliane costruite su terra palestinese rubata in violazione del diritto internazionale.

La campagna prosegue

Dati visionati da The Electronic Intifada, pubblicati dall’università in risposta a richieste sulla libertà di informazione, confermano che il disinvestimento è avvenuto tra aprile 2019 e il 31 marzo 2020.

In una e-mail del 23 luglio 2020 in risposta alla richiesta degli attivisti, la responsabile dell’informazione dell’università ha pubblicato il suo ultimo elenco di investimenti.

Ha detto che le linee guida di investimento etico dell’università adesso escludono le aziende sulla base di una serie di fattori, compresa la fornitura di “armamenti discutibili”.

In una dichiarazione rilasciata immediatamente dopo la pubblicazione di questo articolo, un portavoce dell’università di Manchester ha smentito che il disinvestimento avesse alcuna relazione con la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndtr.). “Le decisioni relative alle nostre specifiche quote di partecipazione vengono prese dai nostri gestori degli investimenti con lo scopo di raggiungere tutti i nostri obbiettivi di investimento”, hanno detto.

Ma gli attivisti hanno dei dubbi. “Gli investimenti in aziende che sostengono il regime di apartheid israeliano non avrebbero dovuto esistere fin dall’inizio”, ha dichiarato l’attivista Huda Ammori. “Il disinvestimento dell’università di Manchester dalle aziende complici dimostra la capacità del movimento di base degli studenti nel rendere responsabili le nostre istituzioni.”

Ammori ha lanciato la campagna BDS all’università di Manchester quando vi studiava nel 2016.

In una dichiarazione di lunedì gli attivisti di ‘Apartheid off Campus’ [Apatheid fuori dall’ università], una nuova rete studentesca, hanno detto che “la vittoria del disinvestimento a Manchester, la più grande università d’Europa, si prevede sia un momento di svolta per il movimento BDS nei campus del Regno Unito.”

Ma hanno detto che continueranno a mantenere l’università di Manchester come obbiettivo delle campagne BDS.

Secondo la rete ‘Apartheid off Campus’ l’università “ha ancora molti legami con il regime di apartheid israeliano, compreso il programma di scambi con l’università ebraica di Gerusalemme, che manda studenti a studiare nella terra palestinese occupata e rubata.”

Leeds è stata la prima università inglese a disinvestire dall’apartheid israeliano nel 2018, quando ha ritirato più di 1.200.000 dollari da diverse aziende coinvolte nel commercio di armi con Israele.

Asa Winstanley è un giornalista d’inchiesta e condirettore di The Electronic Intifada. Vive a Londra.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Beinart è l’ultimo tra i sionisti progressisti ad abbandonare la soluzione dei due Stati

DI PHILIP WEISS

8 luglio 2020 – Mondoweiss

Nella giornata di ieri tutti parlavano dell’articolo di Peter Beinart [editorialista, giornalista e commentatore politico progressista statunitense, ndtr.], il quale su Jewish Currents [ Correnti Ebraiche, rivista trimestrale di politica e sito con orientamento di sinistra, ndtr.] abbandona la soluzione dei due Stati. Beinart afferma che lo sforzo di creare uno Stato palestinese è fallito ed è tempo che i sionisti progressisti sostengano l’uguaglianza tra ebrei e palestinesi. Su Twitter Beinart è andato oltre, elogiando il libro rivoluzionario di Ali Abunimah [giornalista palestinese-americano convinto sostenitore della soluzione di un unico Stato, ndtr.], One Country [Un Paese, ndtr.], (che considera la soluzione dei due Stati come apartheid), e in un editoriale sul New York Times di oggi, in cui Beinart deplora l’idea di “separazione” tra palestinesi ed ebrei.

L’obiettivo dell’uguaglianza è ora più realistico rispetto all’obiettivo della separazione. Il motivo è che cambiare lo status quo richiede una prospettiva abbastanza dura da creare un vasto movimento di opinione. Uno Stato palestinese frammentato sotto il controllo israeliano non offre questa prospettiva. L’uguaglianza è in grado di farlo. Sempre di più [vivere in] un medesimo Stato non costituisce solo la propensione dei giovani palestinesi. È anche la propensione dei giovani americani.

Beinart abbandona di proposito un’argomentazione avanzata in numerose occasioni, secondo cui uno Stato per due nazioni non funziona. Ora sostiene ciò che Yousef Munayyer affermava nel corso di un dibattito del 2015 con Beinart: non sarebbe stata una cosa semplice, ma la prospettiva avrebbe dovuto essere quella di uno Stato unico democratico.

Qualsiasi intervento critico sulla svolta di Beinart deve riconoscere il suo status e la sua sincerità. Si tratta di uno scrittore molto stimato dalla classe dirigente. È stato il braccio destro di Martin Peretz a New Republic [rivista culturale e politica di cui Martin Peretz, sostenitore di Israele, era proprietario ed editore, ndtr.], quindi doveva essere un ultra-sionista. Ha tenuto conferenze private presso l’AIPAC, la lobby israeliana di destra. Ha scritto un libro a sostegno della guerra in Iraq, e in seguito ha ripudiato la sua posizione. Il suo articolo del 2010 su The New York Review of Books [rivista bisettimanale con articoli su letteratura, cultura e attualità, ndtr.] sul fallimento della classe dirigente ebraico-americana, di cui sosteneva il crollo morale in seguito al consenso all’occupazione, è stato estremamente significativo in quanto Beinart ha introdotto nell’opinione più diffusa concetti presi da Walt e Mearsheimer [John Mearsheimer e Stephen Walt hanno pubblicato nel 2007 il libro La Lobby Israeliana e la politica estera americana, in cui sostengono che Israele condiziona la politica estera USA, ndtr.] e anche B’Tselem [ONG israeliana che sostiene i diritti dei palestinesi, ndtr.]. Lo ha ribadito in seguito con un libro, La crisi del sionismo, che si apre sul disgusto dell’autore per le violazioni israeliane dei diritti umani e procede mettendo alla gogna la presidente della DNC [Comitato Nazionale Democratico, ndtr.] Debbie Wasserman Schultz per aver capeggiato le ovazioni a Netanyahu. Beinart è diventato un eroe alle riunioni dei sionisti progressisti. Agli incontri di J Street [ONG sionista liberal americana che propugna una soluzione dei due Stati, ndtr.] i giovani indossavano magliette con la scritta Beinart’s Army, [esercito di Beinart, ndtr.].

L’importanza di Beinart nella vita comunitaria ebraica progressista significa che le sue nuove opinioni rappresentano, come afferma Robert Herbst [stimatissimo giornalista americano, dagli anni ‘60 agli ’80, conduttore del telegiornale della CBS, ndtr.], un potenziale “momento Walter Cronkite”. Il momento in cui il più influente conduttore americano, di ritorno dal Vietnam nel 1968, affermò che l’America non stava vincendo la guerra, che si trattava di un “sanguinoso … stallo” e Lyndon Johnson disse, come è noto, di aver perso il Paese.

Molti potrebbero dire che le rivelazioni politiche di Beinart non sono originali e, anche se sono d’accordo, risponderei che è un giornalista carismatico e di talento. Non dimenticherò mai il momento in cui alcuni anni fa, durante un affollato incontro di J Street, ha affermato che se Israele e il sionismo avessero fallito, gli ebrei avrebbero camminato sulle macerie di quell’errore per generazioni … Ed ecco un bel passaggio dal brano di Jewish Currents:

Per generazioni, gli ebrei hanno visto uno Stato ebraico come un tikkun, una riparazione, un modo per superare l’eredità dell’Olocausto. Ma non ha funzionato. Per giustificare la nostra oppressione nei confronti dei palestinesi, lo Stato ebraico ci ha richiesto di considerarli come nazisti. E, in questo modo, ha mantenuto in vita l’eredità dell’Olocausto. Il vero tikkun è l’uguaglianza, una casa ebraica che è anche una casa palestinese.

Beinart si unisce all’elenco di sionisti progressisti che hanno abbandonato la soluzione dei due Stati e la sua adesione a tale elenco significa che crescerà. Alcuni dei sionisti liberali che lo hanno preceduto sono … Gershon Baskin [fondatore dell’IPCRI – Centro di ricerca e informazione Israele/ Palestina, dedicato alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese sulla base di una soluzione “due Stati per due popoli”, ndtr.] l’anno scorso sul Jerusalem Post:

Quelli di noi in Israele che hanno sostenuto e lottato per ottenere una soluzione con due Stati sono ora costretti ad accettare la nuova realtà che [Netanyahu] creerà e dovremo unirci ai ranghi del popolo palestinese che combatterà per la democrazia e uguaglianza in uno Stato laico non-nazione-non-etnico.

Ian Lustick [politologo ed esperto americano del Medio Oriente, ndtr.] nel suo libro dell’anno scorso, Paradigm Lost, che una volta era un attivista a favore dei due Stati, ora fa appello ad una battaglia per la parità dei diritti.

O Eric Alterman [storico e giornalista americano, ndtr.] che afferma su The Nation [la più antica rivista statunitense, ndtr.] che il sionismo progressista è una contraddizione in termini … Lara Friedman della Fondazione Middle East Peace, in precedenza di Americans for Peace Now, che chiede sanzioni … Larry Derfner [giornalista israelo americano, ndtr.] che pubblica il suo libro No Country for Jewish Liberals [Gli ebrei progressisti non hanno un Paese, ndtr.] e che sostiene il BDS…. o il leggendario Jeff Halper [antropologo, docente e attivista politico israeliano, ndtr.], contrario all’occupazione, che ha abbandonato da vari decenni il sionismo…

La defezione di Beinart rispetto all’opzione per i due Stati e per la separazione esercita un’enorme pressione sulle principali organizzazioni sioniste liberal-centriste J Street, Americans for Peace Now, New Israel Fund e Israel Policy Forum, perché mettano da parte gli orribili discorsi su “separazione” e demografia e si spostino più a sinistra. J Street è già sotto pressione. La sua opposizione all’annessione è stata, secondo gli studenti che fanno parte della sua sezione giovanile, solo parolaia e inefficace, e questi giovani, molti dei quali della comunità ebraica, stanno sicuramente esultando per le nuove opinioni di Beinart e stanno cercando di andare oltre. Scommetto che IfNotNow [organizzazione progressista ebraico americana che si oppone all’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ndtr.] appoggerà fra non molto il BDS…

Il sionista conservatore David Harris recentemente si è lamentato del fatto che sia i finanziatori che i sostenitori ebrei stanno facendo pressioni su di lui affinché prenda una posizione decisa contro Israele. Sia i finanziatori che i sostenitori! La comunità ebraica organizzata è chiaramente in evoluzione rispetto a Israele e la sinistra può avere l’opportunità di guidare questo dibattito. L’appoggio di Beinart ad Ali Abunimah mostra che la narrazione palestinese del sionismo si trova ora nel campo degli ebrei e non se ne andrà più.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Come la guerra di propaganda israeliana riduce l’Europa al silenzio

Gideon Levy

6 luglio 2020 – Middle East Eye

l diluvio di accuse esagerate di antisemitismo, a volte senza alcun fondamento, si è rivelato di dubbia efficacia.

La Segretaria di Stato all’Educazione del governo ombra del partito laburista britannico, Rebecca Long-Bailey, è stata recentemente dimissionata per aver diffuso sulle reti sociali un articolo in cui affermava, tra le altre cose, che Israele aveva addestrato la polizia americana ad utilizzare la tecnica del soffocamento consistente nel premere un ginocchio sul collo, praticata su George Floyd [afroamericano ucciso per soffocamento dalla polizia di Minneapolis, la cui morte ha dato inizio a molte proteste negli USA e nel mondo, ndtr.].

Nelle ultime settimane questa affermazione è circolata ampiamente nell’ambito della sinistra mondiale. Il segretario del partito Laburista inglese Keir Starmer ha accusato Long-Bailey di aver postato un articolo contenente una “teoria cospirazionista antisemita”. Evidentemente dopo le dimissioni di Jeremy Corbin il vento del cambiamento ha soffiato sul partito laburista britannico– e questo cambiamento non prelude a niente di buono. 

Osare criticare Israele

Il 25 giugno Middle East Eye ha pubblicato delle informazioni contenute nell’articolo in discussione sottoponendole a ‘fact-checking’ [verifica dei fatti, ndtr.]. L’accusa secondo cui Israele ha insegnato alla polizia americana il metodo di soffocamento che ha causato la morte di Floyd è infondata. Da decenni la polizia degli Stati Uniti ha il grilletto terribilmente facile quando sono coinvolti dei cittadini neri – ben prima che lo Stato d’Israele e la sua polizia venissero creati.

La polizia americana non ha certo bisogno della consulenza israeliana per essere capace di uccidere in gran numero civili neri innocenti.

Resta il fatto che l’inquietante velocità con cui Long-Bailey è stata sostituita nel governo ombra dovrebbe preoccupare i partigiani dei diritti umani ben più della credibilità di qualunque articolo che lei ha condiviso su internet. Long-Bailey è stata silurata per il solo motivo che ha osato condividere un articolo che criticava Israele, non perché ha osato pubblicare un articolo carente di basi fattuali.

Starmer non si preoccupa certo allo stesso modo dell’attendibilità degli articoli diffusi dai membri del suo partito. Si inquieta di più per l’immagine antisemita, non sempre giustificata, che si affibbia al suo partito.

Anche se le accuse dell’articolo fossero state inventate e senza alcun fondamento, resta molto improbabile che Long-Bailey sarebbe stata liquidata in questo modo se avesse postato false accuse contro qualunque altro Paese al mondo. In Europa, quando si tratta di critiche a Israele, le regole del gioco sono diverse. C’è Israele da una parte e il resto del mondo dall’altra.

Efficace propaganda sionista

In questi ultimi anni la propaganda israeliana è stata coronata da buon esito in Europa. Il licenziamento di Long-Bailey è solo un successo tra tanti altri. Ultimamente, sotto la direzione di un Ministero degli Affari Strategici relativamente nuovo nel governo israeliano – e con la cooperazione dell’establishment sionista nel resto del mondo – la propaganda sionista ha adottato una nuova strategia, che si rivela di un’efficacia senza precedenti.

Israele e l’establishment sionista in molti Paesi hanno iniziato a definire come antisemita ogni critica a Israele. Questo ha ridotto al silenzio gli europei. I propagandisti di Israele sfruttano cinicamente il senso di colpa dell’Europa che permane ancora riguardo al passato, spesso a ragione – e le accuse hanno raggiunto il proprio obbiettivo.

Continua ad essere difficile criticare Israele, l’occupazione, i crimini di guerra che l’accompagnano, le violazioni del diritto internazionale o il trattamento dei palestinesi da parte di Israele; tutto questo è etichettato come antisemitismo e sparisce immediatamente dal dibattito. Oltre a questa campagna di catalogazione, la maggior parte delle Nazioni occidentali, in particolare gli Stati Uniti, hanno adottato delle leggi che mirano a dichiarare guerra al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) – del tutto legittimo -, tentativo che ha lo scopo di penalizzare le sue attività e i suoi attivisti.

È incredibile che questa lotta contro un’occupazione e la sua infrastruttura legale sia oggetto di una delegittimazione e di una criminalizzazione intense. Provate a immaginare se un altro tipo di lotta condotta, per esempio, contro le fabbriche dove si sfrutta la miseria nel sud-est asiatico, contro la produzione di carne su scala industriale o i grandi campi di concentramento in Cina, fosse definita “criminale” in Occidente. Difficile da immaginare.

Eppure la lotta contro l’apartheid israeliana – e non c’è lotta più incontestabilmente morale – oggi è considerata criminale. Al di là del coronavirus, provate oggi a prenotare un grande spazio pubblico da qualche parte in Europa per un evento di solidarietà con i palestinesi. Provate a pubblicare un articolo contro l’occupazione israeliana sugli organi di stampa tradizionali. L’occhiuta macchina della propaganda israeliana vi scoverà immediatamente, vi accuserà di antisemitismo e vi ridurrà al silenzio.

Sostenere la libertà di espressione

Ridurre al silenzio: non c’è un’altra espressione per descrivere la situazione. Ciò significa che questo problema non può riguardare solo coloro che si occupano della causa palestinese, deve diventare una preoccupazione urgente per chiunque sostenga la libertà di espressione.

Israele non potrà certo beneficiare a lungo della sua campagna aggressiva, quasi violenta, che potrebbe ritorcersi sia contro lo Stato israeliano che contro gli ebrei in generale, suscitando l’opposizione, addirittura la repulsione, tra i sostenitori della libertà di espressione. Per una ragione sconosciuta ciò non si è – ancora – verificato, l’Europa ha piegato la testa e si è arresa senza condizioni di fronte a questa pioggia di accuse eccessive di antisemitismo, a volte del tutto infondate. L’Europa è stata ridotta al silenzio.

Sicuramente bisogna combattere l’antisemitismo. Esso esiste, continua a mostrare i denti, riaccende i ricordi del passato. Ma la critica necessaria e legittima dell’occupazione israeliana o anche del sionismo non può essere associata all’antisemitismo.

Se Israele compie crimini di guerra bisogna opporvisi e condannarli. È più che un diritto; è un dovere. Come accidenti potrebbe trattarsi di antisemitismo? Come ha fatto una lotta di coscienza a diventare un tabù?

Se Israele evoca l’annessione di territori occupati e la trasformazione di Israele in uno Stato di apartheid non solo de facto, ma de jure, è un dovere opporvisi e denunciare le intenzioni di Israele. Se Israele bombarda i civili indifesi a Gaza, come si fa a non opporsi? Tuttavia questo è diventato quasi impossibile in Europa e negli Stati Uniti.

Confusione sistemica

Ormai da quasi un secolo i palestinesi sono privati del loro Paese. In questi ultimi 53 anni hanno anche vissuto sotto occupazione militare senza diritti, senza un presente né un futuro, le loro terre violate e la loro libertà annientata, la loro vita e la loro dignità considerate senza valore – e improvvisamente la lotta contro tutto questo viene proibita.

Vi è una confusione sistemica sconcertante: l’occupante ha il diritto di difendersi e chiunque lotti contro l’occupazione si trova tra gli accusati. Invece di denunciare l’occupazione israeliana, di attaccarla e infine cominciare a farle pagare un costo sanzionando il Paese responsabile – cosa che l’Europa ha fatto molto giustamente nei giorni seguenti l’annessione della Crimea da parte della Russia -, invece di definire apartheid l’apartheid israeliana, perché non vi è altra parola per descriverla, i suoi detrattori sono ridotti al silenzio.

È disgustoso, immorale e ingiusto. L’Europa non può, e non deve, continuare a restare in silenzio riguardo a questo, anche se il prezzo da pagare è di essere definiti antisemiti.

Queste accuse non devono continuare a ridurre al silenzio l’Europa. Gli ebrei e i sionisti israeliani formulano false accuse, e allora?

Long-Bailey ha condiviso un articolo online, che forse non meritava di essere diffuso. Dimissionarla è un problema ben più grave.

Gideon Levy è un giornalista e membro del comitato di redazione del quotidiano Haaretz. E’entrato a Haaretz nel 1982 ed è stato per quattro anni vice caporedattore del giornale. Ha vinto il premio Euro-Med Journalist nel 2008, il premio Leipzig Freedom nel 2001, il premio Israeli Journalists’Union [Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997 ed il premio dell’Associazione dei Diritti Umani di Israele nel 1996. Il suo ultimo libro, ‘La punizione di Gaza’, è stato pubblicato dalle edizioni Verso nel 2010.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Ex presidenti e personalità latinoamericane chiedono sanzioni contro l’apartheid israeliano

4 luglio 2020 – Monitor de Oriente

Oggi più di 320 personalità pubbliche, accademici, ex-presidenti e parlamentari di tutta l’America latina hanno presentato una dichiarazione congiunta contro i piani israeliani di annessione di grandi estensioni della Cisgiordania occupata.

Tra i firmatari ci sono il premio Nobel per la Pace argentino Adolfo Pérez Esquivel; i musicisti brasiliani Chico Buarque e Caetano Veloso; gli ex-presidenti Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff (Brasile), Pepe Mujica (Uruguay), Fernando Lugo (Paraguay), Rafael Correa (Ecuador) ed Ernesto Samper (Colombia); l’ex-ministro degli Esteri del Brasile Celso Amorim; Paulo Sérgio Pinheiro, ex- segretario per i Diritti Umani del Brasile ed attuale presidente della Commissione Arns per la Difesa dei Diritti Umani. Anche più di 60 deputati brasiliani di vari partiti – che comprendono il PSOL [Partito Socialismo e Libertà, di estrema sinistra], il PT [Partito dei Lavoratori, di sinistra], il PCdoB [Partito Comunista del Brasile, estrema sinistra] e il PDT [Partito Democratico Laburista, di centro sinistra] – hanno firmato il documento.

La dichiarazione resa pubblica ieri al margine di una iniziativa della società civile sudafricana e come parte di una risposta unitaria di Africa, Asia e America latina, chiede sanzioni contro Israele e la ricostituzione del Comitato Speciale dell’ONU contro l’apartheid per bloccare le politiche israeliane di colonizzazione.

La crescente gravità delle violazioni da parte di Israele e la sua impunità ci impongono di rispondere all’appello lanciato dalla grande maggioranza delle organizzazioni della società civile palestinese…Appoggiamo la richiesta del popolo palestinese che si ponga fine al commercio di armi e alla cooperazione militare e in materia di sicurezza con Israele; che si annullino gli accordi di libero commercio con questo Stato; che si proibisca il commercio con le illegali colonie israeliane; che si chieda conto alle persone e ai soggetti che cooperano, complici di questo regime di occupazione e di apartheid. Ci impegniamo a lavorare, nei nostri rispettivi contesti nazionali, per sostenere l’applicazione di queste misure,” dice la dichiarazione.

La campagna ha ottenuto anche le firme di decine di accademici brasiliani, tra cui l’antropologo del Museo Nazionale Eduardo Viveiros de Castro, il pluripremiato scrittore Milton Hatoum e il fumettista Carlos Latuff. Altri firmatari sono l’ex-sindaco di São Paulo Fernando Haddad; Sônia Guajajara, dirigente del Coordinamento dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB); Débora Silva del Movimento delle Madri di Maggio; Guilherme Boulos, coordinatore del Movimento dei Lavoratori senza Casa (MTST); Douglas Belchior del Movimento Negro Uneafro; João Pedro Stédile del Movimento dei Lavoratori senza Terra (MST); dirigenti sindacali, come Sérgio Nobre della Central Unificata dei Lavoratori (CUT) e Carlos Prates della CSP-Conlutas; Juliano Medeiros, presidente del Partito Socialismo e Libertà (PSOL); José Maria de Almeida, presidente del Partito Socialista Unificato dei Lavoratori (PSTU); Edmilson Costa, segretario generale del Partito Comunista Brasiliano (PCB); Maria Carolina de Oliveira, segretaria dei Rapporti Internazionali dell’ Unione Nazionale degli Studenti (UNE).

Firmando il documento l’ex-primo ministro brasiliano Celso Amorim ha affermato che “l’annessione del territorio palestinese da parte di Israele non solo è una violazione delle leggi internazionali e una minaccia per la pace, ma anche un’aggressione contro gli uomini e le donne che hanno lottato contro il colonialismo e l’apartheid. La voce del Sud deve essere ascoltata.”

Inoltre anche il movimento internazionale per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) in America latina ha lanciato una campagna denominata “No all’Annessione” (#NoALaaAnexación).

Il prossimo sabato attivisti sudafricani manifesteranno in rete contro i progetti di annessione e l’apartheid israeliani. Tra le personalità pubbliche che parteciperanno all’evento ci saranno Omar Barghouti, fondatore del movimento BDS; Mandla Mandela, nipote di Nelson Mandela; Rajmohan Gandhi, nipote del Mahatma Gandhi; l’attivista sudafricano Phakamile Hlubi Majola; l’ex ministro degli Esteri brasiliano Celso Amorim; la deputata cilena Karol Cariola.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




L’organizzazione razzista filo-israeliana ADL cerca di cooptare Black Lives Matter

Ali Abunimah

29 giugno 2020 – Electronic Intifada

Per quanti desiderano la fine del razzismo istituzionalizzato, questi sono tempi esaltanti, in quanto attivisti e organizzazioni dei neri guidano una protesta globale contro i simboli e le strutture della supremazia bianca.

Ma in questi giorni, nel caso in cui un’organizzazione razzista si mascheri da organizzazione per i diritti civili, rischia di essere smascherata.

È un gioco d’equilibrio che per anni ha tormentato l’Anti Defamation League [Lega contro la Diffamazione], un’importante organizzazione della lobby israeliana negli Stati Uniti.

La sua controparte nel Regno Unito sta affrontando lo stesso problema.

La crisi è particolarmente acuta proprio ora, in quanto l’ADL cerca di presentarsi come un’alleata di Black Lives Matter [Le vite dei neri contano, movimento di protesta contro la violenza della polizia e il razzismo nei confronti delle minoranze, ndtr.], difendendo nel contempo Israele dalle critiche riguardo ai suoi progetti di annettere terre palestinesi nella Cisgiordania occupata, accentuando ulteriormente il sistema di apartheid.

Una nota fatta trapelare e ottenuta la scorsa settimana dal giornalista Josh Leifer di “Jewish Currents” [rivista trimestrale ebraica USA di sinistra, ndtr.] evidenzia il dilemma dei dirigenti dell’ADL.

Questa nota illustra come il gruppo lobbystico possa, nelle parole di Leifer, “trovare il modo di difendere Israele dalle critiche senza inimicarsi altre organizzazioni per i diritti civili, rappresentanti eletti di colore e attivisti e sostenitori di Black Lives Matter.”

L’essenza della strategia è di consentire alcune tenui critiche contro Israele respingendo nel contempo descrizioni più precise e puntuali delle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele come ‘apartheid’ e ‘separati ma uguali’ – quest’ultimo è un termine a lungo utilizzato per rendere accettabili la segregazione razziale e la sottomissione imposte con la violenza e legalizzate negli Stati Uniti.

Gli autori di questa nota temono che uno scontro con le forze progressiste riguardo all’annessione possa portare l’ADL dalla “parte sbagliata” del movimento Black Lives Matter e “mettere in dubbio i rapporti tra l’ADL e molte organizzazioni e coalizioni per i diritti civili.”

È paradossale che l’ADL tema che Israele venga associato all’apartheid.

Mentre negli anni ’80 e 90’ il regime sudafricano dell’apartheid armato da Israele stava ancora distruggendo vite dei neri in quel Paese, l’ADL gestiva una rete di spionaggio negli Stati Uniti.

Oltre ad infiltrare gruppi solidali con i palestinesi, lo spionaggio dell’ADL passava agli efferati servizi segreti sudafricani documenti segreti sugli attivisti contrari all’apartheid.

L’ultima indiscrezione filtrata dall’ADL conferma timori rivelati in un rapporto privato ottenuto da Electronic Intifada nel 2017.

Quel rapporto – scritto insieme dall’ADL e dal Reut Institute, un gruppo israeliano di esperti – lamentava che gli attivisti della campagna per i diritti dei palestinesi fossero stati “in grado di inserire la lotta palestinese contro Israele come parte della lotta di altre minoranze oppresse quali gli afro-americani, i latinos e la comunità LGBTQ.”

Il rapporto raccomandava che i gruppi sionisti cercassero di ostacolare questa dinamica “collaborando con altri gruppi di minoranza sulla base di valori condivisi e interessi comuni come una riforma della giustizia penale, il diritto di immigrare o lottando contro il razzismo e i reati motivati da odio.” Oggi l’ADL vede Black Lives Matter come un’opportunità di incrementare la sua credibilità portando avanti nel contempo il suo programma anti-palestinese.

Appello per una censura più severa

L’ADL è uno dei molti gruppi lobbystici che, come il governo israeliano, hanno a lungo visto Black Lives Matter come una grave minaccia strategica.

Il suo tentativo di cooptare il movimento Black Lives Matter per controllare e disinnescare le critiche contro il duro regime razzista israeliano nei confronti dei palestinesi è attualmente in corso. L’organizzazione fa parte della campagna “Basta lucrare sull’odio”, che sta facendo pressione sulle grandi multinazionali perché nel mese di luglio tolgano la pubblicità da Facebook per protestare contro il presunto fatto che il gigante delle reti sociali non reprima i discorsi d’odio.

Nomi importanti come Unilever e Starbucks hanno già accettato di aderire.

Ci sono concreti motivi di preoccupazione riguardo a questa campagna: in effetti chiede che Facebook agisca come censore e arbitro della verità, un ruolo che nessuno vuole sia giocato da un’impresa privata senza alcun controllo.

È particolarmente preoccupante, dato che Facebook ha già nominato nel suo nuovo organismo di controllo un ex- funzionario del governo israeliano responsabile della censura. Mentre pochi potrebbero avere dei problemi riguardo al fatto di veder cancellare piattaforme pubbliche di suprematisti bianchi e nazisti, la realtà è che i palestinesi sono stati tra i principali obiettivi della censura in rete, soprattutto da parte di Facebook.

Gruppi lobbystici israeliani, compresa l’ADL, hanno promosso una definizione ingannevole e con motivazioni politiche di antisemitismo che mette sullo stesso piano da una parte le critiche alle politiche israeliane e alla sua ideologia razzista sionistica di Stato, e dall’altra il fanatismo antiebraico.

Hanno spinto governi, istituzioni e imprese di reti sociali ad adottare questa falsa definizione per far tacere i sostenitori dei diritti umani dei palestinesi.

La campagna “Basta lucrare sull’odio” chiede esplicitamente che Facebook “trovi e rimuova gruppi pubblici e privati che si concentrano su suprematismo bianco, milizie, antisemitismo, cospirazioni violente, negazione dell’Olocausto, disinformazione sui vaccini e negazionismo sul clima.”

Per quanto si debbano detestare tali punti di vista, questa è una richiesta piuttosto ampia di censura e controllo delle opinioni, che è improbabile si fermi lì.

Eppure, significativamente, non ci sono richieste di rimozione contro gruppi antimusulmani, nonostante l’incremento dell’islamofobia sulla piattaforma. Questo tipo di odio a quanto pare va benissimo!

La campagna “Basta lucrare sull’odio” fornisce anche un pretesto perché le grandi multinazionali si facciano una pubblicità positiva facendo in realtà ben poco per opporsi al razzismo strutturale. Senza dubbio queste multinazionali saranno contente di ricominciare a fare pubblicità su un Facebook ripulito da ogni opinione dissenziente.

Boicottaggio per me ma non per te

C’è anche la totale ipocrisia dell’ADL, che chiede un boicottaggio contro Facebook mentre attacca e calunnia il BDS – la campagna nonviolenta di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni per porre fine al razzismo e ai crimini di Israele contro i palestinesi.

L’Anti-Difamation League ha persino appoggiato le leggi contro il BDS, sapendo benissimo che queste norme sono incostituzionali perché violano la libertà di parola.

Indubbiamente l’ADL valorizza i propri diritti costituzionali di chiedere un boicottaggio di Facebook anche quando cerca di calpestare i diritti altrui alla libertà di parola, compresi quanti credono che ai palestinesi non dovrebbero essere negati i diritti nella loro stessa terra solo perché non sono ebrei.

Ma, appoggiando la campagna “Basta lucrare sull’odio”, l’ADL unisce le proprie forze con le principali organizzazioni nere progressiste per i diritti civili, come “Color of Change” [Colore del Cambiamento] e la storica NAACP [National Association for the Advancement of Colored People, una delle più antiche ed importanti associazioni per i diritti civili negli Stati Uniti, ndtr.], utilizzando quindi questi rapporti per conquistarsi una cedibilità totalmente immeritata come alleato antirazzista.

Attivisti neri in GB chiedono sanzioni contro Israele

Il problema rappresentato dall’ADL e dalla lobby israeliana nel suo complesso è stato messo in evidenza durante il fine settimana, quando Black Lives Matter UK, una coalizione antirazzista, ha twittato il suo sostegno alla lotta palestinese:

Mentre Israele procede verso l’annessione della Cisgiordania e la maggioranza della politica britannica mette a tacere il diritto di criticare il sionismo e prosegue il colonialismo di insediamento israeliano, noi stiamo in modo forte e chiaro con i nostri compagni palestinesi,” ha twittato l’organizzazione.

Il tweet ha avuto decine di migliaia di likes e re-twittaggi.

Black Lives Matter UK vi ha fatto seguire una serie di tweet che smascherano le affermazioni della lobby israeliana secondo cui le critiche a Israele sono antisemite.

Un tweet ha dichiarato che, in vista dell’annessione, “noi stiamo con la società civile palestinese nel chiedere sanzioni mirate in linea con le leggi internazionali contro il regime colonialista e di apartheid israeliano.”

I tweet sono stati particolarmente significativi in quanto la politica britannica rimane nella morsa di una caccia alle streghe contro chi critica Israele, soprattutto all’interno del principale partito di opposizione, quello Laburista.

Come prevedibile il tweet ha suscitato l’immediata ostilità da parte del Jewish Labour Movement, un gruppo lobbystico all’interno del partito Laburista che ha agito per conto dell’ambasciata israeliana.

Mike Katz, presidente del Jewish Labour Movement, ha affermato di essere “rattristato” nel vedere i tweet di Black Lives Matter UK.

Ha anche affermato che alcuni membri della sua organizzazione “rifiutano l’annessione e le colonie”.

Ciò può essere visto come un ennesimo tentativo di deviare le critiche contro Israele verso una forma “attenuata” accettabile, concentrata solo su un numero ridotto di azioni israeliane, cercando al contempo di escludere le critiche al sionismo.

Il Board of Deputies [Comitato dei Deputati], un’organizzazione ebraica britannica all’interno della Camera dei Comuni e uno dei principali gruppi filo-israeliani, ha, come prevedibile, accusato Black Lives Matter UK di avere “pregiudizi antisemiti”.

Ma il Board ha insistito che ciò “non ci impedirà di stare dalla parte del popolo nero nella sua richiesta di giustizia.”

Ma, di fatto, appoggiare Israele e il sionismo è del tutto incompatibile con ogni richiesta di giustizia. Nessuna campagna di astute manovre di diversione e pubbliche relazioni può nascondere questa semplice verità: non puoi essere un antirazzista razzista.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Ben Gourion Internazionale, questo aeroporto diventato un tribunale inquisitorio

Laurent Perpigna Iban

6 giugno 2020 – Middle East Eye

All’aeroporto di Tel Aviv ottenere il visto israeliano a volte diventa un incubo per i viaggiatori. Soprattutto per quelli che sono sospettati dalle autorità israeliane di essere militanti filopalestinesi

Tel Aviv, Israele – La lunga rampa che conduce dai terminal dell’aeroporto Ben Gurion agli uffici dell’immigrazione israeliani a volte ha il sapore della paura. Più in basso, dietro i vetri della ventina di posti di controllo, gli agenti attendono pazientemente i viaggiatori. Nelle code in attesa la gioia dei pellegrini contrasta con l’ansia di altri candidati al visto.

Arriva il momento fatidico. I passaporti vengono analizzati meticolosamente, le domande a dir poco brusche: “Dove andate? Conoscete qualcuno qui? Come si chiama?”. E altrettante domande a cui i viaggiatori devono rispondere senza batter ciglio, soprattutto coloro che intendono recarsi per conto proprio in Cisgiordania, per i quali la bugia risulta essere il miglior parafulmine ai guai.

Queste domande da interrogatorio non riguardano solo questioni di sicurezza. Gli obbiettivi, oltre a prevenire attacchi sul suolo israeliano, sono anche politici, poiché si tratta di limitare la presenza straniera nei territori occupati. A questo scopo le autorità israeliane dispongono di uno strumento imbattibile: la concessione del visto all’arrivo.

Dato che i due principali punti d’ingresso che consentono agli stranieri di recarsi in Cisgiordania sono sotto controllo israeliano – l’aeroporto di Tel Aviv e il ponte di Allenby – Malik Hussein, tra la Cisgiordania e la Giordania – la concessione di questo ‘apriti sesamo’ si è trasformata nel tempo in uno strumento amministrativo agli ordini della politica israeliana.

Gli accordi che esentano dalla richiesta di visto prima della partenza conclusi con parecchi Paesi erano peraltro tesi a facilitare il viaggio degli stranieri. Ma ecco che queste cortesi direttive hanno assunto l’aspetto si una roulette russa per molti viaggiatori: l’autorizzazione ad entrare nel territorio – attraverso un visto per turismo di tre mesi – si ottiene direttamente sul posto e di fatto sottopone i viaggiatori all’arbitrio.

Il quotidiano economico Globes, citando statistiche dell’Amministrazione dei posti di frontiera, della popolazione e dell’immigrazione –che fa capo al Ministero dell’Interno israeliano – riportava che nel 2018 erano state respinte al loro arrivo circa 19.000 persone, contro le 16.534 del 2016 e….le 1.870 del 2011.

Risultato: molti viaggiatori che vogliono andare in Cisgiordania in modo indipendente preferiscono tacere le proprie intenzioni, di fronte al rischio di pesanti interrogatori o anche di respingimento.

Interrogatori interminabili

Kamel e Louis* lo sapevano. Questi due giovani francesi si erano documentati in proposito prima di partire per Tel Aviv, nel novembre 2019. Se Louis ha passato senza problemi i controlli, non è stato così per il suo amico.

“Ho mostrato il mio passaporto francese. Ho risposto che sarei andato a visitare Tel Aviv e Gerusalemme. La giovane donna allora mi ha chiesto quali fossero le mie origini. Algerine. Per me è stato l’inizio dei guai,” racconta Kamel a Middle East Eye.

Il giovane viene quindi fatto entrare nella sala d’attesa riservata ai “aspiranti [all’ingresso in Israele] sospetti”. Kamel subisce un primo interrogatorio di una mezz’ora. Passano due ore prima che sia portato davanti ad un secondo interlocutore.

“Questo mi ha detto di essere il capo della sicurezza. Mi ha fatto le stesse domande alle quali ho dato le stesse risposte. Mi sono trovato davanti una terza persona. E’ diventato sempre più pesante.”

Kamel riferisce che dal terzo interrogatorio in poi era presente un traduttore francese.

“L’agente della sicurezza israeliana ha alzato più volte la voce. Mi ha chiesto se ero musulmano, se pregavo… E poi domande personali che non li riguardavano e che comunque loro si permettevano di farmi. Davano l’impressione di voler controllare tutto e di avere un potere assoluto. Mi hanno chiesto perché i miei genitori erano andati a vivere in Francia. Hanno anche controllato il mio portatile”, racconta.

Il giovane ha subito in tutto cinque interrogatori, per un fermo in totale di sei ore.

“Hanno cercato di colpirmi psicologicamente. Ero nella posizione del colpevole”, racconta a MEE. Quando si rassegna ad un respingimento formale, ha finito “quasi miracolosamente”per ottenere il visto.

Un trattamento che sono costretti a subire tutti coloro che non corrispondono al profilo del turista depoliticizzato. Ma di fatto le persone di origine araba e di fede musulmana sono molto più esposte a queste complicazioni. Al punto che alcune di loro, dal profilo insospettabile, a volte sono pesantemente minacciate.

Nel 2019 il quotidiano israeliano Haaretz ha dato conto della disavventura dell’ambasciatore di Israele a Panama, Reda Mansour, che ha riferito che lui stesso e suoi famigliari sono stati “umiliati e trattati come sospetti dalle guardie di sicurezza”.

Un trattamento che aveva provocato una pesante polemica in Israele, che ha costretto il presidente Reuven Rivlin ad esprimersi pubblicamente. “Ciò che conta è ciò che voi sentite, e se voi vi sentite così feriti, allora non dobbiamo fare delle riflessioni”, aveva allora dichiarato il capo dello Stato.

In seguito la situazione non sembra essere affatto migliorata: alcune ore prima della messa in quarantena di tutti i viaggiatori in arrivo all’aeroporto di Tel Aviv a causa dell’epidemia di coronavirus, gli agenti dell’immigrazione si preoccupavano meno di sapere se essi provenissero da una zona infetta dal coronavirus che di cosa avessero intenzione di fare una volta entrati.

La legge in questione

Alla fine degli interrogatori alcuni non hanno la fortuna di Kamel e si trovano nella situazione di « denied entry » (ingresso respinto). Per loro è un ritorno al mittente.

Qualunque scusa è buona per giustificare questa decisione. Le simpatie filo palestinesi, anche presunte, mettono il candidato al visto nella posizione del colpevole, mentre le foto archiviate sui telefonini, gli account Twitter e Facebook valgono come prove.

Una situazione tanto più paradossale in quanto la visita nei territori palestinesi non è vietata agli stranieri, anche in base al diritto israeliano.

Tuttavia nel 2017 la Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] ha approvato una legge che vieta il rilascio di visti e di diritti di residenza ai cittadini stranieri che aderiscono al boicottaggio economico, culturale o accademico di Israele, ma anche di tutte le istituzioni israeliane o di ogni “zona sotto il controllo di Israele”, cioè le colonie. Se gli stranieri sono il principale obiettivo, anche i militanti israeliani contro l’occupazione ne fanno regolarmente le spese.

Tuttavia non sono solo i controlli all’arrivo a provocare paura e tensione. Quelli effettuati al momento di lasciare il Paese in aereo – il primo avviene tre chilometri prima di arrivare all’aeroporto – sono tanto numerosi quanto snervanti.

Il più inquietante è quello effettuato dentro l’area da una schiera di agenti di sicurezza, ancor prima che il viaggiatore possa accedere agli sportelli per il check in. Con il pretesto della sicurezza aeroportuale, le domande sui viaggi precedenti – soprattutto nei Paesi arabi – si susseguono a folle velocità, volutamente destabilizzante.

Questa raccolta di informazioni resta segreta, anche se alcuni segreti dei servizi di immigrazione israeliani a volte finiscono per essere smascherati. È il caso degli adesivi con codice a barre incollati sul retro del passaporto dopo l’interrogatorio: secondo diverse fonti il primo numero, compreso tra 1 e 6, classifica i viaggiatori secondo un ordine crescente di “pericolosità”.

Una teoria confermata da nostri incontri con una decina di persone che hanno viaggiato in Israele: quelle che hanno la prima cifra compresa tra 5 e 6 subiscono interrogatori pesanti e sistematiche perquisizioni dei bagagli.

Chris Den Hond è un giornalista. Abituato dal 1994 a recarsi nei territori occupati, è avvezzo a questo genere di interrogatori.

“Anche se non mi hanno messo il timbro sul passaporto e non mi hanno mai sequestrato cassette video, tutte le volte, sia all’entrata che all’uscita, è lo stesso stress”, confida a MEE.

“Mi sono sempre limitato a visitare i siti turistici di Gerusalemme e di Betlemme. Ma le intimidazioni perché io fornissi i nomi, i numeri di telefono e gli indirizzi di contatti palestinesi sono sempre numerose.”

Nel 2017, quando Chris Den Hond è uscito dal territorio attraverso il valico con la Giordania, ha citato anche la visita a Ramallah. “La città di troppo”, spiega, amaramente.

Si susseguono lunghe ricerche condotte dalle forze di sicurezza israeliane, che non tardano a trovare dei video che il giornalista ha realizzato sul movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), vera bestia nera delle elite del paese.

“Alla fine un dirigente mi ha consigliato ironicamente di consultare l’ambasciata israeliana prima di pensare di tornare in Israele, per evitare di essere respinto all’arrivo. Ho chiesto: ‘ Per quanto tempo?’ Mi hanno risposto: ‘Almeno per dieci anni’.”

[SI tratta di] frequenti misure di divieto di ingresso nel territorio, come spiega a MEE Salah Hamouri, avvocato franco-palestinese.

“All’arrivo attraverso questo aeroporto Israele cerca di vietare l’ingresso nel territorio a tutte le persone che hanno idee politiche considerate filo palestinesi. Questo rientra nel loro concetto di negazione stessa dell’esistenza del popolo palestinese”, commenta.

Il caso spinoso dei familiari di palestinesi

Salah Hamouri è nel mirino delle autorità israeliane. Dopo essere stato incarcerato una prima volta tra il 2005 e il 2011, l’avvocato viene arrestato nell’agosto 2017 a Gerusalemme: passerà più di un anno in detenzione amministrativa, senza che le accuse contro di lui vengano rese pubbliche.

Prima ancora, nel 2016, hanno arrestato sua moglie, Elsa Lefort, allora incinta di sette mesi. “È rimasta tre giorni in un centro di detenzione prima di essere rimandata in Francia con un divieto di ingresso nel territorio tuttora in vigore. Non può più venire a Gerusalemme.”

Quando è uscito di prigione nel 2018, il Ministero degli Esteri francese ha consigliato a Salah Hamouri di fare domanda di visto presso l’ambasciata israeliana prima di partire, se (sua moglie) vuole tornare nel Paese.

 “L’ambasciata mi ha risposto che le era vietato l’ingresso nel territorio fino al 2025. Quanto a mio figlio, hanno detto che la sua domanda sarebbe stata esaminata al momento dell’arrivo…”, spiega.

L’avvocato ricorda almeno “una trentina di donne francesi sposate a palestinesi” che incontrano tremende difficoltà per entrare nel territorio e condurre una vita normale. Di fronte a questi problemi che le riguardano direttamente, “le autorità francesi restano sorde…”, ci dice.

In realtà Salah Hamouri, come altri, deplora la passività della diplomazia francese.

“Ufficialmente, anche se io sono in possesso della carta di residenza di Gerusalemme, ho soltanto la nazionalità francese e in quanto famiglia francese noi abbiamo il diritto di vivere dove vogliamo. Le nostre richieste alle autorità francesi sono vane. Nel mio caso gli israeliani utilizzano questo per revocarmi la carta d’identità come residente a Gerusalemme e scoraggiarmi dall’andarci.”

Un arbitrio al passo coi tempi: i palestinesi di Gerusalemme, che nella gran maggioranza non possiedono la cittadinanza israeliana, hanno solamente lo statuto di residenti della città, facilmente revocabile. Per Salah Hamouri, come per migliaia di altri, un allontanamento geografico di eccessiva durata potrebbe privarlo di questa preziosa carta di residenza.

Nondimeno, l’ esasperato sistema di controllo dell’aeroporto di Tel Aviv suscita l’interesse e anche l’ammirazione di parecchi Paesi, soprattutto europei, che lo considerano – nonostante gli abusi rilevati – uno dei luoghi più sicuri al mondo.

Così, due mesi dopo l’attentato avvenuto all’aeroporto di Bruxelles nel marzo 2016, il Ministro dell’Interno belga ha effettuato una visita privata delle installazioni israeliane. Anche altre delegazioni europee vi si sono recate in trasferta.

In queste condizioni è difficile aspettarsi un qualunque ammorbidimento all’aeroporto internazionale Ben Gurion, che di anno in anno si trasforma sempre più in tribunale inquisitorio.

* I nomi di battesimo sono stati modificati.

** Al momento della pubblicazione di questo articolo le autorità aeroportuali israeliane non avevano ancora risposto alle domande di MEE.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)