Questa volta potrebbe andare diversamente: sulla commissione d’inchiesta ONU che deve indagare le violazioni nei territori palestinesi occupati

Lori Allen

1 giugno 2021 – Mondoweiss

Grazie a un contesto politico in rapido cambiamento la nuova commissione ONU per i diritti umani annunciata il 27 maggio potrebbe essere diversa da tutte le altre del passato – questa potrebbe effettivamente chiamare Israele a rispondere delle sue azioni.

Il voto della Commissione ONU per i Diritti Umani del 27 maggio per la creazione di una commissione d’inchiesta permanente che riferisca sulle violazioni dei diritti in Israele, nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza è molto simile alle molte commissioni che sono state create in precedenza. Formata con un voto a maggioranza in favore della risoluzione A/HRC/S-30/L.1, questa commissione riafferma le responsabilità dello Stato nella protezione dei diritti umani e delle leggi internazionali umanitarie come base per la pace.

L’ONU e altre organizzazioni internazionali hanno già varato decine di commissioni simili in precedenza. Molte sono state motivate da un aumento straordinario della violenza nella Striscia di Gaza. Quest’ultima commissione giunge come risposta a 11 giorni di attacchi israeliani contro la Striscia di Gaza, iniziati il 10 maggio, che hanno ucciso almeno 253 palestinesi, tra cui 66 minori, e ferito più di 1.900 persone, con 13 vittime in Israele. Tra le altre recenti inchieste dell’ONU ve ne fu una nel 2014 e un’altra, nota come la Missione Goldstone, nel 2009, che svolse un’inchiesta sui combattimenti del 2008-09 nella Striscia di Gaza che avevano ucciso 1.400 palestinesi.

Tuttavia di questa più recente commissione è unico il contesto in cui è nata, segnato da un risorgente tentativo legale e degli attivisti a livello internazionale, anche tra gli ebrei, per sfidare la sistematica violenza e spoliazione dei palestinesi nei territori palestinesi occupati, in Israele e nella diaspora. Sebbene una commissione ONU di per sé possa fare poco per cambiare le azioni di Israele, all’interno delle attuali dinamiche sociali e politiche in movimento essa può giocare un ruolo nel concentrare l’attenzione e una significativa azione di mobilitazione per fermare e contrastare il progetto colonialista d’insediamento di Israele.

Specificando che questa inchiesta dovrebbe raccogliere prove delle violazioni “per ottimizzare le possibilità della loro ammissibilità in procedimenti legali”, il testo di quest’ultima risoluzione ONU evidenzia un nuovo importante fatto di contesto, ossia che il 5 febbraio 2021 la Corte Penale Internazionale (CPI) ha deciso di avere la giurisdizione sui territori palestinesi occupati, consentendo alla procura di indagare su crimini di guerra e contro l’umanità avvenuti nei territori palestinesi occupati.

Aprendo la sessione speciale a Ginevra la scorsa settimana Michelle Bachelet, alta commissaria ONU per i Diritti Umani, si è riferita agli attacchi israeliani contro Gaza di questo mese come possibili crimini di guerra.

Anche nei risultati della missione Goldstone l’attenzione nei confronti di possibili crimini di guerra era centrale e il rapporto di quella missione si concentrava sulla fine dell’impunità. Tuttavia, come ho evidenziato nel mio libro A History of False Hope: Investigative Commissions in Palestine [Una storia di vane speranze: commissioni d’inchiesta in Palestina], ciò ha segnato un punto di svolta nel linguaggio giuridico internazionale utilizzato per analizzare il conflitto israelo-palestinese, ma non ha portato ad azioni concrete per porre fine all’impunità israeliana. Gli abitanti della Striscia di Gaza continuano a soffrire, soggetti a restrizioni e a un assedio imposto dagli anni ’90 e intensificatosi nel 2007, e questo lembo di terra è gestito [da Israele] come una prigione a cielo aperto per il milione 800mila palestinesi che vi vivono. Se quest’ultima commissione d’inchiesta “identificherà, ove possibile, i responsabili con l’obiettivo di garantire che gli autori delle violazioni vengano chiamati a risponderne,” la CPI potrebbe essere in grado di utilizzare queste prove.

Un secondo elemento distintivo del contesto in cui questa commissione è nata è il coro di analisi che individuano Israele come uno Stato di apartheid. Diffuso nell’aprile 2021, il rapporto dell’ong internazionale Human Rights Watch (HRW) condanna Israele in quanto responsabile dei crimini di apartheid e persecuzione. È solo l’ultimo di una serie di rapporti simili. Nel 2017 l’ESCWA, un’agenzia dell’ONU, ha reso pubblico un rapporto sulle pratiche di apartheid contro i palestinesi da parte di Israele. Anche molte organizzazioni palestinesi hanno partecipato a questo coro. Nel 2019 otto associazioni palestinesi, regionali e internazionali, tra cui Al-Haq, BADIL e Addameer, hanno presentato un rapporto alla Commissione ONU per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali in cui dettagliano le pratiche israeliane che in base alle leggi internazionali costituiscono il crimine di apartheid. Come quello di Human Rights Watch il rapporto del gennaio 2021 dell’ong israeliana B’Tselem suggerisce che il riconoscimento internazionale di Israele come Stato dell’apartheid sta diventando molto diffuso. Dato che la nuova commissione permanente d’inchiesta intende indagare “ogni problema fondamentale sotteso alle continue tensioni, instabilità e prosecuzione del conflitto”, comprese “discriminazione e repressione in base all’identità nazionale, etnica, razziale o religiosa,” potremmo vedere altre prove autorevoli dei crimini di apartheid da parte di Israele che portino a far pressione sugli Stati perché vi pongano fine.

Come ciò che avvenne in risposta al regime di apartheid sudafricano, un movimento di boicottaggio internazionale ha spinto accademici, attivisti e artisti a sostenere libertà, giustizia e uguaglianza per i palestinesi. Il BDS, movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni, è la terza caratteristica dell’attuale contesto. Il BDS promuove formazione pubblica sulla condizione dei palestinesi, facendo nel contempo pressione sulle istituzioni israeliane perché pongano fine alla loro complicità con l’oppressione dei palestinesi da parte dello Stato e chiedendo che il governo israeliano rispetti le leggi internazionali.

Oltre al BDS, sono da rilevare nuove attività di solidarietà, soprattutto in risposta alla violenza di maggio, compreso l’appoggio del Consiglio Internazionale dei Lavoratori Portuali- IDC allo sciopero generale palestinese, azioni da parte di lavoratori israeliani e palestinesi che hanno rifiutato di considerarsi nemici e cortei di protesta in tutto il mondo.

Dinamiche più persistenti che suggeriscono l’aumento di un appoggio diverso a favore dei palestinesi includono una rinascita dell’internazionalismo dei neri, [il movimento] Black Lives Matter e di altri gruppi progressisti neri che hanno rivitalizzato la solidarietà tra neri e palestinesi, dichiarazioni in appoggio ai diritti dei palestinesi da parte di importanti figure ebraiche e l’allontanamento dei giovani ebrei progressisti dal sionismo e la loro simpatia per la causa palestinese.

Ciò che non cambia sono il continuo rifiuto da parte di Israele di confrontarsi con i procedimenti giudiziari internazionali, come la commissione di inchiesta e la CPI, e i tentativi USA di difendere Israele dall’essere giudicato. Spesso gli USA giustificano il loro rifiuto di inchieste giudiziarie internazionali su Israele con l’affermazione secondo cui esse minerebbero i progressi per la risoluzione del conflitto. Non ci sono stati progressi su questo fronte da moltissimo tempo. Se le persone di coscienza coglieranno l’opportunità offerta dall’ultimo tentativo dell’ONU di far crescere la consapevolezza dell’opinione pubblica riguardo al modo in cui Israele tratta i palestinesi, questa potrebbe essere una delle rarissime commissioni che contribuirà a smuovere Israele e Palestina dalla palude in cui sono rimasti bloccati per così tanto tempo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Solidarietà con lo sciopero generale palestinese in tutta la Palestina storica

Comitato Nazionale Palestinese BDS

17 maggio 2021

Nota dell’editore: ciò che segue è un comunicato del Comitato Nazionale Palestinese BDS.

Mondoweiss a volte pubblica comunicati stampa e dichiarazioni di organizzazioni, nel tentativo di richiamare l’attenzione su questioni trascurate.

Ecco 5 azioni che potete fare per mostrare solidarietà con lo sciopero generale in Palestina il 18 maggio.

I palestinesi di Gerusalemme e di tutta la Palestina storica oggi partecipano ad uno sciopero generale per protestare contro i massacri a Gaza e la repressione e la pulizia etnica dell’apartheid contro le comunità palestinesi in ogni luogo.

Smantellare il regime israeliano di occupazione militare, colonialismo di insediamento ed apartheid sta nelle nostre mani.

I palestinesi chiedono una significativa solidarietà con il nostro sciopero generale. Smantellare il regime israeliano di occupazione militare, colonialismo di insediamento ed apartheid sta nelle nostre mani. E anche nelle vostre. Contiamo su di voi per mettere fine alla complicità dei vostri Stati, istituzioni, organizzazioni, unioni, chiese, eccetera, con i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità di Israele perpetrati contro il popolo autoctono palestinese. Il silenzio e l’equidistanza sono immorali, in quanto rafforzano l’impunità criminale di Israele.

Ecco 5 azioni che potete fare per mostrare che smantellare il regime israeliano di oppressione è anche nelle vostre mani:

  1. Inondate, tra gli altri, i deputati, i funzionari eletti a tutti i livelli, gli amministratori dell’università, i capi dei sindacati, di lettere che chiedono il loro sostegno a sanzioni mirate per smantellare l’apartheid israeliana, a partire da un embargo bilaterale su tutto il commercio di sicurezza militare e ricerca militare congiunta. Se fate parte di un sindacato portuale, mobilitatevi per bloccare gli imbarchi israeliani, in particolare quelli militari.

2. Indossate una kefiah palestinese come simbolo di solidarietà, o appendetela alla finestra o postatela sui vostri social media (profili), se li avete.

3. Unitevi ad un gruppo BDS nelle vicinanze, o formatene uno se non ne esistono. Fare campagne sostenibili e strategiche è la forma più efficace di realizzare una seria solidarietà.

4. Dichiarate la vostra comunità, chiesa, unione, quartiere, associazione, Zona Libera da Apartheid, che rifiuta di acquistare prodotti e servizi di imprese israeliane e internazionali che sono complici dell’apartheid e del colonialismo israeliani.

5. Iniziate/intensificate l’organizzazione della prossima Giornata Globale di Azione di massa per sabato 22 maggio, basandovi sulle manifestazioni globali dell’ultimo weekend. Dimostrate ai palestinesi a Gaza e ovunque, ancora una volta, che non sono soli.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché la UE contribuisce ad etichettare come antisemite le critiche a Israele?

Ilan Baruch,

19 aprile 2021 – +972 MAGAZINE

Adottando la definizione dell’IHRA la UE prende parte al programma dei gruppi di sostegno a Israele che minano l’impegno della società civile contro l’occupazione.

Da quando l’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [Alleanza internazionale per la memoria dell’olocausto: organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 col fine di promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] nel maggio 2016 ha adottato la sua “definizione operativa di antisemitismo diverse organizzazioni israeliane – alcune delle quali con legami dichiarati con il governo israeliano – hanno promosso quella definizione con l’obiettivo di screditare e minare l’impegno della società civile che esige risposte da Israele sull’occupazione della Palestina.

Una di queste organizzazioni è NGO Monitor [ONG israeliana che monitora i dati relativi alla comunità internazionale delle ONG da una prospettiva filo-governativa e di destra, ndtr.] che è stata contestata per aver preso di mira le fonti di finanziamento di organizzazioni critiche nei confronti di Israele. Unaltra è l’International Legal Forum (ILF) [Foro giuridico internazionale, ndtr.] una rete giuridica nota per contrastare la pressione internazionale contro le politiche del governo israeliano. Negli ultimi anni entrambe le organizzazioni hanno preso parte ad una campagna più estesa che ha portato alla riduzione dello spazio civico per le iniziative a sostegno dei diritti umani nell’ambito della questione israelo-palestinese.

Per queste organizzazioni in difesa di Israele la definizione dell’IHRA è diventata un progetto importante. Nelle scorse settimane l’ILF, ad esempio, ha contribuito a stilare una lettera aperta di intellettuali a sostegno della definizione. La definizione occupa un posto di rilievo anche nel recente rapporto dell’ILF, “Antisemitism & De-Legitimization”. Il gruppo ha anche assegnato una pagina web alla promozione di un’analisi giuridica in cui si sostiene che la definizione “fornisce, per la prima volta nella storia (sic), uno standard oggettivo per identificare le motivazioni e gli intenti antisemiti dietro comportamenti discriminatori” e per “riconoscere e comprendere con chiarezza che cosa costituisca antisemitismo.”

Tuttavia la definizione dell’IHRA non rappresenta certo un criterio oggettivo. Come molti critici hanno evidenziato, la definizione manca di chiarezza e demarcazione, il che la rende vulnerabile a interpretazioni errate e manipolazioni. Ancora più suscettibili ad un uso arbitrario sono gli undici “esempi contemporanei di antisemitismo” allegati alla definizione IHRA, sette dei quali si riferiscono a Israele.

Questi esempi relativi a Israele sembrano essere uno dei motivi principali per cui organizzazioni come l’ILF stanno promuovendo con tale entusiasmo la definizione dell’IHRA. In effetti l’ILF non tratta la definizione dell’IHRA come una dichiarazione simbolica – pretende che sia applicata nel concreto da agenzie e funzionari governativi, tra cui polizia, pubblici ministeri e giudici.

Rendere operativa la definizione

Purtroppo la Commissione Europea ha condiviso gli obiettivi dell’ILF e dell’NGO Monitor quando, il 7 gennaio 2021, ha pubblicato un “Manuale per l’uso pratico della definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA”. Il manuale rappresenta un ambizioso piano d’azione per l’operatività e il rafforzamento della definizione dell’IHRA in molteplici aree politiche, dall’istruzione alla giustizia al finanziamento della società civile.

Una coalizione di ONG, sindacati e gruppi di solidarietà progressisti del Belgio, denominata “11.11.11”, ha risposto con un documento utile e istruttivo sollevando otto dubbi riguardo questo manuale, alcuni dei quali sono riassunti di seguito.

Benché pubblicato con il logo ufficiale della Commissione Europea, il manuale è stato di fatto scritto dalla RIAS (l’Associazione federale dei dipartimenti per la ricerca e l’informazione sull’antisemitismo), un ente finanziato dallo zar tedesco dell’antisemitismo, il dottor Felix Klein, che lavora per il Ministero dell’Interno del Paese. Klein è stato una forza trainante in Germania nel condurre la strumentalizzazione politica della lotta contro l’antisemitismo, in particolare contro i gruppi che sostengono il BDS, cosa che ha portato a delle richieste di dimissioni nei suoi confronti.

Secondo il manuale, per produrre i suoi contenuti la RIAS si è rivolta ad una serie di soggetti di interesse politicamente coinvolti. Uno dei collaboratori elencati è il direttore degli affari governativi del Simon Wiesenthal Center [ONG con sede a Los Angeles intitolata al famoso cacciatore di nazisti, ndtr.] che pubblica un elenco annuale dei “10 peggiori eventi antisemiti”.

Molte edizioni di questo elenco comprendono degli eventi che poco hanno a che fare con l’antisemitismo. Ad esempio, nel 2015 il Centro Wiesenthal ha elencato l’Unione Europea come antisemita per la sua decisione di etichettare i prodotti delle colonie israeliane. Nel 2016 la Francia è stata inserita nell’elenco per lo stesso motivo. Nel 2018, il centro ha riportato una banca tedesca come antisemita per aver aperto il conto di un’organizzazione ebraica che sostiene il BDS. Nel 2019 ha bollato l’ambasciatore tedesco delle Nazioni Unite Christoph Heusgen come antisemita per aver criticato Israele al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Tra gli altri collaboratori al manuale c’è il presidente del consiglio di IIBSA (l’Istituto internazionale per l’educazione e la ricerca sull’antisemitismo), un’organizzazione tedesca che nel 2018 ha pubblicato un rapporto che inquadra il movimento BDS come antisemita.

È interessante notare che il manuale della Commissione Europea non fa alcuna menzione esplicita del BDS. Tuttavia promuove come “esempi di buone pratiche” due risoluzioni approvate dai parlamenti francese e austriaco che associano il BDS all’antisemitismo. A vantaggio dei suoi autori, il manuale non fa riferimento alla storica sentenza della Corte di Giustizia Europea del giugno 2020 che sancisce il BDS come espressione della libertà di parola.

L’ambiguità del manuale va oltre il BDS. Non riconosce nessuna delle crescenti preoccupazioni sulla definizione dell’IHRA e sui modi in cui viene strumentalizzata, come sostenuto da innumerevoli studiosi e organizzazioni della società civile compresi i gruppi per le libertà civili. Persino Kenneth Stern, il principale redattore della definizione dell’IHRA, si è espresso contro l’impiego della definizione come arma lesiva della libertà di parola, in particolare nelle università.

Implicazioni di vasta portata

Gli effetti del manuale della Commissione Europea possono avere conseguenze concrete e pratiche su coloro che difendono i diritti dei palestinesi e criticano la politica israeliana. In primo luogo, facilita il progetto dell’ILF di attribuire un’efficacia quasi giuridica alla definizione dell’IHRA, compresi gli esempi relativi a Israele. Sebbene il manuale riconosca che la definizione è “non giuridicamente vincolante”, chiede alle autorità di contrasto di utilizzare la definizione per identificare, registrare, analizzare e classificare i crimini antisemiti e di aggiungere “riferimenti” alla definizione dell’IHRA nella “giurisdizione sui crimini d’odio e/o nella normativa contro l’antisemitismo.”

In secondo luogo, il manuale rappresenta un aiuto efficace per l’attuale campagna di NGO Monitor volta a pregiudicare finanziamenti internazionali alle ONG che critichino e accusino il governo israeliano. Esso propone che i governi e gli attori internazionali introducano riguardo ai loro finanziamenti delle condizioni basate sulla definizione dell’IHRA, suggerendo che “le iniziative e le organizzazioni che fondano le loro azioni sulla [definizione]” dovrebbero avere la priorità nel sostegno finanziario. Il manuale raccomanda inoltre che i governi e gli attori internazionali utilizzino la definizione come “meccanismo di controllo per evitare il finanziamento di organizzazioni e progetti antisemiti” – in altre parole, per escludere organizzazioni o progetti percepiti, sulla base di un’interpretazione politica, come in violazione della definizione dell’IHRA.

In tale contesto, il manuale tratta gli “esempi contemporanei di antisemitismo” come parte integrante della definizione IHRA. Ciò contraddice le precedenti dichiarazioni dell’UE, dalle quali gli esempi erano stati deliberatamente omessi. Ora, poiché il manuale li include, le sue raccomandazioni politiche per le autorità giuridiche di contrasto e per le condizioni ai finanziamenti si estendono efficacemente agli esempi relativi a Israele allegati alla definizione. Ciò potrebbe avere implicazioni di vasta portata.

Non ci è voluto molto perché NGO Monitor cogliesse l’opportunità offerta dal manuale. Appena 18 giorni dopo la pubblicazione del documento della Commissione Europea, NGO Monitor ha pubblicato un atto programmatico dal titolo “Implementing the IHRA Definition of Antisemitism for NGO Funding” [La messa in pratica della definizione dell’IHRA sull’antisemitismo nel campo dei finanziamenti alle ONG, ndtr.].

Ciò rivela fino a che punto l’Unione Europea si è invischiata con attori e programmi che utilizzano la definizione dell’IHRA come arma per motivi diversi dalla lotta all’antisemitismo. Questo è particolarmente preoccupante in un momento in cui il governo israeliano accusa la Corte Penale Internazionale di antisemitismo per aver inteso indagare su sospetti crimini di guerra commessi nei territori palestinesi occupati. Lo stesso governo israeliano, come era prevedibile, ha accolto con entusiasmo il manuale della Commissione Europea nel rendere la definizione dell’IHRA “uno strumento centrale” nella lotta all’antisemitismo.

L’ex ambasciatore Ilan Baruch presiede il Policy Working Group [Gruppo di lavoro politico, ndtr.], un collettivo di accademici, ex ambasciatori e difensori dei diritti umani israeliani di alto livello che sostengono e promuovono una trasformazione delle relazioni tra Israele e Palestina dall’occupazione ad una coesistenza basata su una soluzione a due stati.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Università e Palestina: tre tipi di silenzio.

Nick Riemer,

8 Aprile 2021, ARENA

Il libro di Edward Said del 1979 sulla continua espropriazione del suo popolo era intitolato The Question of Palestine. Per Said, la Palestina poteva essere considerata una ‘questione’, un oggetto di controversia. In quanto tale, era qualcosa da cui ci si poteva aspettare una varietà di risposte. Da allora, nello stesso momento in cui ha privato i palestinesi della loro terra e delle loro vite, Israele ha altresì lavorato per derubarli anche di questa “questione”. Per Israele, non può esserci una vera “questione della Palestina” perché la Palestina non esiste, o non dovrebbe esistere. E se, nonostante tutti i suoi sforzi, una questione palestinese ostinata continua a essere posta, l’unica risposta possibile, per l’anti-palestinismo sionista, può essere il silenzio – il silenzio sui palestinesi, coltivato attraverso una rigorosa censura e guerra legale, e il silenzio da parte della stessa Palestina, imposto attraverso le varie strategie di Israele di pulizia etnica: le leggi dell’apartheid, il muro di separazione, il mostruoso blocco di Gaza, la soffocante occupazione.

Le università sono luoghi particolari in cui viene imposto il silenzio sulla Palestina. Nelle ultime settimane sono giunto a un nuovo apprezzamento della consistenza e della violenza di questo silenzio imposto. Il silenzio, come l’ho incontrato di recente, è di tre tipi: silenzio imposto, silenzio scelto e silenzio concesso. Insieme, questi silenzi sono tanto eloquenti sullo stato attuale della lotta per la Palestina nel campus quanto sulla natura della professionalità accademica nel 2021.

Il silenzio imposto era quello di un collega palestinese in un’università della Cisgiordania. Li avevo invitati – visto quanto segue, non specificherò nemmeno il loro genere – a una discussione online sulle difficoltà che i palestinesi devono affrontare nell’istruzione superiore sotto occupazione militare. La conversazione doveva essere ospitata dallo staff della Sydney University per BDS, un gruppo dello staff dell’Università di Sydney che sostiene l’appello palestinese per il boicottaggio accademico istituzionale di Israele. Ero felicissimo e anche un po’ sorpreso quando il mio collega ha accettato immediatamente ed entusiasta l’invito. Ma poi, in seguito, è arrivata l’email di scuse: dopotutto non potevano parlare, anche in condizioni di completo anonimato, anche con la fotocamera spenta. Israele aveva recentemente negato un altro ingresso di un accademico in Giordania a causa del suo attivismo digitale. Il mio collega semplicemente non poteva rischiare questa o qualsiasi altra possibile conseguenza che potesse mettere a repentaglio il suo lavoro o quello del suo dipartimento. Completamente comprensibile, avevano raggiunto la stessa decisione di molti altri accademici palestinesi: il silenzio era la loro unica opzione.

Il silenzio scelto era completamente diverso e richiede più tempo per descriverlo. A febbraio, la professoressa Alison Bashford, illustre storica della medicina e della salute dell’UNSW (University of New South Wales), è stata nominata una dei vincitori del premio annuale Dan David di Israele, che nel 2021 ha individuato contributi eccezionali alla medicina e alla sua più ampia comprensione da parte del pubblico. La Fondazione Dan David è strettamente legata all’establishment politico e accademico israeliano: ha sede e amministrazione presso l’Università di Tel Aviv, e il suo presidente è un ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti; Henry Kissinger siede nel consiglio che sovrintende al premio annuale. Il premio è stato naturalmente inteso come una celebrazione e plauso internazionale della risposta di Israele alla pandemia, un tema che figurava esplicitamente nella citazione di Alison Bashford. La quota del 2021 del premio David ha quindi contribuito all’immagine di Israele come leader nella sanità pubblica, distogliendo l’attenzione dal fatto che sta negando l’accesso ai vaccini ai cinque milioni e più di palestinesi sotto il suo controllo nei territori occupati.

Accettare il premio è stata una chiara violazione dell’appello rivolto agli accademici dalla società civile palestinese a tagliare i legami con le istituzioni israeliane fino a quando Israele non abbandonerà le sue politiche di apartheid. Quando i tentativi di avvicinarsi alla professoressa Bashford in privato sono falliti, è stata coordinata da me e da altri colleghi una lettera aperta, che ha chiarito le ragioni per rifiutare il premio, proprio come aveva fatto nel 2016 la professoressa Catherine Hall, storica dell’University College di Londra, dopo esortazione da parte degli attivisti del BDS. La lettera è stata ora firmata da oltre 340 accademici e studenti in tutto il mondo. I firmatari includono studiosi di spicco come Rashid Khalidi, Judith Butler, Nadia Abu El-Haj, Wael Hallaq, Ilan Pappe, John Keane e altri, così come molti altri colleghi di storia e discipline umanistiche correlate in Australia. Pochi giorni dopo l’inizio della lettera, con già oltre 220 firme, ho scritto alla professoressa Bashford avvertendola e sottolineando che le due principali organizzazioni australiane per i diritti dei palestinesi, l’Australia Palestine Advocacy Network e BDS Australia, avevano entrambe sostenuto l’invito a rifiutare il premio. La professoressa Bashford non ha risposto.

La lettera aperta ha riunito molti firmatari, ma non tutti quelli cui abbiamo chiesto di aggiungere il loro nome erano disposti a farlo. Alcuni ci hanno confidato che, sebbene fossero d’accordo, non erano disposti a dirlo pubblicamente perché erano “preoccupati per le conseguenze”. Questo è il terzo silenzio sulla Palestina – non imposto direttamente e chiaramente dalle circostanze, come il silenzio del mio collega palestinese, né scelto, come quello della professoressa Bashford. Questo silenzio è concesso, con diversi gradi di riluttanza, ai tabù predominanti della professione accademica, tra i quali l’antisionismo occupa un posto di rilievo.

I seguaci di questo terzo tipo di silenzio hanno raramente ben chiaro quali potrebbero essere le conseguenze che tanto temono, né perché il rischio di criticare Israele sia maggiore per loro che per altri. Le loro ansie emergono dalla penombra di apprensione, disagio ed evasione che i sionisti hanno attentamente alimentato ogni volta che si è trattato di criticare Israele. Questo non è il silenzio tattico del sostenitore determinato della Palestina, basato sulla necessità di scegliere le proprie battaglie in modo da difendere con più forza la causa in seguito. Le persone che lo osservano non stanno, in generale, prendendo tempo per poi schierarsi formalmente dalla parte dei diritti dei palestinesi in un momento più opportuno. Il sostegno esplicito alla Palestina semplicemente non è nella loro agenda.

Questo silenzio esprime le sue paure di una rappresaglia nel linguaggio della vulnerabilità. Ma sottilmente, e spesso senza dubbio sconsideratamente, mette in atto il contrario: rifiutandosi di esporre se stessi a causa di vaghe preoccupazioni sulle “conseguenze”, chi osserva il terzo silenzio isola ulteriormente coloro che scelgono di parlare, lasciandoli affrontare ogni possibile contraccolpo da soli. Questo tipo di silenzio è, ovviamente, del tutto umano, e pochi ne sono mai stati estranei, se non sulla Palestina, comunque su altre questioni. Tuttavia è una delle principali fonti del tacito ascendente che ha il sionismo nelle università.

Quando è stato annunciato il premio David, il successo della professoressa Bashford è apparso in breve sul Sydney Morning Herald e lei ha concesso un’intervista all’Australian Academy of the Humanities. Quando il suo premio è stato annunciato, non ha avuto riluttanza – comprensibilmente – a commentarlo pubblicamente. Da un punto di vista umano – a lungo negato ai palestinesi – è anche abbastanza comprensibile che abbia preferito ignorare i palestinesi e i loro sostenitori quando hanno criticato la sua accettazione del premio. Ma per qualsiasi studioso che evidenzi la rilevanza del proprio lavoro per i problemi attuali, tale mancanza di sensibilità è una sconfitta intellettuale e politica.

Come il silenzio degli altri partecipanti al Premio David, anch’essi invitati a rifiutare l’onorificenza, il silenzio della professoressa Bashford di fronte al razzismo di Israele contro i palestinesi è un caso da manuale dell’eccezione della Palestina nella politica progressista. Esso contrasta notevolmente con le posizioni mostrate nelle sue pubblicazioni, dove suggerisce un’opposizione inequivocabile a tutte le forme di razzismo, apartheid e oppressione politica, espressa in riferimenti alla “famigerata” politica dell’Australia Bianca, il “rozzo razzismo coloniale” della storia australiana, o il “gradito” annullamento delle leggi razziste sull’immigrazione.

A volte, questo antirazzismo è abbastanza esplicito, ad esempio, quando si discute dell’autorità sanitaria pubblica australiana RW Cilento, che si dice fornisca un esempio di una tendenza più ampia nella medicina tropicale australiana: “In una straordinaria mossa colonizzatrice”, scrive la professoressa Bashford, “le persone non bianche sono state rese assenti da questo spazio, le popolazioni indigene sono state minimizzate in modo digressivo e controllate come un problema di salute pubblica gestibile”. Eppure questa minimizzazione digressiva è esattamente ciò che attua il suo stesso silenzio sulla Palestina.

Questo tipo di silenzio è sintomatico di un’avversione ampiamente condivisa a una decisiva azione politica nella professione accademica. L’avversione è più lampante quando si tratta di resistere alla corruzione e al degrado inflitti alle università dalle pratiche di gestione neoliberale e dal ritiro del sostegno finanziario del governo. C’è molta opposizione, in astratto. Tuttavia quando si tratta di parlare quando conta di più, l’impressionante acume critico della professione, il più delle volte, si zittisce.

Che si tratti della Palestina o del degrado delle università, questi silenzi rafforzano la morale imposta per decenni dalla palla demolitrice neoliberista: la cultura umanistica non ha nulla da offrire al mondo reale. Non suggerisce nulla su come dovrebbero agire gli individui, o su come dovrebbero essere gestite la società o persino le università. Al di fuori della sfera accademica autoreferenziale e del suo tapis roulant di onori, distinzioni e ricompense, i suoi valori sono irrilevanti e privi di significato.

Se l’antirazzismo può essere attivato e disattivato come principio – ripetutamente affermato a stampa, ma bruscamente sospeso quando viene sollevata la questione della Palestina – allora le sue espressioni vengono degradate a mere rappresentazioni. Se non sono effettivamente promulgate, le dichiarazioni accademiche di antirazzismo funzionano principalmente come segni di distinzione, le insegne di un’élite intellettuale esentata dalla necessità di mettere in pratica i suoi principi.

Da quando è stata pubblicata la lettera aperta, la nuova Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo, nonostante i suoi difetti, ha rafforzato la mano dei sostenitori del boicottaggio riconoscendo il fatto, ovvio per quasi tutti tranne che per i fanatici della pulizia etnica e dell’apartheid, che il boicottaggio è una forma normale di protesta e non antisemita. Ulteriore sostegno viene dal semplice fatto che, come ho sostenuto altrove, i boicottaggi politici sono in realtà una pratica comune nel mondo accademico e non dovrebbero quindi essere esclusi nel caso di Israele.

Questo è ancora più vero quando, in realtà, un boicottaggio politico interno nella comunità sionista ha plasmato gli inizi dell’istruzione superiore ebraica in Palestina. Nel 1914, gli insegnanti sionisti boicottarono le scuole superiori gestite dall’Hilfsverein der deutschen Juden, l’Organizzazione di soccorso degli ebrei tedeschi, uno degli sponsor del Technion di Haifa (la prima università ebraica in Palestina). I sionisti boicottarono le scuole elementari dell’Hilfsverein per costringerlo a fare dell’ebraico (non del tedesco) la principale lingua di insegnamento. I genitori minacciarono anche di boicottare la scuola Hilfsverein a Jaffa allontanandone i figli a meno che l’ebraico non fosse usato per insegnare le scienze. Questo episodio è stato raramente citato nelle discussioni sul boicottaggio accademico, che hanno giustamente sottolineato la lunga storia palestinese dei boicottaggi, ma esso ha un significato reale: lungi dall’essere violazioni oltre il limite di presunte norme universali di libertà intellettuale, i boicottaggi politici come quello attualmente richiesto contro Israele sono stati determinanti nel plasmare la preistoria del sistema universitario israeliano.

È un segno di quanto lontana sia la giustizia per la Palestina nella cui lotta le università sono attualmente in prima linea. Affinché la lotta dei palestinesi contro l’apartheid israeliano prevalga nel campus e affinché gli accademici palestinesi siano liberati dal silenzio loro imposto, gli alleati dei palestinesi dovranno fare sentire la loro voce e dovranno essere rotti i silenzi scelti volontariamente o concessi a malincuore nelle università in posti come l’Australia.

Traduzione di Angelo Stefanini




Perché dobbiamo accogliere in modo critico la Jerusalem Declaration on Antisemitism

Tony Greenstein

1 aprile 2021 – Mondoweiss

La Jerusalem Declaration on Antisemitism [Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo], benché in parte carente e soggetta a critiche, non da ultimo per il suo sfortunato nome, dovrebbe essere accolta positivamente da quanti sono intenzionati a vedere la lotta contro l’antisemitismo come parte della lotta contro il razzismo piuttosto che contrapposta ad essa.

La JDA dovrebbe essere accolta positivamente anche da quanti sono arcistufi di vedere l’“antisemitismo” utilizzato come arma a favore di uno Stato “ebraico” che ha appena visto eleggere alla Knesset due nazisti ebrei [Itamar Ben-Gvir e a Bezalel Smotrich, ndtr.], uno dei quali potrebbe diventare ministro.

A differenza [della definizione] dell’IHRA, che etichetta l’opposizione al sionismo e al razzismo israeliani come antisemitismo, la JDA fa una chiara distinzione tra antisemitismo e antisionismo. La JDA afferma che quanto segue non è antisemita:

Criticare od opporsi al sionismo come forma di nazionalismo o sostenere una serie di accordi costituzionali tra ebrei e palestinesi nella zona tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Non è antisemita appoggiare accordi che attribuiscano piena uguaglianza a tutti gli abitanti “tra il fiume e il mare”, che si tratti di due Stati, di uno Stato bi-nazionale, di uno Stato unico democratico, di uno Stato federale o in qualunque altra forma.

Criticare Israele come Stato in base a prove concrete.”

La differenza tra l’errata definizione di antisemitismo dell’IHRA e quella della JDA è una differenza come tra il giorno e la notte.

Ovviamente la JDA avrebbe dovuto essere superflua. L’idea che sia necessario definire l’antisemitismo per opporvisi avrebbe dovuto essere insensata se non fosse per il cinico tentativo da parte di razzisti e imperialisti, compresi gli antisemiti, di utilizzare l’oppressione storica del popolo ebraico per appoggiare non solo lo Stato di Israele, ma l’imperialismo occidentale e le sue guerre in Medio Oriente.

Non è un caso che alcuni dei più violenti antisemiti e suprematisti bianchi, dall’ungherese Viktor Orban al polacco Mateusz Morawiecki e a Donald Trump, hanno tutti appoggiato la definizione dell’IHRA. In effetti nessun antisemita vero e proprio potrebbe contestare l’IHRA. Cosa c’è in essa che possa non piacerti se sei un razzista?

Rimango della stessa opinione del giudice Potter Stewart nella sua famosa considerazione sulla pornografia in una causa alla Suprema Corte [USA] del 1964 – non ho bisogno di una definizione dell’antisemitismo per riconoscerlo quando lo vedo. Quando mio padre e migliaia di ebrei come lui hanno preso parte alla “Battaglia di Cable Street” [a Londra, ndtr.] per impedire alla British Union of Fascists [Unione Britannica dei Fascisti, gruppi inglese di estrema destra e filonazista, ndtr.] di Moseley di sfilare nel quartiere ebraico dell’East End nel 1936, non avevano bisogno di una definizione di antisemitismo per capire quello contro cui stavano lottando. Tuttavia la situazione è questa e oggi il principale pregio di una onesta definizione dell’antisemitismo è che può essere utilizzata per sostituire la falsa e disonesta definizione dell’IHRA.

A differenza della definizione mistificante di antisemitismo dell’IHRA, la JDA si occupa di antisemitismo senza calunniare come “antisemiti” i palestinesi che lottano o chi si oppone al sionismo.

Ciò che è veramente spaventoso dell’IHRA è come molta gente mentalmente sana, che si considera intelligente e che normalmente lo è, ciononostante abbia sottoscritto una definizione di antisemitismo intellettualmente fallace, la versione accademica del trucco delle tre carte. L’IHRA è incoerente, disonesta e intrinsecamente contraddittoria in modo imbarazzante. In realtà in base alla sua stessa definizione l’IHRA è di per sé antisemita quando afferma da una parte che Israele è la rappresentazione collettiva di ogni ebreo e poi sostiene che è antisemita associare ogni ebreo ai crimini di Israele.

L’indeterminatezza e la confusione dell’IHRA sono in sé palesemente disoneste. È deliberatamente fumosa. In effetti una dichiarazione di oltre 500 parole non può, al di là di ogni immaginazione, essere definita una definizione e, come ha scritto Stephen Sedley [giurista inglese, ndtr.], quella dell’IHRA non può essere una definizione perché è indefinita.

La definizione centrale dell’IHRA in 38 parole, lasciando perdere i suoi 11 esempi centrati su Israele, non è altro che evasiva e vaga.

La definizione dell’IHRA è stata un esercizio di disonestà intellettuale ed è stata accolta entusiasticamente da razzisti come il rappresentante britannico dell’IHRA Lord Pickles, in quanto è un modo per calunniare e demonizzare gli antirazzisti. Chiunque creda realmente che sia una definizione dell’antisemitismo può solo essere definito come intellettualmente fallito. E la definizione dell’IHRA poggia sull’assunto che lo Stato di Israele sia uno Stato normale, democratico. Di conseguenza l’IHRA prende posizione nella lotta tra la supremazia ebraica e il sionismo da una parte e l’antisionismo dall’altra.

La definizione centrale di 38 parole dell’antisemitismo dell’IHRA all’inizio afferma che:

L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può manifestarsi come odio verso gli ebrei. Manifestazioni verbali e fisiche di antisemitismo sono dirette contro individui ebrei e non-ebrei e/o contro le loro proprietà, verso le istituzioni della comunità ebraica ed edifici religiosi.”

Benché ci venga detto che l’antisemitismo è “una certa percezione degli ebrei”, non ci viene mai detto quale sia questa percezione. Ci viene detto che l’antisemitismo “può manifestarsi come odio verso gli ebrei”, senza dire in quale altro modo si possa manifestare. Alzando la sbarra dell’antisemitismo al livello di odio, l’IHRA ignora ogni sorta di esempio di antisemitismo che sia offensivo o discriminatorio ma che non derivi dall’odio.

É assolutamente possibile che qualcuno infligga violenza a qualcun altro perché è ebreo non perché lo odi ma perché lo disprezza o lo teme. Secondo l’IHRA non è un antisemita! Analogamente chi si oppone al matrimonio del figlio o della figlia con un ebreo non perché lo odia ma perché crede che gli ebrei siano disonesti e indegni di fiducia, per non citare il fatto che siano meschini e avari, secondo l’IHRA non è antisemita. L’IHRA ha solo una funzione: proteggere lo Stato di Israele e il sionismo, non gli ebrei.

Il primo pregio della JDA è che formula una definizione dell’antisemitismo chiara e facilmente comprensibile: “L’antisemitismo è discriminazione, pregiudizio, ostilità o violenza contro gli ebrei in quanto tali (o contro istituzioni ebraiche in quanto tali)”. Le ultime 5 parole potrebbero essere state evitate, ma, in quanto basate sulla definizione dell’Oxford English Dictionary [monumentale dizionario inglese in 20 volumi, ndtr.], “ostilità nei confronti o pregiudizio contro gli ebrei” è assolutamente preferibile alla definizione dell’IHRA.

Ora abbiamo una definizione chiarissima ed utile di antisemitismo che distingue bene tra antisionismo e antisemitismo. La JDA non cerca di controllare il discorso politico nel modo in cui lo fa l’IHRA. Per esempio non suggerisce che se qualcuno critica Israele senza criticare nel contempo ogni altro Paese che violi i diritti umani (“doppio standard”) sia antisemita.

La definizione della JDA non descrive come antisemiti i paragoni tra lo Stato di Israele e le sue politiche e quelle della Germania nazista. È chiaro che oggi ci sono molti paralleli tra Israele e la Germania nazista come testimoniano i muri di via Shuhada a Hebron imbrattati dagli slogan dei coloni “Arabi nelle camere a gas”.

Come hanno evidenziato Neve Gordon e Mark Levin [due firmatari della Dichiarazione di Gerusalemme, ndtr.], in base all’IHRA due delle maggiori personalità ebraiche del XX secolo, entrambe profughe dalla Germania nazista, Albert Einstein e Hannah Arendt, dovrebbero essere definite antisemite! Nel 1948, quando il leader dell’Herut [partito sionista di destra, ndtr.] Menachem Begin visitò gli Stati Uniti, Einstein e Arendt firmarono con altre personalità ebraiche una lettera al New York Times affermando che l’Herut era:

nella sua organizzazione, nei suoi metodi, nella sua filosofia politica e nella sua azione sociale molto affine ai partiti nazista e fascista.”

Sono da accogliere in modo particolarmente positivo le linee guida 10-15. Sono una chiara affermazione di appoggio al fatto che il [movimento] BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndtr.] non ha niente a che vedere con l’antisemitismo e tutto a che vedere con una protesta non violenta contro Israele. È da approvare anche l’affermazione secondo cui la critica a Israele sulla base di prove non può essere antisemita. Allo stesso modo non è antisemita l’appoggio a uno Stato unitario della Palestina (e implicitamente in opposizione a uno Stato ebraico).

Tuttavia ci sono molte critiche che si possono fare anche alla JDA.

In primo luogo manca una qualunque prospettiva o apporto palestinese. Dato che la JDA è nata in conseguenza dei tentativi dell’IHRA di silenziare la libertà di parola sulla Palestina, avrebbe dovuto essere scontato che i palestinesi dovessero contribuirvi. Sfortunatamente la bozza della JDA è stata una questione tutta ebraica, nonostante il fatto che ci sia una sezione B tutta su “Israele e Palestina: esempi che, a ben vedere, sono antisemiti.”

Benché sia stata creata in opposizione alla definizione dell’IHRA, la JDA si concentra in modo decisamente eccessivo sulla narrazione e le preoccupazioni di Israele. Benché, dato il contesto, ciò sia comprensibile, gli autori sono timorosi di dire apertamente che la principale minaccia antisemita viene dall’estrema destra e dai gruppi fascisti, non dalla sinistra. Forse questa dichiarazione era troppo rivolta a persone come il professor David Feldman del Pears Institute for the Study of Anti-Semitism [Istituto Pears per lo Studio dell’Antisemitismo, con sede in Inghilterra, ndtr.].

Tuttavia va detto forte e chiaro che oggi la principale minaccia per gli ebrei viene da gente come Donald Trump e dai suoi sostenitori neo-nazisti suprematisti bianchi. Storicamente la sinistra ha sempre lottato contro l’antisemitismo e la Germania nazista, e l’opposizione all’antisemitismo e al nazismo sono venuti quasi solo dalla sinistra.

Ciò è particolarmente opportuno in quanto la cosiddetta Campagna contro l’Antisemitismo include l’affermazione secondo cui “nel 2019 il Barometro Antisemitismo della Campagna contro l’Antisemitismo ha mostrato che l’antisemitismo nell’estrema sinistra della politica britannica ha superato quello dell’estrema destra.” Ciò è basato su un’ingannevole “ricerca” condotta da Daniel Allington del King’s College e da altri.

Il Barometro dell’Antisemitismo 2019 della CCA ha introdotto sei nuove domande assurde sugli atteggiamenti antisemiti, basate esclusivamente sull’opinione nei confronti di Israele e del sionismo. Questa ridefinizione di cosa costituisca un’affermazione antisemita non ha nessun altro scopo che definire antisemiti gli oppositori al sionismo e allo Stato di Israele. D’ora in avanti gli zeloti israeliani potranno sostenere che i veri nemici degli ebrei non sono i loro amici neo-nazisti ma le persone di sinistra.

Per esempio, se non ti senti a tuo agio a passare del tempo con dei sionisti, allora ciò ti rende un antisemita! Confesso di non trovare la compagnia dei sostenitori del Sudafrica dell’apartheid particolarmente congeniale, ma non ho mai pensato che ciò facesse di me un razzista.

Qui di seguito ci sono tre nuove affermazioni “antisemite” che Allington, Hirsh e altri hanno elaborato:

1. “Israele e i suoi sostenitori hanno un’influenza negativa sulla nostra democrazia.”

2. “Israele può farla franca perché i suoi sostenitori controllano i media.”

3. “Israele tratta i palestinesi come i nazisti trattavano gli ebrei.”

E altre tre che dimostrano o suggeriscono “antisemitismo” se chi risponde non è d’accordo:

4. “Mi trovo a mio agio a passare del tempo con persone che appoggiano apertamente Israele.”

5. “Israele dà un contributo positivo al mondo.”

6. “Israele fa bene a difendersi contro quanti vogliono distruggerlo.”

Quali sono i problemi riguardo alla JDA?

Tuttavia la JDA non è priva di problemi e non deve essere vista come la parola finale su quello che è o non è antisemita. Qui c’è un esempio di antisemitismo.

La linea-guida n. 6 “Attribuire simboli, immagini e stereotipi negativi dell’antisemitismo classico allo Stato di Israele.”

Questa linea guida è strettamente legata al nono esempio dell’IHRA: “Utilizzare simboli e immagini associati all’antisemitismo classico (ad es., affermare che gli ebrei hanno ucciso Gesù o l’accusa del sangue [secondo cui gli ebrei userebbero sangue o carne di bambini cristiani nei loro riti, ndtr.]) per caratterizzare Israele o gli israeliani.”

L’inganno logico qui è sostituire “Israele o gli israeliani” a ebrei. Israele non è un ebreo. Uno degli stereotipi antisemiti tradizionali sugli ebrei nell’Europa medievale era l’avvelenamento dei pozzi dei non-ebrei. Un altro era l’uccisione di bambini non-ebrei per preparare il pane della Pasqua ebraica. Sono indubbiamente antisemiti.

Tuttavia questi esempi si riferiscono agli ebrei, non a Israele. È un fatto, confermato da prove d’archivio, che durante la guerra del 1948 Israele ha avvelenato le forniture di acqua di San Giovanni d’Acri per espellerne la popolazione. È un fatto anche che i coloni israeliani hanno regolarmente avvelenato l’acqua e i pozzi dei palestinesi in Cisgiordania. Ciò è quello che i coloni fanno alla popolazione indigena, indipendentemente dal fatto che siano ebrei o cristiani. Non può essere giusto definire antisemite affermazioni basate su fatti. Né può essere giusto associare stereotipi antisemiti tradizionali sugli ebrei a uno Stato razzista che tratta i palestinesi come untermenschen [subumani, termine usato dai nazisti per indicare i popoli inferiori, ndtr.].

Israele ha testato gas velenoso e armi chimiche sui palestinesi. Affermarlo non è antisemita. È un fatto che Israele ha espiantato organi umani rubati a palestinesi. Il governo cinese ha utilizzato organi di persone giustiziate. Una simile accusa non è razzista.

La linea guida n. 8 “Chiedere alle persone in quanto ebree di condannare pubblicamente Israele o il sionismo (per esempio, durante un raduno politico).”

Neppure questo è antisemita. È comprensibile, dato che il movimento sionista sostiene di parlare in nome di tutti gli ebrei (tranne che di noi odiatori di noi stessi!), ciò che rafforza tra la gente la confusione tra essere ebreo ed essere sionista.

Non può essere antisemita per i non-ebrei cadere nella propaganda sionista, ed è ancor più ragionevole per un palestinese chiedere che il popolo ebraico prenda le distanze dall’asserzione israeliana/sionista secondo cui essere ebreo significa appoggiare l’oppressione dei palestinesi. Se c’è una qualche forma di antisemitismo è da parte dei sionisti.

Trovo discutibile anche la linea guida 10:

Negare il diritto degli ebrei nello Stato di Israele di esistere e prosperare, collettivamente ed individualmente, come ebrei, in base al principio di uguaglianza.”

Io riconosco il diritto degli ebrei israeliani di vivere in Palestina/Israele. Tuttavia non riconosco che abbiano un qualche diritto collettivo come coloni e oppressori. I coloni non sono oppressi e di conseguenza quelli che dobbiamo riconoscere sono diritti individuali. Quindi io cancellerei le parole “collettivamente e individualmente”.

Tuttavia, salvo la linea guida n. 6, questi sono dissensi poco importanti. La JDA è un contributo decisamente positivo per disintossicare il dibattito su antisemitismo e tentativi truffaldini dei sostenitori antisemiti di Israele di confondere l’antisemitismo e l’antisionismo. Di conseguenza dovrebbe essere apprezzato come un contributo complessivamente positivo di demistificare la questione dell’antisemitismo e dell’antisionismo.

Dovremmo quindi sentirci liberi di utilizzare questa definizione e proporre che sindacati, università e partiti operai vengano incoraggiati ad abbandonare l’IHRA in favore della JDA. Dovremmo essere aperti ed espliciti. Quella dell’IHRA è una definizione appoggiata dagli antisemiti. Quella della JDA è una definizione per chi si oppone all’antisemitismo.

Dovremmo chiedere a ipocriti come la parlamentare Caroline Lucas [deputata inglese dei Verdi che ha bloccato una mozione del suo partito contro la definizione dell’IHRA, ndtr], che sostiene di appoggiare i palestinesi, di dimostrarlo. Se Lucas appoggia i palestinesi, allora dobbiamo continuare a chiederle perché sta sostenendo una definizione di antisemitismo che etichetta come antisemita la lotta dei palestinesi.

Sappiamo che razzisti come John Mann [deputato laburista molto attivo nella campagna contro l’antisemitismo all’interno del suo partito, ndtr.], Keir Starmer [attuale segretario del partito Laburista, ndtr.] ed Eric Pickles [politico conservatore filo-israeliano, ndtr.] si aggrapperanno alla definizione dell’IHRA, dato che il loro scopo principale è santificare l’appoggio dell’Occidente a Israele e legittimare le operazioni imperialiste nella regione. Tuttavia noi dobbiamo chiedere che i membri del Socialist Campaign Group [Gruppo della Campagna Socialista, ala sinistra del partito Laburista, ndtr.] adottino e appoggino la definizione della JDA, e che anche Momentum [fazione laburista dell’ex-segretario Corbyn, ndtr.] abbandoni quella dell’IHRA e adotti la JDA. Se questi gruppi rifiutano di rompere con il consenso razzista ed imperialista sul sionismo, allora dovrebbero essere ostracizzati come nemici della lotta palestinese per la liberazione e come razzisti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una critica della società civile palestinese alla Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo

La “Jerusalem Declaration on Antisemitism” (JDA), nonostante le sue carenze descritte di seguito, presenta un’ alternativa mainstream alla disonesta cosiddetta definizione IHRA di antisemitismo e una “valida guida ” nella lotta contro il reale antisemitismo, come lo definiscono molti gruppi ebraici progressisti – difendendo gli ebrei, in quanto ebrei, da discriminazione, pregiudizi, ostilità e violenza. Rispetta in larga misura il diritto alla libertà di espressione relativo alla lotta per i diritti dei palestinesi come stabilito dal diritto internazionale, anche attraverso il BDS, e alla lotta contro il sionismo e il regime israeliano di occupazione, colonialismo di insediamento e apartheid.

La JDA può essere utile nella lotta contro il maccartismo anti-palestinese e la repressione che i fautori della definizione IHRA, con i suoi “esempi”, hanno promosso e indotto, di proposito. Ciò è dovuto ai seguenti vantaggi della JDA:

  • Nonostante le sue problematiche linee guida incentrate su Israele, fornisce una definizione coerente e accurata di antisemitismo. I suoi autori rifiutano esplicitamente di codificarla in legge o di usarla per limitare il legittimo esercizio della libertà accademica o per “sopprimere il dibattito pubblico libero e aperto che sia entro i limiti stabiliti dalle leggi che regolano i crimini d’odio”. Ciò è utile per contrastare i tentativi della definizione IHRA di proteggere Israele dalla responsabilità nei confronti del diritto internazionale e di proteggere il sionismo da critiche razionali ed etiche.
  • Riconosce l’antisemitismo come una forma di razzismo, con la sua storia e la sua particolarità, in gran parte confutando l’eccezionalità che la definizione IHRA (con i suoi esempi) gli dà.
  • Riconoscendo che l’antisemitismo e l’antisionismo sono “categoricamente diversi”, non considera antisemita la difesa dei diritti dei palestinesi secondo il diritto internazionale e la fine del regime di oppressione israeliano di per sé. Quindi confuta le parti più pericolose e utilizzate come armi degli “esempi” della definizione IHRA. In particolare, la JDA riconosce come legittima libertà di parola i seguenti esempi: sostegno al movimento BDS non violento e alle sue tattiche; critica o opposizione al sionismo; condanna del colonialismo di insediamento o dell’apartheid di Israele; appello per pari diritti e democrazia per tutti ponendo fine a tutte le forme di supremazia e “discriminazione razziale sistematica”; e critiche alla fondazione di Israele e alle sue istituzioni o politiche razziste.
  • Afferma che “ritenere gli ebrei collettivamente responsabili della condotta di Israele o trattare gli ebrei, semplicemente perché sono ebrei, come agenti di Israele” è antisemita, una regola con cui siamo pienamente d’accordo. Chiediamo l’applicazione di questa regola su tutta la linea, anche quando Israele e sionisti, sia ebrei che cristiani fondamentalisti, sono colpevoli di violarla. I leader fanatici sionisti e israeliani, come Netanyahu, per esempio, spesso parlano a nome di tutti gli ebrei e incoraggiano le comunità ebraiche negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Francia e altrove a “tornare a casa” in Israele.
  • Teoricamente riconosce che il contesto è importante nel senso che situazioni particolari determinano se una certa espressione o azione può essere considerata antisemita o meno.

Tuttavia, i palestinesi, il movimento di solidarietà palestinese e tutti i progressisti sono invitati ad avvicinarsi alla JDA con una mente critica e una cautela a causa delle sue carenze, alcune dei quali sono connaturate:

  1. Con l’infelice titolo della JDA e con la maggior parte delle sue linee guida, si concentra su Palestina / Israele e sul sionismo, rafforzando ingiustificatamente i tentativi di accoppiare il razzismo antiebraico con la lotta per la liberazione palestinese, e quindi avendo un impatto sulla nostra lotta. Nonostante questo impatto, la JDA esclude le opinioni che rappresentano i palestinesi, un’omissione che parla abbastanza delle relazioni asimmetriche di potere e dominio e di come alcuni liberali cercano ancora di prendere decisioni che ci riguardano profondamente, senza di noi. Come palestinesi non possiamo permettere che qualsiasi definizione di antisemitismo sia impiegata per controllare o censurare la difesa dei nostri diritti inalienabili o la nostra narrazione delle nostre esperienze vissute e della storia basata sull’evidenza della lotta contro il colonialismo di insediamento e l’apartheid.
  2. La sua mal concepita omissione di ogni menzione della supremazia bianca e dell’estrema destra, i principali responsabili degli attacchi antisemiti, scagiona inavvertitamente l’estrema destra, nonostante una menzione passeggera nelle FAQ. La maggior parte dei gruppi di estrema destra, specialmente in Europa e Nord America, sono profondamente antisemiti eppure amano Israele e il suo regime di oppressione.
  3. Nonostante le garanzie sulla libertà di espressione nelle sue FAQ, le “linee guida” della JDA ancora cercano di mettere sotto controllo alcuni discorsi critici delle politiche e delle pratiche israeliane, non riuscendo a sostenere pienamente la necessaria distinzione tra ostilità o pregiudizio nei confronti degli ebrei da un lato e legittima opposizione alle politiche, all’ideologia e al sistema di ingiustizia israeliani dall’altro. Ad esempio, la JDA considera antisemiti i seguenti casi:

A. “Descrivere Israele come il male supremo o esagerare grossolanamente la sua effettiva influenza” come un possibile “modo codificato di razzializzare e stigmatizzare gli ebrei”. Mentre in alcuni casi tale rappresentazione di Israele o la grossolana esagerazione della sua influenza possono rivelare indirettamente un sentimento antisemita, nella maggioranza assoluta dei casi relativi alla difesa dei diritti dei palestinesi tale inferenza sarebbe del tutto fuori luogo. Quando i palestinesi che perdono i loro cari, case e frutteti a causa delle politiche israeliane di apartheid condannano pubblicamente Israele come “il male supremo”, per esempio, questo non può essere ragionevolmente interpretato come un attacco “codificato” contro gli ebrei.

Interpretare l’opposizione ai crimini israeliani e al regime di oppressione come antiebraica, come spesso fanno Israele e i suoi sostenitori di destra anti-palestinesi, rende effettivamente Israele sinonimo o coestensivo di “tutti gli ebrei”. Eticamente parlando, oltre ad essere anti-palestinese, questa equazione è profondamente problematica perché in effetti essenzializza e omogeneizza tutte le persone ebree. Ciò contraddice l’affermazione iniziale della JDA secondo cui è “razzista essenzializzare … una data popolazione”.

B. “Applicare i simboli, le immagini e gli stereotipi negativi dell’antisemitismo classico … allo Stato di Israele.” Come la stessa JDA ammette altrove, una generalizzazione così ampia è falsa in tutti i casi “basati sull’evidenza”. Si consideri, ad esempio, i palestinesi che condannano il premier israeliano Netanyahu come un “assassino di bambini”, dato che almeno 526 bambini palestinesi sono stati massacrati nella strage israeliana del 2014 a Gaza, su cui la Corte penale internazionale ha recentemente deciso di indagare. Può essere considerato antisemita? Sebbene le prove concrete siano irreprensibili, i palestinesi dovrebbero evitare di usare quel termine in questo caso semplicemente perché è un tropo antisemita e Netanyahu è ebreo? È islamofobo chiamare il dittatore saudita Muhammad Bin Salman – che si dà il caso sia un musulmano – un macellaio per aver orchestrato il raccapricciante omicidio di Khashoggi, per non parlare dei crimini del regime saudita contro l’umanità nello Yemen? Mostrare MBS in possesso di un pugnale insanguinato sarebbe considerato un tropo islamofobico, dato che le caricature islamofobiche spesso raffigurano uomini musulmani con spade e pugnali intrisi di sangue? Ovviamente no. Allora perché eccezionalizzare Israele?

C. “Negare il diritto degli ebrei nello Stato di Israele di esistere e prosperare, collettivamente e individualmente, come ebrei, in conformità con il principio di uguaglianza”. Il principio di uguaglianza è assolutamente fondamentale nella protezione dei diritti individuali in tutti gli ambiti, nonché nella salvaguardia dei diritti culturali, religiosi, linguistici e sociali collettivi. Ma alcuni possono abusarne per implicare uguali diritti politici per i colonizzatori e i gruppi colonizzati in una realtà di colonialismo di insediamento, o per i gruppi dominanti e dominati in una realtà di apartheid, perpetuando così l’oppressione. Dopo tutto, ancorato al diritto internazionale, il principio fondamentale di uguaglianza non ha come scopo, né può essere utilizzato per, assolvere crimini o legittimare l’ingiustizia.

Che dire del presunto “diritto” dei coloni ebreo-israeliani a sostituire i palestinesi nella terra vittima di pulizia etnica di Kafr Bir’im in Galilea o Umm al Hiran nel Naqab / Negev? Che dire del “diritto” apparente di imporre comitati di ammissione razzisti in decine di insediamenti per soli ebrei nell’attuale Israele, che negano l’ammissione ai cittadini palestinesi di Israele per motivi “culturali / sociali”? Inoltre, ai rifugiati palestinesi dovrebbe essere negato il diritto di tornare a casa stabilito dalle Nazioni Unite per non disturbare un presunto “diritto ebraico collettivo” alla supremazia demografica? Che dire della giustizia, del rimpatrio e delle riparazioni in conformità con il diritto internazionale e del modo in cui possono influire su alcuni “diritti” presunti degli ebrei-israeliani che occupano case o terre palestinesi?

Soprattutto, cosa ha a che fare tutto questo con il razzismo antiebraico?

1. Come recentemente rivelato da Der Spiegel, un rapporto della polizia in Germania, ad esempio, mostra che nel 2020 la destra e l’estrema destra sono state responsabili del 96% di tutti gli incidenti antisemiti in Germania attribuibili a un chiaro motivo. https://twitter.com/bdsmovement/status/1362411616638275586

Fonte: BNC

Traduzione di BDS Italia




La Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo

La Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo è uno strumento per identificare, confrontare e sensibilizzare sull’antisemitismo, per come si manifesta oggi nei vari paesi del mondo. La Dichiarazione include un preambolo, una definizione e 15 linee guida che forniscono indicazioni dettagliate per coloro che cercano di riconoscere l’antisemitismo al fine di elaborare risposte appropriate. È stata realizzata da un gruppo di studiosi nei campi della storia dell’Olocausto, degli studi ebraici e degli studi sul Medio Oriente, per affrontare quella che è diventata una sfida crescente: fornire una guida chiara per identificare e combattere l’antisemitismo proteggendo al contempo la libertà di parola. È stata sottoscritta da 200 firmatari.

Preambolo

Noi sottoscritti, presentiamo la Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo, prodotto di un’iniziativa nata a Gerusalemme. Includiamo nel novero dei firmatari studiosi internazionali che lavorano in studi sull’antisemitismo e campi correlati, inclusi studi sull’ebraico, l’Olocausto, Israele, la Palestina e il Medio Oriente. Il testo della Dichiarazione si è avvalso della consulenza di studiosi di diritto e membri della società civile.

Ispirati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, dalla Convenzione sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale del 1969, dalla Dichiarazione del Forum Internazionale di Stoccolma sull’Olocausto del 2000 e dalla Risoluzione delle Nazioni Unite sulla Giornata della Memoria del 2005, noi riteniamo che, sebbene l’antisemitismo abbia alcuni tratti distintivi, la lotta contro di esso è inseparabile dalla lotta globale contro tutte le forme di discriminazione razziale, etnica, culturale, religiosa e di genere.

Consapevoli della persecuzione storica degli Ebrei nel corso dei tempi e delle lezioni universali dell’Olocausto, e vedendo con allarme il riaffermarsi dell’antisemitismo da parte di gruppi che promuovono odio e violenza nella politica, nella società e su internet, cerchiamo di fornire una definizione di base dell’antisemitismo utilizzabile, coincisa e storicamente informata, insieme ad alcuni esempi.

La Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo è una risposta alla “Definizione IHRA”, il documento che è stato adottato nel 2016 dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto]). Poiché la Definizione IHRA è poco chiara in alcuni punti chiave e largamente aperta a differenti interpretazioni, ha causato confusione e generato controversie, indebolendo perciò la lotta contro l’antisemitismo. Notando che si auto-definisce “una dichiarazione operativa”, abbiamo cercato di migliorarla offrendo (a) una definizione di base più chiara e (b) un insieme coerente di linee guida. Speriamo che sia utile per monitorare e combattere l’antisemitismo, così come per scopi educativi. Proponiamo la nostra Dichiarazione non legalmente vincolante come un’alternativa alla Definizione IHRA. Le istituzioni che già hanno adottato la Definizione IHRA possono usare il nostro testo come uno strumento per interpretarla.

La Definizione IHRA include 11 “esempi” di antisemitismo, 7 dei quali incentrati sullo Stato di Israele. Poiché questo pone una sproporzionata enfasi su un ambito specifico, c’è un bisogno ampiamente sentito di chiarezza sui limiti di accettabilità di azioni e discorsi politici riguardanti il sionismo, Israele e la Palestina. Il nostro scopo è duplice: (1) rafforzare la lotta all’antisemitismo, chiarendo cos’è e come si manifesta, (2) proteggere lo spazio di un dibattito aperto sulla controversa questione del futuro di Israele/Palestina. Non tutti condividiamo le stesse opinioni politiche e non cerchiamo di promuovere una agenda politica di parte. Stabilire che una visione o un’azione controversa non è antisemita non implica né che la approviamo né che la disapproviamo.

Le linee guida che si concentrano su Israele-Palestina dovrebbero essere considerate nel loro insieme. In generale, quando si applicano queste linee guida, ognuna dovrebbe essere letta alla luce delle altre e sempre con un’analisi del contesto. Il contesto può includere l’intenzione dietro un enunciato, o un’espressione che evolve nel tempo, o anche l’identità di chi parla, specialmente quando l’argomento è Israele o il sionismo. Così, per esempio, l’ostilità verso Israele potrebbe essere un’espressione di ostilità antisemita, ma potrebbe essere anche una reazione alla violazione dei diritti umani, o il sentimento che una persona palestinese prova a causa dell’esperienza fatta trovandosi nelle mani di quello Stato. In poche parole, discernimento e sensibilità sono necessari nell’applicare queste linee guida alle situazioni concrete.

Definizione

Antisemitismo è discriminazione, pregiudizio, ostilità e violenza contro gli Ebrei in quanto Ebrei (o le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche).

Linee guida

A. Generali

  1. È razzista “essenzializzare” (trattare un tratto caratteriale come innato) o fare generalizzazioni negative indiscriminate su una data popolazione. Quel che è vero per il razzismo in generale è vero in particolare per l’antisemitismo.
  2. Quel che è peculiare nell’antisemitismo classico è l’idea che gli Ebrei siano legati alle forze del male. Questo sta al centro di molte fantasie antiebraiche, come l’idea di una cospirazione ebraica nella quale “gli Ebrei” possiedono un potere nascosto che usano per promuovere la loro agenda collettiva a spese degli altri popoli. Questo collegamento tra gli Ebrei e il male continua nel presente: nella fantasia che “gli Ebrei” controllino i governi con una “mano nascosta”, che possiedano banche, controllino i media, agiscano come “uno stato nello stato” e siano responsabili della diffusione di malattie (come il Covid-19). Tutte queste caratteristiche possono essere strumentalizzate da diverse (e anche antagonistiche) cause politiche.
  3. L’antisemitismo si può manifestare con parole, immagini e azioni. Esempi di antisemitismo a parole includono affermazioni del tipo: gli Ebrei sono ricchi, intrinsecamente avari o antipatriottici. Nelle caricature antisemite, gli Ebrei sono spesso rappresentati come grotteschi, con grandi nasi e sono associati alla ricchezza. Esempi di atti antisemiti sono: aggredire qualcuno solo perché ebreo/ebrea, attaccare una sinagoga, imbrattare con svastiche le tombe ebraiche, o rifiutare di assumere o promuovere qualcuno perché ebreo.
  4. L’antisemitismo può essere diretto o indiretto, esplicito o criptico. Per esempio, “I Rothschild controllano il mondo” è un’affermazione velata sul presunto potere degli “Ebrei” sulle banche e la finanza internazionale. Ugualmente, ritrarre Israele come il male supremo o esagerare grossolanamente la sua reale influenza può essere un modo criptico di ‘razzializzare’ e stigmatizzare gli Ebrei. In molti casi, identificare un discorso in codice è una questione di contesto e buonsenso, tenendo conto di questi esempi.
  5. Negare o minimizzare l’Olocausto sostenendo che il deliberato genocidio nazista degli Ebrei non ebbe luogo, o che non c’erano campi di sterminio o camere a gas, o che il numero delle vittime fu una piccola parte del totale reale, è antisemita.

B. Israele e Palestina: esempi che, a ben vedere, sono antisemiti

  1. Applicare i simboli, immagini e stereotipi negativi dell’antisemitismo classico (vedi gli esempi precedenti 2 e 3) allo Stato di Israele.
  2. Ritenere gli Ebrei collettivamente responsabili per la condotta di Israele o trattare gli Ebrei, semplicemente perché Ebrei, come agenti di Israele.
  3. Richiedere alle persone, perché Ebree, di condannare pubblicamente Israele o il sionismo (per esempio, in una riunione politica).
  4. Presumere che gli Ebrei non israeliani, semplicemente perché Ebrei, siano necessariamente più fedeli a Israele che non al proprio paese.
  5. Negare il diritto agli Ebrei dello Stato d’Israele di esistere e prosperare, collettivamente e individualmente, come Ebrei, secondo il principio di uguaglianza.

C. Israele e Palestina: esempi che, a ben vedere, non sono antisemiti (che si approvi o meno l’opinione o l’azione considerata)

  1. Sostenere la richiesta di giustizia e di piena concessione dei diritti politici, nazionali, civili e umani dei Palestinesi, come sancito dal diritto internazionale.
  2. Criticare o opporsi al sionismo come forma di nazionalismo, o schierarsi a favore di un qualche tipo di accordo costituzionale per Ebrei e Palestinesi nell’area tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Non è antisemita sostenere intese che accordino piena uguaglianza a tutti gli abitanti “tra il fiume e il mare”, sia che ciò avvenga con due stati, con uno stato binazionale, con uno stato democratico unitario, con uno stato federale o in qualsiasi altra forma.
  3. La critica, basata sull’evidenza, di Israele come Stato. Ciò include le sue istituzioni e i suoi principi fondanti. Include anche la sua politica e le sue pratiche, interne ed estere, come l’operato di Israele in Cisgiordania e Gaza, il ruolo che Israele gioca nella regione, o qualsiasi altro modo in cui, come Stato, influenza eventi nel mondo. Non è antisemita segnalare la sistematica discriminazione razziale. In generale, le stesse norme di dibattito che si applicano agli altri Stati e agli altri conflitti per l’autodeterminazione nazionale si applicano nel caso di Israele e della Palestina. Quindi, anche se polemico, non è antisemita, in sé e per sé, paragonare Israele ad altri esempi storici, tra cui il colonialismo di insediamento o l’apartheid.
  4. Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni sono forme comuni e nonviolente di protesta politica contro gli Stati. Nel caso di Israele non sono, in sé e per sé, antisemite.
  5. Il discorso politico non deve essere misurato, proporzionale, temperato o ragionevole per essere protetto dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani o dall’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e da altri strumenti legali. La critica che alcuni possono vedere come eccessiva o controversa, o come espressione di un “doppio standard”, non è, in sé e per sé, antisemita. In generale, il confine tra il discorso antisemita e quello che non lo è, è diverso dal confine tra il discorso ragionevole e quello irragionevole.

Firmatari:

Ludo Abicht, Professor Dr., Political Science Department, University of Antwerp

Taner Akçam, Professor, Kaloosdian/Mugar Chair Armenian History and Genocide, Clark University

Gadi Algazi, Professor, Department of History and Minerva Institute for German History, Tel Aviv University

Seth Anziska, Mohamed S. Farsi-Polonsky Associate Professor of Jewish-Muslim Relations, University College London

Aleida Assmann, Professor Dr., Literary Studies, Holocaust, Trauma and Memory Studies, Konstanz University

Jean-Christophe Attias, Professor, Medieval Jewish Thought, École Pratique des Hautes Études, Université PSL Paris

Leora Auslander, Arthur and Joann Rasmussen Professor of Western Civilization in the College and Professor of European Social History, Department of History, University of Chicago

Bernard Avishai, Visiting Professor of Government, Department of Government, Dartmouth College

Angelika Bammer, Professor, Comparative Literature, Affiliate Faculty of Jewish Studies, Emory University

Omer Bartov, John P. Birkelund Distinguished Professor of European History, Brown University

Almog Behar, Dr., Department of Literature and the Judeo-Arabic Cultural Studies Program, Tel Aviv University

Moshe Behar, Associate Professor, Israel/Palestine and Middle Eastern Studies, University of Manchester

Peter Beinart, Professor of Journalism and Political Science, The City University of New York (CUNY); Editor at large, Jewish Currents

Elissa Bemporad, Jerry and William Ungar Chair in East European Jewish History and the Holocaust; Professor of History, Queens College and The City University of New York (CUNY)

Sarah Bunin Benor, Professor of Contemporary Jewish Studies, Hebrew Union College-Jewish Institute of Religion

Wolfgang Benz, Professor Dr., fmr. Director Center for Research on Antisemitism, Technische Universität Berlin

Doris Bergen, Chancellor Rose and Ray Wolfe Professor of Holocaust Studies, Department of History and Anne Tanenbaum Centre for Jewish Studies, University of Toronto

Werner Bergmann, Professor Emeritus, Sociologist, Center for Research on Antisemitism, Technische Universität Berlin

Michael Berkowitz, Professor, Modern Jewish History, University College London

Louise Bethlehem, Associate Professor and Chair of the Program in Cultural Studies, English and Cultural Studies, The Hebrew University of Jerusalem

David Biale, Emanuel Ringelblum Distinguished Professor, University of California, Davis

Leora Bilsky, Professor, The Buchmann Faculty of Law, Tel Aviv University

Monica Black, Associate Professor, Department of History, University of Tennessee, Knoxville

Daniel Blatman, Professor, Department of Jewish History and Contemporary Jewry, The Hebrew University of Jerusalem

Omri Boehm, Associate Professor of Philosophy, The New School for Social Research, New York

Daniel Boyarin, Taubman Professor of Talmudic Culture, UC Berkeley

Christina von Braun, Professor Dr., Selma Stern Center for Jewish Studies, Humboldt University, Berlin

Micha Brumlik, Professor Dr., fmr. Director of Fritz Bauer Institut-Geschichte und Wirkung des Holocaust, Frankfurt am Main

Jose Brunner, Professor Emeritus, Buchmann Faculty of Law and Cohn Institute for the History and Philosophy of Science, Tel Aviv University

Darcy Buerkle, Professor and Chair of History, Smith College

John Bunzl, Professor Dr., The Austrian Institute for International Politics

Michelle U. Campos, Associate Professor of Jewish Studies and History Pennsylvania State University

Francesco Cassata, Professor, Contemporary History Department of Ancient Studies, Philosophy and History, University of Genoa

Naomi Chazan, Professor Emerita of Political Science, The Hebrew University of Jerusalem

Bryan Cheyette, Professor and Chair in Modern Literature and Culture, University of Reading

Stephen Clingman, Distinguished University Professor, Department of English, University of Massachusetts, Amherst

Raya Cohen, Dr., fmr. Department of Jewish History, Tel Aviv University; fmr. Department of Sociology, University of Naples Federico II

Alon Confino, Pen Tishkach Chair of Holocaust Studies, Professor of History and Jewish Studies, Director Institute for Holocaust, Genocide, and Memory Studies, University of Massachusetts, Amherst

Sebastian Conrad, Professor of Global and Postcolonial History, Freie Universität Berlin

Lila Corwin Berman, Murray Friedman Chair of American Jewish History, Temple University

Deborah Dash Moore, Frederick G. L. Huetwell Professor of History and Professor of Judaic Studies, University of Michigan

Natalie Zemon Davis, Professor Emerita, Princeton University and University of Toronto

Sidra DeKoven Ezrahi, Professor Emerita, Comparative Literature, The Hebrew University of Jerusalem

Hasia R. Diner, Professor, New York University

Arie M. Dubnov, Max Ticktin Chair of Israel Studies and Director Judaic Studies Program, The George Washington University

Debórah Dwork, Director Center for the Study of the Holocaust, Genocide and Crimes Against Humanity, Graduate Center, The City University of New York (CUNY)

Yulia Egorova, Professor, Department of Anthropology, Durham University, Director Centre for the Study of Jewish Culture, Society and Politics

Helga Embacher, Professor Dr., Department of History, Paris Lodron University Salzburg

Vincent Engel, Professor, University of Louvain, UCLouvain

David Enoch, Professor, Philosophy Department and Faculty of Law, The Hebrew University of Jerusalem

Yuval Evri, Dr., Leverhulme Early Career Fellow SPLAS, King’s College London

Richard Falk, Professor Emeritus of International Law, Princeton University; Chair of Global Law, School of Law, Queen Mary University, London

David Feldman, Professor, Director of the Institute for the Study of Antisemitism, Birkbeck, University of London

Yochi Fischer, Dr., Deputy Director Van Leer Jerusalem Institute and Head of the Sacredness, Religion and Secularization Cluster

Ulrike Freitag, Professor Dr., History of the Middle East, Director Leibniz-Zentrum Moderner Orient, Berlin

Ute Frevert, Professor of Modern History, Department of History, University of Zurich

Katharina Galor, Professor Dr., Hirschfeld Visiting Associate Professor, Program in Judaic Studies, Program in Urban Studies, Brown University

Chaim Gans, Professor Emeritus, The Buchmann Faculty of Law, Tel Aviv University

Alexandra Garbarini, Professor, Department of History and Program in Jewish Studies, Williams College

Shirli Gilbert, Professor of Modern Jewish History, University College London

Sander Gilman, Distinguished Professor of the Liberal Arts and Sciences; Professor of Psychiatry, Emory University

Shai Ginsburg, Associate Professor, Chair of the Department of Asian and Middle Eastern Studies and Faculty Member of the Center for Jewish Studies, Duke University

Victor Ginsburgh, Professor Emeritus, Université Libre de Bruxelles, Brussels

Carlo Ginzburg, Professor Emeritus, UCLA and Scuola Normale Superiore, Pisa

Snait Gissis, Dr., Cohn Institute for the History and Philosophy of Science and Ideas, Tel Aviv University

Glowacka Dorota, Professor, Humanities, University of King’s College, Halifax

Amos Goldberg, Professor, The Jonah M. Machover Chair in Holocaust Studies, Head of the Avraham Harman Research Institute of Contemporary Jewry, The Hebrew University of Jerusalem

Harvey Goldberg, Professor Emeritus, Department of Sociology and Anthropology, The Hebrew University of Jerusalem

Sylvie-Anne Goldberg, Professor, Jewish Culture and History, Head of Jewish Studies at the Advanced School of Social Sciences (EHESS), Paris

Svenja Goltermann, Professor Dr., Historisches Seminar, University of Zurich

Neve Gordon, Professor of International Law, School of Law, Queen Mary University of London

Emily Gottreich, Adjunct Professor, Global Studies and Department of History, UC Berkeley, Director MENA-J Program

Leonard Grob, Professor Emeritus of Philosophy, Fairleigh Dickinson University

Jeffrey Grossman, Associate Professor, German and Jewish Studies, Chair of the German Department, University of Virginia

Atina Grossmann, Professor of History, Faculty of Humanities and Social Sciences, The Cooper Union, New York

Wolf Gruner, Shapell-Guerin Chair in Jewish Studies and Founding Director of the USC Shoah Foundation Center for Advanced Genocide Research, University of Southern California

François Guesnet, Professor of Modern Jewish History, Department of Hebrew and Jewish Studies, University College London

Ruth HaCohen, Artur Rubinstein Professor of Musicology, The Hebrew University of Jerusalem

Aaron J. Hahn, Tapper Professor, Mae and Benjamin Swig Chair in Jewish Studies, University of San Francisco

Liora R. Halperin, Associate Professor of International Studies, History and Jewish Studies; Jack and Rebecca Benaroya Endowed Chair in Israel Studies, University of Washington

Rachel Havrelock, Professor of English and Jewish Studies, University of Illinois, Chicago

Sonja Hegasy, Professor Dr., Scholar of Islamic Studies and Professor of Postcolonial Studies, Leibniz-Zentrum Moderner Orient, Berlin

Elizabeth Heineman, Professor of History and of Gender, Women’s and Sexuality Studies, University of Iowa

Didi Herman, Professor of Law and Social Change, University of Kent

Deborah Hertz, Wouk Chair in Modern Jewish Studies, University of California, San Diego

Dagmar Herzog, Distinguished Professor of History and Daniel Rose Faculty Scholar Graduate Center, The City University of New York (CUNY)

Susannah Heschel, Eli M. Black Distinguished Professor of Jewish Studies, Chair, Jewish Studies Program, Dartmouth College

Dafna Hirsch, Dr., Open University of Israel

Marianne Hirsch, William Peterfield Trent Professor of Comparative Literature and Gender Studies, Columbia University

Christhard Hoffmann, Professor of Modern European History, University of Bergen

Dr. habil. Klaus Holz, General Secretary of the Protestant Academies of Germany, Berlin

Eva Illouz, Directrice d’etudes, EHESS Paris and Van Leer Institute, Fellow

Jill Jacobs, Rabbi, Executive Director, T’ruah: The Rabbinic Call for Human Rights, New York

Uffa Jensen, Professor Dr., Center for Research on Antisemitism, Technische Universität, Berlin

Jonathan Judaken, Professor, Spence L. Wilson Chair in the Humanities, Rhodes College

Robin E. Judd, Associate Professor, Department of History, The Ohio State University

Irene Kacandes, The Dartmouth Professor of German Studies and Comparative Literature, Dartmouth University

Marion Kaplan, Skirball Professor of Modern Jewish History, New York University

Eli Karetny, Deputy Director Ralph Bunche Institute for International Studies; Lecturer Baruch College, The City University of New York (CUNY)

Nahum Karlinsky, The Ben-Gurion Research Institute for the Study of Israel and Zionism, Ben-Gurion University of the Negev

Menachem Klein, Professor Emeritus, Department of Political Studies, Bar Ilan University

Brian Klug, Senior Research Fellow in Philosophy, St. Benet’s Hall, Oxford; Member of the Philosophy Faculty, Oxford University

Francesca Klug, Visiting Professor at LSE Human Rights and at the Helena Kennedy Centre for International Justice, Sheffield Hallam University

Thomas A. Kohut, Sue and Edgar Wachenheim III Professor of History, Williams College

Teresa Koloma Beck, Professor of Sociology, Helmut Schmidt University, Hamburg

Rebecca Kook, Dr., Department of Politics and Government, Ben Gurion University of the Negev

Claudia Koonz, Professor Emeritus of History, Duke University

Hagar Kotef, Dr., Senior Lecturer in Political Theory and Comparative Political Thought, Department of Politics and International Studies, SOAS, University of London

Gudrun Kraemer, Professor Dr., Senior Professor of Islamic Studies, Freie Universität Berlin

Cilly Kugelman, Historian, fmr. Program Director of the Jewish Museum, Berlin

Tony Kushner, Professor, Parkes Institute for the Study of Jewish/non-Jewish Relations, University of Southampton

Dominick LaCapra, Bowmar Professor Emeritus of History and of Comparative Literature, Cornell University

Daniel Langton, Professor of Jewish History, University of Manchester

Shai Lavi, Professor, The Buchmann Faculty of Law, Tel Aviv University; The Van Leer Jerusalem Institute

Claire Le Foll, Associate Professor of East European Jewish History and Culture, Parkes Institute, University of Southampton; Director Parkes Institute for the Study of Jewish/non-Jewish Relations

Nitzan Lebovic, Professor, Department of History, Chair of Holocaust Studies and Ethical Values, Lehigh University

Mark Levene, Dr., Emeritus Fellow, University of Southampton and Parkes Centre for Jewish/non-Jewish Relations

Simon Levis Sullam, Associate Professor in Contemporary History, Dipartimento di Studi Umanistici, University Ca’ Foscari Venice

Lital Levy, Associate Professor of Comparative Literature, Princeton University

Lior Libman, Assistant Professor of Israel Studies, Associate Director Center for Israel Studies, Judaic Studies Department, Binghamton University, SUNY

Caroline Light, Senior Lecturer and Director of Undergraduate Studies Program in Women, Gender and Sexuality Studies, Harvard University

Kerstin von Lingen, Professor for Contemporary History, Chair for Studies of Genocide, Violence and Dictatorship, Vienna University

James Loeffler, Jay Berkowitz Professor of Jewish History, Ida and Nathan Kolodiz Director of Jewish Studies, University of Virginia

Hanno Loewy, Director of the Jewish Museum Hohenems, Austria

Ian S. Lustick, Bess W. Heyman Chair, Department of Political Science, University of Pennsylvania

Sergio Luzzato, Emiliana Pasca Noether Chair in Modern Italian History, University of Connecticut

Shaul Magid, Professor of Jewish Studies, Dartmouth College

Avishai Margalit, Professor Emeritus in Philosophy, The Hebrew University of Jerusalem

Jessica Marglin, Associate Professor of Religion, Law and History, Ruth Ziegler Early Career Chair in Jewish Studies, University of Southern California

Arturo Marzano, Associate Professor of History of the Middle East, Department of Civilizations and Forms of Knowledge, University of Pisa

Anat Matar, Dr., Department of Philosophy, Tel Aviv University

Manuel Reyes Mate Rupérez, Instituto de Filosofía del CSIC, Spanish National Research Council, Madrid

Menachem Mautner, Daniel Rubinstein Professor of Comparative Civil Law and Jurisprudence, Faculty of Law, Tel Aviv University

Brendan McGeever, Dr., Lecturer in the Sociology of Racialization and Antisemitism, Department of Psychosocial Studies, Birkbeck, University of London

David Mednicoff, Chair Department of Judaic and Near Eastern Studies and Associate Professor of Middle Eastern Studies and Public Policy, University of Massachusetts, Amherst

Eva Menasse, Novelist, Berlin

Adam Mendelsohn, Associate Professor of History and Director of the Kaplan Centre for Jewish Studies, University of Cape Town

Leslie Morris, Beverly and Richard Fink Professor in Liberal Arts, Professor and Chair Department of German, Nordic, Slavic & Dutch, University of Minnesota

Dirk Moses, Frank Porter Graham Distinguished Professor of Global Human Rights History, The University of North Carolina at Chapel Hill

Samuel Moyn, Henry R. Luce Professor of Jurisprudence and Professor of History, Yale University

Susan Neiman, Professor Dr., Philosopher, Director of the Einstein Forum, Potsdam

Anita Norich, Professor Emeritus, English and Judaic Studies, University of Michigan

Xosé Manoel Núñez Seixas, Professor of Modern European History, University of Santiago de Compostela

Esra Ozyurek, Sultan Qaboos Professor of Abrahamic Faiths and Shared Values Faculty of Divinity, University of Cambridge

Ilaria Pavan, Associate Professor in Modern History, Scuola Normale Superiore, Pisa

Derek Penslar, William Lee Frost Professor of Jewish History, Harvard University

Andrea Pető, Professor, Central European University (CEU), Vienna; CEU Democracy Institute, Budapest

Valentina Pisanty, Associate Professor, Semiotics, University of Bergamo

Renée Poznanski, Professor Emeritus, Department of Politics and Government, Ben Gurion University of the Negev

David Rechter, Professor of Modern Jewish History, University of Oxford

James Renton, Professor of History, Director of International Centre on Racism, Edge Hill Universit

Shlomith Rimmon Kenan, Professor Emerita, Departments of English and Comparative Literature, The Hebrew University of Jerusalem; Member of the Israel Academy of Science

Shira Robinson, Associate Professor of History and International Affairs, George Washington University

Bryan K. Roby, Assistant Professor of Jewish and Middle East History, University of Michigan-Ann Arbor

Na’ama Rokem, Associate Professor, Director Joyce Z. And Jacob Greenberg Center for Jewish Studies, University of Chicago

Mark Roseman, Distinguished Professor in History, Pat M. Glazer Chair in Jewish Studies, Indiana University

Göran Rosenberg, Writer and Journalist, Sweden

Michael Rothberg, 1939 Society Samuel Goetz Chair in Holocaust Studies, UCLA

Sara Roy, Senior Research Scholar, Center for Middle Eastern Studies, Harvard University

Miri Rubin, Professor of Medieval and Modern History, Queen Mary University of London

Dirk Rupnow, Professor Dr., Department of Contemporary History, University of Innsbruck, Austria

Philippe Sands, Professor of Public Understanding of Law, University College London; Barrister; Writer

Victoria Sanford, Professor of Anthropology, Lehman College Doctoral Faculty, The Graduate Center, The City University of New York (CUNY)

Gisèle Sapiro, Professor of Sociology at EHESS and Research Director at the CNRS (Centre européen de sociologie et de science politique), Paris

Peter Schäfer, Professor of Jewish Studies, Princeton University, fmr. Director of the Jewish Museum Berlin

Andrea Schatz, Dr., Reader in Jewish Studies, King’s College London

Jean-Philippe Schreiber, Professor, Université Libre de Bruxelles, Brussels

Stefanie Schüler-Springorum, Professor Dr., Director of the Center for Research on Antisemitism, Technische Universität Berlin

Guri Schwarz, Associate Professor of Contemporary History, Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia, Università di Genova

Raz Segal, Associate Professor, Holocaust and Genocide Studies, Stockton University

Joshua Shanes, Associate Professor and Director of the Arnold Center for Israel Studies, College of Charleston

David Shulman, Professor Emeritus, Department of Asian Studies, The Hebrew University of Jerusalem

Dmitry Shumsky, Professor, Israel Goldstein Chair in the History of Zionism and the New Yishuv, Director of the Bernard Cherrick Center for the Study of Zionism, the Yishuv and the State of Israel, Department of Jewish History and Contemporary Jewry, The Hebrew University of Jerusalem

Marcella Simoni, Professor of History, Department of Asian and North African Studies, Ca’ Foscari University, Venice

Santiago Slabodsky, The Robert and Florence Kaufman Endowed Chair in Jewish Studies and Associate Professor of Religion, Hofstra University, New York

David Slucki, Associate Professor of Contemporary Jewish Life and Culture, Australian Centre for Jewish Civilisation, Monash University, Australia

Tamir Sorek, Liberal Arts Professor of Middle East History and Jewish Studies, Penn State University

Levi Spectre, Dr., Senior Lecturer at the Department of History, Philosophy and Judaic Studies, The Open University of Israel; Researcher at the Department of Philosophy, Stockholm University, Sweden

Michael P. Steinberg, Professor, Barnaby Conrad and Mary Critchfield Keeney Professor of History and Music, Professor of German Studies, Brown University

Lior Sternfeld, Assistant Professor of History and Jewish Studies, Penn State Univeristy

Michael Stolleis, Professor of History of Law, Max Planck Institute for European Legal History, Frankfurt am Main

Mira Sucharov, Professor of Political Science and University Chair of Teaching Innovation, Carleton University Ottawa

Adam Sutcliffe, Professor of European History, King’s College London

Aaron J. Hahn Tapper, Professor, Mae and Benjamin Swig Chair in Jewish Studies, University of San Francisco

Anya Topolski, Associate Professor of Ethics and Political Philosophy, Radboud University, Nijmegen

Barry Trachtenberg, Associate Professor, Rubin Presidential Chair of Jewish History, Wake Forest University

Emanuela Trevisan Semi, Senior Researcher in Modern Jewish Studies, Ca’ Foscari University of Venice

Heidemarie Uhl, PhD, Historian, Senior Researcher, Austrian Academy of Sciences, Vienna

Peter Ullrich, Dr. Dr., Senior Researcher, Fellow at the Center for Research on Antisemitism, Technische Universität Berlin

Uğur Ümit Üngör, Professor and Chair of Holocaust and Genocide Studies, Faculty of Humanities, University of Amsterdam; Senior Researcher NIOD Institute for War, Holocaust and Genocide Studies, Amsterdam

Nadia Valman, Professor of Urban Literature, Queen Mary, University of London

Dominique Vidal, Journalist, Historian and Essayist

Alana M. Vincent, Associate Professor of Jewish Philosophy, Religion and Imagination, University of Chester

Vered Vinitzky-Seroussi, Head of The Truman Research Institute for the Advancement of Peace, The Hebrew University of Jerusalem

Anika Walke, Associate Professor of History, Washington University, St. Louis

Yair Wallach, Dr., Senior Lecturer in Israeli Studies School of Languages, Cultures and Linguistics, SOAS, University of London

Michael Walzer, Professor Emeritus, Institute for Advanced Study, School of Social Science, Princeton

Dov Waxman, Professor, The Rosalinde and Arthur Gilbert Foundation Chair in Israel Studies, University of California (UCLA)

Ilana Webster-Kogen, Joe Loss Senior Lecturer in Jewish Music, SOAS, University of London

Bernd Weisbrod, Professor Emeritus of Modern History, University of Göttingen

Eric D. Weitz, Distinguished Professor of History, City College and the Graduate Center, The City University of New York (CUNY)

Michael Wildt, Professor Dr., Department of History, Humboldt University, Berlin

Abraham B. Yehoshua, Novelist, Essayist and Playwright

Noam Zadoff, Assistant Professor in Israel Studies, Department of Contemporary History, University of Innsbruck

Tara Zahra, Homer J. Livingston Professor of East European History; Member Greenberg Center for Jewish Studies, University of Chicago

José A. Zamora Zaragoza, Senior Researcher, Instituto de Filosofía del CSIC, Spanish National Research Council, Madrid

Lothar Zechlin, Professor Emeritus of Public Law, fmr. Rector Institute of Political Science, University of Duisburg

Yael Zerubavel, Professor Emeritus of Jewish Studies and History, fmr. Founding Director Bildner Center for the Study of Jewish Life, Rutgers University

Moshe Zimmermann, Professor Emeritus, The Richard Koebner Minerva Center for German History, The Hebrew University of Jerusalem

Steven J. Zipperstein, Daniel E. Koshland Professor in Jewish Culture and History, Stanford University

Moshe Zuckermann, Professor Emeritus of History and Philosophy, Tel Aviv University

https://jerusalemdeclaration.org/

Traduzione di Elisabetta Valento – AssoPacePalestina




Il boicottaggio dei prodotti israeliani nuovamente di fronte a un tribunale francese

Redazione di MEE

16 marzo 2021 – Middle East Eye

La militante Olivia Zemor è imputata di “diffamazione” e “istigazione alla discriminazione economica” per aver propagandato gli appelli al boicottaggio contro il gigante farmaceutico israeliano Teva.

La direttrice editoriale del sito Europalestine è stata citata in giudizio martedì 16 marzo davanti alla giustizia francese dall’azienda farmaceutica israeliana Teva, per aver propagandato un appello al boicottaggio lanciato a Lione da militanti della causa palestinese.

Olivia Zemor comparirà davanti al tribunale penale di tale città per diffamazione e istigazione alla discriminazione economica, dopo aver riportato sul suo sito, con il titolo ‘Teva, non ti vogliamo’, l’azione di militanti lionesi filopalestinesi davanti alla principale farmacia della città.

La società Teva Santé, con una filiale in Francia e la cui casa madre ha sede in Israele, è un leader mondiale dei farmaci generici.

Indossando felpe verdi sulle quali si poteva leggere “Free Palestine” e “Boycott Israel”, degli attivisti incitavano i consumatori a non acquistare farmaci prodotti dalla Teva.

L’azione si inseriva nel quadro del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), una campagna mondiale di boicottaggio economico, culturale e scientifico di Israele, allo scopo di ottenere la fine dell’occupazione e della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi.

Teva non è coinvolta in un conflitto geopolitico, etnico o religioso e queste azioni compromettono la sua attività economica”, commenta Frédéric Jeannin, avvocato della società farmaceutica.

Con il suo apporto finanziario allo Stato di Israele, questo gigante farmaceutico contribuisce al finanziamento delle operazioni militari a Gaza e allo sviluppo della colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme est, in spregio dei diritti del popolo palestinese e delle risoluzioni internazionali, in totale impunità! Fare appello al boicottaggio nei suoi confronti è quindi necessario”, ha spiegato di rimando Olivia Zemor al Courrier de l’Atlas [giornale francese specializzato in problemi del mondo arabo in Europa, ndtr.].

Commistione pretestuosa

Il suo sito, Europalestine, ha anche accusato SLE, la filiale di Teva responsabile dello stoccaggio e della distribuzione dei vaccini contro il COVID-19, di consegnare i vaccini in Cisgiordania solo ai coloni.

Dei cinque milioni di dosi stoccate nello scorso gennaio, Teva, il cui senso etico si evince dalle sue numerose condanne per corruzione e condotta negligente nei confronti dei pazienti, non ha trovato modo di consegnarne ai palestinesi, compresi i circa 30.000 che lavoravano in Israele come manodopera a buon mercato, principalmente nel settore edilizio”, scrive Europalestine.

Per la cronaca, questa causa, che avrebbe inizialmente dovuto essere portata in giudizio al tempo del primo confinamento, giunge in tribunale dopo che lo scorso giugno la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) ha condannato la Francia per la sua sentenza contro militanti filopalestinesi in una causa analoga (si erano introdotti in un supermercato in Alsazia per invitare al boicottaggio dei prodotti israeliani).

Il proseguimento di questo procedimento giudiziario è tanto più scandaloso in quanto la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), con un’importante sentenza emessa l’11 giugno 2020, precisa che ‘l’azione di appello al boicottaggio per contestare la politica di uno Stato si configura come espressione politica e militante e riguarda un argomento di interesse generale’, nella misura in cui non implica conseguenze di violenza e odio o intenzioni razziste”, ha ricordato l’Associazione di Solidarietà franco-palestinese. La CEDU aveva ritenuto che i fatti “si configuravano come espressione politica e militante”.

Spero che i giudici di Lione sapranno applicare la legge, senza lasciarsi influenzare, leggendo con attenzione la sentenza della CEDU che afferma che le nostre azioni non costituiscono discriminazione”, afferma Olivia Zemor, per la quale la Francia è il solo Paese al mondo che mette sotto processo militanti che denunciano la politica di annessione e di apartheid di Israele.”

Eric Dupond-Moretti (Ministro della Giustizia) non chiede solo ai magistrati di condannarci penalmente, ma auspica anche che ci vengano imposte dei “corsi sulla Shoah”. Si vede bene qui la commistione pretestuosa che viene creata tra la difesa legittima dei diritti dei palestinesi e l’antisemitismo, che è un reato e va combattuto. È la politica di colonizzazione di Israele che genera l’antisemitismo e che mette in pericolo gli ebrei di ogni Paese”, ha denunciato Olivia Zemor sul Courrier d’Atlas.

Anche tre associazioni di difesa di Israele e di lotta contro l’antisemitismo si sono costituite parte civile a sostegno di Teva in questa causa.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Intervista: Quegli israeliani che si battono a fianco dei palestinesi

Hassina Mechaï

16 marzo 2021 – Orient XXI

Mentre si preparano le elezioni legislative israeliane del 23 marzo 2021, dominate dalla competizione tra partiti di destra estrema e di estrema destra, qualche voce dissidente si fa sentire. Parliamo con una di loro, Tali Shapiro.

Visto dalla Francia il campo politico [israeliano] può sembrare totalmente dominato da un misto di nazionalismo e religione, testimoniato dalle alleanze del Likud al potere con diversi piccoli partiti religiosi. Questa ideologia si incarna in Benjamin Netanyahu. Egli è stato primo ministro senza interruzione dal 2009, ma la sua prima elezione a questa carica risale al 1996.

Di fronte a quello che si potrebbe vedere come un blocco politico monolitico, la società civile israeliana offre delle sfumature che la dicono lunga sulle sfide che il Paese si trova ad affrontare, così come sulle sue contraddizioni. In questa società civile si distinguono i militanti israeliani che hanno scelto di agire, o di vivere, a fianco dei palestinesi. A volte definiti smolanim (estremisti di sinistra), detestati dalla destra e dall’estrema destra, propongono una voce dissidente che contraddice il discorso dominante, praticano la disobbedienza civile o l’obiezione di coscienza. Tra loro Tali Shapiro, una cittadina israeliana il cui percorso, anche se particolare, illustra una tendenza sicuramente minoritaria, ma che resiste.

Hassina Mechaï. — Come e perché è diventata una militante?

Tali Shapiro. — Sono cresciuta con una certa forma di ignoranza politica, più precisamente in una famiglia ashkenazita [ebrei di origine centro-europea, ndtr.] in cui i miti sionisti erano considerati scontati. A 20 anni circa ho avuto un fidanzato cresciuto in una famiglia più a sinistra della mia. È grazie a questo rapporto che ho sentito per la prima volta un discorso diverso, contrastante con quello con cui ero cresciuta. Mi ci sono voluti parecchi anni per mettere insieme i pezzi del puzzle. Ci è voluto del tempo, perché tentavo di mettere insieme i frammenti di informazioni che mi arrivavano. Non affrontavamo la questione in modo formale. Non erano che chiacchierate, in genere commenti sulle notizie che vedevamo o uno sguardo diverso sui media israeliani. Nel 2009, quando Israele bombardò Gaza [operazione Piombo Fuso, dal dicembre 2008 al gennaio 2009, ndtr.] tutto divenne chiaro. Lo choc e la rabbia mi spinsero ad avviare un processo di comprensione più rigorosa della situazione. Da allora lì mi sono rapidamente unita alle manifestazioni a Bil’in e in altri villaggi della Cisgiordania e grazie ad amicizie e rapporti stretti laggiù, al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

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H. M.Perché questo tipo di impegno?

T. S. — Partecipare alle manifestazioni nei villaggi è stato soprattutto un atto spontaneo. Volevo incontrare queste persone che soffrono perché io possa vivere una vita soddisfacente. Volevo essere veramente lì per loro, in un modo che avesse un senso per loro. Volevo anche, in modo molto viscerale, esprimere il mio rifiuto di partecipare alla distruzione, il mio rifiuto di fronte al meccanismo di cancellazione e di controllo sistematico che è l’occupazione.

Unirmi al movimento BDS si è inserito nella logica di questo impegno. Il BDS mina il cuore stesso del sistema israeliano di oppressione attraverso il ricorso a un’analisi economica, istituzionale e culturale. Mettiamo in evidenza il modo complesso con cui le imprese, le istituzioni educative e culturali, il governo, l’esercito e le colonie sono collegati all’oppressione e la perpetuano. Esigiamo la fine di questa complicità, sottolineando che il quadro giuridico, politico e sociale esistente deve essere messo in pratica perché questa situazione cessi.

H. M.Durante queste manifestazioni come agiscono i soldati israeliani con voi? C’è una differenza di trattamento tra voi e i manifestanti palestinesi?

T. S.— La prima cosa da capire è che gli israeliani e gli attivisti internazionali non sono un bersaglio dei soldati. Quando sparano i soldati praticano il profilamento etnico, con una preferenza per i ragazzi e gli uomini. Se hai la pelle scura o la barba sei un bersaglio privilegiato. Tuttavia il solo fatto di stare insieme ai palestinesi durante una manifestazione può avere delle gravi conseguenze. Se sei troppo vicino rischi di essere arrestato o picchiato. In generale i soldati sono estremamente ostili e le loro reazioni vanno dalla villania alla brutalità. Gli israeliani che manifestano con i palestinesi sono considerati dei traditori. Ma nel complesso le conseguenze per noi sono meno pesanti e gli arresti più brevi e meno brutali.

Ciò detto, le conseguenze personali non sono trascurabili. Nei miei otto anni di proteste sono stata ferita, arrestata, imprigionata e ho visto degli amici feriti con danni permanenti. Un momento particolarmente significativo è stato quando sono stata liberata sotto cauzione grazie ad amici palestinesi. Mentre uscivamo dal posto di polizia, il comandante che mi aveva arrestata mi ha detto che avrebbe preferito sparare a me piuttosto che a loro, perché loro li capiva, mentre io ai suoi occhi ero una traditrice.

H. M.Che difficoltà e ostacoli ha trovato dal punto di vista personale, familiare, istituzionale? Il suo impegno ha avuto un impatto sulla sua vita?

T. S.— Io sono probabilmente più fortunata della maggioranza delle altre persone a questo proposito. Sono una libera professionista e non ho rapporti o legami istituzionali. Per quanto riguarda la mia famiglia ci siamo sforzati di mantenere la pace in casa. È tutt’altro che una situazione ideale, ma ci siamo posti dei limiti accettabili entro i quali possiamo vivere tutti. Il mio impegno è comunque cambiato perché, dopo aver preso coscienza della brutalità della colonizzazione, non potevo continuare lungo la strada che avevo intrapreso fino ad allora. Mi sono dedicata quasi interamente alla lotta palestinese contro la colonizzazione. Ciò ha cambiato la mia visione della vita, la cerchia di amici, il mio percorso professionale e il contesto in cui ho scelto di vivere. Sono diventata critica, non solo della violenza che mi circonda, ma anche del sistema socio-economico che la perpetua. I miei amici e le persone che mi sono vicine sono tutti militanti. Ho abbandonato il sogno della mia vita, diventare un’artista, per accettare un lavoro qualunque e poter agire in questo modo. Ho anche scelto di vivere a Ramallah. Se a 18 anni mi avessero detto che a 38 anni avrei vissuto lì sarei rimasta sconcertata.?

H. M.Nota dei punti in comune tra i militanti israeliani che frequenta?

T. S.— È un percorso molto personale, che resta unico per ciascuno di noi. Ognuno proviene da contesti socio-economici, razziali, sessuali e religiosi diversi. L’adesione al movimento è individuale, con punti di partenza differenti per ognuno. Se sapessimo come riprodurre dei fenomeni di dissidenza interna, lo faremmo.

H. M.Come siete accolti dai palestinesi? Come lavorate con militanti palestinesi?

T. S.— Viviamo una relazione tra gruppi oppressi e alleati privilegiati. I palestinesi sono stati molto gentili e pazienti. Hanno accettato le nostre azioni di solidarietà e ci hanno permesso di partecipare direttamente alle loro campagne. È un rapporto molto delicato, che si basa sul nostro impegno a non tradirli, e sulla loro fiducia. È anche un rapporto diseguale, in cui loro hanno tutto da perdere e in cui noi arriviamo con un “credito di militanza”. È una realtà che deve essere riconosciuta. Noi rifiutiamo ogni approccio feticista e insulso, che il più delle volte serve a depoliticizzare i rapporti e a perpetuare la supremazia e gli abusi. Quando gli israeliani si guadagnano la fiducia dei palestinesi stringono delle vere amicizie.

H. M.La società israeliana è ricettiva nei confronti delle vostre azioni?

T. S.— Un maggior numero di persone firma il nostro appello al boicottaggio dall’interno. Attraverso le reti sociali abbiamo anche osservato che sempre più gente di sinistra è d’accordo con l’idea del boicottaggio. Tuttavia osservo un’evoluzione nella sinistra israeliana: oggi essa ha una comprensione più vasta del rapporto tra la colonizzazione e l’economia. Ci sono delle voci nuove, delle nuove alleanze, una maggiore apertura al movimento BDS. Ciononostante, anche se la sinistra si è evoluta, rimane ancora una parte marginale della società israeliana. D’altronde è questa constatazione che può portare molti ad unirsi al movimento BDS.

H. M.Le istituzioni israeliane (polizia, esercito, servizi di sicurezza) vi permettono di agire liberamente?

T. S.— Non penso che le autorità israeliane accordino per loro stessa natura questa libertà. Per quanto riguarda il modo in cui ostacolano le nostre libertà, ciò dipende. Diverse leggi impediscono la libertà di espressione, in particolare la legge che definisce il BDS un “reato civile”. Ciò ci può portare a dover pagare multe di decine di migliaia di shekel [1 shekel = 0,25 euro]. La questione della nostra possibilità di agire dipende molto dalla visibilità o meno delle nostre azioni per le autorità. Ci sono più probabilità di essere arrestati durante una manifestazione che per aver scritto una mail nell’intimità della nostra casa a un fondo pensioni per chiedergli di disinvestire dal mercato israeliano. I meccanismi di dissuasione ci sono. Poi è solo una questione di impegno.

H. M.Lei osserva un allontanamento morale e politico degli ebrei americani rispetto alla politica israeliana?

T. S.— Non penso affatto che gli ebrei americani siano disinteressati alla politica israeliana. Sono stati educati nel sionismo quasi quanto gli israeliani. Ciò avviene attraverso la famiglia, ma anche attraverso le organizzazioni religiose e le ramificazioni dell’Agenzia Ebraica. Tra il campo filoisraeliano e i dissidenti non penso che si possa trovare un solo ebreo americano che non abbia in realtà un’opinione in proposito.

H. M.La società israeliana è comunque più complessa di come la si percepisce a volte all’estero, in particolare riguardo alla vivacità del dibattito…

T. S.— Se la società israeliana fosse disponibile alla discussione su queste questioni il dibattito ci sarebbe. Penso che ciò che è tabù viene sanzionato in modo aggressivo. È così in tutte le società. Questo non significa che noi non dovremmo cercare e che non cerchiamo di creare le condizioni per poter fare questa discussione. Ciò significa anche che, in base alle nostre risorse limitate, dobbiamo scegliere le nostre battaglie. Una vittoria ne porta un’altra. Ogni coscienza politica non è una cosa statica, ma piuttosto una dinamica continua.

H. M.Pensa che la soluzione a due Stati sia ancora possibile?

T. S.— Penso che il paradigma dei due Stati non avrebbe mai dovuto essere messo sul tavolo. È un consolidamento della colonizzazione. Ora, la colonizzazione è la dominazione o l’espulsione di una popolazione etnicamente identificata e la sua sostituzione con un’altra popolazione. Questo paradigma fallisce dopo il 1949. Israele, nonostante le apparenze, è uno Stato fallito che non riesce ad assicurare il benessere e neppure la sopravvivenza di milioni di esseri umani sotto il suo regime. Tuttavia pretende di non aver alcun obbligo giuridico nei loro confronti. Avrebbe dovuto essere creata una missione di pace per proteggere le popolazioni, permettere il ritorno immediato dei rifugiati. Avrebbero dovuto essere intraprese delle iniziative diplomatiche serie per giudicare gli autori di quei crimini. Tutto il paradigma della partizione era destinato a fallire.

H. M.Cosa pensa dell’attuale contesto politico israeliano? Sembra in grado di proporre una soluzione?

T. S.— L’attuale contesto israeliano non sembra in grado di proporre altro che un genocidio. Non è un’iperbole. Le elezioni si giocano tra Netanyahu, il promotore del piano di annessione Trump-Kushner, e Benny Ganz, che si vanta di aver “riportato Gaza all’età della pietra”, come se fosse un merito politico. Non penso che si debba chiedere a loro di trovare delle soluzioni al problema delle violenze che stanno perpetrando.

L’unica soluzione è la cessazione immediata della violenza e la rimozione dal potere degli autori di questi atti. Benché ci siano forze di opposizione, principalmente i partiti palestinesi, è poco, è come tappare con un dito una diga che sta crollando. Ma non è che a questa condizione che si potrà cominciare a prendere in considerazione delle azioni di riparazione e di responsabilizzazione. Tutto ciò dovrà essere fatto dalle vittime e incoraggiato dalla comunità internazionale.

Hassina Mechaï

Giornalista, coautrice con Sihem Zine de L’état d’urgence (permanent) [Lo stato d’emergenza (permanente)], uscito nell’aprile 2018, Edizioni Meltingbook (Parigi).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Vittoria del BDS: un giudice respinge il tentativo sionista di reprimere la libertà di espressione

Yvonne Ridley

8 marzo 2021 – Monitor de Oriente

Una soldatessa israeliana che negli Stati Uniti ha intentato un’azione penale per diffamazione da 6 milioni di dollari contro una palestinese cristiana ha visto come la sua iniziativa giudiziaria sia diventata controproducente. Nonostante il suo avvocato abbia sollecitato il giudice statunitense ad applicare la legge israeliana sulla diffamazione, che condanna le critiche contro lo Stato sionista a una pena fino a un anno di carcere, Rebecca Rumshiskaya ha perso la causa.

Il giudice californiano Craig Griffin ha rigettato ed escluso la sua richiesta e il tentativo di far applicare le leggi israeliane in una corte dassise della contea di Orange. Nella sua sentenza il giudice ha anche accolto la mozione contro la SLAPP della palestinese Suhair Nafal ed ha stabilito che Rumshiskaya deve pagare le spese giudiziarie della persona denunciata. Le leggi contro la SLAPP sono state ideate per dissuadere le persone dall’utilizzare i tribunali degli USA e la possibile minaccia di una denuncia per intimidire chi sta esercitando i propri diritti in base al Primo Emendamento [della costituzione USA, ndtr.] sulla libertà di espressione. Una “domanda strategica contro la partecipazione pubblica” [“azione temeraria”, nel codice civile italiano, ndtr.] (SLAPP), che il querelante non si aspetta di vincere, intende impedire la libertà di espressione.

Il risultato di questa denuncia è un duro colpo, in particolare per i tentativi che Israele sta facendo in tutto il mondo per mettere a tacere il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), soprattutto sulle reti sociali. È anche una grande vittoria per Nafal e i suoi sostenitori. Tuttavia lei ha sottolineato che si è trattato di una vittoria per tutti gli attivisti filo-palestinesi, sia sulle reti sociali che sul territorio. “Abbiamo molto lavoro davanti a noi, ma siamo instancabili e non ci arrenderemo fino a quando non vedremo che si sta facendo giustizia.”

Nel 2012 la californiana Rumshiskaya, 26 anni, andò a vivere in Israele e si arruolò nelle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndtr.] come istruttrice del Corpo di Educazione Giovanile. Due anni dopo che nel 2018 l’attivista del BDS Nafal aveva pubblicato sulla sua pagina Facebook una sua fotografia con armi e uniforme, [Rebecca] ha chiesto assistenza agli specialisti di “lawfare” [guerra giudiziaria, ndtr.] di “Shurat HaDin”[ong israeliana legata al governo che si occupa di intentare azioni legali contro chi critica Israele, ndtr.]. La palestinese aveva scaricato l’immagine della ragazza dal manifesto delle IDF dalla stessa pagina Facebook ufficiale dell’esercito.

Il post di Nafal faceva riferimento all’eroica paramedica palestinese di 21 anni Razan Al-Najjar, assassinata da un cecchino israeliano mentre stava prestando servizio come volontaria per aiutare i feriti durante le manifestazioni pacifiche della Grande Marcia del Ritorno che si sono tenute nel 2018 nei pressi del confine fittizio della Striscia di Gaza. Per stabilire un confronto tra le due donne Nafal ha collocato la foto promozionale di Rumshiskaya a fianco di quella della giovane paramedica. Non c’era assolutamente nessuna intenzione di suggerire che proprio questa soldatessa israeliana fosse stata coinvolta nell’assassinio di Al-Najjar. Lei aveva lasciato le IDF tre anni prima. Tuttavia alcuni sostenitori di Israele hanno cercato di stravolgere la storia e di affermare che il post di Nafal suggeriva che Rumshiskaya fosse responsabile della morte dell’operatrice sanitaria.

Nafal si è messa in contatto con l’ Arab American Anti-Discrimination Committee [Comitato Arabo Americano contro la Discriminazione] (ADC) per chiedere aiuto nella causa ed è stata rappresentata dall’avvocato Haytham Faraj, membro del consiglio nazionale dell’ADC. Secondo Faraj il lavoro principale dell’ufficio che rappresentava la soldatessa israeliana nella denuncia é incentrato nel far tacere e minacciare gli attivisti del BDS, quelli che criticano le violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale da parte di Israele.

Nel testo della denuncia presentata l’anno scorso da Shurat HaDin al tribunale californiano gli avvocati di Rumshiskaya hanno detto che l’“accusa”era chiaramente falsa, dato che durante il suo servizio militare lei non aveva mai combattuto nella Striscia di Gaza. Hanno aggiunto che la loro cliente lavorava per i diritti umani e partecipava a delegazioni congiunte di israeliani e arabi in Giordania e nella Cisgiordania occupata.

Con una dichiarazione drammatica che ha sfiorato l’isteria, l’avvocatessa israeliana Nitsana Darshan-Leitner ha affermato nella sua comunicazione: “Pare che stiamo tornando alla (infame falsificazione) dei “Protocolli dei Saggi di Sion” e ai sanguinari libelli antisemiti del passato. Rebecca e la sua famiglia hanno ricevuto minacce di morte solo perché lei ha deciso di unirsi alle IDF.”

Darshan-Leitner, fondatrice del centro giuridico israeliano Shurat HaDin, ha aggiunto: “La guerra contro l’antisemitismo si è estesa anche alla sfera giudiziaria e la richiesta di Rebecca è la punta di lancia della nostra lotta contro il movimento globale di boicottaggio contro Israele. Questo è un messaggio per tutti gli attivisti del BDS, che devono sapere che anche loro possono essere considerati responsabili della loro attività antisionista e potrebbero persino pagarne un prezzo alto.”

In un certo senso l’avvocatessa di Shurat HaDin ha avuto ragione. Questa causa giudiziaria ha sicuramente mandato un forte messaggio ai sostenitori del BDS, e cioè che devono continuare con il loro impegno fondamentale e totalmente pacifico per far sì che Israele paghi per le sue violazioni dei diritti umani.

L’avvocato statunitense Faraj ha affermato che la sentenza del giudice Griffin ha salvaguardato i diritti della comunità arabo-americana e palestinese alla libertà di espressione, compresa quella politica, stabiliti dal Primo Emendamento. Sottolineando che “gli Stati Uniti non sono Israele” ha aggiunto: “L’ex-soldatessa israeliana che ha denunciato la signora Nafal pretendeva che il tribunale applicasse la legge israeliana, che condanna chi critica Israele fino a un massimo di un anno di prigione. Il giudice ha rigettato la richiesta e il tentativo di applicare la legge israeliana.”

L’avvocato ha affermato che, concedendo a Nafal l’eccezione anti-SLAPP, il giudice ha inviato un chiaro messaggio secondo il quale gli Stati Uniti tollerano e attribuiscono importanza alla diversità di opinioni e punti di vista politici, e chi cerchi indebitamente di far tacere le critiche politiche dovrà pagarne il prezzo.

Non resta che sperare che il caso della California abbia un impatto qui in Gran Bretagna, dove i sionisti sono protagonisti di una caccia alle streghe per cercare di confondere le critiche a Israele con l’antisemitismo. La lobby filo-israeliana utilizza la screditata “definizione” di antisemitismo stilata dall’International Holocaust Remembrance Aliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organismo intergovernativo cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] (IHRA) per cercare di bloccare qualunque discussione sullo Stato di Israele e sul suo disprezzo per le leggi e convenzioni internazionali. Alcuni degli esempi di “antisemitismo” citati nel documento dell’IHRA, che persino la persona che lo ha stilato ha affermato essere una “bozza di lavoro”, si riferiscono alle critiche contro Israele. Gli accademici hanno criticato la definizione, che è stata descritta come “non rispondente allo scopo”.

Il BDS deve affrontare molte sfide da parte degli alleati di Israele che gli permettono di agire impunito. Ironicamente alcuni di questi alleati sono veri antisemiti ai quali si lascia libertà di praticare il proprio peggior razzismo al mondo ogni volta che la lobby filo-israeliana fa dell’antisemitismo un’arma contro il popolo palestinese e i suoi sostenitori nella lotta per la pace e la giustizia. C’è gente che non impara mai.

Suhair Nafal ha detto: “Questa vittoria non è stata solo mia, è stata una vittoria di tutti gli attivisti filo-palestinesi, sia sulle reti sociali che sul territorio,” ha aggiunto. “Abbiamo davanti a noi molto lavoro da fare, ma siamo instancabili e non cederemo finché non sarà fatta giustizia.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

Yvonne Ridley

La giornalista e scrittrice britannica Yvonne Ridley propone analisi politiche su questioni relative al Medio Oriente, all’Asia e alla guerra mondiale contro il terrorismo. Il suo lavoro è stato pubblicato in molti quotidiani e riviste in tutto il mondo, da oriente a occidente, da testate come il Washington Post fino al Tehran Times e il Tripoli Post, riscuotendo riconoscimenti e premi negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Il lavoro di dieci anni per grandi testate in Fleet Street [via di Londra in cui si trovano le sedi dei principali quotidiani inglesi, ndtr.] ha esteso il suo ambito di azione ai media elettronici e radiofonici, ed ha prodotto una serie di documentari su temi palestinesi e internazionali, da Guantanamo alla Libia e alle Primavere Arabe.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)