“Facebook, dobbiamo parlarne”: sulla distinzione tra antisemitismo e antisionismo negli spazi pubblici

Benay Blend

22 febbraio 2021 – Palestine Chronicle

Nel gennaio 2021 Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, associazione di ebrei antisionisti, ndtr.] (JVP) ha annunciato la campagna internazionale “Facebook, we need to talk” [Facebook, dobbiamo parlarne] sull’indagine del gigante delle reti sociali per stabilire se le critiche contro il movimento sionista “rientrino all’interno della categoria ‘discorsi d’odio’ in base agli standard della comunità di Facebook.”

Nella sua forma corrente la discussione riguarda il fatto di obbligare università, piattaforme delle reti sociali e altri spazi pubblici ad adottare le norme dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, a cui aderiscono 31 Paesi, ndtr.] (IHRA), che definisce l’odierno antisemitismo includendo “la negazione del diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele sia un comportamento razzista” e “applicando un doppio standard” nei confronti di Israele, nel complesso una definizione che in pratica bloccherebbe qualunque critica dello Stato sionista.

Secondo Lara Friedman l’obiettivo delle organizzazioni sioniste che hanno fatto pressioni per questa iniziativa “non è quello di fare sì che Facebook escluda dalla piattaforma l’antisemitismo, ma le critiche a Israele.”

In risposta, centinaia di attivisti, intellettuali ed artisti di tutto il mondo hanno lanciato una petizione per evitare che Facebook non includa nella sua politica riguardante i discorsi di odio “sionista” come categoria protetta, cioè tratti “sionista” come un equivalente di “ebreo o ebraico”. Nelle prime 24 ore la lettera aperta ha raccolto oltre 14.500 firme, tra cui quelle di personalità come Hanan Ashrawi [nota politica palestinese, ndtr.], Norita Cortiñas [cofondatrice delle Madres de Plaza de Mayo in Argentina, ndtr.], Wallace Shawn [attore e commediografo statunitense, ndtr.] e Peter Gabriel [famoso cantante rock inglese, ndtr.].

La petizione sottolinea che “collaborare con la richiesta del governo israeliano danneggerebbe i tentativi di sradicare l’antisemitismo, priverebbe i palestinesi di uno spazio fondamentale per esporre al mondo il proprio punto di vista politico e contribuirebbe ad impedire che il governo israeliano debba rendere conto delle sue violazioni dei diritti dei palestinesi.”

Questi punti sono particolarmente importanti in quanto la Corte Penale Internazionale sta avviando un’indagine su Israele per crimini di guerra, e quindi ogni notizia su questa inchiesta sarebbe definita antisemita. Oltretutto il tentativo di utilizzare il termine “sionista” come sinonimo di popolo ebraico implicherebbe che ogni ebreo pensi allo stesso modo, il che di per sé è un’affermazione razzista, indipendentemente dal gruppo a cui si fa riferimento nell’argomentazione.

Affermazioni come “tutti i neri sono…,” “tutte le donne sono…” e via di seguito sono considerate ragionamenti che non consentono il libero arbitrio e in genere riducono la popolazione presa di mira ai peggiori luoghi comuni. Ciò banalizza l’antisemitismo reale, per cui quando viene evidenziata questa forma di fanatismo la risposta potrebbe essere il rifiuto di credere a una accusa simile.

Pertanto confondere il sionismo con l’ebraismo non contribuisce per niente a fa sì che il popolo ebraico sia più sicuro contro affermazioni razziste. Anzi, come sostiene la petizione,

quanti alimentano l’antisemitismo in rete continueranno a farlo, con o senza la parola “sionista”. Di fatto molti antisemiti, soprattutto tra i suprematisti bianchi e i cristiano-sionisti evangelici appoggiano esplicitamente il sionismo e Israele, impegnandosi nel contempo in discorsi e azioni che disumanizzano, insultano e isolano il popolo ebraico.”

Cosa altrettanto grave, opporsi all’iniziativa di Facebook solo sulla base della libertà di parola mette al centro i valori occidentali, mentre sono in effetti i palestinesi che sono privati dei loro diritti sotto l’occupazione [israeliana].

Ovviamente la libertà di sostenere la causa palestinese senza timore di intimidazioni da parte di organizzazioni sioniste o di rappresaglie da parte del governo è una questione importante. Nel passato il fatto di essersi concentrati sulla libertà di parola è stata una tattica da parte di gruppi progressisti che volevano coinvolgere un pubblico più ampio. Tuttavia ciò pone al centro preoccupazioni dei gruppi dominanti dei Paesi centrali, il nostro diritto alla libertà di parola, mentre ai palestinesi vengono negati nella loro vita quotidiana diritti molto più significativi.

Questo tentativo di soffocare l’antisionismo è parte di un modello emergente da parte di Israele e dei suoi sostenitori, ma finora ciò è stato limitato a censurare discussioni riguardo al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) sulla base dell’effettivo successo della campagna. Tuttavia pare che i tentativi di criminalizzare il discorso si siano estesi fino ad includere qualunque critica alle pratiche sioniste.

Secondo la petizione di JVP, questi tentativi “proibirebbero ai palestinesi di condividere con il resto del mondo le proprie esperienze e storie quotidiane, che sia una foto con le chiavi della casa persa dai loro nonni quando vennero attaccati da milizie sioniste nel 1948 o siano immagini in diretta di coloni sionisti che vandalizzano i loro ulivi nel 2021. E ciò impedirebbe agli utenti ebrei di discutere del proprio rapporto con l’ideologia politica sionista.”

Il fatto che Facebook ceda o meno alle pressioni,” nota Friedman, dipenderà da “se l’opinione pubblica, ebrea e non, finalmente riconoscerà che timori riguardo all’ antisemitismo sono sfruttati per favorire una ristretta agenda politica e ideologica mettendo a rischio la libertà di parola su Israele/Palestina e, di conseguenza, il discorso politico in generale.”

In base alla definizione di Steven Salaita [docente universitario statunitense licenziato per i suoi tweet contro sionismo e Israele, ndtr.], l’antisionismo è “una politica e un discorso, a volte una vocazione, al suo massimo anche una sensibilità, in sintonia con il disordine e la sovversione. È un impegno per possibilità inimmaginabili, cioè realizzare quello che agli arbitri di buon senso piace definire ‘impossibile.’”

Rimproverando quanti equiparano l’antisemitismo all’antisionismo, Salaita afferma che “(l’antisionismo) si oppone ad ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo. Questo principio di per sé condanna il sionismo.”

Se più persone abbandonassero la politica del “possibile” a favore dell’appello di Salaita, se più persone non solo firmassero la petizione di JVP ma organizzassero anche proteste davanti alle sedi locali di Amazon, sarebbe possibile far sentire la loro voce.

Oltretutto rovesciare la situazione utilizzando lo stesso mezzo di comunicazione che minaccia di censurare l’antisionismo per rendere edotta l’opinione pubblica della situazione dell’occupazione potrebbe portare proprio a ciò che i sionisti temono di più: uno Stato laico con diritti uguali per tutti.

Benay Blend ha ottenuto il dottorato in Studi Americani presso l’università del Nuovo Messico. Il suo lavoro di studiosa include: ‘Situated Knowledge’ in the Works of Palestinian and Native American Writers” [‘Saperi contestualizzati’ nel lavoro di scrittori palestinesi e nativi americani] (2017) in “’Neither Homeland Nor Exile are Words’” [Nè Patria né Esilio sono parole], curato da Douglas Vakoch e Sam Mickey.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In Germania l’antisemitismo è in aumento: quello di destra

Ali Abunimah

15 febbraio 2021 – Electronic Intifada

L’estrema destra tedesca è responsabile dell’aumento di episodi di antisemitismo e aggressioni contro musulmani e persone immigrate.

La polizia ha registrato un incremento degli incidenti di antisemitismo in Germania lo scorso anno.

Ma, contrariamente ai tentativi della lobby israeliana di incolpare i musulmani, la sinistra e il movimento di solidarietà con la Palestina, il fenomeno è originato quasi esclusivamente dalla destra.

La scorsa settimana il giornale Der Tagesspiegel [giornale più venduto a Berlino, ndtr.] ha informato che nel 2020 la polizia tedesca ha registrato 2.275 rapporti riguardanti episodi di antisemitismo, più di ogni altro anno dal 2001. Ciò include 55 delitti di violenza. I dati del 2020 rappresentano un incremento dell’11% rispetto all’anno precedente.

Eppure, nonostante il fatto che la polizia sia stata in grado di identificare quasi 1.400 sospetti, ci sono stati solo 5 arresti.

I dati sono stati forniti dal governo federale in risposta a un’interpellanza parlamentare da parte di Petra Pau, deputata di sinistra.

Più di 1.300 rapporti sono stati catalogati in base alle sospette motivazioni politiche dell’incidente.

Il quadro fornito dalle statistiche è chiarissimo: 1.247 sono stati definiti di destra; 9 di sinistra; 18 come “di ideologia straniera” e 20 motivati dalla religione. Altri 39 incidenti non si sono potuti classificare.

In base a queste cifre il 94% degli episodi di antisemitismo è stato motivato da ragioni politiche di destra.

Questi dati giungono mentre ci sono crescenti preoccupazione di infiltrazioni neonaziste nelle forze di polizia e nell’esercito tedesco.

Accusa fuorviante

Ciò contrasta con l’idea diffusa dalle associazioni della lobby israeliana che intendono mettere sotto accusa in modo fuorviante i sostenitori dei diritti dei palestinesi, così come le comunità musulmane e immigrate.

Questi avvertimenti sono stati evidenti dopo che nel 2015 la Germania ha iniziato ad accogliere centinaia di migliaia di rifugiati siriani e da altri Paesi.

Josef Schuster, presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, un’organizzazione comunitaria e un gruppo della lobby filoisraeliana, ha affermato che “molti dei rifugiati stanno scappando dal terrorismo dello Stato Islamico e vogliono vivere in pace e libertà, ma nel contempo arrivano da culture in cui l’odio e l’intolleranza verso gli ebrei ne sono parte integrante.”

E lo scorso anno il Congresso Ebraico Europeo ha pubblicato un rapporto stilato insieme a ricercatori dell’università di Tel Aviv in cui si attira l’attenzione sull’allarmante numero di aggressioni contro ebrei da parte di neonazisti e suprematisti bianchi nel 2019 e all’inizio del 2020.

Gli autori del rapporto non hanno potuto celare la realtà per cui la stragrande maggioranza di questo incremento è originato dall’estrema destra. Eppure il loro rapporto dedica molto spazio ad attaccare il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi e a cercare di associare senza fondamento i suoi sostenitori con l’aumento dell’antisemitismo.

Benché non ci siano prove che l’appoggio ai diritti dei palestinesi abbia alimentato il fanatismo antiebraico, nel documento di 17 pagine il BDS è citato addirittura 24 volte.

Il rapporto afferma anche pretestuosamente che in Germania “l’antisemitismo legato ad Israele, originato principalmente da studenti e personale musulmano, è già stato reso accettabile tra studenti e insegnanti.”

Questa narrazione falsa si è fatta strada anche nella destra americana, dove sostenitori di Israele, come Jonathan Tobin della National Review [quindicinale di destra, ndtr.], hanno cercato di scagionare l’estrema destra tedesca dall’accusa di essere antisemita.

Nel 2019 Tobin ha affermato che in Germania “la recente ondata di immigrati da Paesi musulmani e arabi ha creato un nuovo e vasto elettorato a favore dell’odio antiebraico.”

Ha anche lodato Alternativa per la Germania [AfD], un partito di estrema destra che include molti nazisti, perché “ha rotto con la sua tradizione affermando di sostenere Israele.”

Il tentativo di accusare i musulmani dell’antisemitismo tedesco nasconde come l’antisemitismo di destra derivi dallo stesso razzismo violento e reazionario che prende di mira i musulmani e gli immigrati.

Nel febbraio 2020 un estremista di destra si è messo a sparare all’impazzata nella città di Hanau. Ha preso di mira due shisha bar [locali in cui si fuma il narghilé, ndtr.] frequentati da membri della comunità turca in Germania e da altre comunità di immigrati, uccidendo nove persone, tutte di origine immigrata.

Questo è stato solo l’ultimo di una lunga serie di complotti e uccisioni da parte di neonazisti che hanno preso di mira musulmani e immigrati.

Definizione fuorviante di antisemitismo

Benché la destra nazionalista continui ad essere di gran lunga la principale fonte dell’antisemitismo tedesco, i politici concentrano sforzi esorbitanti per reprimere il movimento BDS.

Il loro falso pretesto è che criticare Israele e chiedere che venga chiamato a rispondere dei suoi crimini contro i palestinesi equivalga a odiare gli ebrei.

Questa oziosa e ingannevole equazione è intrinseca alla cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organismo intergovernativo a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] che Israele e la sua lobby stanno sollecitando governi e istituzioni in tutto il mondo ad adottare. Sette degli 11 “esempi” di antisemitismo allegati alla definizione dell’IHRA riguardano le critiche a Israele e al sionismo, la sua razzista ideologia di Stato.

Un manuale recentemente pubblicato dall’UE per promuovere questa definizione contiene menzogne assolute secondo cui alcune proteste riguardanti Israele in Europa sarebbero state motivate da animo antisemita.

Questo manuale è stato stilato di fatto dal RIAS, un ente ufficiale tedesco che pretende di documentare l’antisemitismo.

Attivisti per i diritti umani e sostenitori delle libertà civili hanno respinto questa definizione dell’IHRA, che vedono come uno strumento non per lottare contro il fanatismo ma per censurare l’appoggio ai diritti dei palestinesi.

La scorsa settimana il consiglio accademico dell’University College di Londra ha deciso di annullare [l’adozione della] definizione dell’IHRA e chiedere all’università di sostituirla con un’altra che “salvaguardi la libertà di espressione” e “protegga la libertà accademica”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La legge anti-BDS dell’Arkansas viola il Primo Emendamento, afferma il tribunale

Michael Arria

15 febbraio 2021 Mondoweiss

Con due voti a favore ed uno contrario l’Ottavo Distretto della Corte d’Appello ha dichiarato incostituzionale una legge che proibisce all’Arkansas di lavorare con aziende che boicottino Israele.

L’Arkansas Times ha contestato con successo una normativa che proibisce allo Stato di avere rapporti di affari con aziende che boicottano Israele.

Il settimanale di Little Rock [capitale dell’Arkansas, ndtr], che aveva intentato la causa legale nel 2018, era rappresentato dall’ACLU [American Civil Liberties Union, organizzazione non governativa USA per la difesa dei diritti civili che ha giocato un ruolo importante nell’evoluzione del diritto costituzionale USA, ndtr]. Pur non avendo adottato alcuna posizione ufficiale sul BDS, il periodico aveva intrapreso questa battaglia legale in seguito al rifiuto da parte del Pulaski Technical College dell’Università dell’Arkansas di firmare un contratto pubblicitario con l’Arkansas Times se questo non avesse sottoscritto l’impegno (a non boicottare Israele, ndtr). L’istanza era stata respinta da un giudice distrettuale nel 2019, ma la settimana scorsa l’Ottavo Distretto della Corte d’Appello ha sentenziato con due voti a favore ed uno contrario che la legge è incostituzionale.

“Siamo entusiasti per la decisione della Corte, che sostiene il diritto fondamentale a partecipare a campagne politiche di boicottaggio,”, ha dichiarato il legale dell’ACLU Brian Hauss. “Il governo non può obbligare a scegliere se mantenere le proprie fonti di reddito oppure i diritti garantiti dal Primo Emendamento, che è esattamente ciò che fa questa legge. I boicottaggi politici sono una forma legittima di protesta nonviolenta, protetti dal Primo Emendamento.”

Sulla stessa scia la dichiarazione di Nihad Awad, direttore generale del CAIR [Council on American-Islamic Relations, gruppo musulmano per i diritti civili in USA, ndtr]. “Questa sentenza federale rappresenta un momento cruciale nella lotta per la protezione della libertà di parola qui negli USA e per la promozione dei diritti umani all’estero,” ha affermato. “Dall’Arizona al Texas fino all’Arkansas numerosi tribunali cominciano a riconoscere ciò che è ovvio: gli Stati non possono chiedere né a soggetti individuali né ad aziende di sottoscrivere l’impegno a sostenere lo Stato di Israele come condizione per poter lavorare con il governo di uno Stato dell’Unione.”

Leslie Rutledge, Procuratore Generale dell’Arkansas, ha invece espresso la sua frustrazione per la sentenza. “Il Procuratore Generale è delusa per la decisione dell’Ottavo Distretto. Tale decisione interferisce con la legge dell’Arkansas che proibisce la discriminazione contro Israele, importante alleato degli USA,” ha dichiarato all’Associated Press un portavoce dell’Ufficio del Procuratore.

Nella stessa giornata della sentenza in Arkansas, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu attaccava il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite per avere pubblicato la lista delle aziende che operano nei Territori Occupati. Nella sua dichiarazione Netanyahu ha ammesso che Israele promuove norme anti-BDS all’interno degli USA: “Negli anni recenti abbiamo promosso leggi nella maggioranza degli Stati dell’Unione che stabiliscono che si debbano adottare misure forti contro chiunque cerchi di boicottare Israele.”

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Artisti come me vengono censurati in Germania perché sosteniamo i diritti dei palestinesi

 Brian Eno

4 febbraio 2021  The Guardian

Una risoluzione parlamentare del 2019 ha avuto un effetto raggelante sui critici della politica israeliana. Adesso il settore culturale si fa sentire.

Sono solo uno dei tanti artisti che sono stati colpiti da un nuovo Maccartismo che ha preso piede in un clima crescente di intolleranza in Germania. La romanziera  Kamila Shamsie, il poeta Kae Tempest, i musicisti Young Fathers e il rapper Talib Kwelli, l’artista visuale Walid Raad e il filosofo Achille Mbembe * sono tra gli artisti, accademici, curatori e altri che sono stati coinvolti in un sistema di interrogatori politici, liste nere ed esclusione che è ormai diffuso in Germania grazie all’approvazione di una risoluzione parlamentare del 2019. In definitiva, si tratta di prendere di mira i critici della politica israeliana nei confronti dei palestinesi.

Recentemente, una mostra delle mie opere d’arte è stata cancellata nelle sue fasi iniziali perché sostengo il movimento non-violento, guidato dai palestinesi, per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS). La cancellazione non è mai stata dichiarata pubblicamente, ma a quanto mi risulta, è stata la conseguenza del timore di operatori culturali in Germania che loro e la loro istituzione sarebbero stati puniti per aver promosso qualcuno etichettato come “antisemita”. Così funziona la tirannia: creare una situazione in cui le persone siano abbastanza spaventate da tenere la bocca chiusa e l’autocensura farà il resto.

Ma poiché la mia storia è relativamente minore, vorrei parlarvi della mia amica, la musicista Nirit Sommerfeld.

Nirit è nata in Israele e cresciuta in Germania, e da tutta la vita mantiene il suo legame con entrambi i luoghi, inclusa la sua famiglia allargata in Israele. Come artista, si occupa da più di 20 anni in canzoni, testi e performance del rapporto tra tedeschi, israeliani e palestinesi, dedicando tutti i suoi spettacoli alla comprensione internazionale e interreligiosa.

Eppure ora Nirit si ritrova impedita nello svolgere liberamente il suo lavoro culturale. Nel considerare la sua domanda di finanziamento artistico, i funzionari statali hanno detto a Nirit che dovevano controllare il suo lavoro; quando ha cercato di prenotare un luogo per un suo concerto a Monaco, la sua città natale, le è stato detto dagli organizzatori che lo spettacolo sarebbe stato cancellato a meno che non avesse confermato per iscritto che non avrebbe espresso alcun “sostegno per il contenuto, l’argomento e gli obiettivi” della campagna BDS. È stata ripetutamente bersaglio di campagne diffamatorie.

Perché è successo?

Perché ha parlato di ciò che ha visto con i suoi occhi: le leggi razziste di Israele contro i suoi stessi cittadini che sono palestinesi; i posti di blocco militari israeliani, le demolizioni di case, il muro di separazione, l’accaparramento delle terre, l’incarcerazione di bambini e i soldati israeliani che umiliano e uccidono palestinesi di tutte le età. È stata testimone dell’uso illegale di bombe al fosforo contro Gaza e dell’indifferenza – nella migliore delle ipotesi – di molti nella società israeliana.

Ho chiesto a Nirit come si sente riguardo a questa situazione: “Dopo essere tornata per due anni a Tel Aviv e molte visite nei territori palestinesi occupati, ho capito che Israele non è all’altezza dei suoi elevati standard morali che dichiara. La lezione appresa dall’Olocausto è stata ‘Mai più!’ Ma è inteso solo per proteggere noi ebrei? Per me ‘Mai più!’ Deve includere ‘mai più razzismo, oppressione, pulizia etnica ovunque – così come mai più antisemitismo’. “

La musica di Nirit celebra il suo passato e presente ebraico attraverso il canto. In qualità di artista, il cui nonno è stato assassinato nel genocidio nazista, trova “profondamente inquietante” il fatto di essere soggetta alla censura e al maccartismo inquisitorio da parte di funzionari e istituzioni pubbliche tedesche.

Secondo Nirit, “quando i difensori di Israele insistono sul fatto che queste politiche di occupazione e di apartheid sono fatte a nome di tutti gli ebrei nel mondo, alimentano l’antisemitismo. La lotta all’antisemitismo non dovrebbe e non può essere fatta demonizzando la lotta per i diritti dei palestinesi “.

L’esperienza di Nirit è un esempio della situazione kafkiana in cui siamo scivolati: una donna ebrea, il cui lavoro è incentrato sulla storia, la memoria, la giustizia, la pace e la comprensione, falsamente accusata di antisemitismo dalle istituzioni tedesche. L’assurdità dell’accusa rende chiara una cosa: non si tratta affatto di antisemitismo, ma di limitare la nostra libertà di discutere la situazione politica e umanitaria in Israele e Palestina.

Allora come si è verificata questa situazione?

Nel 2019 in Germania è stata approvata una risoluzione parlamentare vagamente formulata non vincolante, che falsamente equipara il movimento BDS all’antisemitismo. In un breve lasso di tempo, questa risoluzione ha aperto la strada a un’atmosfera di paranoia, alimentata da disinformazione e opportunismo politico.

Il BDS è un movimento pacifico che mira a fare pressione su Israele affinché ponga fine alle sue violazioni dei diritti umani palestinesi e rispetti il ​​diritto internazionale. È modellato sui precedenti del movimento per i diritti civili degli Stati Uniti e, soprattutto, del movimento contro l’apartheid in Sud Africa. Si rivolge alla complicità con un regime ingiusto e prende di mira le istituzioni, non gli individui o l’identità. Il BDS avverte la coscienza pubblica di uno status quo insostenibile e profondamente ingiusto e mobilita l’azione per porre fine a qualsiasi coinvolgimento nel sostenerlo.

Eppure i direttori di festival, coloro che fanno programmazione e istituzioni interamente finanziate con fondi pubblici stanno sottoponendo gli artisti a test politici, controllando se hanno mai criticato la politica israeliana. Questo sistema di sorveglianza e autocensura è nato perché le istituzioni culturali si trovano sotto attacco da parte di gruppi anti-palestinesi quando invitano un artista o accademico che ritiene inaccettabile per loro la visione dell’occupazione israeliana.

Per fare un esempio tra i tanti, il direttore del Museo ebraico di Berlino, Peter Schäfer, è stato costretto a rassegnare le dimissioni dopo che il museo ha twittato il collegamento a un articolo su un giornale tedesco relativo ad una lettera aperta di 240 studiosi ebrei e israeliani, inclusi i massimi esperti di antisemitismo, che era critico nei confronti della risoluzione anti-BDS.

Ma ora, con una mossa senza precedenti, i rappresentanti di 32 delle principali istituzioni culturali tedesche, incluso l’ Istituto Goethe, si sono espressi insieme, manifestando allarme per la repressione delle voci critiche e delle minoranze in Germania a seguito della risoluzione anti-BDS del parlamento.

La loro dichiarazione congiunta afferma: “Invocando questa risoluzione, le accuse di antisemitismo vengono utilizzate in modo improprio per mettere a tacere voci importanti e distorcere le posizioni critiche”. Pochi giorni dopo, più di 1.000 artisti e accademici hanno firmato una lettera aperta a sostegno della protesta delle istituzioni culturali.

In un momento in cui le eredità coloniali sono sempre più messe in discussione, discutere di questo particolare esempio di colonialismo in corso sta invece diventando tabù. Ma non è mai stato più urgente: la situazione per i palestinesi che vivono sotto l’apartheid e l’occupazione peggiora di settimana in settimana.

Dovremmo essere tutti allarmati da questo nuovo maccartismo. Gli artisti, come tutti i cittadini, devono essere liberi di parlare apertamente e intraprendere azioni significative, inclusi boicottaggi su questioni di principio, contro i sistemi di ingiustizia. Se lasciato incontrastato, il silenziamento del dissenso e l’emarginazione dei gruppi minoritari non si fermerà ai palestinesi e a coloro che li sostengono.

Brian Eno è un musicista, artista, compositore e produttore

Traduzione di Flavia Donati

da Palestinaculturalibertà




Come i media reprimono le critiche contro Israele

Nathan J. Robinson

10 febbraio 2021 – Current Affairs

Sono stato licenziato da giornalista dopo che ho ironizzato sull’aiuto militare USA a Israele su una rete sociale

È ampiamente riconosciuto che chi critica Israele, indipendentemente da quanto fondate siano le sue argomentazioni, è regolarmente punito sia da istituzioni pubbliche che private per quello che ha detto. L’American Civil Liberties Union [Unione Americana per le Libertà Civili, [ong USA impegnata a difendere la libertà di parola, ndtr.] (ACLU) ha documentato un modello per cui “quelli che intendono protestare, boicottare o criticare in altro modo il governo israeliano sono stati messi a tacere,” una tendenza che “si manifesta nei campus universitari, nei contratti statali e persino in leggi per cambiare il codice penale federale” e “sopprime il diritto di parola solo contro una parte della disputa su Israele/Palestina.” Il Center for Constitutional Rights [Centro per i Diritti Costituzionali, ong USA per il patrocinio legale, ndtr.] ha dimostrato che “organizzazioni, università, soggetti pubblici e altre istituzioni che appoggiano Israele” hanno preso di mira attivisti filo-palestinesi con una serie di tattiche “compresi la cancellazione di eventi, denunce giudiziarie senza fondamento, azioni disciplinari amministrative, licenziamenti e accuse false e provocatorie di terrorismo e antisemitismo” e conclude che c’è una “eccezione palestinese per quanto riguarda la libertà di parola.”

A volte, il tentativo di far tacere le critiche contro Israele ha preso la forma di esplicite azioni governative, c’è un’aperta campagna di criminalizzazione dei discorsi che criticano Israele e alcuni Stati hanno persino chiesto a dipendenti pubblici l’impegno a non boicottare Israele. Ma, come ha notato il giornalista israeliano Gideon Levy su Middle East Eye, ciò si è spesso manifestato nella forma di accuse senza fondamento (e offensive) in base alle quali le critiche a Israele sono per definizione antisemite. Negli Stati Uniti le critiche accademiche contro Israele hanno avuto come risultato la rescissione di offerte di lavoro o hanno impedito di insegnare, e la CNN [nota rete televisiva USA, ndtr.] ha licenziato il docente universitario Marc Lamont Hill per un appello a favore della liberazione della Palestina. In Gran Bretagna, c’è stata una assurda campagna durata un anno per calunniare in quanto antisemita l’ex segretario del partito Laburista (e critico verso le politiche del governo israeliano) Jeremy Corbyn. Human Rights Watch [importante ong per i diritti umani, ndtr.] ha evidenziato che il governo degli Stati Uniti ha scagliato accuse infondate di antisemitismo contro questa e altre organizzazioni per i diritti umani, come Amnesty e Oxfam, che hanno denunciato i pessimi dati di Israele in materia di diritti umani. All’interno di Israele, il diritto di parola dei palestinesi è brutalmente represso e persino gli ebrei che sostengono i diritti dei palestinesi sono regolarmente vessati dallo Stato. Lo scorso anno Abeer Alnajjar di OpenDemocracy [sito web di discussione di politica internazionale e cultura, ndtr.] ha scritto di come “i principali mezzi di comunicazione siano molto sensibili contro qualunque riferimento ai diritti dei palestinesi o alle leggi internazionali, e contro ogni critica a Israele o alle sue politiche.”

Personalmente non ho mai riflettuto sulla questione se potessi subire conseguenze per aver criticato il governo di Israele (e l’appoggio USA nei suoi confronti). Ho goduto di tutta la “libertà di parola” che si può avere in questo mondo. Tuttavia forse ci avrei dovuto pensare un po’ di più, perché, appena ho superato una linea invisibile, ciò mi è diventato subito chiaro. Appena ho dato fastidio ai difensori di Israele su una rete sociale, sono stato licenziato in tronco dal mio lavoro di editorialista.

Ho scritto per Guardian-USA dal 2017, prima come collaboratore e poi come editorialista a pieno titolo. Scrivo quasi esclusivamente di politica USA. Non ho mai scritto su Israele. Il mio caporedattore è sempre stato soddisfatto del mio lavoro, per cui ho continuato a ottenere richieste di articoli. Sono bravo a pubblicare rapidamente commenti politici acuti, con buone fonti e che richiedono poche modifiche. Per quanto posso ricordare, solo una volta un mio articolo è stato corretto, ed è successo quando ho criticato Joe Biden sui legami di Hunter Biden [figlio dell’attuale presidente USA, ndtr.] con casi di corruzione.

Ecco il contesto del mio licenziamento. Alla fine di dicembre il Congresso ha autorizzato un nuovo pacchetto di aiuti finanziari per il COVID. Nel contempo, ha anche approvato altri 500 milioni di dollari di aiuti militari a Israele. Per molto tempo Israele è stato uno dei maggiori beneficiari di aiuto militare USA, superato negli ultimi anni solo dall’Afghanistan (benché non come quantità di dollari pro-capite). Secondo il Servizio Ricerche del Congresso, è il “maggiore percettore complessivo dell’assistenza estera degli USA dalla Seconda Guerra Mondiale,” e l’aiuto USA rappresenta circa il 20% del bilancio israeliano per la difesa. Ecco una cartina del 2015 ripresa dalla CNN

È stato sconfortante vedere che, mentre il Congresso stava concedendo al popolo americano un aiuto troppo ridotto per il COVID, dava all’esercito più tecnologicamente avanzato al mondo altri missili da crociera. I difensori dell’accordo hanno evidenziato che tecnicamente i soldi a Israele per comprare armi non facevano parte della stessa legge sugli aiuti per il COVID, ma di una legge per stanziamenti approvata contemporaneamente, che è una valida risposta a quanti affermavano che il denaro era “parte della legge per gli aiuti contro il COVID”, ma ciò non giustifica affatto la spesa.

Personalmente ero allibito e depresso di vedere nuovi finanziamenti per missili israeliani approvati contemporaneamente a scarsissimi aiuti per il COVID. Israele è una potenza nucleare (una cosa che ufficialmente non conferma né smentisce, ma generalmente gli esperti la considerano vera e Benjamin Netanyahu una volta inavvertitamente l’ha ammesso). Ha un dominio praticamente totale sui palestinesi. Gli abbiamo già dato talmente tanti aiuti militari che non ne ha bisogno. Perché, durante la pandemia, il Congresso dirotta soldi per nuovi sistemi missilistici?

Sono, con mia grande vergogna, discretamente attivo su Twitter, così ho manifestato la mia rabbia con un tweet ironico. Sarcasticamente ho scritto due tweet collegati: (1) “Sapete che il Congresso non è in realtà autorizzato ad approvare nessuna nuova spesa finché una parte di essa non è destinata a comprare armi per Israele? Questa è la legge.” (2) “o se non proprio una legge scritta, comunque è talmente radicata nel costume politico da essere per il suo funzionamento indistinguibile da una legge.” Ovviamente il primo tweet era ironico (cosa comune su Twitter), ma per essere assolutamente sicuro che nessuno pensasse che fosse una sorta di legge realmente esistente, ho aggiunto un secondo tweet per rendere chiarissimo che stavo scherzando, che era al 100% una battuta, che non ci fosse posto per un’interpretazione errata riguardo a questa battuta. Non leggo le risposte su Twitter perché sono regolarmente piene solo di cose sgradevoli e non mi piace mettermi a discutere. Ma un collega mi ha detto che alcune persone mi avevano definito “antisemita”.

Mi sono messo a ridere perché era chiaramente assurdo, un esempio che più fumettistico non si può di una critica legittima definita fanatismo. Avevo solo evidenziato il fatto, assolutamente veritiero, che noi inviamo grandi quantità di aiuti militari a Israele, che noi privilegiamo con un appoggio speciale persino durante una pandemia. Una volta Nancy Pelosi ha detto: “Se Washington crollasse al suolo l’ultima cosa che resterebbe è il nostro appoggio a Israele,” e io le credo. Una volta Joe Biden ha detto che se non ci fosse Israele gli USA “dovrebbero inventarselo” per proteggere i nostri interessi. Come ha notato in un rapporto il Servizio Ricerche del Congresso, gli USA sono direttamente impegnati in un rapporto speciale con Israele che lo aiuterà a conservare una “superiorità militare qualitativa” su altri Paesi. Che Israele abbia un accesso prioritario alla tecnologia bellica USA è una politica esplicita del governo USA.

Quando twitti, soprattutto riguardo a qualcosa di discutibile, puoi aspettarti che qualcuno si arrabbi e ti insulti. Non avevo la minima idea di quanto rapidamente sarei stato licenziato.

Più tardi quel giorno ho ricevuto una mail da John Mulholland, direttore del Guardian USA. In precedenza non avevo mai ricevuto un messaggio da lui, dato che la maggior parte dei miei contatti con il Guardian passano dal caporedattore che si occupa del mio lavoro. Non lo citerò, perché è una persona corretta e non vorrei danneggiare la sua situazione. L’oggetto del messaggio di Mulholland era “privato e riservato”. Lo riproduco qui per intero:

Ciao Nathan.

Dato che tu ti presenti in parte come editorialista del Guardian permettimi di esprimere la mia preoccupazione quando fai un’affermazione come la seguente [link al tweet di Robinson, ndtr.]. Una legge simile non esiste, nel qual caso questa è, per così dire, una fake news, a prescindere dal successivo tweet in cui tu affermi che essa è “indistinguibile da una legge.” Non è una legge. Punto.

Dati i discorsi sconsiderati dell’anno scorso, e oltre, su come mitici “gruppi/associazioni ebraiche” detengano il potere su ogni forma di vita pubblica negli USA, non capisco come ciò possa contribuire al dibattito pubblico. E non capisco perché prendere di mira l’aiuto finanziario a Israele in un tweet e fuori da ogni contesto – senza parlare anche dell’aiuto ora o in passato ad altri Paesi– sia un utile contributo al dibattito pubblico.

Ovviamente sei libero di utilizzare Twitter in qualunque modo tu decida, ma mi sgomenta che qualcuno che si presenta come editorialista del Guardian possa fare un’affermazione così chiaramente sbagliata senza, come ho osservato, alcuna contestualizzazione/giustificazione.

Affermare che l’unico Stato ebraico controlla il Paese più potente al mondo è chiaramente antisemita. Il mito del ‘potere ebraico’ segnala un odio letale. Cancella e chiedi scusa.”

Ora, alcune cose dovrebbero colpirvi. Primo, il fatto che l’oggetto del messaggio di Mulholland sia “privato e riservato” significa che non voleva che altre persone sapessero quello che mi stava dicendo. Avrebbe preferito che le sue parole rimanessero segrete. L’avebbe preferito, ma definire una mail come privata è una richiesta, non un obbligo giuridico.

Secondo, la sua affermazione che il mio tweet sia una “fake news” che potrebbe ingannare delle persone è chiaramente senza senso. Il sarcasmo, come ho detto, è normale su Twitter e, nell’eventualità che qualcuno fosse così ottuso da credere che non stessi scherzando e che ogni nuova spesa richiedesse un nuovo aiuto a Israele, ho incluso un tweet allegato chiarendolo. Non c’è assolutamente nessuna possibilità che Mulholland mi mandasse questo messaggio se l’argomento non fosse stato Israele. Il suo problema non era che abbia utilizzato l’ironia. Se avessi detto “negli USA c’è una legge che impone al Congresso di approvare una legge di spesa solo se contiene una grande somma di inutili sprechi (non una vera legge, ma in pratica c’è),” nessuna persona ragionevole avrebbe potuto pensare che sarebbe stato richiamato dal direttore del Guardian.

No, questo è stato un pretesto. Il grosso problema è stato, come ho detto, che io avrei preso di mira l’unico Stato ebraico, criticandolo senza notare l’aiuto ricevuto da altri Stati. La sua mail sembra citare alla fine qualcuno che lo ha definito antisemitismo, benché non sia chiaro da dove sia ricavata la citazione.

Ciò che risultava chiaramente dal messaggio è che Mulholland era molto incazzato. Come ho detto, l’accusa è assurda:, non sono stato io ad aver privilegiato Israele, ma la politica USA! Io ho solo evidenziato che ciò è quello che facciamo e che lo facciamo intenzionalmente, perché crediamo che Israele abbia un particolare diritto a un “vantaggio militare qualitativo” che i suoi vicini non hanno. Ma ho rapidamente percepito che il mio lavoro poteva essere in pericolo. Così ho cancellato il tweet ed ho risposto a Mulholland scusandomi per aver fatto una cosa che potesse essere interpretato come compromettente per il giornale. Ho bisogno del mio stipendio, e, benché fosse profondamente frustrante per me che il Guardian sindacasse sui miei tweet, a malincuore mi sono reso conto che avrei dovuto accettare i nuovi limiti che mi aspettavo sarebbero stati posti al mio discorso pubblico. Sapevo che la censura sarebbe stata irritante, ma sembrava inevitabile e speravo che sarebbe stata limitata. Lavoro precario significa che il datore di lavoro esercita un potere coercitivo sulla libertà di parola dei dipendenti, anche fuori dal lavoro, e io, come chiunque altro, ho l’affitto da pagare.

Mulholland mi ha risposto, affermando che apprezzava le mie scuse e suggeriva di lasciarci alle spalle l’incidente. Il mio capo redattore mi ha scritto chiedendo informazioni sui tweet, affermando che il Guardian era dispiaciuto, ma mi ha detto di non preoccuparmi. L’ho interpretato come se ciò significasse che finché avessi tenuto la bocca chiusa riguardo a Israele su Twitter, il Guardian avrebbe continuato a pubblicare i miei articoli su altri argomenti. Un ignobile compromesso, sicuramente, che retrospettivamente non avrei dovuto neppure prendere in considerazione. È difficile giustificare il fatto di stare zitto riguardo all’aiuto militare degli Stati Uniti a un Paese che viola i diritti umani, solo perché hai bisogno di uno stipendio, ma chi scrive e dipende da quello che guadagna scrivendo deve affrontare scelte difficili quando il padrone ti dice quali opinioni hai il diritto di avere in pubblico. Eppure sul momento ho conservato la speranza che ci fosse un modo per cui avrei potuto continuare a scrivere. Mi sono detto che avrei fatto del mio meglio per affermare ciò che penso in modo onesto senza incorrere nella censura editoriale, benché temessi ciò che avrebbe potuto comportare.

Ma poi è successa una cosa strana. Nelle settimane successive il mio capo-redattore ha curiosamente smesso di comunicare con me. Gli ho mandato suggerimenti su suggerimenti per nuovi articoli. Nessuna risposta. Eppure avevo avuto la promessa che avrebbero parlato presto con me, senza conseguenze. Era molto strano, perché l’anno prima mi aveva sempre chiamato chiedendomi nuovo materiale per gli articoli. Improvvisamente, silenzio totale.

Finalmente lunedì 8 [febbraio] ho ricevuto una chiamata da lui. Mi ha detto che avrebbero voluto pubblicare i miei articoli, ma che le cose con Mulholland per il momento lo avevano reso impossibile e che dovevano avere un colloquio con lui per chiarire la situazione. Ho cercato ancora una volta di essere accomodante, ho detto che mi sarei adeguato alle nuove regole e che sarei stato felice di parlare con Mulholland per discutere delle sue aspettative.

Ormai era chiaro che mi stavano esplicitamente censurando per aver mandato un tweet critico nei confronti di Israele. Il mio capo-redattore ha chiarito che, se non fosse stato per il tweet, avrebbero accettato le mie proposte di articoli. Le garanzie di Mulholland, secondo cui chi scrive per il Guardian ha la “libertà” di esprimere le proprie opinioni erano chiaramente false. Sei libero, ma se te la prendi con Israele i tuoi suggerimenti finiscono nel cestino. Il mio editore lo ha ammesso esplicitamente con me, affermando che il rifiuto delle mie proposte di articoli era il diretto risultato del tweet.

Ma ho scoperto di non essere stato ignorato solo temporaneamente. Martedì il mio capo-redattore mi ha chiamato e mi ha detto che, dopo una conversazione con Mulholland, si era deciso di eliminare definitivamente la mia rubrica. Ho chiesto se sarebbe stato possibile per me parlare con Mulholland e trovare una soluzione. Il mio capo-redattore mi ha risposto di no e che Mulholland aveva deciso che il giornale non avrebbe più lavorato con me in futuro, intendendo che non dovessi neppure perdere tempo a mandare bozze di articoli occasionali come freelance. Hanno offerto di pagarmi due articoli come “liquidazione” che non avrebbe coperto lo stipendio di un mese. Non c’è stato neppure il tentativo di criticare il mio lavoro; in effetti il capo-redattore ha affermato esplicitamente che i miei suggerimenti per gli articoli sarebbero stati accettati se Mulholland non si fosse risentito per il mio tweet. Ciò mi è stato detto molto chiaramente: il tuo tweet su Israele ha fatto arrabbiare il direttore. Ora sei licenziato. Non farti più vedere.

*    *    *

Essere licenziato è orribile, soprattutto quando ciò avviene senza preavviso nel bel mezzo di una pandemia, quando è difficile trovare lavoro. Non guadagnavo molto dal mio lavoro al giornale (15.000 dollari [circa 12.000 euro] lo scorso anno), ma scrivere di politica a sinistra non è remunerativo e avevo bisogno di quei soldi. Avrei dovuto essere disposto ad accettare un qualche controllo sulle mie reti sociali da parte del Guardian nel disperato tentativo di conservare il mio lavoro. Ma quando si tratta di critiche contro Israele non c’è una seconda opportunità, indipendentemente da quanto sia giustificata la critica e per quanto ciò sia lontano dal vero antisemitismo. Non importa che abbia prontamente cancellato le mie parole. Hai superato il limite, sei fuori. Non è a causa di una vasta cospirazione, ma di una politica in base la quale un alleato degli Stati Uniti è considerato al di sopra di ogni critica (anche l’Arabia Saudita è spesso esente da critiche).

Il Guardian è probabilmente il più “progressista” tra igiornali importanti degli Stati Uniti, quindi in base al suo modo di fare c’è parecchio da parlare dei limiti riguardanti il discorso su Israele. Il giornale non è di destra e pubblica critiche contro Israele, che sicuramente porterebbe a dimostrazione del suo impegno a favore del libero dibattito. Non sto sostenendo che il Guardian non dia mai voce alle critiche contro Israele o alla politica USA nei confronti di Israele, ma che vuole controllare attentamente le affermazioni dei propri giornalisti sull’argomento ed essere sicuro che dicano solo quello che i direttori del giornale ritengono accettabile.

Oltretutto è chiaro che il Guardian non vuole che si sappia che censurerà i post sulle reti sociali dei suoi giornalisti riguardo a Israele. Mulholland non vuole che racconti a qualcuno quello che mi ha detto. Vuole sottolineare che io ero assolutamente libero di dire quello che volevo. Nessuno mi ha dato una serie di direttive su quello che potevo o non potevo dire, perché ciò sarebbe stato un esplicito riconoscimento che i giornalisti non sono liberi, che devono rispettare una certa direttiva riguardo a Israele e scrivere solo quello che è approvato dalla linea editoriale. Ho chiesto esplicitamente linee guida riguardo a cosa potessi o non potessi dire, ma, mentre il Guardian ha linee guida aziendali sul design e sullo stile, non ha un codice formale riguardo al contenuto, ne ha solo uno non scritto.

A lungo ho criticato quanti dipingono la sinistra come un gruppo di guerrieri totalitari “con una cultura della censura” che cercano di soffocare la libertà di parola. Questa immagine è l’esatto contrario. Reazionari e fanatici hanno in genere a disposizione grandi megafoni. D’altra parte attivisti del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) agiscono sotto la minaccia di denunce penali. Sono assolutamente a favore della libertà di parola, sia per ragioni di principio che pratiche, ma ho criticato alcuni dei discorsi a favore della libertà di parola che trattano la sinistra come la principale minaccia e non citano il modo in cui chi critica Israele possa essere licenziato per i propri discorsi. Per esempio, la lettera aperta della rivista Harper [storico mensile USA di cultura, politica e arte, ndtr.] a favore di un dibattito libero e aperto esprime nobili sentimenti, ma sembra più preoccupata della minaccia alla giustizia sociale che di quella agli attivisti filopalestinesi.

Il Guardian non è obbligato ad assumermi come editorialista, benché io sia un ottimo editorialista. Essendo io stesso direttore di una rivista, non pubblico tutti i punti di vista. Siamo selettivi. Facciamo delle scelte editoriali. Questa è una nostra prerogativa (benché io non pensi di avere mai criticato un giornalista per qualcosa che abbia twittato nel tempo libero e offrirei ai giornalisti la massima libertà d’azione con i loro tweet prima ancora di considerare che affermazioni sulle reti sociali possano compromettere l’assunzione di un giornalista da parte di Current Affairs). Non penso che il New York Times sbagli a dire di non voler pubblicare editoriali che chiedono la repressione militare contro i dissidenti. Non penso che una casa editrice debba pubblicare qualunque libro. Se la posizione del Guardian è che i suoi opinionisti possono avere solo una gamma limitata di opinioni o debbano essere controllati molto attentamente perché non la violino, pazienza. Il defunto antropologo David Graeber, un tempo collaboratore fisso del giornale, negli ultimi anni di vita si è rifiutato di averci a che fare affermando che il Guardian utilizzava la presenza di collaboratori di sinistra come copertura per portare avanti le sue pretestuose accuse di antisemitismo contro il partito Laburista di Jeremy Corbyn, e più di un critico ha affermato che il Guardian ha cinicamente brandito l’antisemitismo per difendere l’ala centrista del Labour contro la sinistra).

Ma ammettiamo che il Guardian abbia ragione riguardo a quello che fa e alle posizioni ideologiche che pretende dai suoi giornalisti. Ammettiamo che gli abbonati e i lettori del Guardian sappiano che se gli editorialisti del giornale oltrepassano il limite verranno licenziati, il che significa che i lettori non ascoltano necessariamente le opinioni che ascolterebbero se il giornale non esercitasse un controllo attivo sull’opinione degli editorialisti. A un certo punto il mio capo-redattore mi ha detto che il giornale considera quello che gli editorialisti dicono sui media sociali un continuo problema e sta cercando di trovare un modo per risolvere la questione. Suppongo che effettivamente sia difficile, perché il Guardian vuole avere il diritto di licenziare le persone se dicono qualcosa di sbagliato, continuando nel contempo a sostenere di non fare una cosa del genere e mantenendo la disciplina con mail “private e riservate” invece di stendere un vademecum.

In ogni caso sono fortunato. Ho la mia rivista, sulla quale posso parlare in modo assolutamente libero, dovendo rendere conto solo ai nostri abbonati. Se non avessi un modesto stipendio da un’altra parte, perdere questo reddito sarebbe ancora più disastroso. Ho molti dubbi che, considerando che ora sono stato licenziato da un quotidiano per presunto antisemitismo, sarò assunto da un altro giornale. Devo augurarmi che Current Affairs continui a sopravvivere. Non è sicuro. Siamo una piccola rivista indipendente finanziata esclusivamente dagli abbonati e da piccoli donatori. Invece il Guardian è finanziato da una grande fondazione con un contributo di 1 miliardo di sterline [1 miliardo 14 milioni di euro, ndtr.].

Ho notato che molte persone che sono esplicitamente a favore della libertà di parola hanno poco da dire quando chi critica Israele deve affrontare conseguenze professionali. Eppure il mio caso è relativamente banale e l’attenzione dovrebbe concentrarsi sui palestinesi che sono stati massacrati e mutilati dalle aggressioni dell’esercito israeliano. Le vite di questi palestinesi non valgono assolutamente niente per quanti hanno manifestato più indignazione riguardo al mio tweet che al concreto uso dei sistemi d’arma che stiamo vendendo a Israele.

Il vero problema con la censura ai danni di chi critica Israele è che rende più facile al governo di quel Paese continuare ad assassinare manifestanti e a mantenere un blocco che, secondo le Nazioni Unite, “nega fondamentali diritti umani contravvenendo alle leggi internazionali e che rappresenta una punizione collettiva.” Nel 2018 centinaia di palestinesi, compresi minori e medici, sono stati colpiti da cecchini israeliani durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno – secondo Middle East Monitor “in un solo giorno, il 14 maggio, l’esercito israeliano ha colpito e ucciso sette minorenni” e oltre 1.000 manifestanti sono stati colpiti da proiettili veri – ma Israele non ha mai dovuto renderne conto e gli Stati Uniti continuano a rifornirlo di armi.

Spero tuttavia che si possa vedere esattamente come funziona la repressione delle critiche a Israele. Dici la cosa sbagliata, perdi il posto. Non hai una seconda possibilità. Sarai tacciato di antisemitismo e perderai il tuo lavoro da un giorno all’altro. Questa è una delle ragioni fondamentali per cui Israele continua a cavarsela nonostante commetta crimini orribili. Parlare onestamente e francamente dei fatti rischia di portare a una immediata censura. Le violazioni dei diritti umani continuano impunemente. E quando i cecchini israeliani prendono di mira i minori palestinesi, il Guardian è suo complice.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La responsabile dell’UE sull’antisemitismo mente in modo sfacciato

Ali Abunimah

22 gennaio 2021- Electronic Intifada

Questa è una vicenda che rivela come funzionari dell’Unione Europea eludano le proprie responsabilità quando vengono colti ad aver mentito sfacciatamente a favore di Israele.

All’inizio di questa settimana ho scritto riguardo alla grande vittoria giudiziaria per i sostenitori dei diritti dei palestinesi in Spagna. Nel 2015 attivisti del gruppo BDS-País Valencià [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni-Paese Valenziano] hanno chiesto a un festival musicale di cancellare l’esibizione di Matthew Paul Miller, cantante che usa il nome d’arte Matisyahu, per le sue dichiarazioni anti palestinesi e per aver contribuito a promuovere una raccolta fondi a favore dell’esercito di occupazione israeliano.

Questo mese un tribunale di Valencia ha smentito le accuse di delitto d’odio contro gli attivisti. I giudici hanno stabilito che essi avevano contestato la presenza di Miller al festival solo a causa delle sue presunte opinioni sulla politica israeliana, “non in quanto ebreo, per la sua religione o qualunque altra condizione.”

Il tribunale spagnolo ha anche confermato la storica sentenza di giugno della Corte Europea per i Diritti Umani, secondo la quale chiedere il boicottaggio di Israele a causa dei suoi crimini contro i palestinesi non è antisemita ed è una forma di manifestazione politica tutelata dalla legge.

Benché fin dall’inizio i fatti relativi all’incidente in Spagna fossero chiari, la recente sentenza è una totale discolpa degli attivisti da parte di giudici imparziali.

Eppure negli ultimi anni l’Unione Europea ha calunniato gli attivisti, sostenendo falsamente che essi avevano contestato Miller perché ebreo.

Questa falsa accusa di antisemitismo è stata fatta da Katharina von Schnurbein, coordinatrice dell’UE per l’antisemitismo, durante una conferenza del 2019 per la presentazione di un rapporto del governo israeliano che calunniava il movimento di solidarietà con i palestinesi.

Ciò viene ripetuto in un manuale dell’UE recentemente pubblicato che accoglie la cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, organizzazione intergovernativa per il ricordo dell’Olocausto, ndtr.].

Questa definizione fuorviante, sostenuta da Israele e dalla sua lobby, confonde le critiche al razzismo e ai crimini di guerra israeliani contro i palestinesi da una parte con il fanatismo antiebraico dall’altra.

Evasività

Mentre stavo scrivendo il mio articolo, ho inviato una mail a von Schnurbein chiedendole se avrebbe ritrattato le false accuse che aveva fatto riguardo all’incidente del 2015 con Matisyahu.

La risposta è arrivata dopo che avevo già pubblicato il mio articolo, ma non dalla stessa Schnurbein.

Mi ha scritto invece Christian Wigand, un portavoce della Commissione Europea, il potere esecutivo dell’UE:

Non commentiamo le sentenze dei tribunali dei nostri Stati membri. Per quanto riguarda la posizione sul movimento BDS della Commissione, e di fatto dell’Unione Europea, che è stata ripetuta durante l’evento che lei cita dalla nostra coordinatrice, la signora von Schnurbein, la nostra posizione è molto chiara e non è cambiata.”

Devo riconoscere a Wigand il magistrale esempio di evasività burocratica, ma non molto più di questo. Non avevo chiesto un commento sulla sentenza del tribunale in sé, ma se von Schnurbein continuasse a sostenere le sue stesse affermazioni che stravolgevano in modo grossolano l’incidente di Matisyahu del 2015. Né avevo chiesto la posizione dell’UE sul movimento BDS, Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni [contro Israele, ndtr.].

La saccente von Schnurbein

Tuttavia, benché non volessi un commento sulla decisione del tribunale, l’ultima persona che possa sostenere di non parlare di tali argomenti è Katharina von Schnurbein.

Come dimostra la sua pagina twitter, von Schnurbein ha regolarmente commentato casi giudiziari, alcuni dei quali mentre erano ancora in corso.

In almeno un esempio ha pubblicamente chiesto che le procure locali perseguissero persone per discorsi d’odio.

Ha anche manifestato le proprie opinioni su decisioni della Corte Europea per i Diritti Umani, che fa parte del Consiglio d’Europa, un’istituzione separata dalla UE.

La saccentissima von Schnurbein commenta regolarmente anche decisioni di governi e parlamenti di Stati membri dell’UE e delle loro autorità locali.

È stata anche rimproverata per aver criticato pubblicamente un membro eletto del Parlamento Europeo, una palese violazione della neutralità che dovrebbe osservare in quanto funzionaria civile non eletta.

Perciò l’affermazione secondo cui von Schnurbein, a cui la mia richiesta era originariamente diretta, non commenta procedimenti giudiziari è una menzogna, detta nel tentativo di evitare di dover rendere conto di una precedente menzogna.

Ho risposto al portavoce dell’UE Wigand affrontando questi argomenti. Gli ho detto che ho fatto una domanda diretta e vorrei una risposta diretta che non ricorra a scuse o sviamenti.

Katharina von Schnurbein conferma la sua affermazione secondo cui le proteste contro Miller erano motivate da intenti antisemiti?

Dato che non ho ricevuto ulteriori risposte, prendo questo silenzio come se significasse che l’UE e la sua coordinatrice per l’antisemitismo in effetti confermano le sue affermazioni diffamatorie contro gli attivisti spagnoli.

I cittadini degli Stati dell’UE meriterebbero qualcosa di meglio che essere minacciati, calunniati e ingannati da burocrati di Bruxelles che sembrano rispondere solo a Israele e alla sua lobby.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il lavoratore Abdulfatah Obayat torturato e picchiato a morte da coloni di Gilo

StoptheWall

17 gennaio 2021 – Chronicle de Palestine

NB. L’articolo di Stop the Wall è del 18 dicembre 2020

I coloni israeliani hanno torturato e picchiato a morte un operaio palestinese sul luogo di lavoro nell’illegale colonia israeliana di Gilo. Il corpo di Abdulfatah Obayat è stato ritrovato mercoledì scorso, 16 dicembre 2020, in un edificio della colonia.

La Nuova Federazione Sindacale Palestinese considera questo efferato omicidio una delle forme di brutalità più flagranti a cui sono sottoposti i lavoratori palestinesi nelle imprese israeliane. Facciamo appello all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, alla Confederazione Sindacale Internazionale e ai sindacati perché considerino Israele e le sue imprese responsabili dei loro crimini contro i lavoratori palestinesi.

Appello all’azione

Abdulfatah Obayat, un padre trentasettenne originario di Betlemme, è stato trovato morto mercoledì in un edificio della colonia illegale di Gilo. Prima di venire ucciso, Obayat è stato crudelmente torturato da una banda di coloni israeliani fanatici.

Quando ha appreso la notizia della morte di Obayat, la sua famiglia ha pubblicato la dichiarazione che segue:

Abdulfatah è stato martirizzato dopo essere stato brutalmente aggredito da un gruppo di coloni mentre lavorava nella colonia di Gilo. Il corpo di Abdulfatah è stato ritrovato in un edificio: presentava tracce di colpi e aveva una corda attorno al collo.

Quando i coloni l’hanno ucciso, Abdulfatah non faceva altro che guadagnarsi da vivere.”

Mohammed al-Blaidi, segretario generale della Nuova Federazione Sindacale Palestinese, ha commentato in questo modo l’inumana uccisione di Obayat:

L’uccisione di Obayat si iscrive nel contesto della sistematica discriminazione eretta a sistema contro i lavoratori palestinesi nelle imprese israeliane. I nostri lavoratori subiscono regolarmente atti violenti di pestaggio e uccisione, sia da parte delle forze di occupazione israeliane che dei coloni. I maltrattamenti dei lavoratori palestinesi da parte di datori di lavoro israeliani sono un’altra forma di brutalità nei loro confronti, soprattutto in quanto non beneficiano di alcuna protezione con condizioni di lavoro disastrose e pericolose.

Dopo lo scoppio della pandemia COVID-19 gli imprenditori israeliani hanno arbitrariamente licenziato migliaia di lavoratori palestinesi negando in modo totale i loro diritti. Sfortunatamente, nel contesto di queste gravi violazioni dei loro diritti umani, non c’è un reale e concreto sostegno ai diritti dei nostri lavoratori. Facciamo appello ai sindacati di tutto il mondo perché considerino Israele responsabile di ciò boicottandolo e sanzionandolo.”

I coloni israeliani e le forze di occupazione torturano e assassinano impunemente i palestinesi. Il regime di apartheid di Israele, che sottomette i palestinesi al proprio sistema giudiziario discriminatorio, non punisce i crimini commessi dai coloni e dai soldati contro i lavoratori palestinesi.

In questa situazione di apartheid e di colonizzazione, considerare Israele responsabile delle sue continue violazioni dei diritti dei nostri lavoratori nelle imprese israeliane è un obbligo delle organizzazioni che difendono i diritti dei lavoratori in tutto il mondo.

Chiediamo immediatamente all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, alla Conferenza Sindacale Internazionale e ai sindacati di tutto il mondo di considerare Israele responsabile, unendosi al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), guidato dai palestinesi, e facendo una pressione efficace e urgente sui propri governi perché agiscano:

(1) dichiarando Israele Stato che pratica l’apartheid in base alla definizione della Convenzione delle Nazioni Unite sull’apartheid (1973) e chiedendo la riattivazione della Commissione Speciale delle Nazioni Unite contro l’apartheid.

(2) mettendo al bando i beni e servizi delle colonie israeliane e interrompendo ogni attività con le imprese israeliane e internazionali che operano nelle colonie israeliane e ne ricavano profitto.

(3) garantendo che la banca dati delle Nazioni Unite sulle imprese che svolgono attività legate alle colonie israeliane, pubblicata il 12 febbraio 2020, venga aggiornata e resa pubblica ogni anno in modo trasparente.

Il sistema israeliano di oppressione a tre livelli – apartheid, colonialismo di insediamento e occupazione – è un’impresa economica che si è sviluppata grazie allo sfruttamento di centinaia di migliaia di lavoratori palestinesi.

La decisione di Obayat e di molti altri di lavorare nelle colonie israeliane non è affatto il risultato di una libera scelta. Lo strangolamento dell’economia palestinese e le politiche israeliane che minano ogni sviluppo dell’economia palestinese creano gli alti tassi di disoccupazione e di povertà che obbligano i lavoratori come Obayat a cercare lavoro nelle colonie.

Il fatto di spogliare i palestinesi delle risorse economiche chiave, principalmente le loro terre e le loro risorse idriche, è una delle principali ragioni che li spingono a cercare lavoro nelle colonie israeliane. Senza terra né acqua, non è possibile alcuno sviluppo economico palestinese, né oggi né in futuro.

Per guadagnare da vivere a sé e alla propria famiglia, Obayat ha dovuto lavorare nella colonia di Gilo, edificata sulla terra rubata al suo popolo. Gilo, costruita sulle terre di Beit Jala, Beit Safafa e Sharafat, si trova a sud-ovest di Gerusalemme est.

Creata nel 1971 e attualmente abitata da circa 30.000 coloni illegali, Gilo gioca un ruolo nell’isolamento e nella ghettizzazione di Gerusalemme, in quanto la isola da Betlemme, da Hebron e dal resto della Cisgiordania occupata.

La colonia è stata costruita principalmente su una cava da cui provengono le pietre che i palestinesi hanno utilizzato per costruire numerose strutture a Betlemme e a Gerusalemme. Questa cava rappresentava la principale fonte di reddito per gli abitanti palestinesi della regione.

La colonia di Gilo ha anche ridotto di molto le attività agricole dei contadini di Al Walajeh. Come ogni colonia di questa regione, Gilo ha anche limitato l’accesso dei palestinesi alle risorse naturali, soprattutto all’acqua.

Nel contesto della diffusione della pandemia da COVID-19, Israele ne approfitta per preservare la propria economia sfruttando centinaia di migliaia di lavoratori palestinesi, riducendoli in condizioni di lavoro inumane e gravose.

Lo sfruttamento e i sistematici maltrattamenti dei lavoratori palestinesi prima e dopo la propagazione della pandemia sono un elemento fondamentale dell’apartheid e delle pratiche colonialiste di Israele, che non fanno che prosperare.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Operai palestinesi scioperano in una zona industriale della Cisgiordania

Danny Zaken

14 gennaio 2021 – Al-Monitor

Gli operai palestinesi della Yamit stanno scioperando per ottenere il loro primo consistente aumento salariale in decenni.

La storia delle fabbriche israeliane nelle zone industriali in Cisgiordania in cui vige un’ambiguità legale ha risvolti economici e politici e la crisi da coronavirus ne ha evidenziato le dinamiche nel momento in cui i palestinesi lottano per l’uguaglianza salariare con gli israeliani.

Ogni giorno entrano in Israele circa 80.000 lavoratori palestinesi. Stando ai dati dell’Amministrazione Civile israeliana, un dipartimento del Ministero della Difesa [israeliano] che tiene i collegamenti tra le autorità palestinesi e quelle israeliane, i lavoratori hanno un salario mensile in media di 6.000 shekel [circa €1.500]. Ciò equivale all’incirca al salario minimo per gli israeliani, ma corrisponde a circa quattro volte la media nei territori palestinesi. Altri 30.000 palestinesi lavorano in Cisgiordania, principalmente nelle zone industriali adiacenti alle colonie israeliane. Alcune migliaia sono occupati nell’edilizia. Secondo l’Amministrazione Civile, i salari dei palestinesi che lavorano nelle colonie in Cisgiordania sono solo leggermente inferiori a quelli dei palestinesi che lavorano in Israele, con una media di circa 5.500 shekel [€1.400] al mese. Hanno anche diritto a condizioni e sussidi previsti dalla legge israeliana come pensioni, malattia e vacanze retribuite.

Un funzionario dell’Amministrazione Civile ha detto ad Al-Monitor che nel 2019 i redditi di questi 120.000 lavoratori sono ammontati a più di un quarto del totale delle entrate in Cisgiordania. Quest’anno la cifra è persino maggiore a causa della pandemia che ha devastato l’economia palestinese. Dato che Israele dipende in buona misura dalla forza-lavoro palestinese, soprattutto nell’edilizia, persino durante il picco delle ondate dell’infezione i lavoratori che altrimenti avrebbero dovuto essere in lockdown hanno avuto il permesso di entrare in Israele.

Nel 2007 la Corte Suprema ha deliberato che la legge israeliana si applica ai palestinesi impiegati in Israele e nelle colonie della Cisgiordania. Nove giudici hanno deciso all’unanimità che la nazionalità non poteva essere usata come scusa dai datori di lavoro per offrire loro condizioni che differissero da quelle della controparte israeliana.

La decisione si applica a tutti i palestinesi che lavorano in Israele e nelle colonie. Comunque non vale nella zona industriale di Nitzanei Shalom, che negli anni ’90, subito dopo la firma degli accordi di Oslo, fu costruita vicino alla città palestinese di Tulkarem e lungo la barriera di separazione. La Yamit, che costruisce filtri dell’acqua per uso agricolo e casalingo, si trova in questa zona industriale e perciò non è soggetta alla legge israeliana in generale.

La fabbrica impiega 80 palestinesi che guadagnano mensilmente fra i 5.000 e i 6.000 shekel (1.260-1.500 €). Alcuni vi lavorano da vent’anni o più e ora che hanno una considerevole esperienza professionale vogliono un aumento. Si sono persino organizzati come un sindacato con Maan, l’organizzazione sindacale israeliana.

I negoziati con la fabbrica sono iniziati l’anno scorso, ma, a causa del coronavirus, si sono trascinati per mesi. Alla fine Ofer Talmi, il proprietario, li ha informati che non avrebbe potuto soddisfare le loro richieste a causa della crisi economica conseguente al COVID-19. Ma i lavoratori si sono rifiutati di cedere. Il 31 dicembre 2020 sono scesi in sciopero. Sorpreso, Talmi ha mandato una email di protesta al capo di Maan, Assaf Adiv, dicendo che lui aveva soddisfatto tutti gli obblighi di legge verso i propri lavoratori. Poi ha aggiunto: “La terra di Israele appartiene al popolo ebraico. Quindi non voglio avere dei lavoratori palestinesi con legami di alcun tipo con lo Stato di Israele.” Furiosi per la risposta, gli scioperanti hanno passato la mail ai media palestinesi e israeliani.

Halil Shihab, uno degli scioperanti, dice: “Noi abbiamo lavorato per anni pagati con il minimo salariale. Noi siamo specializzati e prendiamo il minimo. Adesso lui dice che non vuole dare ai suoi dipendenti nemmeno le condizioni di base perché sono arabi, non certo perché non può permetterselo.”

Rendendosi conto dell’enormità del suo errore, Talmi ha diffuso una lettera in arabo in cui si scusava con i suoi lavoratori e li metteva in guardia che se lo sciopero fosse continuato sarebbe stato costretto a chiudere. Ha promesso a ognuno di loro 1.000 shekel [€ 253] se fossero ritornati al lavoro e ha detto che avrebbe ripreso i negoziati sui salari. “Voglio scusarmi e ritrattare quello che ho scritto nella mia mail precedente sul diritto alla Terra di Israele. L’ho scritta in un momento di estrema pressione. … Per me è molto duro vedere chiusi i cancelli della nostra fabbrica perché potrebbe avere serie conseguenze per tutte le nostre vite. Attraversiamo un periodo difficile e lo sciopero ci danneggia tutti. Mette in pericolo la nostra stessa esistenza.”

Secondo i dirigenti della fabbrica, Adiv aveva condiviso la prima lettera con organizzazioni antiisraeliane come il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, che l’ha usata per attaccare Israele. I suoi motivi, loro dicono, erano totalmente politici. Nel frattempo il proprietario della fabbrica dice ad Al-Monitor: “Yamit ha impiegato lavoratori palestinesi per oltre 35 anni. Opera in accordo con la legge e garantisce a tutti vari diritti e indennità, inclusi una paga migliore, pensioni, indennità per malattia e indennizzi. Assaf Adiv di Maan sta usando cinicamente questo momento difficile, sapendo che Yamit, come tante altre fabbriche e industrie in Israele e in tutto il mondo, sta affrontando enormi difficoltà a causa del coronavirus. Questo tentativo di interferire, apparentemente a favore di una o l’altra ideologia, causa un danno enorme a relazioni che altrimenti funzionavano bene, con una effettiva coesistenza che per anni è stata il marchio distintivo di questa fabbrica. ”

Adiv nega le accuse. In una conversazione con Al-Monitor afferma che tutto quello che voleva era ottenere migliori condizioni lavorative per dipendenti con anzianità. Se Talmi avesse dichiarato la sua disponibilità ad aumentare i salari alla fine della crisi, l’intera situazione si sarebbe risolta. Adiv ha anche affermato che nel corso degli anni Talmi, non avendo mai pagato i contribuiti al fondo pensioni dei lavoratori, ha risparmiato milioni.

Ali, un altro operaio, parla con Al-Monitor del conflitto. Chiedendo di non citare il suo cognome, dice: “Sono disposto a perdonare Ofer Talmi, ma lui deve capire che ci meritiamo di più. Se vuole veramente sostenere la coesistenza, che ci faccia vedere come. Poi noi lo aiuteremo a far uscire la fabbrica dalla crisi.” In questo caso il modello della zona industriale potrebbe sopravvivere. Altrimenti potrebbe trovarsi in serio pericolo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Evidentemente non per tutti i minori vale la pena di lottare: razzismo, coscienza e la NSPCC  

Martin Kemp

 

12 gennaio 2021 – Middle East Monitor

 

 

L’Associazione Nazionale per la Prevenzione della Crudeltà contro i Minori (NSPCC), la maggiore ONG per l’infanzia della Gran Bretagna, è al centro di una campagna perché rinunci ai suoi rapporti con JC Bamford Excavators Ltd (JCB), ditta costruttrice di macchinari per l’edilizia, da cui ha ricevuto donazioni per milioni di sterline. I mezzi della JCB vengono usati dalle forze di sicurezza israeliane per distruggere le case dei palestinesi e per costruire insediamenti illegali/colonie nella Cisgiordania occupata. Denunciata nel 2012 in una relazione dell’organizzazione anti-povertà War on Want, nel 2020 la ditta è stata inserita dall’ONU in una lista di aziende implicate in violazioni delle leggi internazionali. In seguito all’esposto di Lawyers for Palestinian Human Rights [Avvocati per i Diritti Umani dei palestinesi, ong britannica, ndtr.] si trova attualmente sotto inchiesta da parte del Dipartimento per il Commercio Internazionale.

 

Non c’è bisogno di essere un esperto per rendersi conto della crudeltà a cui sono sottoposte varie migliaia di minori palestinesi dalla politica israeliana di distruggerne le case, o per immaginare l’estremo stress subito dalle decine di migliaia di famiglie che, ricevuto l’ordine di demolizione, ignorano totalmente quando i bulldozer dell’esercito arriveranno ad eseguirlo. Una ricerca eseguita da  PCC/Save the Children [ong internazionale per la difesa dei diritti dei minori, ndtr.], ad esempio, conferma, ovviamente, che i minori coinvolti rimangono profondamente segnati da tale esperienza.

Non sarebbe sicuramente accettabile che un governo europeo trattasse in questo modo i cittadini di una minoranza etnica. In che modo allora la NSPCC riesce a conciliare la sua missione benefica e gli stretti legami con una azienda simile?

Edward Colston (1636-1721), il mercante di schiavi di Bristol la cui statua è stata abbattuta durante le proteste di Black Lives Matter dello scorso anno, era un cittadino modello: uno stimato mercante che per senso civico finanziava molte opere filantropiche, compresi ricoveri per indigenti, ospedali e scuole per i giovani. Questo pio filantropo, che contribuì a costruire anche chiese, non fece nulla per scandalizzare la società britannica. E tuttavia, per i suoi concittadini antirazzisti del XXI secolo e ormai per il mondo intero, Colston rappresenta il ruolo avuto dalla Gran Bretagna nella corsa genocida per impadronirsi delle ricchezze dell’Africa, i cui costi per la popolazione di quel continente e le cui conseguenze su chi venne deportato e reso schiavo sono impossibili da quantificare.

Per spiegarci l’estrema contraddizione fra umanità e crudeltà che ci rivela il lascito di questo individuo dobbiamo considerare il razzismo anti-nero che prese piede in Gran Bretagna contemporaneamente all’espansione della sua potenza colonizzatrice e schiavizzante. Possiamo dare per scontato che l’amor proprio di Colston fosse garantito dalla convinzione che gli uomini e le donne nere che comprava e vendeva non erano per niente esseri umani, bensì beni mobili proprio come i vini e i tessuti in cui commerciava. La barbarie del bianco veniva proiettata sulle sue vittime, che potevano quindi essere considerate “selvaggi”.

Forse anche Colston avrebbe fatto donazioni alla NSPCC se fosse esistita a quei tempi, e l’equivalente tardo-seicentesco di questa organizzazione benefica, avendo interiorizzato gli stessi presupposti egemonici di Colston, ne avrebbe accettato i soldi senza alcuna remora.

Il razzismo anti-nero è ancora una ferita profonda nella nostra cultura e continua a produrre discriminazione e sofferenza alla popolazione di colore, però viene ormai quasi universalmente considerato una vergognosa aberrazione. Questo non vale, tuttavia, per ogni forma di razzismo. L’accumulazione del capitale, lo sfruttamento della manodopera, l’estrazione delle risorse naturali e persino forme di aperto colonialismo hanno ancora la priorità sui diritti delle popolazioni non-bianche. Esistono ancora specifici gruppi da disumanizzare e demonizzare, che devono essere resi “superflui” per il mondo moderno e la cui esistenza deve venire spinta ai margini della coscienza “bianca”.

L’autorità ufficiale di regolamentazione per le operazioni delle organizzazioni benefiche registrate in Gran Bretagna è la Charity Commission, che fornisce indicazioni per fare in modo che i fondi abbiano provenienza non dubbia e vengano spesi per fini leciti. Lo scopo è evitare il tipo di polemiche in cui venne coinvolta la London School of Economics quando accettò sovvenzioni dal defunto leader libico Mu’ammar Gheddafi.

A fronte delle richieste ricevute affinché rifiuti il denaro ricavato da attività che comportano danni gravi e permanenti per i minori palestinesi, la NSPCC ha replicato che “in conformità con le indicazioni della Charity Commission, la NSPCC ha prodotto linee guida etiche per la raccolta di fondi aziendali che riflettono i nostri valori… e mette in atto procedure efficaci di controllo basate sui criteri approvati dai suoi amministratori fiduciari in relazione alle aziende partners.”

Desta sorpresa che la NSPCC si senta autorizzata a considerare i profitti derivati dalla demolizione delle case, con tutte le crudeltà che ne derivano, alla stregua di denaro pulito? Forse la ragione sta nel fatto che quelle indicazioni consigliano soltanto di rifiutare i fondi “associati a qualsiasi organizzazione che abbia a che fare con la schiavitù, la tratta e il lavoro minorile oppure in cui un direttore o funzionario sia stato condannato per un crimine sessuale.”

In un opuscolo intitolato “Living Our Values” [Nel Rispetto dei Nostri Valori, n.d.tr.], la NSPCC dichiara: “Faremo sentire la nostra voce quando qualcosa non va… Cerchiamo di realizzare cambiamenti culturali, sociali e politici – influenzando legislazione, politica, pratiche e comportamenti e garantendo servizi che vadano a vantaggio di giovani e bambini.”  

Qui la NSPCC riconosce la responsabilità di contestare le regole comuni nel caso in cui esse mettano in pericolo i giovani. Tuttavia, quando si tratta di minori in Paesi lontani, essa suggerisce che le priorità commerciali del governo facciano premio sull’applicazione delle norme morali: “Le attività di esportazione di un’impresa non sono sottoposte al nostro codice deontologico” a meno che non riguardino Paesi “sottoposti formalmente a restrizioni da parte del governo/Dipartimento per il Commercio del Regno Unito.” 

 

Con questo approccio legalistico i funzionari della organizzazione benefica riescono ad eludere la sfida morale insita nel rapporto reciprocamente vantaggioso con JCB. Forse potremmo chiedere perché non si siano consultati invece con i loro omologhi palestinesi (del PCC [Palestinian Counseling Center, ong psicologi, educatori e attivisti di comunità che opera nei territori occupati, ndtr], GCMHP [Gaza Community Mental Health Programme, ong palestinese di operatori della salute mentale che opera a Gaza, ndtr.], DCI [Defence for Children International-Palestine, ong che difende i diritti dei minori, ndtr.] o PTC [Palestine Trauma Center, ong che offre sostegno psicologico a minori, famiglie e persone traumatizzate, ndtr.], per esempio) per scoprire quali siano le conseguenze delle demolizioni di case sulla salute mentale dei minori.

È possibile che lo stesso complesso psicologico-ideologico che permise a Colston di essere al contempo mercante di schiavi e stimato filantropo sia ravvisabile all’interno della NSPCC?

In un recente rapporto alla Assemblea Generale ONU, il professor Nils Melzer, relatore speciale sulla tortura, ha esaminato i meccanismi utilizzati da “perpetratori e spettatori” per giustificare la propria tolleranza alle torture.  Messi di fronte a violazioni inconfutabili dei diritti umani, essi “tendono a sopprimere i dilemmi morali che ne derivano grazie a schemi di negazione e di auto-inganno in gran parte inconsci.” In questi casi il meccanismo ideale è il razzismo, che, proiettando la brutalità dei perpetratori sulle sue vittime, le disumanizza agli occhi dei più forti e le sottrae così al giudizio della coscienza.

 

Il colonialismo delle colonie contiene una “logica di eliminazione”. Come disse l’allora Primo Ministro israeliano Golda Meir, “Non è vero che c’era un popolo palestinese in Palestina, che noi siamo arrivati, lo abbiamo cacciato e gli abbiamo portato via il Paese. Semplicemente non esisteva.”

Questo razzismo di tipo eliminatorio pervade l’intera cultura israeliana e influenza la mentalità dominante all’interno del mondo occidentale. Si può continuare a percepire Israele come una democrazia solo se i palestinesi che vivono senza diritto di voto nella Palestina storica e i profughi nei Paesi vicini non vengono riconosciuti come esseri umani al pari nostro e dei cittadini ebrei di Israele.

 

La mentalità colonialista delle culture metropolitane garantisce che la protezione teoricamente garantita erga omnes dalle leggi internazionali venga applicata invece in modo selettivo. A parole si professa il rispetto per la Convenzione ONU sui Diritti del Minore, ma nei fatti alcuni governi la ignorano impunemente.

È deplorevole che l’impegno della NSPCC nei confronti dei bambini maltrattati venga pregiudicato dalla sua riluttanza ad andare oltre le convenzioni per impegnarsi direttamente a favore dei giovani che vivono nella Palestina occupata. 

 

Comportandosi secondo l’etica dell’attuale capitalismo razziale, i funzionari della NSPCC non sono nè più nè meno malvagi di Edward Colston. Ciascuno a modo suo è rappresentativo del suo periodo storico e del suo milieu sociale, ciascuno riflette la collusione della società britannica con l’illegalità internazionale, nel passato con la schiavitù, oggi con il colonialismo degli insediamenti israeliani.

 

Il fatto che il razzismo anti-palestinese sia così diffuso nella nostra società non autorizza un’organizzazione benefica impegnata nella protezione dei minori che si promuove con lo slogan “vale la pena lottare per ciascun bambino”, ad assecondarne la bieca logica.

Evidentemente, per quanto riguarda la NSPCC, non per tutti i minori vale  la pena di lottare.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero) 




La risoluzione tedesca anti –BDS viola il diritto alla libertà d’espressione

Adri Nieuwhof

8 gennaio 2021 – Electronic Intifada

Alcune istituzioni culturali tedesche hanno criticato la risoluzione del parlamento tedesco contro il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [contro Israele, ndtr.] perché determina una zona d’ombra giuridica e minaccia il diritto alla libertà d’espressione.

La risoluzione del 2019 esorta le istituzioni e le pubbliche autorità tedesche a negare finanziamenti e strutture ad associazioni della società civile che supportino il movimento BDS.

Ma in dicembre importanti istituzioni artistiche ed accademiche tedesche hanno denunciato la risoluzione come “dannosa per la sfera democratica pubblica” e hanno messo in guardia dal suo impatto negativo sul libero scambio di opinioni.

Sempre in dicembre, ciò ha suggerito una ricerca da parte del dipartimento del servizio scientifico del Bundestag, un organismo consultivo del parlamento federale, che è arrivato a una conclusione simile, secondo cui la risoluzione anti-BDS non è giuridicamente vincolante e viola il diritto alla libertà di espressione, difeso dalla Costituzione tedesca.

Esperti dell’ONU, la Lega Araba, la società civile palestinese, artisti, studiosi e attivisti della solidarietà con la Palestina hanno protestato contro la risoluzione tedesca contro il BDS.

L’élite culturale interviene

L’iniziativa “Weltoffenheit GG 5.3” di dicembre da parte di responsabili di importanti istituzioni artistiche e accademiche tedesche, tra cui il Goethe Institute, il Museo Ebraico di Hohenems [comune austriaco, ndtr.], l’Humboldt Forum [museo berlinese, ndtr.] e il Centro per la Ricerca sull’ Anti-Semitismo dell’Università Tecnica [politecnico, ndtr.] di Berlino, ha visto intervenire nella contesa l’élite culturale tedesca.

Con questa iniziativa le istituzioni si sono unite per segnalare il clima nocivo determinato dalla risoluzione anti-BDS che impedisce la libertà di parola.

Weltoffenheit si può approssimativamente tradurre come “apertura al mondo”, e GG5.3 fa riferimento all’articolo della costituzione tedesca sulla libertà di opinione nelle arti e a livello accademico.

Durante una conferenza stampa dell’11 dicembre i responsabili delle istituzioni coinvolte hanno rivelato che a causa della risoluzione temono sempre più le conseguenze di lavorare con artisti o intellettuali che sono a favore del BDS o come tali sono percepiti.

L’iniziativa ha specificamente citato come esempio le calunnie di antisemitismo contro il professor Achille Mbembe, noto a livello internazionale.

Il filosofo camerunense era stato invitato a fare il discorso d’apertura del Ruhrtriennale Festival di Bochum [rassegna triennale di arte e cultura della Ruhr, ndtr.], ma i responsabili del festival hanno subito pressioni da politici perché ritirassero l’invito allo studioso africano a causa del suo presunto antisemitismo, per le critiche delle politiche israeliane.

Il festival è stato di fatto annullato in seguito alla pandemia di COVID-19.

Le preoccupazioni dell’élite culturale sono appoggiate da oltre 1.400 firme racconte da una lettera aperta di un gruppo di artisti internazionali e tedeschi in Germania o che lavorano con istituzioni tedesche.

Entrambe le iniziative contribuiscono a un intenso dibattito pubblico, che alla fine ha spinto il responsabile tedesco per l’antisemitismo Felix Klein a suggerire l’idea di chiedere al dipartimento per il servizio giuridico del parlamento tedesco un parere consultivo sull’argomento.

Klein è indicato come la persona che ha sollecitato la risoluzione anti-BDS, che equipara quest’ultimo all’antisemitismo e si basa sulla controversa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [organizzazione intergovernativa a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] (IHRA), “un grande segno di solidarietà con Israele.”

Opinione degli esperti: dare priorità al diritto alla libertà di parola

Il rapporto dell’organismo di consulenza dei servizi scientifici del parlamento non ha affrontato il modo in cui la definizione di antisemitismo dell’IHRA, la base della risoluzione anti-BDS, viene utilizzata per mettere a tacere e calunniare i palestinesi e i loro sostenitori.

Ma il rapporto ha confermato l’affermazione dell’iniziativa Weltoffenheit, secondo cui la risoluzione non è giuridicamente vincolante: è un’opinione politica.

Il parere dell’esperto afferma che, come legge, la risoluzione sarebbe una limitazione anticostituzionale del diritto alla libertà di espressione, che è protetta dalla costituzione tedesca.

Il rapporto ha rappresentato un rimprovero nei confronti dell’esperto berlinese di antisemitismo, il professor Samuel Salzborn, che in precedenza aveva sostenuto di essere “irritato e infastidito” dall’appello dell’élite culturale tedesca.

D’altronde Salzborn aveva molto tempo fa svelato le sue tendenze antipalestinesi quando aveva twittato di essersi sentito a disagio su un treno perché “la gente vicino a te inizia a parlare di ‘Palestina’ senza nessuna ragione apparente,” un tweet accompagnato dall’ hashtag, #anti-Semitism.

Spazio per voci palestinesi?

La Germania ha una consistente comunità di circa 250.000 persone di origine palestinese, 40.000 delle quali a Berlino.

Ma molti di loro affermano di aver paura di criticare Israele o l’occupazione israeliana.

Molti giovani palestinesi non osano impegnarsi,” ha detto al quotidiano tedesco Tageszeitung [giornale berlinese di estrema sinistra, ndtr.] l’ex-presidente di un’organizzazione palestinese che ha voluto rimanere anonimo. “Temono che ciò possa danneggiare la loro carriera professionale.”

L’attivista tedesco palestinese Amir Ali conferma che in Germania i palestinesi hanno paura di parlare liberamente.

Ali è uno dei Bundestag 3 for Palestine [3 del Buntestag per la Palestina] (BT3P) che hanno citato in giudizio il parlamento tedesco per la risoluzione anti-BDS quando è stata emanata.

In un video realizzato come parte di quella campagna parla di come alcuni amici gli hanno chiesto perché è pronto a rischiare il suo futuro personale con un’azione legale.

Lo faccio perché difendere i diritti umani in generale e quelli dei palestinesi in particolare è la cosa giusta da fare… So che in Germania molti palestinesi la pensano così, ma, poiché ciò mette in pericolo il loro futuro, non possono partecipare alla nostra azione legale.”

Majed Abusalama, un attivista palestinese che ha vissuto in Germania negli ultimi 5 anni, ribadisce questa sensazione.

Non c’è alcuno spazio per un palestinese che non faccia il discorso tedesco della soluzione a due Stati, o che citi il BDS,” dice a Electronic Intifada.

La Germania sta andando molto oltre nel traumatizzare la nostra comunità.”

Abusalama è stato uno dei tre militanti denunciati in Germania per aver disturbato all’università di Berlino un evento che ospitava un politico israeliano. Ci sono voluti tre anni perché un tribunale tedesco lo assolvesse.

Nel 2018, a causa della sua partecipazione alla protesta nell’università, è stato inserito in un rapporto dell’agenzia di intelligence interna dello Stato di Berlino nella sezione sull’antisemitismo.

Ciò a sua volta lo ha portato a comparire sul The Jerusalem Post [giornale israeliano di destra in lingua inglese, ndtr.] come “un attivista filo-BDS molto aggressivo”.

Un video dell’intervento di Abusalama all’evento rivela che la descrizione è palesemente inesatta.

Tutta la faccenda lo ha sconfortato.

È stato una grave intimidazione, persecuzione, diffamazione e distruzione della mia immagine, intesa non solo a far tacere me, ma a cancellare ogni segno di attivismo palestinese per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia in Germania,” dice Abusalama.

E più in generale, afferma, “è parte del razzismo antipalestinese in aumento” in Germania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)