Palestina 2016: uno scenario ottimistico

Ma’an News

di Alaa Tartir

Nel 2015 la Palestina non si trovava in buone condizioni. Secondo la rivista dell’IMEU [“Institute for Middle East Understanding”, Istituto per la comprensione del Medio Oriente, organizzazione no-profit che fornisce ai giornalisti informazioni sulla Palestina ed i palestinesi. Ndtr.], nel 2015 circa 170 palestinesi sono stati uccisi e 15.377 feriti da israeliani; Israele ha distrutto o smantellato 539 case ed altre strutture palestinesi nella Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate (con più di 11.000 ordini di demolizione pendenti contro strutture palestinesi nell'”Area C” [sotto totale controllo di Israele, in base agli accordi di Oslo. Ndtr.] della Cisgiordania occupata); c’erano 6.800 palestinesi incarcerati da Israele al dicembre 2015 e circa 650.000 coloni ebrei nei territori occupati.

La Palestina andrà meglio nel 2016? C’è una qualche ragione di ottimismo e di speranza tra questi cupi avvenimenti e quanto sta accadendo attualmente? Ritengo di sì, nonostante tutto.

Un rapido colpo d’occhio alle analisi esistenti indica che il 2016 sarà un anno ancora peggiore per i palestinesi. Queste analisi prevedono un incremento della violenza, il possibile collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) con conseguenze negative per il popolo palestinese, un’ulteriore frammentazione tra i palestinesi nella corsa alla successione di Abbas, feroci e persino sanguinose dispute all’interno di Fatah, rafforzamento delle divisioni tra Fatah e Hamas, continuazione dell’occupazione militare israeliana e il persistere della mancanza di volontà da parte statunitense ed europea di porre fine all’ingiustizia e all’oppressione.

Per peggiorare ulteriomente le cose, gli osservatori avvertono che il 2016 potrebbe creare un’ “occasione matura” per l’ingresso dell’ISIS in Palestina, soprattutto se un “vuoto nella sicurezza” si venisse a determinare in conseguenza del collasso dell’ANP. Alcune di queste previsioni sono plausibili, ma altre, soprattutto quelle suggerite da diversi apparati di sicurezza locali o internazionali e da istituzioni dei servizi segreti, sono pure speculazioni o predizioni immotivate e senza fondamento. Quelle orientate dai sistemi di sicurezza sono discutibili in quanto danno la priorità alle necessità ed alle fobie della sicurezza israeliana e ignorano i diritti umani fondamentali dei palestinesi e anzi alimentano le tendenze e le trasformazioni autoritarie. Quindi ritengo che, invece di fare un’equivalenza tra il “vuoto nella sicurezza” e l’emergere dell’ISIS o con una situazione di caos, è il momento buono per iniziare ad affrontare la vera domanda per quanto riguarda le questioni di sicurezza: come mettere fine immediata all’occupazione militare israeliana?

Comunque, il problema fondamentale di tutte le summenzionate previsioni dominanti è che ignorano le buone notizie che stanno arrivando dalla Palestina. Ecco un breve elenco di qualche “fonte di speranza e ottimismo” a cui guardare nel 2016.

In primo luogo, e cosa più importante, sta emergendo una nuova e diversa generazione palestinese. Questa generazione propone nuove prospettive, nuovi obiettivi e nuovi strumenti. Mentre una parte di questa generazione si sta ribellando nelle strade della Palestina, un’altra parte (benché meno visibile dei giovani che si stanno ribellando) sta elaborando strategie per la lotta e mettendole in pratica, localmente e internazionalmente.

Questa nuova generazione transnazionale sta anche formando la propria dirigenza intellettuale, fondamentale per ogni processo di cambiamento positivo. Nel 2016 potremmo assistere alla rinascita a lungo attesa del pensiero politico palestinese, benché si tratti di un obiettivo ambizioso. Indubbiamente una nuova leadership è in via di formazione ed emergerà da questa generazione, che è capace di affrontare le cause profonde delle sofferenze, delle debolezze e della frammentazione palestinesi. Non si tratta di un esito irraggiungibile né di un obiettivo improbabile.

Questa generazione non è stanca solo dell’occupazione israeliana e delle sue politiche colonialiste, ma anche dell’attuale dirigenza palestinese, illegittima e non rappresentativa. Sono nauseati e stufi dei continui fallimenti e stanno pensando ed agendo per riuscire ad avvicinarsi alla realizzazione dei propri diritti.

Se questa generazione è “invisibile” a molti osservatori e responsabili politici, è necessario cambiare urgentemente punto di vista, semplicemente perché negli ultimi anni una nuova dirigenza palestinese è emersa, ad esempio, in Israele e nella società civile palestinese.

L’unificazione della leadership palestinese in Israele è un’altra fonte di ottimismo, nonostante tutte le avvertenze del caso. Il “colpo” durante le elezioni parlamentari israeliane del 2015 [si riferisce al fatto che la lista unitaria palestinese è diventata la terza forza politica israeliana. Ndtr.] ha trasformato la minaccia rappresentata dall’esistenza dei palestinesi nella politica israeliana in una nuova opportunità politica.

Se utilizzato intelligentemente, l’emergere di un nuovo leader politico come Ayman Odeh [leader del partito di sinistra arabo-israeliano “Hadash” e della “Lista Unitaria” alle elezioni del 2015. Ndtr.] non sarà senza conseguenze per i diritti politici e civili dei palestinesi e per le dinamiche complessive della lotta palestinese.

In effetti, alcuni osservatori hanno sostenuto che “invece di cercare freneticamente di far rivivere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) [la storica coalizione di partiti palestinesi che ha condotto la lotta contro Israele sotto la guida di Fatah e di Arafat. Ndtr.] come rappresentante di tutti i palestinesi…i palestinesi dovrebbero semplicemente guardare ad ovest, ai partiti politici palestinesi all’interno di Israele e già rappresentati nella Knesset (Parlamento israeliano, ndt.).” Questa mossa, nonostante i suoi potenziali limiti, potrebbe significare una nuova configurazione e un diverso sistema di presupposti per il “conflitto israelo-palestinese.”

La “nuova” dirigenza della società civile palestinese emersa nell’ultimo decennio è il terzo elemento di ottimismo e di speranze di giustizia nel 2016. Gli inarrestabili successi del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi ne sono l’esempio principale. Il ruolo importante del BDS e i successi che ha ottenuto non sono solo dovuti alla formazione organica della dirigenza del movimento o ai suoi principi ed obbiettivi unificanti e di vasta portata, ma anche alla sensazione di possedere uno degli strumenti della lotta per l’autodeterminazione, all’evidenza storica relativa all’efficacia di un simile mezzo nel garantire la giustizia e il cambiamento e la trasformazione dell’opinione pubblica internazionale in merito al conflitto israelo-palestinese.

Lo sviluppo del movimento di solidarietà internazionale che lavora in accordo con le priorità e le richieste della società civile palestinese è un esempio stimolante della collaborazione internazionale per la realizzazione di diritti universali.

Peraltro i palestinesi hanno molti più mezzi legali per l’ottenimento dei propri diritti di quanti ne abbiano mai avuti in precedenza. L’adozione di un approccio centrato sui diritti in assonanza con le leggi internazionali come parte integrante di una nuova strategia e prospettiva palestinese è fondamentale per qualunque programma politico alternativo.

Benché sia vero che questo programma politico alternativo non esiste in toto, tuttavia non è vero che non esistano nuove, e critiche, opinioni politiche palestinesi. Queste opinioni politiche, regolarmente marginalizzate – soprattutto se sono indipendenti – all’interno del movimento di liberazione nazionale palestinese, sono un elemento centrale nell’ottimistico scenario futuro grazie al loro contributo ai processi di elaborazione e azione politica in patria, in esilio e nelle sedi internazionali.

Queste voci politiche pongono la creatività, la resilienza e le pratiche di resistenza del popolo palestinese come un modo di vivere sotto occupazione, al centro del proprio pensiero ed analisi, una pratica che si è persa da tempo. Questa “scelta metodologica” ha implicazioni dirette sugli esiti a breve e lungo termine, sulla legittimazione della futura dirigenza e sulle sue scelte e decisioni strategiche.

La materializzazione di queste ragioni di speranza e di ottimismo, o di alcune di esse, nel 2016 potrebbe farne un anno diverso da come se lo aspettano le previsioni prevalenti. Tuttavia una domanda rimane senza risposta: c’è una qualche buona notizia che arriva da Israele?

Alaa Tartir è il direttore responsabile di al-Shabaka, la rete palestinese di politica e ricercatore post-dottorato all’Istituto Superiore di Studi Internazionali e per lo Sviluppo di Ginevra.

Quest’articolo è stato pubblicato originariamente su “Huffington Post”.Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il divieto del boicottaggio contro Israele

di Oliver Wright

The Independent

 

Evitare i prodotti israeliani potrebbe diventare un reato penale per enti pubblici e organizzazioni studentesche.

I critici sostengono che si tratterebbe di un “gravissimo attacco alle libertà democratiche”

A consigli comunali, enti pubblici e persino ad alcune organizzazioni studentesche sarà vietato dalla

legge boicottare imprese “non etiche”, come parte di un controverso giro di vite che sta per essere annunciato dal governo.

In base a questo progetto tutte le istituzioni pubbliche perderanno la libertà di rifiutarsi di comprare beni e servizi da imprese coinvolte nel commercio di armi, combustibili fossili, tabacco o nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.

Qualunque ente pubblico continui ad attuare boicottaggi incorrerà in “pene severe”, hanno affermato alcuni ministri.

Autorevoli fonti del governo hanno detto che prenderanno seri provvedimenti contro il boicottaggio da parte dei consigli locali perché esso “ha compromesso le buone relazioni nella comunità, ha avvelenato e polarizzato il dibattito ed ha alimentato l’antisemitismo.”

Ma i critici affermano che questo passo rappresenta un “gravissimo attacco contro le libertà democratiche.”

Un portavoce del leader laburista Jeremy Corbyn ha affermato: “La decisione del governo di impedire a consigli comunali ed altri enti pubblici di dissociarsi dal commercio o dagli investimenti che non considerano etici è un attacco alla democrazia a livello locale.

“Il popolo ha il diritto di eleggere rappresentanti locali che siano in grado di prendere decisioni libere dal controllo politico del governo centrale. Ciò include la revoca di investimenti o appalti sulla base di principi etici e dei diritti umani.”

Il conflitto israelo-palestinese si intensifica

“Questo divieto da parte del governo avrebbe messo fuori legge le azioni delle amministrazioni locali contro l’apartheid in Sudafrica. I ministri parlano di decentramento, ma in pratica stanno imponendo le politiche del partito Conservatore in generale ai consigli comunali eletti localmente.”

Significativamente, ed evidenziando il principale obbiettivo del divieto, l’annuncio formale sarà fatto questa settimana dal ministro di Gabinetto Matt Hancock durante la sua visita in Israele.

Nel passato imprese israeliane, insieme ad altre ditte che hanno fatto investimenti nella Cisgiordania occupata, sono state tra quelle prese di mira dal boicottaggio non ufficiale.

Nel 2014 il consiglio comunale di Leicester ha approvato una politica di boicottaggio di beni prodotti nelle colonie israeliane in Cisgiordania, mentre il governo scozzese ha pubblicato una nota sui bandi di gara per i comuni scozzesi nella quale “sconsiglia vivamente il commercio e gli investimenti con le colonie illegali.”

In base alle nuove norme tutti gli enti appaltanti, compresi i consigli comunali, gli enti parastatali e le università che ricevono la maggior parte dei propri fondi dal governo perderanno la libertà di prendere decisioni etiche riguardo a chi comprare beni e servizi. L’unica eccezione saranno le sanzioni decise dal governo centrale in tutto il Regno Unito. Fonti governative affermano che il divieto si potrebbe anche applicare al boicottaggio da parte delle organizzazioni studentesche, ma hanno aggiunto che si tratta di una “zona grigia”.

Una portavoce dell’Unione Nazionale degli Studenti ha affermato che sono “preoccupati di qualunque pressione esterna che potrebbe impedire alle organizzazioni studentesche di prendere decisioni su ogni questione che riguardi gli studenti che rappresentano.”

L’onorevole Hancock ha detto che l’attuale situazione, in base alla quale le autorità locali hanno l’autonomia di prendere decisioni etiche di acquisto, sta “ignorando” la sicurezza nazionale della Gran Bretagna.

“Dobbiamo sfidare e prevenire questi boicottaggi comunali che creano divisioni” ha detto.

“Le nuove linee guida sugli appalti, che si accompagnano a cambiamenti che stiamo facendo su come i fondi pensione possono essere investiti, aiuteranno a prevenire danni e inziative di politica estera in sede locale controproducenti che danneggiano la nostra sicurezza nazionale.”

Ma il responsabile del programma delle relazioni economiche in Gran Bretagna di Amnesty International ha condannato l’iniziativa, avvertendo che potrebbe incoraggiare le violazioni dei diritti umani. I conservatori sono stati accusati di aver chiuso gli occhi in passato sulle violazioni dei diritti umani da parte di Israele.

“Ogni ente pubblico dovrebbe verificare l’impatto sociale ed ambientale di ogni impresa con cui sceglie di entrare in rapporti commerciali,” ha affermato.

“Dov’è l’incentivo per le imprese a garantire che non ci siano violazioni dei diritti umani come rapporti di lavoro di tipo schiavistico nella propria catena di fornitori, quando gli enti pubblici non possono chiedere loro conto rifiutando di contrattarli?”

“Non avrà solo un pessimo effetto sugli enti locali contrattare imprese-canaglia, ma lo avrà anche sulle attività economiche responsabili, che rischiano di rimanere escluse a favore di quelle che hanno prassi scorrette.”

Hugh Lanning, presidente della Campagna di Solidarietà con la Palestina, ha condannato quest’iniziativa in quanto si tratta di “un gravissimo attacco alle nostre libertà democratiche e all’indipendenza degli enti pubblici dalle ingerenze del governo.” “Come se non fosse abbastanza grave che il governo della Gran Bretagna non abbia preso nessuna iniziativa quando il governo israeliano ha bombardato ed ucciso migliaia di civili palestinesi e ha rubato le loro case e la loro terra, il governo ora sta cercando di imporre la sua inazione a tutte le altre amministrazioni pubbliche,” ha detto.

“Ciò mette in chiaro da che parte sta il governo riguardo alle leggi internazionali ed ai diritti umani. Nonostante ammetta che l’occupazione israeliana e la negazione dei diritti dei palestinesi siano sbagliate e illegali, quando si tratta di agire il governo protegge Israele dalle conseguenze delle sue azioni. Pare che per questo governo britannico, qualunque siano i crimini commessi da Israele contro le leggi internazionali, avere un alleato militare sia più importante dei diritti dei suoi stessi cittadini e delle istituzioni di questo Paese a sostenere i diritti umani.”

Il contesto del boicottaggio: sanzioni non ufficiali

Lo scorso aprile la compagnia multinazionale francese Veolia, che si occupa di servizi idrici e dello smaltimento dei rifiuti – che si occupa della raccolta della spazzatura per un gran numero di Comuni britannici – ha annunciato che avrebbe interrotto la propria operatività in Israele.

La decisione ha fatto seguito ad una campagna organizzata per convincerla a porre fine alle sue attività nelle colonie della Cisgiordania, durante la quale l’amministrazione comunale di Birmingham, controllata dai laburisti, è stata almeno la terza ad avvertire Veolia che non avrebbe potuto rinnovare il suo contratto di 35 milioni di sterline [più di 45 milioni di euro. Ndtr.] all’anno per lo smaltimento dei rifiuti quando sarebbe scaduto nel 2019, se l’impresa avesse continuato ad operare nella Cisgiordania occupata.

Nel novembre 2014 il consiglio comunale di Leicester ha approvato una politica di boicottaggio dei beni prodotti nelle colonie israeliane della Cisgiordania. Gruppi ebraici hanno recentemente avviato un ricorso giudiziario contro la decisione del consiglio comunale, sostenendo che “ciò rappresenta un ordine di espulsione dalla città per gli ebrei di Leicester.”

Nell’agosto 2014 il governo scozzese ha reso pubblico un avviso relativo agli appalti, rivolto alle amministrazioni comunali scozzesi, che “sconsiglia vivamente commercio e investimenti dalle colonie illegali,” pur ammettendo che le decisioni debbano essere prese caso per caso. Quattro consigli locali scozzesi hanno deciso di boicottare i prodotti israeliani: Clackmannanshire, Midlothian, Stirling and West Dunbartonshire.

Lo scorso dicembre due amministrazioni gallesi sono tornate sui propri passi riguardo alla decisione di boicottare i prodotti israeliani, dopo che un procedimento giudiziario è stato avviato da Jewish Human Rights Watch [organizzazione che si oppone all’antisemitismo e al BDS. Ndtr.]. Il consiglio della contea di Gwynedd e quello comunale di Swansea hanno affermato che le mozioni non erano vincolanti, e comunque ora sono state abrogate.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Analisi: riflessioni sulla strategia palestinese

Quest’analisi è stata originariamente pubblicata da Al-Shabaka, una organizzazione indipendente e no profit il cui scopo è educare e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Amal Ahmad è membro di Al-Shabaka e ricercatrice economica palestinese. Amal è entrata a far parte dell’Istituto di Ricerca di Politica Economica Palestinese di Ramallah prima di terminare un master in sviluppo economico presso la Scuola di Studi Orientali ed Africani di Londra. Il suo lavoro si concentra sui rapporti fiscali e monetari tra Israele e Palestina; si interessa anche di politiche economiche di sviluppo in tutto il Medio Oriente.

di Amal AhmadMaan News e Al-Shabaka

Il popolo palestinese ha iniziato l’anno nuovo affrontando una desolante situazione politica, con una leadership debole e compromessa, un popolo frammentato dal punto di vista geografico ed amministrativo e una società civile sempre più segnata dall’individualismo e dalla perdita di punti di riferimento politici. Il progetto di costruzione dello Stato che sembrava così promettente negli anni ’80 e ’90 ha rapidamente perso sostenitori – un recente sondaggio ha rilevato che circa due terzi dei palestinesi non crede più che sia praticabile, nonostante 137 Paesi ora riconoscano la Palestina. Ancora scarsa è la prospettiva di un obiettivo politico alternativo che goda dell’appoggio popolare.

Questo commento sostiene che l’attuale debolezza politica del popolo palestinese dipende in larga misura dall’assenza di un pensiero strategico, nonostante qualche sforzo organizzato a questo proposito anche dal Gruppo Strategico Palestinese [gruppo di studio formato da intellettuali e da studiosi palestinesi. Ndtr.] e da Masarat [Centro Palestinese per le Ricerche politiche e gli Studi Strategici. Ndtr.] for Policy Research and Strategic Studies. Ndtr.], per esempio. E’ ancora indispensabile che i palestinesi elaborino una strategia con o senza le fazioni politiche dentro o fuori dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP): senza una strategia chiara e condivisa, alcuni degli strumenti e delle tattiche che sono stati adottati rischiano di dissanguare le energie e di dimostrarsi inefficaci, o di produrre risultati non voluti.

Promuovere analisi strategiche

Un solido pensiero strategico si fonda su un’accurata analisi dell’attuale contesto politico, comprese le opportunità e le sfide sia interne che esterne. Per i palestinesi è particolarmente vitale analizzare accuratamente le strategie dello Stato israeliano, perché è la parte in causa più forte, che definisce in modo preponderante la portata e la direzione del conflitto. Si può sostenere che il principale motivo per cui [gli accordi di ] Oslo sono stati un disastro politico è stato il fatto che i dirigenti palestinesi, incompetenti e alla disperata ricerca di una soluzione, hanno preso per buono il dichiarato interesse di Israele riguardo alla creazione di uno Stato palestinese ed hanno lavorato per raggiungere quell’obiettivo politico. Questo errore di calcolo e le concessioni che ne sono seguite si sono dimostrate catastrofiche per il potere negoziale dei palestinesi, per la loro unità e capacità di formulare una coerente strategia nazionale.

E’ ora di riconoscere che i palestinesi si trovano in una soluzione senza Stato, nella quale Israele spera di tenerli chiusi per tutto il tempo necessario a raggiungere il suo progetto definitivo. Questo obiettivo è rappresentato da diversi (e maggiori) diritti per gli ebrei rispetto ai non ebrei, con una maggioranza ebraica sul territorio sotto il suo controllo diretto. La strategia israeliana per il raggiungimento di questo progetto è stata in ampia misura costante da quando ha occupato i territori palestinesi nel 1967: contenere i palestinesi rifiutando un accordo sullo status definitivo, che si trattasse della sovranità palestinese [con la soluzione] dei due Stati o gli stessi diritti in un unico Stato binazionale. Ho sostenuto in precedenza che l’unione doganale de facto imposta da Israele ai palestinesi è una chiara dimostrazione dell’intenzione di Israele di mantenere questa soluzione senza Stato [palestinese]. Le azioni dei palestinesi, la resistenza ed ogni futuro negoziato dovrebbero tener conto di questa situazione.

Dato che la strategia di Israele è fondata sul soddisfacimento dei diritti degli israeliani ebrei e dei coloni e sulla limitazione di quelli dei cittadini palestinesi di Israele e dei palestinesi dei territori occupati, di conseguenza una strategia fondata sui diritti dei palestinesi potrebbe essere particolarmente efficace se mettesse in evidenza e sfidasse i progetti israeliani. In una strategia di questo tipo l’obiettivo politico palestinese dovrebbe passare dalla costruzione dello Stato, un progetto irrealizzato che mette in ombra la strategia israeliana sul terreno, ad una lotta per i diritti umani, politici, civili, economici, sociali e culturali. I diritti dei palestinesi possono essere ottenuti con diverse soluzioni nazionali, uno o due Stati o una confederazione.

Oltre ad opporsi al nucleo essenziale del progetto nazionale israeliano, una strategia fondata sui diritti dei palestinesi offre una serie di differenti aspetti positivi. Fornisce un insieme di orientamenti per la lotta; riduce le differenze tra i palestinesi nei territori occupati e quelli all’interno di Israele; entra in consonanza con un discorso internazionale sui diritti e l’antirazzismo che è molto difficile da ignorare, aiutando a rinsaldare forti alleanze che appoggiano la lotta.

Qualunque strategia di successo non solo deve analizzare le intenzioni di Israele e identificare i punti deboli della loro struttura, deve anche raccogliere il consenso della comunità palestinese. Si tratta di una sfida difficile, in parte a causa della frammentazione del popolo palestinese, ma anche per il profondo attaccamento all’idea di uno Stato nazionale palestinese nonostante, l’irrealizzata soluzione dei due Stati. Di conseguenza è importante cercare di riconciliare per quanto possibile una strategia politicamente ragionevole con il sentimento nazionalista palestinese. Per esempio, argomenti a favore di un approccio centrato sui diritti dovrebbero sottolineare che abbandonare l’obiettivo della costruzione di uno Stato non significa abbandonare i legami con la terra e dovrebbero cercare i modi attraverso i quali possa essere superata la stretta commistione della costruzione dello Stato con la costruzione della nazione.

Adottare tattiche che diano risultati

Il modo più rapido, sicuro ed efficace per promuovere una strategia nazionale è attraverso un sistema politico più rappresentativo ed effettivo. In assenza di prospettive per una dirigenza efficace e non compromessa all’interno dei Territori Palestinesi Occupati (TPO) o per il popolo palestinese nel suo complesso, questo diventa un compito difficile. Nel frattempo i palestinesi possono avvalersi di alcuni degli strumenti sviluppati dalle istituzioni e reti esistenti nella società civile palestinese e a livello internazionale, per promuovere una riflessione ed un’azione strategiche, con la speranza che passi nella giusta direzione possano accelerare o accompagnare la formazione di una nuova dirigenza.

Il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) rimane il più efficace strumento civile per inquadrare la lotta dei palestinesi nel linguaggio dei diritti e per sfidare la repressione israeliana basata sull’apartheid. Il BDS è ben noto per il prezzo che fa pagare all’occupazione, ma l’importanza di gran lunga maggiore del movimento risiede nella filosofia e nella prospettiva che fornisce. Propone un discorso con cui molti palestinesi si possono identificare, con cui il mondo può simpatizzare, che non rimane bloccato nella labirintica discussione di soluzioni e fasi finali. Inoltre colpisce dritto al cuore il progetto di Israele per la regione: Netanyahu non ha esagerato quando ha definito il movimento BDS una “minaccia strategica” per il progetto nazionale israeliano, data la sua natura razzista e di colonialismo di insediamento. Anche se la campagna BDS deve affrontare dei limiti all’interno dei territori occupati a causa della dipendenza strutturale dei TPO dall’economia israeliana, il fatto che il linguaggio dei diritti sia diventato più popolare è un segnale incoraggiante. Adottare il discorso del BDS e lanciare campagne BDS nelle università e nei consigli comunali, nei consigli di amministrazione ed in altre istituzioni è un passo concreto per aiutare i palestinesi a resistere all’apartheid ed avvicinarsi alla realizzazione dei diritti umani.

I palestinesi possono anche trarre profitto dal contesto legale esistente che riguarda direttamente i diritti umani e lo stato di diritto. Gli strumenti giuridici a disposizione del popolo palestinese includono il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 sul Muro di Separazione, che rafforza il consenso internazionale sul fatto che gli insediamenti sono illegali in base alla legge internazionale. Questi strumenti possono essere utilizzati per far notare a Stati terzi che la loro collaborazione con Israele ne compromette l’autorità legale e per chiedere che questi Stati rispettino le leggi internazionali sospendendo il commercio o i trattati con Israele finché questo manterrà il suo regime di apartheid. L’associazione della Palestina alla Corte Penale Internazionale dovrebbe anche fornire mezzi per sfidare le violazioni israeliane dei diritti umani, ma è importante essere realisti e continuare a mobilitare l’appoggio internazionale.

All’interno dei TPO, anche cicli di scontro con gli occupanti aiutano a rompere il monopolio sulla politica detenuto dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e può aiutare ad accelerare e legittimare la ricerca di strategie alternative. Le ricorrenti ondate di collera ridefiniscono le relazioni dei palestinesi con lo Stato israeliano come basate sul conflitto piuttosto che sulla “comprensione”, e spesso invocano apertamente la cancellazione degli accordi di Oslo. Come notato in una recente tavola rotonda di Al-Shabaka, mentre la capacità di queste ondate di ottenere risultati politici è molto limitata, a causa della scarsa capacità organizzativa e della reazione violenta da parte dell’ANP e di Israele, esse però costituiscono un cambio radicale di discorso e sono utili per unificare, almeno simbolicamente, il messaggio dei palestinesi.

Sopratutto, i cittadini palestinesi di Israele, che sono stati emarginati dall’OLP e dall’ANP nella ricerca della costruzione di uno Stato, saranno all’avanguardia di un approccio basato sui diritti. Infatti ciò è alla base della loro lotta per la giustizia e l’uguaglianza di diritti all’interno di Israele. Inoltre il loro stretto contatto e la dimestichezza con lo Stato israeliano e le loro continue lotte al suo interno rappresentano un’importantissima fonte di comprensione strategica a cui altri palestinesi possono attingere. Qualcuno ha notato che non si tratta solo di una fonte finora sottoutilizzata dell’azione palestinese, ma ha anche sostenuto che, con la formazione della Lista Unitaria [lista di tutti i partiti politici palestinesi che si è presentata alle ultime elezioni israeliane arrivando terza. Ndtr.], il popolo palestinese dovrebbe guardare ai partiti politici palestinesi in Israele per trovare una leadership. I palestinesi dei Territori occupati, dei campi di rifugiati e della Diaspora farebbero bene a prendere in considerazione più seriamente i rapporti che potrebbero stringere con le loro controparti “all’interno [di Israele]” ed adattare alcune di queste esperienze e tattiche al loro contesto locale, nel caso in cui sia possibile e corretto.

Allo stesso tempo, e come notato in precedenza, la mancanza di una strategia pone rischi in termini di mancata comprensione di quali strumenti e tattiche evitare. Benché il riconoscimento della Palestina come uno Stato abbia aperto la porta alla CPI, portando all’adesione come Stato osservatore all’ONU o al riconoscimento verbale dell’esistenza come Stato da parte di Stati terzi, ciò comporta seri rischi. Cela la realtà per cui la strategia di Israele è di rendere un tale Stato impossibile. Avvalora anche il defunto modello di Oslo e compromette l’argomentazione secondo cui Israele è responsabile dei diritti della popolazione che occupa ed opprime. Altre tattiche rischiose includono la mobilitazione per le elezioni del Consiglio Nazionale Palestinese [il parlamento palestinese. Ndtr.], un organo che ha un’efficacia molto limitata. Né sono democratiche elezioni che sanciscono il potere di partiti antidemocratici o che si svolgono in mancanza di una strategia nazionale particolarmente auspicabile.

Allo stesso modo, si è dimostrato fragile e irrealistico l’approccio che privilegia la costruzione delle istituzioni, adottato negli ultimi anni, attraverso cui le sovvenzioni vengono incanalate in un presunto progetto di costruzione dello Stato. Piuttosto, bisogna riconoscere che l’attuale strategia israeliana di contenimento impedisce non solo la costituzione di uno Stato palestinese indipendente, ma anche un’economia palestinese sostenibile. C’è bisogno di lavorare di più sul modo in cui la soluzione senza Stato rende l’economia palestinese dipendente, improduttiva e strutturalmente arretrata. Allo stesso tempo rimane criticamente importante fornire lavoro ai palestinesi non come sviluppo legato a falsi pretesti, ma per appoggiare la tenacia e per far in modo che i palestinesi rimangano in Palestina.

In sintesi, il problema non è se certi mezzi e tattiche sono buoni o cattivi in teoria, ma se affrontano direttamente o nascondono attivamente l’attuale situazione politica, se fanno avanzare o impediscono una specifica strategia intesa ad affrontare queste realtà. Questo breve ragionamento si propone come un contributo al processo d’identificazione di una tale strategia, che possa unire il popolo palestinese in una lotta che contrasti efficacemente il progetto di Israele di un regime di apartheid.

Il punto di vista espresso in questo articolo è dell’autrice e non esprime necessariamente la politica editoriale dell’agenzia di notizie Ma’an.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 5

da Al-Shabaka Ma’an News

di Jabel Suleiman

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la quinta parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Jabel Suleiman, un ricercatore ed esperto palestinese indipendente, attualmente consulente del programma palestinese dell’UNICEF nei campi di rifugiati palestinesi in Libano.

l movimento dei giovani in atto in Palestina solleva una serie di domande relative ai suoi motivi, alle sue cause ed alla sua natura. Si tratta dell’espressione di disperazione e frustrazione o di un rinnovato spirito nazionale? E’ stato scatenato dalla divisione tra i palestinesi, la penosa condizione dell’ANP, il fallimento del processo di Oslo e della soluzione dei due Stati, l’espansione aggressiva delle colonie israeliane, la profanazione dei luoghi santi o dal declino dell’interesse dei Paesi arabi e dall’indifferenza della comunità internazionale per la causa palestinese? Si trasformerà in una rivolta popolare come la prima Intifada o rimarrà un’espressione di collera che presto svanirà? Quali condizioni si devono verificare perché questo movimento si trasformi in una ribellione guidata da una dirigenza nazionale unificata e da un programma complessivo? Quale ruolo dovrebbero giocare le fazioni dell’OLP e la più vasta leadership palestinese per consolidare e proteggere la rivolta e sviluppare una leadership nazionale unificata, data l’istituzionalizzazione delle divisioni palestinesi? E come?

Questo movimento di giovani senza precedenti, che è portato avanti da palestinesi nati nel periodo della firma degli accordi di Oslo, è diretto contro l’occupazione. Ma include anche la collera e la protesta contro l’ANP e i suoi risultati politici, responsabile dell’attuale situazione della causa palestinese in generale e in particolare delle condizioni nei TPO [Territori Palestinesi Occupati]. Questo è il paradosso a cui ci troviamo davanti: come possono le fazioni palestinesi, dentro e fuori dall’OLP, che hanno contribuito a creare l’attuale stato di cose, aiutare a sviluppare un movimento e formare una dirigenza unificata? Di fatto, le fazioni non possono essere escluse né esentate dalle responsabilità, soprattutto a causa della mancanza di un movimento nazionale alternativo o di un blocco popolare e non di fazione (un blocco storico in senso gramsciano) in grado di elaborare una struttura nazionale complessiva che comprenda tutti i palestinesi.

L’importanza del coordinamento quotidiano tra i dirigenti politici e i giovani che stanno affrontando l’occupazione non può essere sopravvalutata. Ciò non significa che le fazioni siano libere di sviare e sfruttare il movimento per ottenere risultati diversi, non in linea con la lotta contro l’occupazione, ponendo fine alle divisioni e trovando un’uscita dall’attuale situazione palestinese di stallo, specialmente mentre il popolo palestinese continua a pagare il prezzo del modo in cui la prima Intifada è stata sfruttata per firmare gli accordi di Oslo.

Ci sono urgenti compiti nazionali da svolgere per tutti. Le fazioni non dovrebbero pesare sul movimento dei giovani o spingerlo alla militarizzazione o all’ottenimento di risultati in breve tempo come un’ immediata fine dell’occupazione, che nessuna di loro è stata in grado di ottenere. Di conseguenza, è necessario un accordo su obiettivi modesti e tattici. Le fazioni dovrebbero trattare questa ondata di proteste come un passo sul lungo e spinoso cammino della lotta, e devono contribuirvi e appoggiarlo su quelle basi. Le fazioni dovrebbero ascoltare le giovani generazioni e includerle nella leadership della lotta e nei comitati locali che dovrebbero essere creati.

I partiti dovrebbero concentrarsi nel formare una dirigenza politica unificata che rappresenti tutte le fazioni, anche prima di porre fine alle divisioni, in modo da appoggiare la tenacia del popolo palestinese e prepararsi per una lunga battaglia contro l’occupazione. Ciò è indispensabile l’evoluzione dell’attuale movimento dei giovani in una rivolta popolare e in un’ampia disobbedienza civile sul modello dello sciopero del 1936 [contro il Mandato inglese e i sionisti. Ndtr.], insieme a una battaglia diplomatica e legale sul fronte internazionale contro l’occupazione israeliana. Per ottenere risultati da questi sforzi il coordinamento sulla sicurezza con Israele deve cessare immediatamente, come passo fondamentale verso lo smantellamento della struttura amministrativa e legale di Oslo. Le funzioni dell’ANP devono essere riconsiderate e la divisione tra Hamas e Fatah dovrebbe essere superata in modo che l’OLP possa essere ricostruita su fondamenta nazionali inclusive.

Le forze contro l’occupazione, che includono le istituzioni della società civile, organizzazioni di base, sindacati, associazioni professionali, università e la campagna BDS, si devono impegnare in modo più attivo nel movimento dei giovani. Devono utilizzare i loro legami internazionali con i gruppi di solidarietà, contrari alla discriminazione e all’occupazione in tutto il mondo per appoggiare i giovani e la loro spinta volta a porre fine all’occupazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 4

di Khalil Shaheen

da Al-Shabaka, Maannews

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare la discussione pubblica sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la quarta parte di una pubblicazione in otto parti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Khalil Shaheen, giornalista palestinese, esperto di media, ricercatore e noto analista politico e dei media. È attualmente direttore di ricerca e politiche e membro del consiglio di amministrazione di Masarat – The Palestine Center for Policy Research and Strategic studies (Il centro palestinese per la ricerca di politiche e studi strategici, un istituto indipendente specializzato nell’individuazione di politiche strategiche. Ndtr.) a Ramallah.

Il sistema politico palestinese è vicino al collasso dopo che ha abbandonato la propria identità di movimento di liberazione nazionale con il riconoscimento, negli Accordi di Oslo, della legittimità di un sistema razzista di insediamenti coloniali. L’attuale ondata di collera è una ribellione contro questa relazione e l’ideologia su cui si basa. Quest’ondata è anche una prosecuzione in forma più ampia di forme di espressione e di azione politica che sono andate oltre il tradizionale sistema politico e organizzativo stabilito negli anni 1960, che ha subito a sua volta un lento e inesorabile declino.

Tuttavia bisogna prendere atto della “coesistenza” tra la tradizionale politica dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) e delle fazioni palestinesi da un lato, e le nuove forme di azione politica dall’altro, dovuta al carattere di transizione dell’attuale fase. In particolare, il movimento nazionale tradizionale continua ad avere un ruolo politico nonostante la sua incapacità di raggiungere il suo storico obbiettivo di ottenere i diritti nazionali del popolo palestinese.

La realizzazione di questo obbiettivo dovrebbe spingere i palestinesi a porsi domande strategiche riguardo alle ripercussioni di un’ideologia e di una serie di prassi fallimentari e a cosa sia necessario per rinnovare il progetto nazionale palestinese ed un’istituzione nazionale in grado di raggiungere i propri obbiettivi.

Negli ultimi anni, alcuni hanno sostenuto che non ci sia bisogno di ricostruire il movimento nazionale come prerequisito per adottare una strategia d’azione. Ritengono semmai che il reclutamento di un gran numero di soggetti in programmi di azione partecipativi sia la via giusta per ricostruire il movimento nazionale. Questo approccio è incentrato sulla creazione di un nuovo percorso basato sull’unificazione dei palestinesi in patria e nella diaspora. Il movimento globale BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), il movimento per il diritto al ritorno e i comitati di resistenza popolare contro il muro di separazione sono tutte espressioni di nuove forme d’azione al di fuori dello schema tradizionale dell’azione politica di partito.

Analogamente, l’attuale ondata di rabbia è una nuova forma di azione popolare condotta dai giovani. Il tradizionale sistema dei partiti politici non ha previsto le conseguenze di questa azione in un periodo di forti divisioni e conflitti interni su potere ed influenza. Questa ondata può indebolirsi o intensificarsi, ma sembra essere parte di una serie di ondate che continueranno a verificarsi fino a quando diventeranno uno tsunami che esprimerà il riconoscimento unanime della causa palestinese come liberazione nazionale e la necessità di ricostruire le strutture nazionali ed istituzionali in grado di creare un nuovo percorso di lotta.

L’attuale ondata di collera dimostra che c’è una nuova generazione che ridefinisce il rapporto del popolo con l’occupazione israeliana come basato sul conflitto e non sulla “comprensione”. Lo fa sfidando il monopolio della politica condotta all’interno dei bantustans dall’ANP, che l’occupazione israeliana sta trasformando in un agente amministrativo, economico e di sicurezza interno di un sistema di dominazione coloniale.

Tuttavia questo non significa la fine del ruolo politico delle fazioni, nonostante la loro condizione di divisione interna e di mancanza di legittimazione popolare. Le fazioni dirigono ancora le prassi politiche e le forme di resistenza armata, soprattutto nella Striscia di Gaza. Dominano l’OLP, l’ANP, i sindacati, le associazioni professionali e le organizzazioni studentesche.

Gli attuali segnali di nascita di nuove forme di azione politica e di lotta possono sembrare simili a quelli degli ultimi anni ’50 e primi anni ’60, quando una giovane generazione ha sfruttato le favorevoli condizioni nei paesi arabi e a livello internazionale per impostare un nuovo percorso di lotta che ha rovesciato in breve tempo la leadership precedente e successiva alla Nakba (l’espulsione dei palestinesi dai territori del neonato Stato di Israele nel 1948, ndt.). Quella generazione ha sviluppato strutture politiche e gruppi armati che derivavano la propria legittimazione dal popolo, che proclamò la propria fedeltà alla nuova leadership senza una legittimazione elettorale.

Tuttavia oggi le condizioni sono diverse ed ancora mancano gli elementi chiave di questo processo. C’è ancora spazio per i soggetti tradizionali per giocare un ruolo. Non sarà possibile reimpostare una politica e un’attività organizzata con un ampio coinvolgimento popolare se non cambieranno gli obbiettivi, i metodi e le regole. Ad un certo punto, i partiti tradizionali devono confrontarsi con le nuove forme di attivismo politico che va ridisegnando il rapporto con il colonizzatore.

Questo comporterà lavorare con la generazione più giovane per stabilire gli obbiettivi e le richieste dell’attuale rivolta, invece di cercare di monopolizzarla o frenarla. Ciò aiuterebbe a trasformare le forme di azione politica dei partiti tradizionali in una lotta attiva guidata dalla generazione dei giovani e ad accelerare lo sviluppo di una vasta rivolta, capace di creare un percorso nuovo nella lotta di liberazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. L’intera versione è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

 Parte 2

 

di Jamil Hilal

Ma’an News (ma tratto da Al-Shabaka)

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la seconda parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questo pezzo è stato scritto da Jamil Hilal, un sociologo e scrittore palestinese indipendente che ha pubblicato molti libri e articoli sulla società palestinese, il conflitto arabo-israeliano e i problemi del Medio Oriente.

I partiti politici democratici e progressisti hanno storicamente fornito i dirigenti nella lotta per la libertà dall’oppressione, soprattutto dal saccheggio e dal terrore provocato dall’ insediamento di coloni. Purtroppo qui ciò non è avvenuto fin dalla prima Intifada alla fine degli anni ’80. Non solo i partiti politici e i movimenti non si sono fatti carico delle loro responsabilità, ma hanno anche agito in un modo che ha frammentato il movimento di liberazione nazionale palestinese. Invece i partiti avrebbero dovuto rivedere in modo critico i progressi ed i fallimenti del passato in modo da ricostruire un movimento più consono alle nuove condizioni nazionali, regionali e internazionali. In breve, i partiti politici non sono nelle condizioni di fornire una dirigenza unificata e una strategia coerente con l’attuale lotta dei giovani contro l’oppressione dei coloni e il cupo futuro che attende i giovani.

Quanto alla riconciliazione tra Fatah e Hamas, tutto indica che non verrà raggiunta presto. Gli altri partiti politici hanno giocato il ruolo di mediatori invece di formare una leadership alternativa con un programma che affronti la frammentazione, colonizzazione e sottomissione sempre più pesanti imposte ai palestinesi. Non è stato formato un blocco storico per spingere i due maggiori movimenti in conflitto (Fatah e Hamas) a rinsavire o, in mancanza di ciò, che si prendesse la responsabilità di offrire una nuova prospettiva e una nuova dirigenza.

La maggioranza del popolo palestinese è disillusa e frustrata dai continui litigi e dai risultati di Fatah e Hamas, mentre sempre più terra viene occupata dai coloni e le case distrutte, i palestinesi vengono arrestati arbitrariamente, Gerusalemme viene “israelizzata”, i gazawi sottoposti a un lento genocidio, i palestinesi del 1948 [cioè con cittadinanza israeliana. Ndtr.] soffrono discriminazione e segregazione e i rifugiati sono condannati all’esilio. Ora giovani disarmati vengono assassinati a sangue freddo dall’esercito israeliano e dai coloni mentre la cooperazione sulla sicurezza vergognosamente continua.

La risposta dovrebbe essere che ogni comunità palestinese decida democraticamente la propria dirigenza alternativa e pensi collettivamente a come costruire un nuovo movimento nazionale, conservando al contempo i risultati positivi che la lotta palestinese ha raggiunto nei decenni scorsi. Ciò non sarà facile, ma i palestinesi del 1948 sembrano essere sulla via giusta [l’autore si riferisce alla costituzione alle ultime elezioni israeliane di una lista unitaria degli arabo-israeliani. Ndtr.], il loro esempio dovrebbe essere studiato e, dove possibile, seguito.

Ovviamente, ciò non sarà facile da mettere in pratica. Sembra che ci sia ancora bisogno, data la situazione estremamente vulnerabile della maggior parte delle comunità palestinesi, di costituire comitati locali nei villaggi, nei campi di rifugiati e nei quartieri urbani in modo da articolare i loro bisogni in base alle specificità della loro situazione, e poi formare aggregazioni più ampie. Per esempio, in Cisgiordania, per un gran numero di comunità il problema è come difendere se stessi, la propria terra e proprietà contro i mortali attacchi dei coloni; nella Striscia di Gaza, come affrontare i pressanti problemi causati dall’assedio israeliano e le continue guerre letali; e in Libano, come dare più potere ai comitati popolari nei campi di rifugiati in modo che formino un “quadro unificato” per affrontare i maggiori problemi comuni ai vari campi.

Il ruolo di simili comitati locali potrebbe estendersi in base alle circostanze, dai municipi,dai consigli di villaggio, dalle sezioni locali di partiti politici, dalla società civile e dallele istituzioni locali. Gli esempi delle continue lotte dell’Alto Comitato di Monitoraggio tra i palestinesi del 1948 [comitato che riunisce tutte organizzazioni dei palestinesi con cittadinanza israeliana. Ndtr.] e delle lotte del Movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) sono un esempio per tutti noi.

Ma nella vita reale, la gente riflette e trova le soluzioni concrete ai problemi che deve affrontare in una specifica situazione. Fortunatamente non stanno ad aspettare gente come me che gli dica cosa fare.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)