Rachel Corrie ha dato la vita per la Palestina

Tom Dale

16 marzo 2024 – Jacobin

In questo giorno nel 2003 l’IDF (esercito israeliano) uccise l’attivista americana Rachel Corrie mentre difendeva le case di Rafah dalla distruzione. Ora che Israele minaccia di invadere questa città un volontario che fu accanto a Rachel scrive della sua eredità – un invito alla ferma solidarietà con i gazawi.

Oggi non c’è nessuna città al mondo più colma di sofferenza e inquietudine di Rafah, addossata al

A partire da metà ottobre le forze Israeliane hanno già spianato la loro strada attraverso Gaza City e Khan Younis, compiendo massacri, distruggendo case e lasciandosi dietro terrore e morte per fame. Più di un milione di palestinesi sono fuggiti a sud a Rafah, facendo aumentare la sua popolazione di sette volte la sua dimensione precedente.

Ma adesso l’obbiettivo di Israele è puntato sulla stessa Rafah, con la minaccia di un’invasione devastante.

Rafah oggi è una città fatta di strutture di tela e plastica quanto di cemento; fredda e spesso fradicia, affamata e devastata. Le malattie si diffondono mentre la gente baratta quel poco cibo di cui dispone con le medicine e le donne strappano pezzi delle tende per usarli come assorbenti. Gli orfani – forse diecimila a Rafah – badano a sé stessi come meglio possono.

L’anno scorso Israele ha lanciato volantini su Khan Younis dicendo ai palestinesi di andare nei “rifugi” a Rafah, per sfuggire al conflitto. Ma là non ci sono rifugi e non c’è stata via di fuga. All’inizio della guerra un amico ha perso 35 membri della sua famiglia estesa in un solo attacco aereo sulla città. In maggioranza erano donne e bambini.

Più frequente degli attacchi a Rafah stessa è il suono dell’eco degli attacchi aerei dal nord, un sinistro avvertimento che il peggio può ancora arrivare.

Il mese scorso il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha sostenuto che rinunciare a invadere Rafah equivarrebbe ad una sconfitta del suo Paese e che ordinerà l’invasione anche se tutti gli ostaggi fossero rilasciati.

Il segretario di stato USA Anthony Blinken ha detto che Washington non sosterrà un’invasione di Rafah in assenza di un “chiaro” piano di protezione dei civili e che non è ancora stato approntato alcun piano. Si dice che i dirigenti israeliani stiano elaborando uno schema per trasferire i palestinesi che sono a Rafah in “isole umanitarie” a nord – dove già scarseggiano cibo e medicinali e la gente è morta di fame.

Il presidente Joe Biden ha detto che un’invasione di Rafah costituirebbe una “linea rossa”, ma non ha ventilato alcuna conseguenza nel caso Israele oltrepassi tale linea rossa, come ne ha oltrepassate tante altre. Netanyahu, come ha già fatto in precedenza, ha risposto sprezzantemente: “Ci andremo. Non li risparmieremo.”

Rasa al suolo, crivellata di proiettili e svuotata”

All’epoca della seconda Intifada, nel 2002-2003, vivevo a Rafah come volontario per l’International Solidarity Movement (ISM), un’organizzazione a guida palestinese che sostiene la resistenza nonviolenta all’occupazione. Tra i miei colleghi c’era Rachel Corrie, una volontaria americana di Olimpia, nello stato di Washington negli Stati Uniti, con uno spassoso senso dell’umorismo che nascondeva la serietà riguardo alla vita – ed al suo scopo – che non avrei del tutto compreso fino a quando lessi i suoi scritti anni dopo. Più tardi si unì al gruppo Tom Hurndall, un talentuoso fotografo che venne colpito alla testa da un cecchino dell’esercito israeliano nell’aprile 2003 e morì l’anno seguente dopo 9 mesi di coma.

Anche allora Rafah fu “rasa al suolo e crivellata di proiettili e svuotata”, come scrisse Rachel in un messaggio ai suoi genitori. Passavamo la maggior parte delle notti nelle case di famiglie vicino al confine con l’Egitto. Israele vi aveva creato una striscia di terra vuota, demolendo case per creare una zona di tiro libero e quindi un vantaggio tattico per le sue truppe posizionate lungo il confine. A volte avvertivano coi megafoni le famiglie di andare via, a volte sparavano nelle case finché le famiglie fuggivano. In ogni momento del giorno o della notte, attraverso demolizioni o no, potevano sparare inondando le case di pallottole.

Non tutti i proiettili sparati contro un muro entravano nell’edificio, ma alcuni sì, specialmente quelli sparati da armi più potenti. Tutti coloro che si trovavano in casa del nostro amico Abu Jamil, compresa Rachel, non poterono non accorgersi, mentre giocavano con i suoi figli, dei fori lasciati dai proiettili che avevano colpito il muro interno ad altezza della testa, sopra il lavello della cucina.

Quando i palestinesi ci chiamavano andavamo ad opporci ai bulldozer armati israeliani che lavoravano lungo la striscia di confine, tenendoli d’occhio e cercando di intervenire se andavano a demolire una casa. Alcune volte li abbiamo rallentati, abbiamo creato impaccio, concedendo a una famiglia qua o là una tregua di qualche giorno o settimana. Forse abbiamo attirato l’attenzione del mondo su quella striscia di terra più frequentemente che se non fossimo stati là. Ma la demolizione andava avanti e il mondo aveva altre preoccupazioni: l’invasione dell’Iraq era imminente.

Il 16 marzo 2003 poco dopo le 17 vidi che uno dei bulldozer di Israele di fabbricazione USA, enorme e imponente, si dirigeva verso la casa del dottor Samir Nasrallah e della sua giovane famiglia. Rachel, amica del dottor Samir, si mise tra il bulldozer e la casa. Mentre il bulldozer si muoveva verso di lei la sua lama iniziò spingere davanti a sé a un monticello di terra. Quando il monticello raggiunse Rachel lei vi si arrampicò, faticando per mantenersi in appoggio sulla terra molle, reggendosi con le mani fin quando la sua testa fu sopra il livello della lama. Il conducente deve averla guardata negli occhi, ma proseguì imperterrito e lei cominciò a perdere l’equilibrio.

Qualche settimana prima di quel giorno Rachel sognò di cadere e lo scrisse sul suo diario:

…cadevo verso la morte da qualcosa di polveroso e liscio e frammentato come le scogliere dello Utah, ma mi sono aggrappata e quando ogni nuovo punto d’appoggio o pezzo di roccia si rompeva io allungavo la mano mentre cadevo e ne afferravo un altro. Non ho avuto il tempo di pensare a niente – solo di reagire…e ho sentito “Non posso morire, non posso morire”, ancora e ancora nella mia testa.

Il terreno sul confine di Rafah, un’irregolare mistura di argilla e terra, ha una tonalità calda non tanto diversa da quella delle scogliere dello Utah. A distanza di anni, come molti degli scritti di Rachel, l’incubo sembra essere stato premonitore.

Benché ci provasse, Rachel non riuscì a mantenere l’equilibrio; il bulldozer avanzò deciso, la travolse, la spinse sotto la terra, la schiacciò. Morì mentre le tenevo le mani nell’ambulanza verso l’ospedale. Nel mio primo resoconto dei fatti, scritto due giorni dopo, specificai che dieci palestinesi erano stati uccisi a Gaza dopo Rachel, senza che lo si sapesse al di fuori dell’enclave stessa.

A parte la mia personale amicizia con Rachel, c’è disagio nel raccontare ciò che è necessario ribadire soprattutto oggi, alla luce della devastazione che Rafah subisce. Parte del nostro obbiettivo, tutti quegli anni addietro, era far risaltare un sistema razzista di violenza e il sistema razzista di narrazione che lo accompagna, al fine di sovvertire quei sistemi stessi. Alcuni potrebbero pensare che un simile tentativo sia sempre stato idealista o che qualunque tentativo di mettere in luce un simile sistema razzista, come il nostro sforzo di attirare lo sguardo internazionale su Gaza, è inevitabile che avvalori quel sistema.

Ciononostante, avendo fatto la mia scelta più di vent’anni fa, mi ritengo impegnato. Ogni qualvolta mi si chiede di parlare di Rachel lo faccio, non solo per onorare un’amica, ma con l’idea che forse la sua storia è un modo per far capire ad alcune persone, lontane dalla Palestina, delle verità più ampie sulla violenza dell’occupazione e sulle politiche che la rendono possibile. E che quelle verità in definitiva ci riportano indietro ai palestinesi e a Rafah. Credo che conducano anche ad altri luoghi.

L’esercito israeliano agisce nella convinzione dell’impunità. Perciò quando un fatto eccezionale, come l’uccisione di un non-palestinese, lascia presagire una resa dei conti, il sistema è poco preparato a rispondere. Il risultato spesso consiste in una serie di stravaganti menzogne. Nel caso di Rachel le autorità evitarono di contestare i dettagli dei nostri testimoni oculari. Sostennero invece che Rachel “si era nascosta dietro un terrapieno” e fu colpita dalla caduta di una lastra di cemento. I nostri fotografi sul posto, sia prima che dopo l’uccisione di Rachel, dimostrarono che lei si trovava in terreno aperto.

Secondo uno schema abituale la risposta ufficiale fu, in ordine approssimativo: non lo abbiamo fatto noi, lo abbiamo fatto ma non è stata colpa nostra, anche se è stata colpa nostra non siamo responsabili e comunque erano dei terroristi. Il comandante dell’esercito nel sud della Striscia di Gaza all’epoca dell’uccisione disse a un tribunale di Haifa, probabilmente con un’espressione seria, che “un’organizzazione terroristica ha inviato Rachel Corrie a intralciare i soldati dell’esercito. Lo dico con conoscenza di causa.” Gli osservatori dell’attuale guerra ricorderanno una serie di analoghe dichiarazioni “categoriche”.

L’impunità di Israele è merce di esportazione americana

I volontari che vanno in luoghi di guerra per stare accanto a chi è in prima linea sono sempre stati il fulcro della tradizione internazionalista. E ciò è vero ancora oggi, sia che accompagnino i pastori e i raccoglitori di olive sulle colline della Cisgiordania, sia che portino rifornimenti ai soldati ucraini sul fronte della guerra con la Russia, o forniscano assistenza medica ai rivoluzionari del Myanmar, o combattano il cosiddetto stato islamico insieme alle Unità di Protezione Popolare nel nordest della Siria. Questi impegni e le persone che li assumono non vanno idealizzati. Ma la profonda solidarietà e relazione che incarnano sono straordinarie.

Però questo genere di cose non è per tutti. E non deve esserlo. La solidarietà dei volontari che si recano in una zona di guerra per stare accanto a chi è in prima linea deve accompagnarsi ad un progetto complementare che cerca di mobilitare la potenza degli Stati – soprattutto degli Stati Uniti – verso gli stessi obbiettivi. E’ qualcosa in cui la maggioranza della gente può essere coinvolta in qualche modo. Nel caso della Palestina comincia con la creazione di sostegno pubblico e pressione politica verso un cessate il fuoco e un’interruzione degli aiuti militari a Israele. Ciò include una pressione incessante nei confronti di Biden e la difesa dei sostenitori del cessate il fuoco nel Congresso da coloro che vogliono punire la loro posizione.

Gli Stati Uniti avallano l’occupazione israeliana attraverso un massiccio aiuto militare e finanziario e ciò significa avallare l’attuale guerra a Gaza. Jeremy Konyndyk, un ex alto funzionario dell’amministrazione Biden, ha detto al Washington Post che l’amministrazione aveva agevolato “un numero straordinario di vendite nel corso di un brevissimo intervallo di tempo, il che suggerisce fortemente che la campagna israeliana non sarebbe stata sostenibile senza questo livello di supporto USA.”

Il risultato, sempre dolorosamente evidente a Rafah, è che l’impunità di Israele è merce di esportazione americana. Ma l’annullamento del sostegno non sarà con tutta probabilità sufficiente. Saranno necessarie sanzioni finalizzate a costringere al riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi. Dovranno andare ben oltre il prendere di mira singoli coloni o i loro sostenitori.

La richiesta di sanzioni è una sfida diretta al principale cardine non dichiarato della politica USA verso Israele. Biden e i suoi subalterni parleranno della necessità di uno Stato palestinese e della necessità per Israele di mostrare moderazione. Ma il loro principio fondamentale, che è stato assoluto per tre decenni ed era predominante nei decenni precedenti, è che Israele non deve mai essere costretto a fare simili concessioni. Israele può essere blandito, lusingato, persuaso e spronato, ma mai obbligato. La conseguenza è che la Palestina è tenuta in permanente stato di eccezione.

Un parente del dottor Nasrallah, il farmacista la cui casa di famiglia Rachel stava difendendo quando fu uccisa, mi ha detto che era come se Rafah fosse stata risucchiata in un “buco nero dove le leggi internazionali non valgono e il mondo non ci può vedere né sentire.”

Descrive quando è tornato a casa un pomeriggio sulla scena di una carneficina, in seguito ad un attacco aereo su un edificio vicino in cui almeno due famiglie sono state interamente spazzate via e un’altra ha perso due bambini. (Gli amici di Nasrallah stanno raccogliendo soldi per aiutarli a mettersi al sicuro.) Un parente che ha chiesto di non rivelare il suo nome ha detto che era ormai normale vedere uomini scoppiare in lacrime al minimo attacco perché indifesi e incapaci di provvedere alle loro mogli o figli. “Stiamo parlando, dice, del labile confine tra la vita e la morte.”

Un’invasione di Rafah, che potrebbe avvenire tra qualche settimana, sarebbe un disastro “oltre ogni immaginazione”, dicono i medici delle Nazioni Unite. Come ha detto Rachel poche settimane prima di essere uccisa: “Penso che per tutti noi sia una buona idea abbandonare tutto e dedicare la nostra vita a far sì che questo abbia fine.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Reportage: un ministro israeliano ha bloccato un carico di farina verso Gaza

Redazione di Middle East Monitor

13 febbraio 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che il ministro ultranazionalista delle Finanze Bezalel Smotrich sta bloccando un carico di farina diretto alla Striscia di Gaza, affermando che le forniture finanziate dagli Stati Uniti sono dirette all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA).

Il carico è stato bloccato per settimane nel porto di Ashdod, nella parte meridionale di Israele, dal momento che Smotrich ha ordinato alle autorità doganali di “non lasciar passare la spedizione fin quando l’UNRWA sia il destinatario,” ha riferito martedì il sito americano di notizie Axios.

I più alti livelli dell’amministrazione Biden hanno ventilato la possibilità della spedizione di farina più di un mese fa, si afferma sul sito, citando funzionari statunitensi e israeliani.

Funzionari statunitensi hanno affermato che questa è una violazione dell’impegno che Benjamin Netanyahu ha personalmente preso con il presidente Biden molte settimane fa ed è un’altra ragione per cui il leader statunitense è deluso dal primo ministro israeliano” ha affermato la testata.

I gabinetti di guerra e di sicurezza israeliani hanno approvato la consegna della farina dal porto di Ashdod attraverso il valico di Kerem Shalom, si afferma sul sito web, citando anonimi funzionari israeliani.

Questi hanno aggiunto che Smotrich ha ordinato ai servizi doganali israeliani di “non lasciar proseguire la spedizione fin quando l’UNRWA è il destinatario.”

Smotrich e gli Stati Uniti non hanno emesso alcuna dichiarazione ufficiale sul rapporto.

Molti Stati, inclusi gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, la Svizzera, l’Italia e il Canada, hanno sospeso i finanziamenti per l’UNRWA in seguito ad accuse israeliane.

L’agenzia delle Nazioni Unite ha affermato che sta indagando su queste accuse.

Israele ha ripetutamente equiparato lo staff dell’UNRWA ai membri di Hamas nel tentativo di discreditarli, senza fornire alcuna prova delle dichiarazioni, mentre ha fatto dure azioni di pressione per chiudere l’UNRWA, dato che è l’unica agenzia ONU ad avere lo specifico mandato di occuparsi dei bisogni elementari dei rifugiati palestinesi. Se l’agenzia non esisterà più, sostiene Israele, allora non esisterà più neppure la questione dei rifugiati e il loro legittimo diritto a tornare alla loro terra è ingiustificato. Israele ha negato il diritto al ritorno fin dagli ultimi anni quaranta, anche se la sua adesione all’ONU è stata condizionata al fatto di permettere ai rifugiati palestinesi di tornare alle loro case e alla loro terra.

La guerra di Israele a Gaza ha spinto l’85% della popolazione del territorio ad una deportazione interna a fronte di gravi carenze di cibo, acqua pulita, e medicine, mentre secondo le Nazioni Unite il 60% dell’infrastruttura dell’enclave è stata danneggiata o distrutta.

Israele viene accusata di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia, che questo gennaio con una sentenza preliminare ha ordinato a Tel Aviv di fermare gli atti di genocidio e di prendere misure per garantire che ai civili a Gaza sia fornita assistenza umanitaria.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Cosa implica per la guerra contro Gaza la sentenza provvisoria della CIG?

Justin Salhani

26 gennaio 2024 – Al Jazeera

Secondo alcuni esperti, se le misure provvisorie della CIG hanno evitato di chiedere un cessate il fuoco, potrebbero rendere più difficile per Israele continuare la guerra.

Venerdì la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso una serie di misure provvisorie che chiedono a Israele di rispettare la convenzione sul genocidio del 1948, consentire l’ingresso a Gaza di più aiuti umanitari e agire contro quanti esprimono affermazioni genocidarie.

La sentenza provvisoria della Corte Internazionale nella causa intentata dal Sudafrica, che accusa Israele di commettere un genocidio a Gaza, ha evitato di ordinare a Israele di sospendere o porre fine alla sua devastante guerra contro Gaza, che dal 7 ottobre ha ucciso più di 26.000 palestinesi nell’enclave.

Ma ha rigettato la tesi di Israele secondo cui la Corte non ha giurisdizione per imporre misure provvisorie e ha evidenziato che le sue conclusioni sono vincolanti.

L’Autorità Palestinese ha accolto positivamente la sentenza: “La decisione della CIG è un importante richiamo al fatto che nessuno Stato è al di sopra della legge e fuori dalla portata della giustizia,” ha affermato in un comunicato il ministro degli Esteri palestinese Riyadh Maliki. “Ciò infrange la radicata cultura israeliana di criminalità e impunità, che ha caratterizzato le sue pluridecennali occupazione, spoliazione, persecuzione e apartheid in Palestina.”

Mentre la Corte di per sé non ha il potere di imporre l’applicazione della sentenza provvisoria, e neppure il verdetto definitivo che emetterà sul caso, secondo alcuni analisti le sue decisioni di venerdì potrebbero influire sulla guerra a Gaza. Nelle scorse settimane sono aumentate le pressioni su Israele e sui suoi sostenitori americani, mentre continuano a guadagnare terreno gli appelli internazionali per un cessate il fuoco.

La sentenza di venerdì non stabilisce se Israele stia commettendo un genocidio, come ha sostenuto il Sudafrica. Ma la giudice Joan Donahue, attuale presidentessa della CIG, annunciando le misure provvisorie ha affermato che la Corte ha concluso che la “situazione catastrofica” a Gaza potrebbe peggiorare ulteriormente durante il periodo che passerà prima del verdetto finale, e ciò richiede misure transitorie.

“La sentenza invia il forte messaggio a Israele che la Corte vede la situazione come molto grave e che Israele dovrebbe fare quello che può per esercitare moderazione nel portare avanti la sua campagna militare,” afferma Michael Becker, docente di diritto internazionale umanitario al Trinity College di Dublino e che è stato anche un giurista associato presso la Corte Internazionale di Giustizia all’Aia dal 2010 al 2014.

La guerra può continuare?

Nei suoi provvedimenti provvisori la CIG non ordina a Israele di interrompere la campagna militare a Gaza. Nella sua richiesta di interventi temporanei il Sudafrica, citando la possibilità di un genocidio a Gaza, aveva sollecitato una decisione per la cessazione immediata.

Nel marzo 2022, un mese dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, la Corte aveva ordinato alla Russia di interrompere la sua guerra in Ucraina, ma Mosca ha ignorato quella sentenza.

Quindi Israele non violerebbe le indicazioni di venerdì della CIG continuando la guerra che, insiste ad affermare, proseguirà finché non avrà distrutto Hamas, il gruppo armato palestinese che il 7 ottobre ha attaccato Israele uccidendo circa 1.200 persone e rapito altre 240.

Tuttavia il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sarà probabilmente più che mai sottoposto a controllo riguardo alle azioni dei suoi soldati a Gaza e alle affermazioni dei suoi leader e generali.

In base alla sentenza della CIG, a Israele viene chiesto di sottoporre un rapporto entro un mese per dimostrare che sta rispettando le misure provvisorie. Il Sudafrica avrà la possibilità di smentire le affermazioni di Israele.

Israele darà seguito alla sentenza della CIG?

Quando, alla fine di dicembre, il Sudafrica ha presentato la sua denuncia alla CIG, i politici israeliani l’hanno liquidata come una “menzogna” e accusato i sudafricani di “ipocrisia”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che Israele non si sarebbe lasciato influenzare da alcuna sentenza.

“Ripristineremo la sicurezza sia a sud che a nord,” ha scritto Netanyahu sulla piattaforma X, ex Twitter, dall’account ufficiale della presidenza del consiglio israeliana. “Nessuno ci fermerà, né l’Aia, né l’asse del male, né altri.”

Ma, anche se Israele decidesse di non rispettare la sentenza della CIG, ci saranno pressioni sui suoi sostenitori internazionali.

“I politici israeliani hanno già detto che ignoreranno l’ordine della CIG,” dice ad Al Jazeera Mark Lattimer, direttore esecutivo del Ceasefire Centre for Civilian Rights [Centro del Cessate il Fuoco per i Diritti dei Civili, ong britannica, ndt.]. “È molto più difficile, soprattutto per gli USA e gli Stati europei, compresa la Gran Bretagna, ignorare l’ingiunzione, perché essi hanno una storia molto più solida di sostegno e supporto alla Corte Internazionale di Giustizia.”

Alcuni giuristi prevedono che gli alleati occidentali di Israele, tra cui gli USA, rispetteranno la sentenza della CIG. Non farlo avrebbe gravi ripercussioni.

Ciò minerebbe la “credibilità dell’ordine internazionale basato sulle regole che gli USA sostengono di difendere,” afferma Lattimer. Aggiunge che ciò “rafforzerà anche una crescente divisione” tra gli USA e i Paesi occidentali nei confronti del Sud globale, che vede con scetticismo questa asserita “difesa dell’ordine internazionale”.

La sentenza accrescerà le pressioni internazionali per un cessate il fuoco?

Mentre la sentenza di per sé non chiede il cessate il fuoco, essa potrebbe rendere più difficile per gli alleati di Israele continuare a ostacolare i tentativi internazionali di porre fine alla guerra.

“La sentenza della CIG accentua notevolmente la pressione sugli USA e gli altri alleati occidentali perché portino avanti una risoluzione per il cessate il fuoco,” dice ad Al Jazeera Zaha Hassan, avvocata per i diritti umani e ricercatrice presso il Carnegie Endowment for International Peace [gruppo di ricerca indipendente sulla pace con sede a Washington, ndt.]. “Ciò rende molto più difficile agli USA, insieme a Israele, far accettare ai governi occidentali, che si preoccupano ancora molto della legittimità internazionale, di continuare a sostenere che a Gaza Israele sta agendo all’interno dei limiti delle leggi internazionali e per autodifesa.”

Alcune prove suggeriscono che lo sa anche Israele. Secondo alcuni esperti, poco dopo che il Sudafrica ha annunciato che avrebbe portato il caso davanti alla CIG, la strategia di Israele sul terreno ha iniziato a cambiare.

C’è stata “una corsa per eliminare ogni possibilità di un ritorno dei palestinesi nel nord di Gaza,” sostiene Hassan, evidenziando i bombardamenti mirati contro università e ospedali. “Una volta che hai tolto di mezzo gli ospedali hai reso impossibile alle persone restare durante una guerra. È parte di una strategia per obbligare la popolazione palestinese a trasferirsi e per uno sfollamento permanente.”

Ma questo dovrebbe essere la consapevolezza del fatto che il tempo a disposizione di Israele per portare avanti la sua campagna militare sta per scadere.

“C’è bisogno di una pressione internazionale sufficiente a creare sostanzialmente più incentivi per negoziare un cessate il fuoco,” afferma Lattimer. “L’ordinanza della CIG è un importante contributo.”

Compagni d’armi

Soprattutto gli USA hanno fornito l’aiuto militare su cui si basa Israele per continuare a condurre la guerra. Il presidente Joe Biden ha eluso il Congresso USA due volte in un mese per dare l’approvazione alla vendita d’emergenza di armi a Israele.

L’amministrazione Biden sostiene di aver chiesto a Israele di proteggere la vita dei civili, ma ciò non gli ha evitato pesanti critiche, anche interne, per non aver convinto Israele a prestare maggiore attenzione alle vite innocenti a Gaza.

“Questa amministrazione è preoccupata del crescente numero di membri del Congresso, soprattutto senatori democratici moderati che stanno dando segnali d’allarme contro l’uso scorretto delle armi americane e la possibile complicità degli USA se continuano a inviare rifornimenti incondizionati a Israele,” dice Hassan.

La sentenza della CIG potrebbe dare maggiore impulso alla promozione di un cessate il fuoco a Gaza e affinchè gli USA insistano per un maggiore livello di controllo quando si tratta delle azioni dell’esercito israeliano.

“Nel momento stesso in cui gli USA diranno ‘Non continueremo più a rifornirvi’ questa guerra contro Gaza finirà,” sostiene Hassan.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Saranno la legge o le considerazioni politiche a influenzare i giudici della Corte Internazionale di Giustizia?

Muhammad Jamil

16 gennaio 2024, Middle East Monitor

Nessuna sentenza però, per quanto giusta, potrà mai ripristinare lo status quo precedente al 1948.

Nessuna causa legale potrà mai abbracciare tutti i dettagli del genocidio al quale il popolo palestinese è sottoposto da più di cento anni. Tutto ebbe inizio con la famigerata Dichiarazione Balfour del 1917, seguita dalla tristemente nota era del mandato britannico, fino alla Nakba del 1948 e alla Naksa del 1967 [letteralmente “la ricaduta”, la seconda diaspora palestinese successiva alla guerra del 1967, ndt.]. Continua ancora oggi con gli eventi nella Striscia di Gaza assediata e bombardata, nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme. Tuttavia, la comparizione di Israele, figlio coloniale e viziato dell’Occidente, per la prima volta davanti al più alto organo giudiziario internazionale come responsabile di almeno alcuni dei suoi crimini, è una vittoria contro l’impunità con cui gli è permesso di agire.

Le migliaia di palestinesi uccisi da Israele nel corso di molti decenni non torneranno mai più in vita; chi è stato reso disabile dovrà conviverci per il resto dei suoi giorni e la Striscia di Gaza avrà bisogno di molti anni, e di miliardi di dollari, per essere di nuovo abitabile.

La causa intentata dal Sudafrica il 29 dicembre presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), pur rappresentando un’anteprima storica, si è concentrata su quello che viene descritto da molti come il genocidio commesso da Israele contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza a partire dal 7 ottobre. Il team legale sudafricano ha fornito una sintesi degli atti criminali di Israele punibili ai sensi della Convenzione sul Genocidio del 1948.

La CIG ha aperto il dibattito l’11 gennaio per decidere se imporre o meno le misure provvisorie richieste dal Sudafrica prima di decidere sul genocidio vero e proprio. Il Sudafrica ha chiesto nove misure provvisorie, sostanzialmente la sospensione delle operazioni militari e la protezione dei civili dalle continue uccisioni, dagli abusi fisici e psicologici e dalle torture e il rifornimento di forniture mediche, cibo e carburante. Le questioni urgenti non possono essere rinviate fino a quando il caso non sarà concluso poiché potrebbero volerci anni, durante i quali Israele avrà completato la sua missione di espellere ogni palestinese dalla Striscia di Gaza.

L’approccio della CIG non richiede una decisione sulla giurisdizione della Corte in merito al contenuto della richiesta. È sufficiente che il Tribunale si assicuri di avere una giurisdizione apparentemente ragionevole, che i requisiti dell’articolo 9 della Convenzione sul Genocidio [che prevede che le controversie siano sottoposte alla Corte su richiesta di una delle parti, ndt.] siano applicati ad entrambe le parti in causa, e che esista una relazione tra le misure provvisorie e il diritto ad essere protetti.

Il primo requisito è soddisfatto poiché il Sud Africa e Israele hanno sottoscritto la Convenzione sul Genocidio e nessuno dei due ha una riserva valida sull’articolo 9, il quale prevede che la Corte Internazionale di Giustizia sia l’autorità che dirime qualsiasi controversia derivante dall’interpretazione, applicazione, o attuazione delle sue disposizioni.

Quanto al secondo requisito, l’articolo 9 prevede che affinché possa essere stabilita la giurisdizione deve esserci una chiara controversia tra le due parti in causa riguardo all’interpretazione, applicazione o attuazione dell’accordo. La controversia deve essere risolta entro la data di registrazione della causa presso la cancelleria del tribunale.

Malcolm Shaw, membro della difesa israeliana, ha cercato di dimostrare che non esisterebbe una controversia tra lo Stato del Sud Africa e Israele, sostenendo che il Sud Africa non ha avviato una corrispondenza bilaterale con Israele esprimendo le sue preoccupazioni per gli atti commessi da Israele ottemperando così alle disposizioni della Convenzione sul Genocidio.

L’argomentazione di Shaw è debole e priva di fondamento, poiché lo Stato del Sud Africa ha svolto un ruolo pionieristico in testa a tutti i Paesi rivelando il profondo conflitto tra Sud Africa e Israele. Oltre alla corrispondenza bilaterale sugli atti di genocidio, ha rilasciato dichiarazioni in cui denunciava i crimini di Israele e ha ritirato i suoi diplomatici da Tel Aviv, dichiarando che non può essere consentito un genocidio sotto il naso della comunità internazionale.

Inoltre, il Sudafrica, insieme a molti altri paesi, ha deferito i crimini commessi alla Corte Penale Internazionale e si è unito ai molti tentativi del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per fermare i crimini che Israele sta commettendo. Le risultanti risoluzioni delle Nazioni Unite sono state criticate da Israele che ha sostenuto che sarebbero piene di odio e antisemite.

Dunque la controversia tra le due parti in causa è stata stabilita sulla base del riferimento della Corte Internazionale di Giustizia alla sua decisione sulle misure provvisorie nel caso Ucraina-Russia e nel caso Gambia-Myanmar. La Corte non si è basata solo sulla corrispondenza bilaterale, ma anche su dati giornalistici e sull’azione dello Stato a tutti i livelli, individualmente o con altri paesi, che hanno evidenziato la violazione delle disposizioni della Convenzione sul Genocidio.

Nella causa sul genocidio dei Rohingya, intentata dal Gambia contro il Myanmar, l’attenzione della Corte si è concentrata sul valore morale che ha spinto gli Stati a ratificare la Convenzione sul Genocidio e sull’impegno collettivo degli Stati a prevenire il genocidio. Pertanto, non è necessario che lo Stato che intenta la causa sia direttamente interessato dai presunti atti di genocidio. A questo proposito, la Corte ha affermato che le pertinenti disposizioni della Convenzione sul Genocidio sono definite come obblighi erga omnes, nel senso che qualsiasi Stato sottoscrittore della Convenzione sul genocidio, non solo lo Stato particolarmente colpito, può invocare la responsabilità di un altro Stato sottoscrittore allo scopo di verificare la presunta inadempienza dei suoi obblighi nei confronti di tutti e di porre fine a tale inadempienza.

La Corte ha debitamente concluso che il Gambia aveva prima facie la legittimazione a denunciare il conflitto con il Myanmar sulla base di presunte violazioni degli obblighi previsti dalla Convenzione sul Genocidio.

Per quanto riguarda l’ultimo requisito, cioè il collegamento tra le nove misure provvisorie richieste dal Sudafrica con i diritti da tutelare, la Corte ha potuto riscontrare che la maggior parte di questi diritti, per la loro natura, sono strettamente legati alle misure provvisorie, in particolare la sospensione delle operazioni di combattimento e il contrasto a qualsiasi atto di genocidio. Logicamente ciò significa che per fermare le uccisioni, la distruzione, gli abusi fisici o psicologici dei membri del gruppo e gli sfollamenti, e consentire il flusso di tutti i tipi di aiuti, è necessario fermare l’azione militare.

Per quanto riguarda l’elemento intenzionale che costituisce il reato di genocidio, quando viene commesso uno qualsiasi degli atti criminalizzati dalla Convenzione sul genocidio “deve esserci una provata intenzione da parte degli autori di distruggere fisicamente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” in tutto o in parte – clausola nota come “intento speciale” che è solitamente difficile da dimostrare. Nei reati ordinari il pubblico ministero deve scavare nella mente del criminale e nelle circostanze del reato per indagare su di esso e dimostrare l’intento previsto dall’accusa.

Sebbene l’intento non sia un elemento importante da dimostrare in questa fase, il Sudafrica ha presentato decine di dichiarazioni di personale militare, ministri e primo ministro israeliani dimostrando la loro tenacia e determinazione nel commettere il crimine di genocidio, rafforzato dalla massiccia quantità di omicidi e distruzione.

Shaw ha cercato piuttosto banalmente di dare poca importanza a queste affermazioni e ne ha data una diversa interpretazione. Tuttavia le azioni, le parole che le hanno supportate e le loro conseguenze dimostrano l’intenzione di Israele di commettere il genocidio.

In generale, quando la Corte considera i fatti e le prove supportati da schiaccianti statistiche, immagini, video e resoconti internazionali, si sentirà titolata rispetto all’esistenza di una sua giurisdizione di principio che le consenta di imporre misure preventive, e la Corte ne garantirà l’attuazione attraverso le misure che impone. Ciò include l’obbligo per Israele di presentare un rapporto entro una settimana dalla data della sentenza in cui spieghi quali azioni ha intrapreso per attuare quelle misure, e poi di presentare rapporti periodici entro un periodo specificato (ad esempio ogni tre mesi) per tutta la durata dell’udienza della causa originale.

Gli argomenti presentati dalla difesa israeliana ignorano e negano i fatti sul campo. Si è trattato semplicemente di una ripetizione delle falsità che abbiamo sentito durante gli oltre 100 giorni di offensiva militare israeliana contro i palestinesi a Gaza. I civili palestinesi e le infrastrutture civili sarebbero tutti militarizzati, compresi ospedali, luoghi di culto, scuole dell’UNRWA e giornalisti. Questo incolpare le vittime dell’aggressione israeliana sostanzialmente contraddice il fatto che la maggior parte dei palestinesi uccisi e feriti da Israele sono bambini e donne. Anche solo questo suggerisce con forza l’esistenza di un piano di sterminio in cui i civili vengono presi di mira deliberatamente.

Sarebbe sufficiente che i giudici valutassero i fatti a loro presentati e verificassero la presenza dei tre requisiti necessari per respingere le richieste di Israele di cancellare il caso dagli atti pubblici e per sostenere l’imposizione di tutte o della maggior parte delle misure provvisorie. Ciò accadrebbe solo se le misure dell’intesa fossero in teoria implementate e se i giudici agissero in modo indipendente senza alcuna influenza da parte dei rispettivi governi – che nominano i giudici della Corte Internazionale di Giustizia – qualunque sia la loro posizione. In altre parole, saranno la legge o le considerazioni politiche a influenzare i giudici?

Resta anche la questione se Israele attuerà la decisione dei giudici se andasse contro gli interessi percepiti dello Stato sionista. Che Israele sia comparso davanti alla Corte e abbia presentato la sua difesa significa che ha riconosciuto l’autorità della Corte Internazionale di Giustizia ed espresso la propria volontà di attenersi alla sua decisione. Per esperienza, però, sappiamo che Israele è abile nell’eludere e manipolare tali decisioni. Non ha remore a violare il diritto internazionale e a trattarlo con disprezzo.

Sembra che coloro che hanno sostenuto Israele nella sua offensiva genocida continueranno a farlo. Sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna hanno criticato la denuncia del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che nella causa la Germania starà dalla parte di Israele. Non sarebbe sorprendente se gli Stati Uniti e il Regno Unito si unissero alla difesa di Israele. Un simile passo aumenterebbe il numero degli imputati responsabili di aver commesso il genocidio, poiché se il genocidio fosse dimostrato questi paesi sarebbero considerati complici.

Altri paesi potrebbero ora essere spinti ad unirsi al Sudafrica e presentare richieste che obblighino gli alleati di Israele a cessare il loro sostegno al genocidio. La Namibia lo ha già fatto, vittima del primo genocidio del XX secolo commesso dalla Germania nel 1904.

La storia verrebbe riscritta per far luce sull’eredità coloniale degli Stati Uniti e dell’Europa, in cui il genocidio delle popolazioni indigene ha avuto un ruolo di rilievo e le cui prove sono schiaccianti e non possono essere negate.

Vorrei esortare tutti i paesi a capire che hanno il dovere di sostenere la causa del Sudafrica con tutti i mezzi possibili. Gli Stati sottoscrittori della Convenzione sulla Prevenzione del Genocidio che non hanno una riserva sull’articolo 9 devono unirsi alla causa per ampliarne la portata e includere tutti i territori palestinesi occupati, poiché anche i crimini commessi dall’occupazione israeliana in Cisgiordania e Gerusalemme devono essere affrontati in base alla Convenzione sul Genocidio.

La priorità, tuttavia, resta quella di fermare con ogni mezzo la barbara aggressione di Israele. Dopo più di 100 giorni, non è più accettabile che 152 paesi dell’ONU siano incapaci di fare qualcosa per affrontare e fermare Israele e i suoi alleati. I Paesi arabi e islamici possono guidare questi tentativi e esserne referenti per salvare ciò che resta della Striscia di Gaza, ma devono smettere di temerne le conseguenze e abbandonare la propria debolezza. Solo allora ci riusciranno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




100 avvocati cileni presentano denuncia alla CPI contro Netanyahu per crimini di guerra a Gaza

Redazione di Palestine Chronicle

9 gennaio 2024, Palestine Chronicle

I ricorrenti, in maggioranza di ascendenza palestinese, chiedono che sia emesso un mandato di arresto contro Netanyahu.

Circa 100 avvocati cileni hanno sporto denuncia presso la Corte Penale Internazionale (CPI) contro il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, accusandolo di commettere crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra a Gaza.

Il Middle East Monitor, citando la Quds Press, ha riferito che la denuncia, presentata all’Aja il 22 dicembre, è stata diretta dall’ex ambasciatore Nelson Hadad.

I querelanti, per la maggior parte di ascendenza palestinese, chiedono che sia spiccato un mandato di arresto contro Netanyahu ed altre persone responsabili di questi presunti crimini, riferisce MEMO.

Hanno evidenziato i bombardamenti indiscriminati di Gaza dal 7 ottobre e la distruzione di interi quartieri residenziali senza far distinzione tra civili e combattenti.

Tutti i Paesi devono denunciare i criminali di guerra, assicurando che vengano ritenuti responsabili, assumano le proprie responsabilità, affrontino la punizione conformemente alle sanzioni dello Statuto di Roma e offrano riparazioni alle vittime”, avrebbe affermato Hadad.

L’obbiettivo dell’istanza è provare che a Gaza si stanno perpetrando genocidio, espulsione forzata, crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario internazionale, conclude il rapporto.

A dicembre il Sudafrica ha presentato alla CIG tutta la documentazione necessaria, formulando accuse di crimini di guerra contro Israele per la sua guerra genocida a Gaza.

Come Sudafrica, insieme a molti altri Paesi del mondo, abbiamo concordemente ritenuto opportuno deferire questa azione dell’intero governo israeliano davanti alla CIG. Abbiamo promosso il deferimento perché riteniamo che là si stiano commettendo crimini di guerra”, ha detto il Presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa.

Ramaphosa ha definito “totalmente inaccettabile” che Israele “si sia fatto giustizia da solo”.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza sono stati uccisi 23.210 palestinesi e feriti 59.167 nel corso del perdurante genocidio israeliano a Gaza iniziato il 7 ottobre.

Stime palestinesi e internazionali dicono che la maggioranza delle vittime e dei feriti sono donne e bambini.

(PC, MEMO) (Palestine Chronicle, Middle East Monitor)

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Da Gaza al Congo: il sionismo e la storia dimenticata del genocidio

Ramzy Baroud

9 gennaio 2024 – Middle East Monitor

Migliaia di chilometri separano l’Uganda e il Congo dalla Striscia di Gaza, ma questi luoghi sono connessi alla Palestina in modi che le tradizionali analisi geopolitiche probabilmente non riuscirebbero a spiegare. Eppure il 3 gennaio è stato rivelato che il governo israeliano di estrema destra di Benjamin Netanyahu sta attivamente discutendo proposte per espellere milioni di palestinesi verso Paesi africani in cambio di un prezzo definito.

Apparentemente la discussione sull’espulsione di milioni di palestinesi da Gaza è entrata nel pensiero mainstream israeliano il 7 ottobre, tuttavia il fatto che questo dibattito continui a oltre tre mesi dall’inizio della guerra di Israele contro Gaza indica che le proposte israeliane non sono l’esito di uno specifico momento storico come l’Operazione Diluvio Al-Aqsa, per esempio.

Anche a una rapida disamina le testimonianze storiche israeliane puntano al fatto che l’espulsione di massa dei palestinesi, nota in Israele come “trasferimento”, era, e resta, una rilevante strategia sionista che mira a risolvere il cosiddetto “problema demografico” dello Stato di apartheid.

Molto prima che il 7 ottobre i combattenti delle Brigate Al-Qassam e altri movimenti palestinesi assaltassero la recinzione che separa l’assediata Gaza da Israele, i politici israeliani avevano discusso in varie occasioni come ridurre la popolazione palestinese complessiva per mantenere una maggioranza ebraica nella Palestina storica. L’idea non era solo limitata agli estremisti oggi al governo in Israele, ma era anche dibattuta da personaggi come l’ex ministro della difesa israeliana Avigdor Lieberman che, nel 2014, suggerì un progetto per un “piano di scambio della popolazione”.

Persino intellettuali e storici ritenuti progressisti hanno sostenuto questa idea, sia in teoria che in pratica. In un’intervista con il giornale israeliano progressista Haaretz nel gennaio 2004 uno dei più influenti storici israeliani, Benny Morris, si rammaricava che il primo ministro israeliano, David Ben-Gurion, non fosse riuscito ad espellere tutti i palestinesi durante la Nakba, il catastrofico evento di massacri e pulizia etnica che portò alla costruzione dello Stato di Israele sopra città e villaggi palestinesi.

Essi includono una memoria ufficiale pubblicata il 17 ottobre della think tank Misgav Institute for National Security and Zionist Strategy e un rapporto diffuso tre giorni dopo dalla testata israeliana Calcalist, [il principale quotidiano finanziario israeliano, ndt.] che riportava un documento che proponeva la stessa strategia.

Che Egitto, Giordania e altri Paesi arabi abbiano apertamente e immediatamente dichiarato la loro totale opposizione all’espulsione dei palestinesi è un’indicazione del grado di serierà di queste proposte ufficiali israeliane.

Il nostro problema è [trovare] un Paese che voglia accogliere i gazawi,” ha detto il 2 gennaio Netanyahu, “e noi ci stiamo lavorando.” I suoi commenti non sono i soli. Il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ha detto che “la cosa da fare nella Striscia di Gaza è incoraggiare l’emigrazione.”

È stato allora che il dibattito ufficiale israeliano ha adottato il termine “migrazione volontaria”. Non c’è niente di “volontario” in 2.2 milioni di palestinesi ridotti alla fame che devono affrontare il genocidio mentre vengono spinti sistematicamente verso la zona di confine fra Gaza ed Egitto.

Nella causa presentata alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), il governo del Sudafrica ha incluso la pulizia etnica di Gaza pianificata da Tel Aviv come uno degli argomenti principali elencati da Pretoria, che accusa Israele di genocidio.

A causa del mancato entusiasmo da parte dei Paesi occidentali filoisraeliani, i diplomatici israeliani stanno facendo il giro del mondo alla ricerca di governi che vogliano accettare palestinesi vittime di pulizia etnica. Immaginate se questo comportamento provenisse da un qualsiasi altro Paese, un Paese che ammazza civili, minori, donne e uomini e poi fa shopping per trovare altri Stati che accettino i sopravvissuti in cambio di denaro.

Israele non solo si fa beffe del diritto internazionale, ma ha anche raggiunto un livello ancora più basso nel comportamento spregevole di qualunque altro Stato, ovunque nel mondo, in qualsiasi momento della storia, antica o moderna. Nonostante ciò il mondo continua a rimanere a guardare, sostenere, come nel caso degli USA e del Regno Unito, o a protestare timidamente o energicamente, ma senza fare neanche un passo significativo per fermare il bagno di sangue a Gaza, o per bloccare la possibilità di scenari veramente terrificanti che potrebbero seguire se la guerra non finisce, e presto.

Tuttavia c’è una cosa che molti forse non sanno: il movimento sionista, l’istituzione ideologica che fondò Israele, prese in considerazione il suggerimento di spostare gli ebrei del mondo in Africa e stabilire là il loro Stato, prima di scegliere la Palestina quale “focolare ebraico”. Il cosiddetto “Schema Uganda” del 1903 fu formulato da Theodor Herzl, il giornalista ateo che fondò il sionismo politico, al sesto congresso sionista. Era basato su una proposta avanza da Joseph Chamberlain, ministro britannico per le Colonie. Alla fine il progetto venne abbandonato, ma i sionisti prima continuarono a cercare altri posti, per poi decidere per la Palestina e stabilirsi là, sfortunatamente per i palestinesi.

Se paragoniamo il linguaggio genocidiario dei leader israeliani di oggi e studiamo i loro punti di riferimento razzisti riguardo ai palestinesi, possiamo vedere una significativa coincidenza con il modo in cui le comunità ebraiche sono state percepite dagli europei per centinaia di anni. L’improvviso interesse sionista per il Congo come “patria” potenziale per i palestinesi illustra ulteriormente il fatto che il movimento sionista continua a vivere all’ombra della sua storia, proiettando il razzismo europeo contro gli ebrei attraverso il razzismo di Israele contro i palestinesi.

Il 5 gennaio Amihai Eliyahu ministro israeliano per il Patrimonio [di Gerusalemme], ha suggerito che gli israeliani “devono trovare delle soluzioni per i gazawi che siano più dolorose della morte.” Non dobbiamo affannarci per trovare un simile linguaggio usato dai nazisti tedeschi contro gli ebrei nella prima metà del Ventesimo Secolo. Se la storia si ripete, lo fa in modo grottesco e crudele.

Ci è stato detto che il mondo ha imparato dalle uccisioni di massa delle guerre precedenti, incluso l’Olocausto e altre atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Eppure sembra che le lezioni siano state ampiamente dimenticate. Non solo Israele sta ora assumendo il ruolo di assassino di massa, ma anche il mondo occidentale continua a giocare il ruolo assegnatogli in questa storica tragedia. I leader occidentali o applaudono Israele, o protestano garbatamente, o non fanno assolutamente nulla.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




‘Foto della vittoria’: l’uccisione a Beirut aiuterà politicamente il contestatissimo Netanyahu?

Nils Adler

7 gennaio 2024 – Al Jazeera

La popolarità di Netanyahu non è mai stata così bassa. Secondo alcuni analisti gli omicidi di Beirut non cambieranno in modo sostanziale la situazione.

È stato un inizio di 2024 difficile per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Lunedì primo gennaio la Corte Suprema di Israele ha bocciato una controversa legge presentata dal governo Netanyahu nel 2023 per limitare alcuni poteri dell’Alta Corte che ha scatenato diffuse proteste in tutto il Paese.

Poi, il giorno dopo, l’attacco contro un appartamento di Beirut ha ucciso importanti membri di Hamas. Anche se Israele non ha rivendicato l’azione, alcuni analisti affermano che ha avuto in tutto e per tutto le caratteristiche di un attacco mirato israeliano. Ciò contribuirà a fermare la perdita di popolarità del primo ministro israeliano più a lungo in carica?

La decisione della Corte Suprema è una “importante battuta d’arresto”

La bocciatura del progetto di riforma giudiziaria è un’“importante battuta d’arresto” per Netanyahu e l’estrema destra israeliana che avevano investito “un significativo impegno politico sulla questione”, dice ad Al Jazeera Nader Hashemi, professore associato di Medio Oriente e Politica Islamica alla Georgetown University [prestigiosa università statunitense, ndt.] .

Per alcuni israeliani, afferma Hashemi, l’insistenza di lunga data di Netanyahu sulle modifiche del sistema giudiziario ha “diviso la società israeliana e l’ha resa più debole, consentendo ciò che è avvenuto il 7 ottobre.

Recenti sondaggi di opinione mostrano che la stragrande maggioranza degli israeliani pensa che Netanyahu dovrebbe ammettere pubblicamente le sue responsabilità per gli errori che hanno portato all’attacco di Hamas il 7 ottobre nel sud di Israele, in cui circa 1.200 persone sono state uccise e più di 200 sono state prese in ostaggio. Da allora a Gaza le bombe e il fuoco di artiglieria israeliani hanno ucciso più di 22.000 palestinesi.

Nimrod Goren, ricercatore esperto delle questioni israeliane presso il Middle East Institute [centro studi statunitense fondato nel 1946, ndt.], dice ad Al Jazeera che la sentenza della Corte Suprema è stata vista come una “grande vittoria per la democrazia israeliana”.

Dopo questa decisione il ministro della Giustizia Yariv Levin ha attaccato la Corte, affermando che il momento scelto per il suo verdetto è stato “l’opposto dell’unità necessaria per il successo dei nostri combattenti al fronte.”

Tuttavia il leader dell’opposizione Yair Lapid ha messo in guardia il governo Netanyahu dall’ignorare la sentenza, affermando che se lo facesse ciò “dimostrerebbe che non ha imparato niente dal 7 ottobre”. Anche l’ex ministro della Difesa Benny Gantz, che fa parte del gabinetto di guerra di Netanyahu, ha chiesto che la decisione venga rispettata.

Secondo Goren i battibecchi politici seguiti alla sentenza, dopo mesi di relativa unità dopo il 7 ottobre, sono serviti da “promemoria di quello che ci attende (come israeliani) quando la guerra sarà finita.”

Egli afferma che concentrarsi sulle riforme proposte, una questione divisiva prima della guerra, “invece di fare i conti con gli importanti problemi che dobbiamo affrontare (ora)” non fa che aggiungersi alle critiche della società israeliana a Netanyahu.

Le uccisioni di Beirut sono una “fotografia della vittoria” per il gabinetto di guerra

Eppure, se la sentenza della Corte Suprema è stata un colpo per Netanyahu, l’assassinio di importanti dirigenti di Hamas a Beirut ha rappresentato un momento trionfale per lui e il suo gabinetto di guerra, che include il ministro della Difesa Yoav Gallant e Gantz, ora membro dell’opposizione.

“Penso che le clamorose uccisioni di questo tipo contro nemici giurati di Israele aiutino politicamente Netanyahu,” dice Hashem.

Un articolo pubblicato dal giornale israeliano di sinistra Haaretz ha affermato che le notizie da Beirut sono state viste “positivamente” dalla società israeliana e hanno fornito ai dirigenti del Paese una “fotografia della vittoria” indispensabile mentre la guerra si sta avvicinando al terzo mese.

Ma, secondo l’articolo, per le famiglie degli oltre cento ostaggi ancora trattenuti a Gaza la notizia è giunta come “una pugnalata al cuore”.

Martedì Netanyahu ha incontrato le famiglie e le ha informate che si stava per concretizzare un possibile accordo con Hamas che avrebbe potuto portare alla liberazione degli ostaggi.

Subito dopo è filtrata l’informazione dell’uccisione di importanti dirigenti di Hamas a Beirut, seguita da notizie secondo cui i passi avanti del possibile accordo per il rilascio degli ostaggi erano in fase di stallo.

Haaretz, citando Eli Shtivi, padre del ventottenne Idan Shtivi, rapito durante il festival musicale Supernova, ha affermato che le notizie hanno spento il crescente ottimismo tra i familiari riguardo alle prospettive di un accordo. Shtivi ha detto alla televisione israeliana che le uccisioni “sono avvenute in un momento in cui pensavamo che avremmo visto la reale possibilità che altri ostaggi tornassero a casa.”

È una sensazione che Gil Dickmann, la cui cugina Carmel Gat è stata rapita da Hamas, non condivide.

Egli sostiene che la politica dovrebbe aspettare e che la priorità assoluta delle famiglie degli ostaggi è appoggiare qualunque cosa il governo stia facendo per riportarli a casa.

“Quando tutto sarà finito avremo il tempo sufficiente per parlare di politica, ma voglio che mia cugina Carmel sia qui quando lo faremo,” dice ad Al Jazeera.

Fino ad allora, afferma, “appoggeremo qualunque tentativo” per il rilascio degli ostaggi. “Penso che la cosa più importante sia che il governo sappia di avere l’appoggio della stragrande maggioranza degli israeliani.”

Le uccisioni di Beirut dimostrano che non c’è nessuna volontà di arrivare a un cessate il fuoco

Comunque gli omicidi hanno irritato molti israeliani che chiedono ad alta voce una soluzione pacifica della guerra.

Nelle scorse settimane Standing Together [Stare uniti], un movimento ebreo-arabo per la pace, ha portato migliaia di persone in piazza per chiedere un cessate il fuoco bilaterale e la fine dell’attuale campagna militare a Gaza.

Alon-Lee Green, il suo co-direttore, dice ad Al Jazeera che gli omicidi sono stati un messaggio di Netanyahu e del suo gabinetto di guerra che “non siamo disposti a negoziare”.

Una vittoria militare, non politica

Secondo alcuni analisti quanto successo a Beirut potrebbe essere visto da molti israeliani come un successo militare, ma non si traduce necessariamente in una vittoria politica di Netanyahu.

Piuttosto, secondo Goren, ciò allarga il divario tra la “mancanza di fiducia nell’attuale dirigenza del governo e il costante alto livello di fiducia nei confronti degli ambienti dell’apparato della sicurezza, nonostante tutto quello che è successo il 7 ottobre.”

Secondo lui il fatto che anche Gantz, un oppositore politico, faccia parte del gabinetto di guerra dimostra che l’obiettivo di dare la caccia ad Hamas è condiviso dalla maggioranza dei dirigenti politici, e di conseguenza i successi militari non sono attribuibili solo a Netanyahu.

Yossi Mekelberg, professore associato del programma MENA [Medio Oriente e Nord Africa] presso la Chatham House [prestigioso centro studi britannico, ndt.], afferma che, anche se avvenimenti come le uccisioni di Beirut possono offrire una breve tregua alla criticatissima dirigenza israeliana, non cambieranno la precaria situazione politica di Netanyahu.

Il primo ministro è generalmente considerato responsabile di quanto avvenuto il 7 ottobre, quindi secondo Mekelberg anche se ci fosse un cessate il fuoco l’opposizione probabilmente contesterebbe la sua posizione e chiederebbe nuove elezioni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Chi era Saleh al-Arouri, il dirigente di Hamas ucciso a Beirut?

Redazione di Al Jazeera

3 gennaio 2024 – Al Jazeera

L’uccisione del vice-capo dell’ufficio politico di Hamas potrebbe scatenare una rappresaglia da parte di Hamas ed Hezbollah.

Martedì un attacco con un drone nel quartiere periferico di Dahiyeh, roccaforte di Hezbollah a Beirut sud, ha ucciso l’importante politico di Hamas Saleh al-Arouri.

L’agenzia statale di notizie libanese ha informato che il drone ha colpito un ufficio di Hamas uccidendo sei persone.

Hamas ha confermato la morte di Al-Arouri e l’ha definita un “vigliacco assassinio” da parte di Israele, aggiungendo che gli attacchi contro i palestinesi “dentro e fuori dalla Palestina non riusciranno a spezzare la volontà e la tenacia del nostro popolo o a impedire la continuazione della nostra coraggiosa resistenza.”

“Ciò dimostra ancora una volta il totale fallimento del nostro nemico nel raggiungere i suoi scopi aggressivi nella Striscia di Gaza,” ha affermato l’organizzazione.

In seguito alla notizia della morte di al-Arouri le moschee di Arura, la città a nord di Ramallah nella Cisgiordania occupata, hanno pianto la sua morte ed è stato dichiarato uno sciopero generale per mercoledì.

Ecco quello che c’è da sapere del dirigente di Hamas morto in Libano.

Chi era Saleh al-Arouri?

Al-Arouri, 57 anni, era il vice-capo dell’ufficio politico di Hamas e uno dei fondatori dell’ala militare del gruppo, le brigate Qassam.

Dopo aver passato 15 anni in una prigione israeliana viveva in esilio in Libano. Prima che il 7 ottobre iniziasse la guerra, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu l’aveva minacciato di morte.

Nelle ultime settimane al-Arouri aveva assunto il ruolo di portavoce dell’organizzazione e lo scorso mese aveva detto ad Al Jazeera che Hamas non avrebbe discusso un accordo per lo scambio degli ostaggi detenuti dal gruppo prima della fine della guerra a Gaza.

Nel 2015 gli Stati Uniti avevano etichettato al-Arouri un “terrorista globale” e promesso una taglia di 5 milioni di dollari per ogni informazione su di lui.

Cosa ha detto Israele della morte di al-Arouri?

Mentre non ci sono state reazioni ufficiali di Israele sulla morte del politico di Hamas, Mark Regev, consigliere di Netanyahu, ha detto al sito di notizie statunitense MSNBC che Israele non si assume la responsabilità dell’attacco. Ma, ha aggiunto, “chiunque lo abbia fatto, deve essere chiaro che non si è trattato di un attacco contro lo Stato libanese.”

“Chiunque lo abbia fatto ha compiuto un attacco chirurgico contro la dirigenza di Hamas,” ha affermato.

Tuttavia Danny Danon, ex- ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, ha esaltato l’attacco e si è congratulato con l’esercito israeliano, lo Shin Bet, il servizio di sicurezza, e il Mossad, il servizio di intelligence, per l’uccisione di al-Arouri.

“Chiunque sia convolto nel massacro del 7 ottobre dovrebbe sapere che lo troveremo e faremo i conti con lui,” ha scritto su X in ebraico, in riferimento all’attacco del 7 ottobre di Hamas nel sud di Israele che ha ucciso circa 1.200 persone.

I continui bombardamenti e colpi di artiglieria israeliani contro Gaza hanno ucciso da allora più di 22.000 palestinesi, tra cui più di 8.000 minori.

Secondo i media israeliani, dopo il tweet di Danon il governo ha ordinato ai ministri di non rilasciare interviste riguardo alla morte di al-Arouri.

Quale è stata la risposta dal Libano?

Il primo ministro libanese ad interim Najib Mikati ha condannato l’attacco contro il quartiere di Beirut ed ha affermato che si è trattato di un “nuovo crimine israeliano” e di un tentativo di spingere il Libano in guerra.

Mikati ha anche messo in guardia verso “gli alti dirigenti politici israeliani che ricorrono all’esportazione del fallimento a Gaza sul confine meridionale [del Libano] per imporre nuovi fatti sul terreno e cambiare le regole d’ingaggio.”

Hezbollah ha affermato che l’attacco contro la capitale del Libano “non passerà impunito.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La denuncia contro Israele presentata alla CIG dal Sud Africa può fermare la guerra a Gaza?

Shola Lawal

3 gennaio 2024 – Aljazeera

Il procedimento giudiziario chiesto dal Sud Africa potrebbe richiedere anni, ma potrebbe dare peso alle crescenti richieste internazionali a Israele di fermare la guerra.

La settimana scorsa il Sudafrica è diventato il primo Paese a intentare una causa contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) dellAia aumentando la pressione internazionale su Tel Aviv affinché cessi l’implacabile bombardamento mortale della Striscia di Gaza intrapreso il 7 ottobre 2023 e che ha ucciso più di 22.000 civili, di cui un numero notevole di minori.

Nella denuncia di 84 pagine che il Sudafrica ha presentato alla Corte il 29 dicembre sono riportate in modo dettagliato le prove della brutalità perpetrata a Gaza e viene chiesto alla Corte – lorganismo delle Nazioni Unite preposto alla risoluzione delle controversie tra Stati – di dichiarare urgentemente che Israele dal 7 ottobre ha violato i suoi obblighi ai sensi diritto internazionale.

Questa mossa è l’ultima di una lunga lista di azioni intraprese da Pretoria dall’inizio della guerra contro Gaza, tra cui la condanna forte e insistente degli attacchi israeliani a Gaza e in Cisgiordania, il richiamo dell’ambasciatore sudafricano da Israele, la denuncia delle sofferenze dei palestinesi alla Corte Penale Internazionale (CPI) e la richiesta di un incontro straordinario dei Paesi BRICS per deliberare sul conflitto. La CPI si occupa di casi di presunti crimini commessi da individui, non da Stati.

Ecco in breve i punti della denuncia alla CIG:

Quali sono le accuse del Sudafrica contro Israele?

Il Sudafrica accusa Israele di aver star commettendo un genocidio a Gaza, in violazione della Convenzione sul Genocidio del 1948 che definisce il genocidio come atti commessi con lintento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.

Le azioni genocide elencate nella denuncia includono l’uccisione di un gran numero di palestinesi a Gaza, soprattutto minori; la distruzione delle loro case; la loro espulsione e sfollamento; oltre all’imposizione nella Striscia di un blocco su cibo, acqua e assistenza.

Inoltre includono la messa in atto di misure che impediscono le nascite palestinesi attraverso la distruzione dei servizi sanitari essenziali necessari per la sopravvivenza delle donne incinte e dei bambini.

Tutte queste azioni, si legge nella denuncia, sono intese a provocare la loro distruzione [dei palestinesi] come gruppo”.

Pretoria accusa inoltre Israele di non essere riuscito a prevenire e reprimere listigazione al genocidio, con specifico riferimento alle dichiarazioni di politici israeliani nel corso della guerra nel tentativo di giustificare le uccisioni e la distruzione a Gaza.

Il Sudafrica ha inoltre richiesto espressamente che la CIG si muova urgentemente per impedire a Israele di commettere ulteriori crimini nella Striscia, verosimilmente attraverso un’ingiunzione a Tel Aviv perché interrompa l’invasione. Tale richiesta avrà la priorità, ha affermato la CIG in una nota, ma non ha specificato una tempistica.

La documentazione del Sudafrica è particolarmente necessaria nel contesto della crescente disinformazione sulla guerra e per altri scopi di ampia portata, ha affermato Mai El-Sadany, avvocata per i diritti umani e direttrice del Tahrir Institute for Middle East Policy.

I procedimenti giuridici sono importanti per rallentare la normalizzazione di qualsiasi atrocità di massa commessa da Israele; mandano il messaggio che se un Paese commette delle atrocità di massa, come sta facendo Israele, deve aspettarsi di essere portato davanti a un tribunale internazionale, che i suoi precedenti siano valutati sulla base delle norme internazionali e che la sua reputazione sulla scena internazionale subisca un duro colpo,” dice.

Quali prove ha citato il Sudafrica?

Il Sudafrica sostiene che le dichiarazioni rilasciate da politici israeliani, incluso il primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno dimostrato un intento genocida”.

Ad esempio, la denuncia cita il paragone fatto da Netanyahu tra i palestinesi e Amalek, una nazione biblica della cui distruzione Dio avrebbe incaricato gli israeliti. Il versetto biblico afferma: Ora va’ e colpisci Amalek… uccidi uomini, donne e bambini”.

Inoltre, nella sua dichiarazione del 26 dicembre, Netanyahu ha affermato che, nonostante la vasta distruzione di Gaza e luccisione di migliaia di persone, nei prossimi giorni intensificheremo i combattimenti, e questa sarà una lunga battaglia”.

Nella denuncia sono citate anche diverse altre dichiarazioni, comprese quelle in cui i funzionari israeliani hanno descritto il popolo di Gaza come una forza delle tenebre” e Israele come una forza della luce”.

Il Sudafrica aggiunge che la portata delle operazioni dellesercito israeliano, i suoi bombardamenti indiscriminati e le esecuzioni di civili, così come il blocco da parte di Israele su cibo, acqua, medicine, carburante, ripari e altra assistenza umanitaria”, sono la prova delle sue affermazioni. La denuncia sostiene che tali azioni hanno spinto la Striscia sullorlo della carestia”.

Oltre al genocidio, il Sudafrica sostiene che Israele sta commettendo

nella Striscia di Gaza altre violazioni del diritto internazionale, tra cui l’aver lanciato un’aggressione contro la cultura palestinese attraverso l’assalto a luoghi di religione, istruzione, arte, scienza, a monumenti storici, ospedali e luoghi dove vengono accolti i malati e i feriti”.

Sono già state presentate denunce simili?

SÌ. Secondo la Convenzione sul genocidio, gli Stati-nazione possono sporgere denuncia di genocidio contro altri Paesi, indipendentemente dal fatto che siano direttamente coinvolti o meno nel conflitto. Nel 2019, il Gambia, a nome dellOrganizzazione per la Cooperazione Islamica, ha presentato una petizione alla Corte contro il Myanmar per le sue atrocità contro il popolo Rohingya.

Israele e Sud Africa hanno entrambi aderito alla CIG, il che significa che le sue sentenze sono vincolanti per entrambi. Ma mentre la CIG ha più peso del Consiglio di Sicurezza dellONU, dove Israele è strettamente protetto dagli Stati Uniti, la Corte non ha potere esecutivo. In effetti, in alcuni casi gli ordini della CIG sono stati ignorati senza pesanti conseguenze.

Nel marzo 2022, ad esempio, un mese dopo che la Russia aveva invaso lUcraina, Kiev ha intentato una causa contro la Russia presso la Corte. In quel caso lUcraina ha anche chiesto alla CIG di stabilire misure di emergenza per fermare laggressione della Russia.

Infatti poco dopo la Corte ha ordinato a Mosca di sospendere le operazioni militari, affermando di essere profondamente preoccupata” per laggressione allUcraina. Tuttavia, più di un anno dopo, la guerra in Europa continua.

Cosa succederà dopo?

Martedì le autorità sudafricane hanno confermato che la CIG ha fissato un’udienza per l’11 e il 12 gennaio. “I nostri avvocati si stanno attualmente preparando per questo”, ha scritto su X, ex Twitter, Clayson Monyela, portavoce del Dipartimento per le Relazioni Internazionali e la Cooperazione del Sudafrica.

Ma i procedimenti possono richiedere tempo, anche anni. La Corte, ad esempio, sta ancora deliberando sul caso del Gambia contro il Myanmar del 2019. Su quel caso ci sono state udienze probatorie, lultima nellottobre 2023, quando la Corte ha chiesto al Gambia di rispondere alle controargomentazioni del Myanmar.

Nella sua presentazione di dicembre il Sudafrica ha richiesto preventivamente una procedura accelerata. La sua richiesta di un ordine di emergenza da parte della CIG potrebbe produrre risultati abbastanza rapidi – nel giro di poche settimane – come è accaduto nel caso dellUcraina.

Rispondendo alla denuncia, il Ministero degli Affari Esteri israeliano ha negato con veemenza le accuse di genocidio e ha descritto le accuse di Pretoria come una diffamazione razziale” e una strumentalizzazione spregevole e arrogante” della Corte. Una dichiarazione del ministero ha inoltre accusato il Sudafrica di essere criminalmente complice” degli attacchi di Hamas.

Martedì il portavoce Eylon Levy ha confermato che Tel Aviv si difenderà all’udienza dell’Aia. Assicuriamo ai leader del Sud Africa che la storia li giudicherà e li giudicherà senza pietà”, ha detto Levy ai giornalisti.

Sarang Shidore, direttore del centro di ricerca Quincy Institute con sede a Washington, ha affermato che questa posizione potrebbe significare che Tel Aviv sta prendendo la denuncia come una seria sfida alle sue politiche a Gaza.

Mentre qualsiasi decisione della CIG potrebbe avere poca influenza sulla guerra in sé, una sentenza a favore del Sudafrica e dei palestinesi eserciterebbe una pressione significativa sul sostenitore numero uno e di fatto arsenale di Israele: il governo degli Stati Uniti.

Lamministrazione Biden è sempre più vulnerabile nei confronti degli oppositori interni della guerra e delle accuse internazionali di doppi standard”, ha detto Shidore, alludendo alla netta differenza tra la posizione degli Stati Uniti sulla guerra Russia-Ucraina e quella sulla guerra di Gaza. Tuttavia, una sentenza contro Israele potrebbe avere implicazioni sulla posizione degli Stati Uniti”, ha affermato, aggiungendo: La mia sensazione è che lamministrazione Biden e alcuni importanti alleati europei sosterranno fortemente Israele alla CIG”. Ma vedremo come sarà formulato nella pratica questo sostegno”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




ESCLUSIVA: LA CENSURA MILITARE ISRAELIANA VIETA DI RIFERIRE SU QUESTI OTTO ARGOMENTI

Ken Klippenstein, Daniel Boguslaw

23 dicembre 2023, The Intercept

Un insolito ordine in lingua inglese sulla guerra di Gaza rompe la segretezza e l’informalità con cui normalmente funziona la censura dell’Esercito israeliano.

Armi usate dalle forze di difesa israeliane, fughe di notizie dal gabinetto di sicurezza, storie di persone tenute in ostaggio da Hamas… sono alcuni degli otto argomenti di cui, secondo un documento ottenuto da The Intercept, in Israele ai media è vietato parlare.

Il documento, un ordine di censura indirizzato ai media dall’esercito israeliano come parte della guerra contro Hamas, non era stato segnalato in precedenza. Il promemoria, scritto in inglese, è stata una mossa insolita per la censura dell’IDF che fa parte dell’esercito israeliano da più di settant’anni.

“Non ho mai visto istruzioni come queste inviate dalla censura, a parte avvisi generali che invitavano i media a conformarsi, e anche allora erano inviati solo a determinate persone”, ha detto Michael Omer-Man, ex redattore capo della rivista israeliana +972 Magazine e oggi direttore della ricerca su Israele-Palestina presso Democracy in the Arab World Now, o DAWN, un gruppo di pressione statunitense.

Intitolato “Direttiva del Capo Israeliano della censura ai media per l’Operazione ‘Spade di Ferro’”, l’ordine non è datato ma il suo riferimento all’Operazione Spade di Ferro – il nome dell’attuale operazione militare israeliana a Gaza – chiarisce che è stato emesso qualche tempo dopo l’attacco di Hamas contro Israele il 7 ottobre. L’ordine è firmato dal capo censore delle forze di difesa israeliane, Generale di Brigata Kobi Mandelblit. (Il censore militare israeliano non ha risposto a una richiesta di commento sul promemoria.)

Il documento è stato fornito a The Intercept da una fonte che ne ha avuto una copia dall’esercito israeliano. Un documento identico appare sul sito web del governo israeliano.

“Alla luce dell’attuale situazione di sicurezza e dell’intensa copertura mediatica, desideriamo incoraggiarvi a sottoporre alla censura tutto il materiale riguardante le attività delle Forze di difesa israeliane (IDF) e delle forze di sicurezza israeliane prima che sia reso pubblico”, dice l’ordine. “Si prega di informare il proprio staff sul contenuto di questa lettera, con particolare attenzione alla redazione e ai giornalisti sul campo.”

L’ordine elenca otto argomenti di cui è vietato ai media riferire senza previa approvazione da parte della censura militare israeliana. Alcuni degli argomenti toccano questioni politiche scottanti in Israele e a livello internazionale, come rivelazioni potenzialmente imbarazzanti sulle armi usate da Israele o catturate da Hamas, discussioni sulle riunioni del gabinetto di sicurezza e sugli ostaggi israeliani a Gaza – una questione per la cui cattiva gestione il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato ampiamente criticato.

La nota vieta inoltre di riferire su dettagli di operazioni militari, intelligence israeliana, attacchi missilistici che abbiano colpito luoghi sensibili in Israele, attacchi informatici e visite di alti ufficiali militari sul campo di battaglia.

Le preoccupazioni circa una politicizzazione della censura militare non sono meramente ipotetiche. Il mese scorso, secondo quanto riferito, il censore israeliano si è lamentato del fatto che Netanyahu gli stesse facendo pressione affinché reprimesse alcuni media senza una ragione legittima. Netanyahu ha negato l’accusa.

Autocensura e segretezza

La Censura Militare Israeliana è un’unità situata all’interno della Direzione dell’Intelligence Militare dell’IDF. L’unità è comandata dal capo censore, un ufficiale militare nominato dal Ministro della Difesa.

Guy Lurie, ricercatore presso l’Israel Democracy Institute con sede a Gerusalemme, ha detto a The Intercept che da quando è iniziata la guerra di Israele contro Hamas più di 6.500 nuovi articoli sono stati completamente o parzialmente censurati dal governo israeliano.

Per contestualizzare la cifra, Lurie ha affermato che si tratta di circa quattro volte in più rispetto a prima della guerra, citando un articolo del quotidiano israeliano Shakuf sulle richieste di libertà di informazione. Il numero di contributi sottoposti alla censura, tuttavia, è significativamente più alto in questo momento di intenso conflitto, e Lurie ha osservato che le notizie sono sottoposte a un normale livello di censura considerando il totale dei contributi.

Il numero effettivo di nuovi articoli sottoposti a censura, tuttavia, non potrà mai essere quantificato. A causa di un sistema di strette relazioni e di una certa consapevolezza su cosa aspettarsi, i giornalisti israeliani finiscono per autocensurarsi.

“Le persone si autocensurano, non provano nemmeno a riferire le storie che sanno che non passeranno”, ha detto Omer-Man. “E questo è dimostrato proprio adesso da quanto poco i comuni israeliani sappiano dalla stampa ciò che sta accadendo a Gaza ai palestinesi”.

Sono questi modi di censura non ufficiale che danno potere alla censura in Israele, dicono gli esperti.

Nel 2022 un rapporto del Dipartimento di Stato sui diritti umani in Israele e nei territori palestinesi occupati ha affrontato la censura militare, selezionando due giornali in lingua araba nella Gerusalemme est occupata. Pur sottolineando che il censore dell’IDF non controllava gli articoli, il Dipartimento di Stato ha affermato: “I redattori e i giornalisti di quelle pubblicazioni, tuttavia, hanno riferito di essersi autocensurati per paura di ritorsioni da parte delle autorità israeliane”.

Un tempo la censura aveva un Comitato Editoriale composto da tre membri: uno della stampa, uno dell’esercito e un membro eletto pubblicamente che fungeva da presidente. Sebbene il Comitato Editoriale non esista più ufficialmente, un organismo simile, anche se informale, mantiene ancora una certa influenza.

Anche se la legge che istituisce la censura gli conferisce ampi poteri, il censore è rispettato in Israele perché è politicamente indipendente ed agisce con moderazione, soprattutto in confronto a altri paesi della regione.

“Se vedi la legge che governa la censura, è davvero draconiana in termini di autorità formali di cui dispone il censore”, ha detto Lurie a The Intercept. “Ma è mitigata da quell’accordo informale”.

Quasi tutto avviene in segreto: le discussioni del Comitato sono confidenziali, così come la maggior parte dei comunicati tra i media e la censura.

Alla domanda sul perché i procedimenti siano così segreti e perché anche le testate giornalistiche non ne parlino apertamente, un giornalista occidentale con sede in Israele e Palestina, che ha chiesto l’anonimato per evitare ritorsioni, ha dato una valutazione schietta: “Perché è imbarazzante”.

La stampa straniera e la censura

Il fatto che la nota di direttive per l’attuale guerra israeliana a Gaza sia in inglese suggerisce che sia destinato ai media occidentali. I giornalisti stranieri che lavorano in Israele devono ottenere il permesso del governo, inclusa una dichiarazione che rispetteranno la censura.

“Per ottenere un visto come giornalista devi ottenere l’approvazione del GPO (Ufficio stampa del governo) e quindi devi firmare un documento in cui dichiari che rispetterai la censura”, ha detto Omer-Man. “Questo è di per sé probabilmente contrario alle linee guida etiche di molti giornali.”

Nondimeno molti giornalisti firmano il documento. Mentre l’Associated Press, ad esempio, non ha risposto alla domanda di The Intercept sulla sua collaborazione con la censura militare, il News Wire in passato ha parlato della questione, ammettendo anche di attenersi alla direttiva.

“L’Associated Press ha accettato, come altre organizzazioni, di rispettare le regole della censura, che è una condizione per ricevere il permesso di operare come organizzazione di informazione in Israele”, ha scritto l’agenzia in un articolo del 2006. “Ci si aspetta che i giornalisti si censurino e non riportino alcun materiale proibito.”

Alla domanda se rispettasse le linee guida della censura militare israeliana e se la sua ottemperanza fosse cambiata dall’inizio della guerra, Azhar AlFadl Miranda, direttore delle comunicazioni del Washington Post, ha dichiarato a The Intercept in una e-mail: “Non possiamo condividere informazioni”, aggiungendo che “non discutiamo pubblicamente le nostre decisioni editoriali”.

Il New York Times ha dichiarato a The Intercept: “Il New York Times riporta in modo indipendente l’intero spettro di questo complicato conflitto. Non sottoponiamo le nostre corrispondenze alla censura militare israeliana”. (Reuters non ha risposto alle domande di The Intercept.)

La stampa estera che collabora con la censura è soggetta allo stesso sistema: molti articoli non passano attraverso la censura, ma alcuni argomenti prevedono che gli articoli vengano sottoposti.

“Sanno che devono trasmettere alla censura gli articoli su determinati argomenti che vogliono pubblicare “, ha detto Lurie. “Ci sono argomenti per cui i media sanno di dover ottenere l’approvazione della censura.”

Una delle cose che rende insolito l’ordine di censura scritto in lingua inglese, tuttavia, è il riferimento esplicito alla guerra con Hamas. “Non l’ho mai visto per una guerra specifica”, ha detto Lurie.

“Ci sono argomenti per cui i media sanno di dover ottenere l’approvazione della censura.”

Un argomento noto come sensibile in Israele è l’arsenale nucleare segreto del paese. Nel 2004, il giornalista della BBC Simon Wilson aveva intervistato Mordechai Vanunu, un informatore sul programma nucleare che era appena stato rilasciato dal carcere. La censura israeliana richiese copie dell’intervista, ma Wilson non accettò.

A Wilson è stato quindi impedito il rientro e il governo israeliano ha richiesto delle scuse. Inizialmente, la BBC si rifiutò di fornirne, ma alla fine il colosso mondiale dell’informazione cedette.

“[Wilson] Conferma che dopo l’intervista a Vanunu è stato contattato dalla censura e gli è stato chiesto di consegnare loro le cassette. Non lo ha fatto. Si rammarica delle difficoltà che ciò ha causato”, ha affermato la BBC nelle scuse. “Si impegna a rispettare le norme in futuro e comprende che qualsiasi ulteriore violazione comporterà la revoca del suo visto.”

Le scuse, come gran parte del lavoro della censura, sarebbero dovute rimanere segrete secondo un articolo del Guardian del 2005, ma la BBC le pubblicò accidentalmente sul suo sito web prima di rimuoverle rapidamente.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)