Le forze israeliane uccidono tre palestinesi in un attacco nella Cisgiordania occupata

Redazione di Al Jazeera

6 agosto 2023 – Al Jazeera

I soldati hanno aperto il fuoco su un veicolo vicino al campo profughi di Jenin, uccidendo tre passeggeri che secondo l’esercito israeliano stavano pianificando un attacco.

Le forze israeliane nella Cisgiordania occupata hanno ucciso a colpi di arma da fuoco tre palestinesi che secondo l’esercito stavano per compiere un attacco.

In un comunicato l’esercito ha affermato che domenica i soldati hanno aperto il fuoco su un veicolo e ucciso tre passeggeri.

Sostiene di aver eliminato una squadra di terroristi del campo profughi di Jenin identificata mentre si recava a compiere un attacco.

Tra i morti c’è Naif Abu Tsuik, 26 anni, che secondo l’esercito era un “importante esponente militare del campo profughi di Jenin.

L’esercito ha dichiarato che era “coinvolto in azioni militari contro le forze di sicurezza israeliane e in attività militari in fase avanzata dirette dai terroristi nella Striscia di Gaza”, l’enclave costiera controllata dall’organizzazione Hamas.

Secondo Quds News Network il veicolo è stato crivellato da più di cento proiettili.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha elogiato le forze di sicurezza e ha affermato che Israele “continuerà ad agire ovunque e in qualsiasi momento contro coloro che minacciano la nostra vita “.

Hazem Qasem, un portavoce di Hamas da Gaza, ha detto che le morti non rimarranno impunite.

“Il nemico, che ha assassinato tre dei nostri palestinesi, non eviterà di pagare il prezzo dei suoi crimini”, ha affermato in una dichiarazione.

In un reportage dalla Gerusalemme est occupata, Mohammed Jamjoom di Al Jazeera ha detto che il ministero della Salute palestinese ha confermato le morti nell’attacco a sud di Jenin.

“L’esercito israeliano ha detto di aver trovato nel veicolo anche un M-16 [arma d’assalto] “, ha affermato Jamjoom.

Tutto questo si aggiunge all’estrema tensione già presente in loco. Arriva 24 ore dopo un attacco avvenuto a Tel Aviv, in cui un giovane palestinese di Jenin ha sparato sulla gente. Ciò aggiunge molta preoccupazione per ciò che questo fatto potrebbe significare nei giorni a venire.

Mustafa Barghouti, capo del partito Iniziativa Nazionale Palestinese, ha affermato che l’uccisione dei tre palestinesi equivale a un “omicidio extragiudiziale”.

Quello che Israele ha fatto oggi è un altro atto di uccisione extragiudiziale di giovani palestinesi”, ha detto Barghouti ad Al Jazeera. “È un’esecuzione illegale di persone senza alcun tipo di processo giudiziario”.

L’anno più mortale

Più di 200 palestinesi sono stati uccisi quest’anno nei territori palestinesi occupati e le Nazioni Unite hanno avvertito che il 2023 è sulla buona strada per essere l’anno più mortale per i palestinesi da quando esse ha iniziato a registrare il numero delle vittime.

Barghouti ha affermato che queste uccisioni sono una “guerra del terrore” contro la popolazione civile palestinese, che continuerà finché continuerà l’occupazione israeliana.

“L’occupazione esiste da 56 anni, la pulizia etnica dei palestinesi esiste da 75 anni, e senza porre fine a questi due processi ovviamente non ci sarà mai pace in questa regione”, ha affermato.

Jenin è stata un punto critico e teatro di numerosi raid israeliani – molti mortali – negli ultimi mesi. Il più grande raid israeliano del campo in quasi 20 anni ha avuto luogo a giugno, uccidendo 12 palestinesi e costringendo migliaia di persone a fuggire dalle loro case.

Sabato 5 agosto, Kamel Abu Bakr, di Jenin, ha aperto il fuoco nel centro di Tel Aviv e ha ucciso un ispettore della polizia israeliana prima di essere ucciso da un agente che ha risposto al fuoco.

All’inizio di questa settimana, un violento attacco dei coloni nella Cisgiordania occupata ha ucciso il 19enne palestinese Qusai Jamal Maatan, mentre i soldati israeliani hanno sparato a un altro giovane palestinese, il 18enne Mahmoud Abu Sa’an, durante una delle loro incursioni notturne nella Cisgiordania occupata.

L’attacco dei coloni, ha detto Barghouti, è stato effettuato da un uomo che fa parte del governo israeliano.

Il leader politico ha aggiunto che quindi ciò che questo comporta riguardo al rapporto tra i coloni e l’attuale governo di estrema destra israeliano è che “questo governo israeliano è un governo fascista.”

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Organizzazioni ebraiche americane criticano i ‘pogrom’ e il ‘terrorismo’ dei coloni israeliani

Redazione di MEMO

5 luglio 2023 – Middle East Monitor

In una dichiarazione congiunta riportata da Haaretz all’inizio di questa settimana dodici organizzazioni ebraiche statunitensi hanno affermato che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha la piena responsabilità per i “pogrom” ed il “terrorismo” portati avanti dai coloni israeliani.

Come leader delle comunità ebraiche americane, non possiamo rimanere inerti né lo faremo” hanno affermato i firmatari che rappresentano organizzazioni progressiste ,tra cui l’Union for Reform Judaism, [Unione dell’Ebraismo Riformato] il New Israel Fund [Nuovo Fondo Israeliano, ong sionista ma che si oppone all’occupazione e finanzia organizzazioni israeliane dissidenti, ndt.], J Street [associazione liberal simile al NIF, ndt.] e il National Council for Jewish Women [storica associazione delle donne ebree americane, ndt.]. Le organizzazioni hanno espresso la loro “crescente angoscia e orrore” per la recente ondata di “violenti attacchi dei coloni ebrei israeliani contro le comunità palestinesi nella Cisgiordania occupata”.

La dichiarazione è stata rilasciata in seguito ad un gran numero di violenti attacchi in tutti i territori palestinesi occupati da parte di coloni armati e pericolosi. Palestinesi ad Huwara a febbraio e, più recentemente, a Turmus Ayya e in altre città e villaggi palestinesi sono stati oggetto di violenza letale. Morte e devastazione in conseguenza di [attacchi di] coloni feroci armati fino ai denti sono state denunciate come “progrom portati avanti da terroristi”.

La coalizione di governo di estrema destra di Netanyahu è accusata di fomentare la violenza dei coloni “Questo non è venuto dal nulla, ma è in linea con la più ampia agenda del governo di Netanyahu di espansione delle colonie, di rafforzamento dell’occupazione e della deportazione dei palestinesi,” hanno affermato le organizzazioni ebraiche statunitensi.

Esse hanno chiesto al primo ministro israeliano e al suo governo di smettere di “dare potere, scusare o proteggere” coloro che compiono questo attacchi. “Noi chiediamo che coloro che commettono questi attacchi siano processati. Siamo d’accordo con il giudizio degli ufficiali dell’esercito, della polizia e delle agenzie di sicurezza interna israeliane che gli attacchi dei coloni equivalgono a terrorismo nazionalista nel pieno senso del termine”.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Per la prima volta dal 2006 Israele uccide tre attivisti palestinesi in Cisgiordania con bombardamenti aerei

Redazione di Al Jazeera, Palestine Chronicle

21 giugno 2023 – Palestine Chronicle

Per la prima volta dalla Seconda Intifada (sollevazione) palestinese [rivolta avvenuta in Cisgiordania e a Gaza dal 2000 al 2005, ndt.], l’esercito di occupazione israeliano ha effettuato nei pressi di Jenin un assassinio dall’aria di palestinesi.

Mercoledì sera i media palestinesi hanno riferito che un aereo israeliano ha effettuato l’omicidio di un gruppo di palestinesi nella regione di Jalameh vicino alla città di Jenin, nel nord della Cisgiordania.

In un comunicato l’esercito israeliano ha affermato di aver colpito i palestinesi con un “drone dopo che i suoi membri (presuntamente) hanno aperto il fuoco nell’area di Jalameh.”

L’esercito di occupazione israeliano ha anche dichiarato che “la cellula colpita ha effettuato attacchi con armi da fuoco in città israeliane”.

Secondo il comunicato di fonte militare l’ultima volta che l’esercito di occupazione israeliano ha colpito attivisti palestinesi con uccisioni dall’alto è stato nel 2006.

Nel frattempo il Palestinian Civil Defence ha affermato che dentro un veicolo sono stati trovati tre corpi e che “le forze di occupazione si stanno coordinando con le ambulanze israeliane per sequestrare i corpi dei martiri (palestinesi)”.

Al Jazeera ha riferito che le forze di occupazione hanno sparato ai palestinesi che stavano cercando di andare verso il luogo in cui si trovava l’auto colpita per recuperare i corpi.

Cambiamento di politica

Il Canale 14 israeliano ha riferito che il cambiamento della politica di uccisione usando bombardamenti aerei è supportato dal ministro israeliano della difesa Yoav Galant e approvato dal primo ministro Benjamin Netanyahu.

In risposta le Brigate di Jenin, un ramo del braccio armato della Jihad Islamica, le Brigate Al-Quds hanno emesso una dichiarazione:

Un gruppo di nostri eroi ha versato il proprio sangue in un vile assassinio effettuato da un drone dell’esercito di occupazione. (Gli assassinii) non indeboliranno la nostra volontà e i dirigenti del nemico dovranno subire la punizione”.

Le Brigate di Jenin hanno rivelato i nomi dei tre palestinesi: Suhaib al-Ghoul e Muhammad Owais delle Brigate Al-Quds e Ashraf al-Saadi dell’ala militare di Fatah, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La mancanza di scrupoli israeliana a Gaza

Editoriale

10 maggio 2023 – Haaretz

Nel primo attacco dell’offensiva su Gaza denominata Operazione Scudo e Freccia, iniziata nella notte tra lunedì e martedì, sono state uccise 13 persone tra cui 10 civili, tre dei quali bambini. Ma senza batter ciglio è stato affermato che si trattava di un “danno collaterale” dovuto alla necessità di eliminare tre figure di spicco della Jihad islamica. In realtà, è vero il contrario. I tre comandanti dovrebbero essere visti come il “risultato collaterale” dell’uccisione mirata di civili a Gaza.

Il gran numero di civili uccisi solleva questioni spinose sugli aspetti morali e legali di tali operazioni militari, e dovrebbero essere rivolte a più persone. I primi a cui rivolgere queste domande sono i comandanti dell’esercito, che hanno deciso “giudiziosamente” (più precisamente, a sangue freddo) di effettuare un attacco in un momento in cui era molto probabile che intorno agli obiettivi ci fossero civili, compresi bambini. Il secondo è il governo, guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha autorizzato la missione. I decisori si sono assicurati che non ci fossero rischi per la vita dei civili o si sono affidati ai consigli dell’esercito? Hanno calcolato il prezzo omicida dell’azione – uccidere innocenti, compresi i bambini – e sono giunti alla contorta conclusione che il “prezzo” era giusto? Se la risposta è sì, allora questo non è solo un crimine morale, ma un crimine di guerra.

Il terzo è il procuratore generale Gali Baharav-Miara, che ha autorizzato l’operazione senza convocare il gabinetto di sicurezza. Ha accertato a fondo se ci fosse pericolo per la vita dei civili? E se è così, ha ritenuto opportuno approvare l’operazione nonostante il suo costo scellerato?

Ultimi a cui rivolgere le medesime domande sono i piloti che hanno effettuato la missione. Non sapevano, o valutavano, alla luce della situazione in atto e dell’esperienza passata che è molto probabile che il bombardamento di case invece che di siti militari porti all’uccisione di civili? La questione è critica poiché sono stati i membri dell’aeronautica, in particolare i riservisti, a invocare l’insubordinazione contro il golpe di regime [il tentativo di “riforma” giudiziaria del governo Netanyahu, ndt.] I piloti insubordinati vivono in pace uccidendo civili innocenti, bambini compresi? Trovano accettabile eseguire un ordine che ha una “bandiera pirata che ci sventola sopra?”

“Quando sgancio una bomba sento un leggero urto nell’ala”, disse Dan Halutz, ex comandante dell’aeronautica e poi capo di stato maggiore militare (e ora leader della protesta anti-golpe) nel 2002, dopo che 14 civili furono uccisi nel bombardamento della casa di Gaza dell’alto funzionario di Hamas Salah Shehadeh.

La sfacciata arroganza di Halutz riguardo all’omicidio all’ingrosso – per il quale è stato giustamente oggetto di feroci critiche pubbliche – è diventata routine. Non possiamo accettare che i crimini di guerra e la morte di innocenti diventino parte della routine israeliana. Una leadership con questa visione del mondo non può essere legittima in una democrazia.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz, pubblicato sul giornale sia nell’edizione ebraico che inglese in Israele.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il raduno filogovernativo evidenzia le divisioni interne della destra israeliana

Meron Rapoport

2 maggio 2023 – +972 Magazine

Gli alleati di estrema destra di Netanyahu sopravvalutano la loro possibilità di proseguire con la riforma giudiziaria. Ora stanno rivolgendo la pressione contro il primo ministro.

Lo scorso giovedì di fronte alla Knesset 200.000 israeliani di destra hanno chiesto al governo di proseguire con i progetti di riforma giudiziaria e di indebolimento della Corte Suprema. Uno dopo l’altro, leader dell’estrema destra, dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir a quello delle Finanze Bezalel Smotrich, si sono impegnati a non “cedere” alle proteste antigovernative che da gennaio scuotono il Paese.

Ma la manifestazione della destra, denominata la “Marcia del Milione”, riguardava molto più che i tribunali: è stata in primo luogo e soprattutto una protesta contro Benjamin Netanyahu e i suoi tentativi di congelare i progetti del governo. Ed essa dovrebbe preoccupare il primo ministro.

Il 4 gennaio il ministro della Giustizia Yariv Levin e il presidente della commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset Simcha Rothman hanno lanciato un attacco a sorpresa per eliminare le isole di liberalismo della società israeliana. Non è del tutto chiaro quanto Netanyahu sia stato coinvolto nella pianificazione di questo violento attacco, ma dal momento in cui è stato lanciato non ha avuto altra scelta che presentarlo come suo.

Abbiamo già visto in precedenza situazioni politiche simili nella storia di Israele. Oggi sappiamo che nel 1982 il primo ministro Menachem Begin non era al corrente del fatto che il ministro della Difesa Ariel Sharon e il capo di stato maggiore dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] Rafael Eitan avevano da tempo stilato piani d’emergenza per invadere il Libano. Ma ciò non impedì a Begin di approvare l’operazione o di fare nelle prime fasi della guerra tour della vittoria nel Libano occupato.

È molto probabile che la dinamica tra Netanyahu, Levin e Rothman sia simile a quella tra Begin, Sharon ed Eitan. Sia nella riforma giudiziaria che nella prima guerra del Libano l’attacco era basato sulla convinzione che l’altra parte fosse troppo debole e divisa per opporre resistenza. Ma questa convinzione si è molto presto dimostrata errata, o quanto meno non ha preso in considerazione le conseguenze a vasto raggio che avrebbe avuto un simile attacco. E appena esso ha incontrato difficoltà, anche la posizione del governo è stata danneggiata.

Levin e Rothman credevano che il destino della riforma giudiziaria sarebbe rimasto circoscritto alla Knesset e che di conseguenza una maggioranza di 64 deputati sarebbe stata sufficiente per far approvare qualunque cosa volessero. Non avevano previsto le massicce manifestazioni e la mobilitazione dell’industria dell’innovazione tecnologica e dei leader dell’economia contro la riforma giudiziaria. Sicuramente non avevano previsto che l’opposizione avrebbe incluso il rifiuto di massa dell’élite militare, compresi piloti, forze speciali e unità cibernetiche. E sicuramente non immaginavano che il presidente USA si sarebbe messo davanti alle telecamere e avrebbe detto che Israele “sta andando nella direzione sbagliata”, e che quindi non aveva intenzione di incontrare Netanyahu nel prossimo futuro. In breve, hanno sottostimato sia il potere della società civile che l’importanza della legittimazione internazionale ed hanno scoperto in carne propria che queste forze sono molto più forti di quanto pensassero inizialmente.

Cosa altrettanto importante, Levin e Rothman hanno sovrastimato il proprio potere. Nel loro attacco violento hanno scoperto che la loro coalizione era molto più debole di quanto pensassero. Parti consistenti della classe media mizrahi [ebrei israeliani originari dei Paesi arabi o musulmani, ndt.], che rappresenta un settore significativo della base elettorale del Likud, sono titubanti o persino contrarie alla riforma, come evidenziato dalle manifestazioni antigovernative in bastioni della destra come Netanya o Be’er Sheva. Persino gli haredim [ebrei religiosi ultraortodossi, ndt.], che per ragioni loro vogliono annientare il potere della Corte Suprema, hanno scelto di tenere una posizione neutrale ora che il progetto di riforna giudiziaria ha incontrato difficoltà.

Quindi non è un caso che alla “Marcia del Milione di Persone” non non abbiano partecipato quasi per nulla haredim o sostenitori del Likud. Si è trattato principalmente di una manifestazione della destra dei coloni religiosi, dei kahanisti [sostenitori del defunto rabbino di estrema destra Meir Kahane, ndt.] e di elementi fascisti nel Likud che, secondo un sondaggio di Canale 12 [canale televisivo israeliano privato, ndt.], rappresentano una minoranza nel partito.

I risultati sono difficilmente discutibili. La sessione invernale della Knesset si è conclusa senza che neppure una delle riforme di Levin venisse approvata. L’attacco di sorpresa è stato sconfitto alla prima battaglia. Ed è qui che Netanyahu è entrato in campo. Dal momento in cui ha capito che l’assalto aveva perso impeto e che ciò avrebbe potuto provocare enormi danni a Israele, alla stabilità della coalizione e, ovviamente, a lui stesso, ha iniziato a cercare di congelarlo. Levin e Rothman, che sono stati obbligati a passare dalla loro euforia ad affrontare la realtà, hanno dovuto accettare. Questo naturalmente non significa che Netanyahu pianifichi di accantonare totalmente la riforma – appoggia ancora l’indebolimento del sistema giudiziario e il rafforzamento del potere esecutivo – ma sa di avere, almeno a questo punto, la strada bloccata.

Una lotta tutt’altro che finita

Netanyahu vuole piuttosto che il governo ritorni alla guerra di trincea, aspettando il momento giusto per colpire. Per anni la guerra di posizione, quello che alcuni definiscono come “status quo”, è stata la specialità di Netanyahu. Attaccherà le “élite”, abbracciando nel contempo l’industria tecnologicamente avanzata. Dirà che “la sinistra ha dimenticato cosa significhi essere ebreo”, glorificando nel contempo la liberale Tel Aviv e le libertà per la comunità LGBTQ. Parlerà apertamente della soluzione a due Stati, cancellando nel contempo la Linea Verde e annientando l’Autorità Nazionale Palestinese. Venderà Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, dimostrando nel contempo un palese disprezzo per le leggi internazionali.

Nel 1982 Ariel Sharon parlò di “pace in Galilea”, il macabro nome dato a una guerra che intendeva porre il chiodo finale sulla bara del nazionalismo palestinese con l’occupazione di Beirut e l’installazione di un regime filo-israeliano in Libano. Nel 2023 Levin e i suoi amici parlano di “riforma giudiziaria”, ma di fatto intendono formalizzare in pieno la supremazia ebraica tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo].

È così che i leader della riforma, come molti dell’opposizione, vedono il concetto di “democrazia ebraica”: un Paese governato solo dagli ebrei e che si preoccupa solo di loro. La recente proposta da parte di membri del [partito] kahanista Otzma Jehudit [Potere Ebraico], in base alla quale i cosiddetti “valori del sionismo guideranno” lo Stato, è emblematico di questa visione. Distruggere il sistema giudiziario ed eliminare il potere dei settori liberali della società ebraica è un semplice danno collaterale lungo la strada di questo obiettivo.

La comprensione, conscia o inconscia, che questo è il reale obiettivo della riforma può spiegare la generale assenza dalla manifestazione di giovedì della base del Likud, a buona parte della quale importano i valori “liberali”, e degli haredim, molti dei quali non sono ossessionati dalla distruzione del nazionalismo palestinese.

Proprio perché Levin, Rothman e i loro amici vedono sé stessi come rivoluzionari, essi considerano Netanyahu un residuo dell’“Ancien Régime”. Come tale gli propongono una scelta praticamente impossibile: o mettersi l’uniforme da guerra e attaccare insieme la Corte in quella che attualmente appare una battaglia persa, o rischiare di far cadere il suo governo, il che potrebbe aumentare le possibilità che venga condannato e spedito in carcere con accuse di corruzione. La manifestazione di giovedì intendeva ricordargli questa amara verità.

Il fatto che la guerra lampo di Levin e Rothman abbia fallito non significa che rinuncino alla lotta. Al contrario, sembrano ancor più determinati a far approvare la riforma. Quello che complica ulteriormente la situazione è il fatto che neppure il movimento di protesta israeliano sa cosa fare del suo sorprendente successo nel respingere la destra. Sembra che le parti più conservatrici del movimento siano pronte ad accettare l’idea di una guerra di trincea, del ritorno allo status quo e della preservazione delle loro significative posizioni di potere nella società, nell’economia e nell’esercito israeliani.

Eppure pare che ci sia anche una parte del movimento di protesta che intende approfittare di questo momento per cambiare radicalmente le regole del gioco e spingere Israele a diventare una vera democrazia, attraverso la stesura di una costituzione oppure con l’approvazione di una Legge Fondamentale che sancisca l’uguaglianza per tutti. Questo segmento è in sintonia con le richieste di non tornare al “vecchio ordine”, sia che si tratti dei rapporti tra ashkenaziti e mizrahi o tra ebrei e arabi, o dell’occupazione. Ma questa parte del movimento è ancora debole e non ha un vero piano su come realizzare questo cambiamento radicale.

Proprio come la “Marcia del Milione”, nonostante il suo relativamente grande numero di partecipanti, non è riuscita a nascondere le crepe all’interno del campo della destra, così il successo del movimento di protesta non è riuscito a nascondere le sue divisioni o il fatto che non ha una visione condivisa su come agire. Una cosa è certa: questa lotta è tutt’altro che finita.

Meron Rapoport è un editorialista di Local Call [l’edizione in ebraico di +972 Magazine, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Esperimento fallito: tre motivi per cui Israele teme un ampio conflitto contro Gaza 

Ramzy Baroud

6 febbraio 2023 Middle East Monitor

Sebbene le precedenti guerre di Israele contro Gaza siano spesso state giustificate da Tel Aviv come risposta ai razzi palestinesi o generalmente come azioni di autodifesa, la verità è diversa. Storicamente la relazione di Israele con Gaza è stata determinata dalla necessità di Tel Aviv di creare diversivi alla propria complicata politica, per mostrare i muscoli ai suoi nemici nella regione e per testare le sue innovazioni belliche.

Sebbene la Cisgiordania occupata, e in effetti anche altri Paesi arabi, siano stati usati come campi di prova per la macchina militare israeliana, nessun altro luogo ha permesso a Israele di sperimentare le proprie armi così a lungo come Gaza, facendo di Israele nel 2022 il decimo esportatore globale di armi.

C’è un motivo per cui Gaza è ideale per tali grandiosi, seppur tragici, esperimenti.

Gaza è il posto perfetto per raccogliere informazioni dopo che le nuove armi sono state schierate e usate sul campo di battaglia. Nella Striscia abitano, ammassati in 365 km², due milioni di palestinesi che vivono una misera esistenza, praticamente senza acqua potabile e poco cibo. Infatti, grazie alle cosiddette ‘cinture di sicurezza’ di Israele, gran parte del terreno coltivabile di Gaza che confina con Israele è off limits. I contadini sono spesso uccisi da cecchini israeliani quasi con la stessa frequenza con cui anche i pescatori di Gaza sono presi di mira se si avventurano oltre le tre miglia nautiche a loro assegnate dalla marina israeliana.

The Lab“, [Il laboratorio, N.d.T.], un premiato documentario israeliano uscito nel 2013, descrive con angosciosi dettagli come Israele abbia trasformato milioni di palestinesi in un vero e proprio laboratorio umano per testare nuove armi. Anche prima, ma soprattutto da allora, Gaza è il principale campo di prova per usare questi armamenti.

Gaza è stato ‘ il laboratorio’ anche per esperimenti politici israeliani.

Dal dicembre 2008 al gennaio 2009, quando l’allora prima ministra israeliana pro-tempore Tzipi Livni decise, parole sue, di ” andarci giù pesante”, lanciò contro Gaza una delle guerre più letali sperando che la sua avventura militare l’avrebbe aiutata a consolidare il sostegno al suo partito nella Knesset.

All’epoca Livni era a capo di Kadima [partito politico israeliano centrista, N.d.T.], fondato nel 2005 dall’ex leader del Likud Ariel Sharon. Subentratagli, Livni volle dimostrare il suo valore di personalità forte capace di dare una lezione ai palestinesi.

Sebbene il suo esperimento le avesse guadagnato un certo consenso nelle elezioni del febbraio 2009, dopo la guerra del novembre 2012 le si ritorse contro, nelle elezioni del gennaio 2013 Kadima fu quasi annientata e alla fine scomparve completamente dalla mappa politica israeliana.

Quella non è stata né la prima né l’ultima volta in cui i politici israeliani hanno cercato di usare Gaza e distrarre dalle proprie sventure politiche o per dimostrare le loro credenziali come protettori di Israele uccidendo palestinesi.

Tuttavia nessuno ha perfezionato l’uso della violenza per guadagnare consensi politici quanto l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu. Ritornando a capo del governo più estremista nella storia di Israele, Netanyahu è ansioso di restare al potere, soprattutto perché la sua coalizione di destra ha un sostegno più solido nella Knesset di tutti gli altri cinque governi degli ultimi tre anni.

Con un elettorato di destra a favore della guerra che è molto più interessato all’espansione illegale delle colonie e alla ‘sicurezza’ che alla crescita economica o all’uguaglianza socioeconomica, Netanyahu dovrebbe, almeno tecnicamente, essere in una posizione più forte per lanciare un’altra guerra contro Gaza. Allora perché sta esitando?

Il primo febbraio un gruppo palestinese ha lanciato un razzo verso il sud di Israele causando una risposta israeliana intenzionalmente limitata.

Secondo le fazioni palestinesi della Striscia assediata il razzo fa parte della continua ribellione armata dei palestinesi della Cisgiordania. Doveva servire a dimostrare l’unità politica fra Gaza, Gerusalemme e la Cisgiordania.

La Cisgiordania sta vivendo i suoi giorni più cupi. Solo a gennaio sono stati uccisi dall’esercito israeliano 35 palestinesi, dieci dei quali sono morti a Jenin in un solo raid israeliano. Un palestinese che ha agito da solo ha reagito uccidendo sette coloni ebrei nella Gerusalemme Est occupata, la scintilla perfetta di quella che normalmente avrebbe causato una massiccia risposta israeliana.

Ma tale risposta per ora è stata limitata alla demolizione di case, arresti e tortura dei famigliari degli aggressori, assedio militare di varie città palestinesi e centinaia di attacchi individuali di coloni ebrei contro i palestinesi.

Una guerra vera e propria, specialmente a Gaza, non si è ancora concretizzata. Ma perché?

Primo, i rischi politici di attaccare Gaza con una lunga guerra, almeno per ora, prevalgono sui vantaggi. Sebbene la coalizione di Netanyahu sia relativamente stabile, le aspettative degli alleati estremisti del primo ministro sono molto alte. Una guerra con un esito incerto potrebbe essere considerato dai palestinesi come una vittoria, un’idea che da sola potrebbe mandare in pezzi la coalizione. Anche se Netanyahu potrebbe scatenare una guerra come ultima risorsa, al momento non ha bisogno di un’alternativa così rischiosa.

Secondo, la resistenza palestinese è più forte che mai. Il 26 gennaio Hamas ha dichiarato di aver usato missili terra-aria per respingere un attacco israeliano contro Gaza. Sebbene l’arsenale militare del gruppo di Gaza sia piuttosto rudimentale, quasi tutto prodotto in loco, è molto più avanzato e sofisticato se confrontato con le armi usate durante la cosiddetta “Operazione [israeliana] Piombo fuso ” nel 2008.

E infine le riserve di munizioni israeliane devono essere al loro punto più basso da molto tempo. Ora che gli USA, il maggiore fornitore di armi a Israele, ha attinto alla sua riserva di armi strategiche a causa della guerra Russia-Ucraina, Washington non sarà in grado di rifornire gli arsenali israeliani con costanti forniture di armamenti come aveva fatto l’amministrazione Obama durante la guerra del 2014. Persino più preoccupante per l’esercito israeliano, a gennaio il New York Times ha rivelato che “il Pentagono sta attingendo a una vasta, ma poco nota, scorta di forniture militari americane in Israele per andare incontro alla disperata necessità di proiettili di artiglieria in Ucraina …”

Sebbene ci sia un maggiore rischio di guerre israeliane contro Gaza rispetto al passato, un Netanyahu intrappolato e messo in difficoltà potrebbe ancora far ricorso a un tale scenario se avesse la sensazione che la sua leadership fosse in pericolo. Infatti nel maggio 2021 il leader israeliano ha fatto proprio questo. Eppure anche allora non ha potuto salvare sé stesso o il proprio governo da una sconfitta umiliante.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




È ufficiale: il fascismo siamo noi

Yossi Klein

4 novembre 2022 – Haaretz

La vittoria della coalizione di Netanyahu e la sconfitta della sinistra non sono né sorprendenti né l’aspetto più significativo delle elezioni. C’è stato un vincitore in queste elezioni: il nazionalismo sionista religioso. Netanyahu se ne andrà, e anche Ben-Gvir. Il fascismo è destinato a rimanere. Non è più uno degli attori politici in campo: è una visione del mondo.

Si tratta di un cambiamento drammatico e storico. Il fascismo si è affermato. Il quadro generale è che si è manifestato con il punteggio di 14 a 0: 14 seggi per il fascismo, 0 per la sinistra. È una sconfitta cocente. Israele ha adottato la visione del mondo del peggiore dei suoi nemici. Chiamiamola con il suo nome: Ben-Gvir [leader della coalizione di estrema destra Sionismo Religioso, ndt.] il Ben-gvirismo è kahanismo [ideologia suprematista e razzista del defunto rabbino Meri Kahane, ndt.] ed è fascismo.

Non siamo rimasti sorpresi. Siamo rimasti indifferenti. Abbiamo chiamato l’emergente fascismo “un processo”, nella speranza che sarebbe stato contenuto a lungo, o almeno non sarebbe fiorito finché ci fossimo stati noi in giro. Ma il 14 a 0 non è solo una fase, l’ha già superato. I processi sono dinamici, si sviluppano e avanzano, prima alla Knesset, poi al governo, e poi a casa tua.

Il fascismo è una vecchia conoscenza. È qui fin dal 1967, forse da prima. La gente si vergognava di chiamarlo così, ma era qui ad ogni passo, anche se lo abbiamo accettato in silenzio. Oggi non c’è più vergogna. Il fascismo non è più una parolaccia. Oggi puoi chiamare qualcuno fascista e non si sente insultato. Chiamaci fascisti se ne hai voglia, a Otzma Yehudit [Potere Ebraico, il partito di Ben-Gvir, ndt.] non ci importa, nelle prossime elezioni Ygal Amir [kahanista e uccisore del primo ministro Yitzhak Rabin, ndt.] avrà un posto di rilievo nelle liste elettorali.

Nello stesso modo in cui legittimiamo Ben-Gvir legittimiamo il fascismo. Lo trasformeremo. Prenderemo l’estrema destra, gli metteremo una kippah [copricapo degli ebrei religiosi, ndt.] e le frange rituali e avremo il fascismo sionista religioso. Umberto Eco ha definito il fascismo anche come una profonda passione per la tradizione, la concezione del dissenso come tradimento, un’ossessione per il complotto e la venerazione dell’eroe e della morte. Il fascista ebreo sionista religioso ha tutto questo.

Quando l’estrema destra è arrivata al potere in Italia non siamo stati presi dal panico e non abbiamo chiesto agli ebrei di venire a vivere in Israele. Che importa se 80 anni fa gli ebrei furono uccisi in suo nome? Direte che non si può fare un parallelo e che il fascismo ha anche i suoi aspetti bellissimi. Apprezzerà il patriottismo, elogerà la disciplina.

Di chi è la colpa della vittoria del fascismo qui? A breve termine, la televisione commerciale, e a lungo termine il sistema educativo. La televisione ha costruito Ben-Gvir come un ridicolo pagliaccio, una macchietta innocua, e gli ha fornito una piattaforma che nessun politico si era mai sognato. Ora, quando il genio è uscito dalla bottiglia si rifiuta di tornarci dentro. Non c’è da preoccuparsi della televisione, è già pronta per i nuovi padroni, a prostrarsi e a leccargli i piedi.

Che la televisione commerciale adulasse il fascismo non ci ha sorpresi. Eravamo preparati. Per 75 anni nelle scuole hanno evitato di chiamare il fascismo con il suo nome. “Amore per la patria”, “insediamenti”, “estrema destra”. Ci hanno insegnato che siamo migliori del resto del mondo, ma anche le sue vittime. Grazie al rapporto tra autocommiserazione e arroganza, abbiamo fatto quello che la democrazia rifiuta e il fascismo accetta. Ogni ministro dell’educazione ha contribuito all’avanzata del fascismo. Ogni programma scolastico lo ha rafforzato. Lo hanno diluito con ingredienti intesi a offuscarne l’essenza: “il nostro diritto alla terra” ci ha dato il diritto di espellere rifugiati e tormentare gli occupati. I genitori hanno sgranato gli occhi increduli: sono andati a dormire con bravi bambini e si sono svegliati con truppe d’assalto. Se davvero vogliono sapere da dove i loro figli hanno ricevuto questa malvagità, dovrebbero andare nelle loro scuole e leggere i programmi, controllare cosa imparano e soprattutto ciò che non gli viene consentito di imparare.

Capiranno che puoi insegnare ai diciassettenni i diritti umani, la giustizia e l’uguaglianza di fronte alla legge, mentre come soldati gli verrà chiesto di calpestarli. Non puoi insegnare l’uguaglianza in un Paese conquistatore e spiegare cos’è un confine quando non ti viene permesso di citare la Linea Verde [che separa Israele dalla Cisgiordania, ndt.]. Forse è già troppo tardi. Forse abbiamo perso l’occasione e il fascismo non può più essere sradicato.

Come ogni movimento fascista, userà strumenti democratici per vincere, rifletterà la visione del mondo della maggioranza dell’opinione pubblica. È legittimo? Ma può il fascismo essere legittimo in un Paese democratico? L’ingresso ufficiale del fascismo nelle nostre vite è il vero messaggio delle elezioni. Si parla del processo a Netanyahu, del servizio militare di Lapid [polemica contro l’ex-primo ministro che avrebbe fatto il militare come giornalista e non in unità operative, ndt.] e non dell’elefante nella stanza. Lo si è evitato, ignorato. Dopo queste elezioni chiunque deve chiedersi se è ancora orgoglioso di essere israeliano.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele uccide 4 palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate

Redazione di Al Jazeera

3 novembre 2022 – Al Jazeera

Un uomo, Daoud Rayan, è stato ucciso a Beit Dukku un giorno dopo che un altro abitante della città è stato ucciso vicino a un posto di blocco.

Le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi in differenti incidenti in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

Giovedì la violenza è scoppiata mentre Israele conteggiava i voti definitivi nelle elezioni nazionali svoltesi questa settimana, e si prevede che l’ex Primo Ministro Benjamin Netanyahu sarà alla guida di un’ampia maggioranza sostenuta da alleati di estrema destra.

Il Ministero della Salute palestinese ha detto che un palestinese è stato ucciso dal fuoco israeliano in Cisgiordania. È stato identificato come il quarantaduenne Daoud Mahmoud Khalil Rayan di Beit Duqqu, in Cisgiordania.

La polizia israeliana ha dichiarato che le guardie di frontiera paramilitari hanno fatto irruzione in casa di un palestinese che sostenevano avesse lanciato la propria auto mercoledì contro un soldato israeliano. La polizia ha detto che lì gli agenti hanno affrontato una protesta durante la quale i dimostranti hanno lanciato pietre e ordigni incendiari contro i poliziotti. Allora questi hanno aperto il fuoco contro chi aveva scagliato l’ordigno.

In un altro incidente occorso giovedì, secondo la polizia un palestinese avrebbe accoltellato un agente di polizia nella Città Vecchia di Gerusalemme e gli agenti hanno aperto il fuoco, uccidendolo. L’agente è rimasto lievemente ferito.

Nel frattempo due palestinesi, compreso un combattente della Jihad islamica, sono stati uccisi nel corso di incursioni dell’esercito a Jenin.

Le violenze si sono verificate mentre in Israele sta avvenendo un cambiamento politico dopo le elezioni nazionali, con l’ex Primo Ministro Benjamin Netanyahu che probabilmente tornerà al potere con un governo di coalizione composto da alleati di estrema destra, incluso il parlamentare di estrema destra Itamar Ben-Gvir, che in risposta agli incidenti ha detto che Israele presto userà un approccio più duro nei confronti degli aggressori.

È arrivato il momento di riportare la sicurezza nelle strade”, ha twittato. “È arrivato il momento che un terrorista che sta per compiere un attacco venga eliminato!”

Gli incidenti sono stati gli ultimi di un’ondata di violenze in Cisgiordania e a Gerusalemme est che quest’anno ha ucciso più di 130 palestinesi, facendo del 2022 l’anno con il maggior numero di vittime dal 2015.

Le forze israeliane hanno compiuto incursioni quasi quotidiane in Cisgiordania e i combattenti palestinesi hanno risposto attaccando soldati israeliani.

Le incursioni sono state parte dell’operazione israeliana “Spezzare l’onda”, che è un tentativo di porre fine all’emergere di nuovi gruppi di resistenza palestinesi in Cisgiordania.

Nelle ultime settimane le incursioni sono state accompagnate da un aumento degli attacchi contro israeliani, che hanno fatto almeno tre morti.

Sempre giovedì Israele ha rimosso alcuni posti di blocco in entrata e uscita da Nablus. Israele ha imposto le restrizioni settimane fa, attuando un giro di vite sulla città in risposta ad un nuovo gruppo militante noto come “La fossa dei leoni”. Nelle settimane scorse l’esercito ha condotto ripetute operazioni in città, uccidendo o arrestando i comandanti al vertice del gruppo.

Israele ha conquistato la Cisgiordania nella guerra del 1967 e da allora ha mantenuto un’occupazione militare illegale sul territorio e vi ha insediato più di 500.000 persone. I palestinesi vogliono il territorio, insieme alla Cisgiordania e Gerusalemme est per il loro auspicato Stato indipendente.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Punito per aver detto la verità sull’estrema destra israeliana

Sheren Falah Saab

31 ottobre 2022 – Haaretz

Questo è ciò che è successo quando un presentatore televisivo ha osato dire la verità sulle posizioni politiche razziste di Smotrich e Ben-Gvir, sconvolgendo un ecosistema mediatico che per lo più intende ripetere i messaggi di Netanyahu e dei suoi alleati.

In questi giorni la verità disturba, soprattutto se detta nei mezzi di comunicazione israeliani. La tempesta sulle considerazioni di Arad Nir sabato nel notiziario di Channel 12 [Canale 12, rete televisiva privata israeliana, ndt.] “World Order” [Ordine internazionale] ne sono la dimostrazione assoluta. “In base ai sondaggi pubblicati questo fine settimana non c’è ancora una scelta definitiva tra il blocco leale al leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu, sotto processo per corruzione, frode e abuso d’ufficio, e la coalizione di partiti che gli si oppongono,” ha detto Nir. “E ciò persino dopo che Netanyahu ha legittimato l’estremista di destra Itamar Ben-Gvir e lo ha spinto ad allearsi con Bezalel Smotrich, che vuole che lo Stato di Israele venga governato in base alla legge della Torah, in un partito il cui nome provoca un certo disagio: Otzma Yehudit [Potere ebraico].” Nir non ha detto niente di nuovo. Al contrario, è fedele alla verità e accurato rispetto ai fatti.

Ma perché essere fedele ai fatti quando dai giornalisti di Channel 12 ci si aspetta che ripetano i messaggi del padrone, il capo dell’opposizione C e compagni? A Channel 12 sono abituati ad agire solo all’interno del quadro dei limiti prestabiliti per loro e come portavoce di Netanyahu. Nel caso di Nir è inquietante il fatto che Avi Weiss, il direttore generale di Channel 12 News, abbia richiamato e rimproverato Nir.

Cosa c’è di inquietante nelle affermazioni di Nir? Non ha fatto altro che mettere uno specchio davanti alla situazione politica di Israele ed è suffragato dai fatti, in quanto sono stati presentati in continuazione nelle discussioni politiche sui media negli ultimi due anni. Nir non ha normalizzato il razzismo e non ha glorificato il kahanismo [ideologia del defunto rabbino di estrema destra Meir Kahane, cui Ben-Gvir si ispira, ndt.]. Le sue parole sono la pura verità sulla politica israeliana e su come Netanyahu ha legittimato con le sue mani il capo di Otzma Yehudit, il deputato Itamar Ben-Gvir, e si è preso la briga di metterlo in contatto con il capo di Sionismo Religioso, Bezalel Smotrich. Ma pare che a Channel 12 temano la verità e i fatti e sia più facile agire all’interno del quadro delle “interpretazioni” funzionali solo alla narrazione del nostro padrone. Nir è stato l’unico che abbia osato sfidare le imbeccate messe sulla dei giornalisti di Channel 12, ed egli è stato redarguito e persino convocato per un chiarimento.

Di fatto è stato Channel 12, che sostiene di agire in un quadro di oggettività conservando un delicato equilibrio, che recentemente ha presentato un sondaggio che includeva la domanda: “Concordi con l’affermazione secondo cui il governo si appoggia su sostenitori del terrorismo?” [in riferimento al partito arabo-israeliano Ra’am, che faceva parte della coalizione di governo, ndt.]. Amit Segal, che ha presentato il sondaggio, si è preso la briga di spiegare: “Una maggioranza di personalità influenti lo pensa: il 47% è d’accordo, il 43% dissente.”

Segal non è stato rimproverato ed ha persino ricevuto il sostegno e la legittimazione per una domanda che molte persone pensano inciti e normalizzi il razzismo contro i cittadini arabi di Israele. Anche i partecipanti alla discussione sono rimasti in silenzio. Ciò era quello che ci si aspettava da Nir, che continuasse a stare zitto, annuisse e persino che dipingesse le azioni politiche di Netanyahu e della sua banda come liberalismo, democrazia e la volontà del popolo. Proprio ora, solo a un giorno da elezioni cruciali, è dovere di ogni giornalista rispettabile e dedito alla professione presentare la verità e i fatti, anche quando sono imbarazzanti per il direttore generale dell’impresa di notizie o per Segal.

Nir ha cercato di rompere il muro del silenzio in base al quale Channel 12 opera ed ha osato dire un’altra verità che la maggior parte della gente sceglie di ignorare riguardo a Otzma Yehudit. Nei suoi commenti sul partito Nir è stato moderato e non ha menzionato il fatto che Ben-Gvir è l’uomo che disse di Yitzhak Rabin, dopo aver strappato lo stemma dalla macchina dell’allora primo ministro: “Siamo arrivati alla sua auto, arriveremo anche a lui.” Nir non ha neppure citato le dichiarazioni di Ben–Gvir sulla cosiddetta “Legge delle Espulsioni” e i treni per trasferire parlamentari come il capo di Hadash [partito arabo-israeliano laico di sinistra, ndt.], Ayman Odeh. Non ha neppure citato, e forse è il caso di ricordarlo al direttore generale dell’impresa, quello che ha detto Smotrich lo scorso anno dal podio della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.], rivolto ai parlamentari arabi con una dichiarazione che rappresenta assolutamente razzismo, odio e incitamento alla violenza: “Siete qui per sbaglio, perché (il fondatore e primo capo del governo di Israele David) Ben Gurion non finì il lavoro e non vi espulse nel 1948.”

Il richiamo a Nir evidenzia il meccanismo in base al quale opera Channel 12, il controllo repressivo del modo di pensare che blocca ogni possibilità di pensiero critico. L’idea del trasferimento e di una seconda Nakba [Catastrofe, cioè l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi nella guerra del 1947-49, ndt.] non è comparsa dal nulla, sono cose che sono state dette da Smotrich e Ben-Gvir con la legittimazione di Netanyahu, sotto processo per reati penali. Questo non è solo un rimprovero, ma la riduzione al silenzio di un giornalista che non vuole ignorare la politica di razzismo etnico di Ben-Gvir e Smotrich nè partecipare alla censura che priva i cittadini della possibilità di giudicare la realtà senza una propaganda dettata dall’alto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Casa dolce casa: il mio amaro ritorno in Palestina

Fida Jiryis

27 settembre 2022 – The Guardian

Per tutta la mia vita i miei genitori esuli mi avevano parlato della tragedia della Palestina. Poi, quando avevo circa 20 anni, la mia famiglia ci è ritornata e l’ho vista con i miei occhi

Misi piede nel mio paese per la prima volta a 22 anni. I miei genitori erano palestinesi, ma, nel 1970, andarono in esilio. Dopo esser fuggiti dalla guerra in Libano vivemmo a Cipro.

Ora una nuova era di riconciliazione era arrivata. Circa un anno dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993 fra Israele e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) ci fu finalmente permesso di ritornare. Fu emozionante ritornare dopo tanti anni alla nostra casa avita. La nostra grande famiglia in Galilea fu felicissima, specialmente i miei nonni, e fummo sommersi da un’ondata di amore. Ero elettrizzata perché finalmente stavo ritornando. Volevo una patria. Non volevo più sentirmi come una straniera. Era il sogno che si avverava. Gli anni senza una patria erano alle nostre spalle. Ma tornare a casa per tutti noi fu molto più arduo di quanto avessi immaginato.

Per mio padre fu difficile trovare il proprio posto in Israele che era cambiato così drasticamente negli anni in cui era stato via. Era cresciuto in un villaggio rurale in Galilea, ma era andato in esilio per il suo impegno politico e la sua collaborazione in un movimento di resistenza palestinese. Aveva anche pubblicato un libro, Gli arabi in Israele, descrivendo il duro destino dei palestinesi che erano rimasti dopo l’occupazione. A Beirut e poi a Cipro aveva lavorato per l’OLP per diventare uno stretto collaboratore del suo leader, Yasser Arafat. Al nostro ritorno Arafat insistette perché accettasse una carica nell’Autorità Palestinese di nuova fondazione.

Ma mio padre non voleva un incarico burocratico perché sentiva che lo avrebbe condizionato dopo anni di ricerca e produzione saggistica indipendente. Rimase un consulente di Arafat, incontrandosi con lui nel suo ufficio, in hotel o con amici. Il quartier generale dell’OLP era stato spostato dalla Tunisia in Cisgiordania. I palestinesi in Israele erano in gran parte liberi dalla persecuzione che mio padre aveva subito prima di partire quando era stato ripetutamente vessato e arrestato, le case della famiglia saccheggiate e distrutte. Ora però avevano a che fare con un sistema più generalizzato di discriminazione.

Poche settimane dopo il nostro arrivo al villaggio di nostro padre lui portò me e il mio fratello minore a fare un giretto in macchina. Non andammo lontano: dopo poco più di un chilometro entrammo in un paesino. “Questo è Deir el-Qasi,” disse. Sul cartello c’era scritto: “Elqosh”. Nel 1948, dopo la distruzione della Palestina, che noi chiamiamo Nakba o catastrofe, Deir aveva subito la pulizia etnica e il cambio di nome.

Attraversammo stradine tranquille fiancheggiate da case e alberi flessuosi. C’erano dei pollai. Papà fermò la macchina e uscimmo. “Vedete questa?” indicò un’antica struttura in pietra. “Questa è una delle case originarie del villaggio.”

Fissandola fui colpita dalla realtà. Per tutta la mia vita avevo letto e sentito della tragedia della Palestina. Adesso la vedevo.

Non buttarono giù tutte le case,” stava dicendo papà. “Alcune furono risparmiate perché i nuovi arrivati venivano dallo Yemen e a loro piacevano le case arabe. Ce n’è un’altra … ”

La gente di Elqosh allevava le galline, pascolava le mucche e coltivava verdura e frutta. Venivano al nostro villaggio, Fassouta, per piccoli commerci e per andare dal dottore o dal dentista. Dopo essermi stabilita nel villaggio, passavo da quel posto ogni giorno. A loro volta le case di Deir el-Qasi che mio padre ci aveva mostrato mi fissavano. Cosa era peggio, mi chiedevo, avere la propria casa distrutta o che fosse rimasta intatta, ma abitata da altri?

Dall’arrivo dei bulldozer israeliani del villaggio di Suhmata erano rimasti pochi ulivi e alcune pietre sporgenti. La maggior parte dei suoi abitanti era in Libano, ma qualcuno era riuscito a restare e viveva nei paesi vicini. Ho incontrato parecchie famiglie a Fassouta. Di nuovo mi chiesi cosa fosse più penoso: essere stati totalmente tolti di mezzo e lontano o dover attraversare il posto del loro villaggio e vederne le rovine?

In realtà io e la mia famiglia fummo fortunati, una rara “eccezione”. Sebbene gli accordi di pace permetessero il ritorno nel territorio palestinese di parecchie migliaia di appartenenti all’OLP, solo a un numero molto ristretto fu permesso di ritornare alle proprie cittadine o ai villaggi di origine in Israele, e solo se avevano la cittadinanza israeliana prima di andarsene. Mentre riprendeva la tensione tra OLP e Israele solo circa dieci [rifugiati] erano riusciti a ritornare e alcuni portarono con sé le proprie famiglie. Noi non avevamo punti di riferimento, nessuno con cui parlare che avesse vissuto la nostra stessa esperienza.

I palestinesi erano al fondo della scala sociale. La vecchia generazione ricordava gli anni di regime militare [lo stato d’assedio imposto fino al 1966 ai palestinesi rimasti in Israele, ndt.] e oppressione. Erano vissuti sotto una pesante cappa di intimidazioni. Per decenni loro stessi non si erano neppure chiamati palestinesi. Anzi per definirci avevamo un fantastico ossimoro: “arabi israeliani”. Quando menzionavo la Palestina, la gente di Fassouta reagiva con un silenzio sconcertato o con profondo disagio. Anche quando parlavamo della nostra posizione di inferiorità in Israele, loro la vedevano solo dalla prospettiva del lavoro e dei loro problemi più pressanti. Per sopravvivere avevano dovuto far parte del sistema israeliano. Per le generazioni più giovani, nate dopo la creazione di Israele, questo sistema era tutto quello che conoscevano.

Nel villaggio c’era poco lavoro. Fu chiaro che dovevo lasciare la mia famiglia per trovarne uno. Il fratello più giovane di mio padre, George, lavorava per le Pagine Gialle e viveva ad Haifa. Mi trovò un posto da uno dei suoi clienti, una ditta che vendeva software didattici. Lo stipendio era basso, ma dovevo pur cominciare da qualche parte. Haifa era a un’ora e mezza di macchina, ma non potevo permettermene una. Dovevo trasferirmi e trovai una stanza in un appartamento con delle studentesse universitarie di Fassouta che frequentavano il primo anno di studi.

La casa era vecchia e squallida, ma era tutto quello che potevamo permetterci. Dividevo la stanza con una delle ragazze e le altre due occupavano l’altra. Era difficile avere un po’ di privacy ed io ero l’intrusa perché erano tutte cugine e sembravano incerte su come rapportarsi con me. La nostra prima sera là le ho aiutate a pulire l’appartamento e poi abbiamo cenato. Non riuscii a dormire fino a tardi, mi giravo e rigiravo nel letto e non ero sicura che anche la mia compagna di stanza dormisse. Ma mi imbarazzava cercare di parlarle.

Il mattino dopo riuscimmo appena a mangiare qualche fetta di pane tostato prima di uscire. Avevamo i nervi a fior di pelle: per loro era il primo giorno di università e per me di lavoro. Non avevo idea di dove andare, ma loro lessero i cartelli del bus e mi aiutarono. La loro fermata era prima della mia, loro scesero e si girarono sorridendomi e facendomi ciao con la mano. Risposi con un cenno, combattendo il senso di panico.

Guardai davanti e vidi salire sull’autobus due soldati. Strabuzzai gli occhi. Portavano delle armi. Camminarono lungo il corridoio e si sedettero nei due posti vuoti davanti a me. Fissai i fucili che portavano a tracolla sulle spalle. Era la prima volta che vedevo il freddo metallo così da vicino. Deglutivo con fatica. Nessuno girava armato a Cipro. Perché c’erano armi per le strade? Era normale? E se fosse partito un colpo?

Volevo cambiare posto. Guardandomi intorno vidi che tutti i sedili erano occupati. Ce n’era uno proprio al fondo, ma là c’erano ancora più soldati. Tutti chiacchieravano normalmente mentre l’autobus continuava per la sua strada. Io ero l’unica a sudar freddo.

Sembrava anche che io fossi l’unica palestinese. Mi dissi di restare calma. Ero probabilmente non troppo lontana dalla mia fermata. Per quanto cercassi, non riuscivo a scacciare il terrificante pensiero che impazzava nella mia mente: “Sono su un autobus con dei soldati israeliani!”

Dopo dieci minuti riconobbi la zona, suonai velocemente la richiesta di fermata e mi precipitai fuori. In strada respirai profondamente e mi diressi verso il mio ufficio. Ero frastornata, avevo una sensazione surreale, quasi come se fossi in un incubo.

Il primo giorno di lavoro fu complicato. Ero sola, un piccolo sottotetto senza finestre con il soffitto basso e mi avevano incaricata di testare i software. Fu un gran sollievo quando arrivarono le 5, ora di andarmene, ma di nuovo la paura mi attanagliò lo stomaco.

Sull’autobus per casa guardavo fuori dai finestrini mentre avanzavamo lentamente attraverso il traffico dell’ora di punta. Le insegne e i cartelli stradali erano tutti in ebraico. C’erano solo alcuni ristoranti con insegne in arabo. Le conversazioni intorno a me erano in ebraico. Altri soldati salirono, sgomitando per farsi posto nell’autobus affollato. Fu in quel momento che una sensazione di gelo attanagliò il mio cuore. Non ero neIla Palestina dei miei sogni.

Il 14 maggio sperimentai il mio primo anniversario dell’Indipendenza d’Israele. Gli israeliani sventolavano bandiere, facevano feste e barbecue su quella che era la terra palestinese. Il Paese rimase tappezzato di bandiere per settimane, prima e dopo, anche più del solito. C’era veramente bisogno di una bandiera nella piscina di Nahariya, nello sporco caffeuccio vicino alla stazione degli autobus, al terminal degli autobus e ancora, ogni poche centinaia di metri, sul lungomare?

Quel giorno ero così depressa che decisi semplicemente di restare a casa.

Al villaggio la situazione era ancora più deprimente. Oltre la metà dei palestinesi in Israele viveva sotto la soglia di povertà. La maggior parte del budget dello Stato per le infrastrutture e lo sviluppo economico andava alle comunità ebraiche. Noi non avevamo iniziative imprenditoriali, nessuna industria o fabbrica. Molte delle nostre amministrazioni locali erano insolventi e la maggior parte doveva raccogliere fondi per conto proprio per installare infrastrutture essenziali come reti idrauliche e fognarie.

La maggior parte delle famiglie del mio villaggio guadagnava circa la metà di una famiglia ebrea media. Le nostre comunità avevano un’aspettativa di vita più bassa e un numero maggiore di persone soffriva di malattie collegate allo stress, come diabete e ipertensione. E per aggiungere al danno la beffa, il termine ebraico avoda aravit, o “lavoro arabo”, si usava comunemente per definire un lavoro di qualità scadente o fatto alla carlona, nonostante la triste ironia che quasi tutto Israele fosse stato costruito da mani palestinesi.

Non era più facile per chi aveva un’istruzione, il villaggio era pieno di laureati frustrati in attesa di colloqui di lavoro che non arrivavano mai. Uno dei miei cugini si era laureato al Technion, l’Istituto israeliano di tecnologia. Scoprii che c’erano parecchie materie che i palestinesi non potevano studiare con il pretesto della “sicurezza”, come, per esempio, certi campi della fisica, della scienza nucleare e dell’addestramento piloti. Sul lavoro erano completamente esclusi, fra le altre, dalle industrie della difesa e dell’aviazione. Per evitare di non trovare lavoro molti studenti si rivolgevano alle libere professioni, come legge, architettura del paesaggio, odontoiatria e altre professioni mediche in cui potevano aprire i propri studi.

Un weekend andai a Ramallah a trovare Raja e Sawsan, vecchie amiche dell’università. Eravamo strafelici di rincontrarci. “L’unica cosa buona di Oslo,” risero, “è che siamo riuscite a rivederti.”

Le mie amiche erano bloccate in Cisgiordania. Prima degli accordi potevano viaggiare liberamente nel Paese. “Semplicemente ci mettevamo in macchina e partivamo,” mi dissero. “Per Haifa, Gerusalemme, per le spiagge di Giaffa.” Ora c’erano checkpoint israeliani a tutti i varchi per Israele e i palestinesi avevano bisogno di permessi per attraversarli. Inoltre non si poteva usare l’aeroporto di Tel Aviv, a soli trenta minuti. Per viaggiare all’estero si doveva andare in Giordania e partire da Amman, perdendo altro tempo e soldi.

La sovranità palestinese stabilita dagli accordi era una mera facciata. I documenti di identità e i passaporti rilasciati dall’autorità avevano bisogno dell’approvazione israeliana, come se rilasciati dalle forze di occupazione israeliane. Tutti i valichi di frontiera erano controllati da Israele. Peggio, la nuova forza di polizia palestinese era diventata uno strumento per il coordinamento con Israele per la sicurezza, inseguendo e consegnando chi era impegnato nella resistenza. Nessuno avrebbe potuto immaginare uno scenario simile.

Gli oppositori alle nuove disposizioni finivano esclusi dagli impieghi e dai privilegi di far parte dell’Autorità [palestinese] o imprigionati. “Stiamo vivendo in un incubo peggiore di prima,” mi diceva Raja. Gli accordi avevano asservito economicamente, politicamente e in ogni aspetto della vita i palestinesi a Israele. Quando furono firmati gli accordi di Oslo si presupponeva che l’attività di colonizzazione da parte di Israele nel territorio palestinese sarebbero cessate immediatamente e che, tre anni dopo, sarebbero iniziati i negoziati su temi significativi, tra cui rifugiati, colonie e confini, mirando a un totale ritiro di Israele entro cinque anni. Ma Israele aveva già buttato i suoi impegni alle ortiche.

Benjamin Netanyahu, neo eletto primo ministro con il partito di destra Likud, si oppose allo Stato palestinese e al ritiro di Israele dai territori occupati. Il suo governo continuò a occupare terre per espandere illegalmente le colonie ebraiche e costruire strade di collegamento riservate solo agli israeliani. Invece di fermarsi, le attività coloniali israeliane si moltiplicarono.

Gli accordi di Oslo furono presto visti dai palestinesi come forieri né di pace né di libertà e le tensioni sobbollivano tra l’Autorità Palestinese, che era dominata da una fazione politica, Fatah, e dalla sua rivale, Hamas. Israele faceva pressioni su Arafat per tenere a freno il terrorismo, come loro definivano ogni atto di resistenza, ed egli, sebbene con riluttanza, spesso obbediva. Nella nuova situazione le mie amiche erano arrabbiate e insicure. Sapevano come fosse diversa la vita in Israele. I decenni di occupazione avevano danneggiato la loro società, impossibilitata a raggiungere gli stessi livelli di vita.

Mentre i palestinesi ritornavano e cercavano di ricostruire le proprie vite in Cisgiordania e a Gaza, io avevo lo stesso arduo compito di provare a trovare il mio posto in Israele. Fino a quel momento non avevo quasi avuto rapporti con israeliani.

Non parlavo ebraico. Mi dividevo tra il mio villaggio e un appartamento con delle ragazze palestinesi ad Haifa e lavoravo in una ditta palestinese. Quando scendevo a pranzo tutti i negozi di falafel e shawarma erano di palestinesi. Quando salivo sull’autobus o compravo qualcosa al supermarket, e c’erano un autista o una cassiera israeliani, pescavo dei soldi e Ii porgevo senza capire l’ammontare che mi avevano chiesto, guardavo il registratore di cassa per vederlo. Loro mi davano il resto e tutto finiva lì. Vedevo israeliani ovunque, ma avevo un’esistenza completamente separata e parallela rispetto a loro, ero colpita da una sensazione penosa, che da allora non mi ha più abbandonata: ero una straniera nel mio Paese.

Per fortuna, mia cugina Rania abitava ad Haifa, andava all’università e lavorava part-time. Mi chiamava spesso per incontrarci. Qualche volta andavamo fuori, passeggiavamo nel quartiere Hadar [quartiere commerciale della città, ndt.] e compravamo gli abiti o i cosmetici economici che potevamo permetterci con i nostri pochi soldi. La città mi opprimeva. Dopo la Nakba, solo 3.000 dei 70.000 palestinesi erano rimasti ad Haifa. Furono ricacciati in alcuni quartieri dove vivevano in condizioni difficili.

Il governo israeliano decise di cambiare completamente il carattere della città, distruggendo molte delle proprietà palestinesi, impossessandosi di altre per darle agli ebrei, sostituendo i nomi arabi delle strade con quelli ebraici e cancellando il patrimonio culturale palestinese che era stato cosi ricco e vibrante prima della rovina di Haifa. Ovunque andassimo le case sopravvissute mi osservavano come fantasmi di un’altra era.

Il mio unico sollievo era quando andavamo nei centri commerciali, che erano scollegati dalla realtà esterna. Ma anche là tutto era in ebraico. Non c’era nessun cartello in arabo, anche se era la seconda lingua ufficiale dello Stato e molti dei clienti erano palestinesi. I cartelli stradali in arabo nel Paese erano pieni di marchiani errori di ortografia e i nomi ebraici delle città erano trascritti in arabo invece di usare i nomi arabi originali.

All’ingresso di ogni centro commerciale, ufficio governativo o edificio pubblico guardie e metal detector erano la norma. Se si dimenticava una borsa su un autobus o in una stazione ferroviaria o se qualcuno abbandonava il proprio bagaglio per un minuto e si allontanava per andare a prendere qualcosa, diventava un’emergenza. La gente si guardava intorno in preda al panico e, se non si trovava il proprietario, le cose potevano rapidamente precipitare. Alla stazione centrale assistei proprio a una scena simile: suonarono le sirene di allarme, la zona fu evacuata e una squadra di artificeri fu chiamata a disinnescare un oggetto sospetto che si rivelò una borsa con dei vestiti. La sensazione di costante allarme era palpabile, eppure considerata normale.

Dopo aver cambiato 3 lavori in meno di due anni, avevo bisogno di un vero cambiamento. Per tre mesi mi chiusi in casa a studiare ebraico, con un atteggiamento impersonale e ignorando i miei sentimenti. Alla fine di quel periodo sapevo parlare, leggere e scrivere in un ebraico elementare. Cominciai a far domande in ditte di software. Passarono settimane senza una risposta. Poi arrivò una chiama da una grande impresa ad Haifa. La signora mi parlò in ebraico e io ero molto nervosa, ma riuscii a organizzare l’appuntamento per il mio colloquio.

Quel giorno quando trovai il palazzo, passata la sicurezza, mi irrigidii. Fino ad allora non avevo quasi avuto interazioni con israeliani. Quando un cordiale giovanotto mi venne incontro alla porta e mi strinse la mano cominciai a sudare leggermente.

C’erano altre due persone nella stanza. Mi fecero molte domande e per fortuna risposi ad alcune in inglese. Sfogliando il mio CV, mi chiesero, in ulteriori dettagli, del mio lavoro a Cipro. Ero felice e lo presi come un segno di interesse.

Bene, grazie,” il gentile giovane finalmente mi sorrise. “Oh, e un’ultima cosa. Possiamo avere il suo numero dell’esercito?”

Mi sentii sprofondare. “Ehm, non ce l’ho …”

OK,” il sorriso rimase, fisso. “Grazie. Ci metteremo in contatto con lei.”

Terminate le scuole, ogni giovane israeliano/a deve finire il servizio militare. Poi si aprono le porte di prestiti per studiare, lavori e mutui generosi. I palestinesi in Israele sono esonerati e pochi si arruolano. Ma completarlo è un requisito indispensabile per molti lavori e sussidi sociali.

Uscii sconfitta. Avevo fatto ricerche sulla compagnia, mi ero preparata per il colloquio e avevo comprato un vestito nuovo. Mi ero entusiasmata per l’opportunità. Ma nessuno mi chiamò, e neanche altre tre aziende che mi avevano offerto un colloquio. Lottando contro il panico, cominciai a chiedermi cosa fare. Che farmene della laurea che avevo ottenuto con lode in scienze informatiche, i soldi spesi da mio padre per una delle migliori università britanniche? Perché qui era così difficile?

Finalmente riuscii a trovare un buon lavoro come tester in un’azienda di software. Gli uffici erano in un parco tecnologico a Tefen, una zona industriale a circa 20 minuti dal mio villaggio in Galilea. Era perfetto. Finalmente l’insicurezza e lo stress degli ultimi due anni erano alle mie spalle. Mi ci vollero pochi giorni per rendermi contro che, su un personale di 30 persone, io ero l’unica palestinese.

C’era un muro tra me e i miei colleghi che avevano le loro case, i loro lavori, le loro vite: pochi si soffermavano a pensare da dove fosse venuta la terra dove vivevano o lavoravano. Fu questa sensazione frastornante di essere in un enorme cimitero dove tutti gli altri ignoravano le lapidi, che cominciò a divorarmi e che avrebbe finito per spezzare il mio infelice tentativo di integrarmi.

Diventai amica di Lisa, funzionaria alle risorse umane. Era un’amicizia curiosa. Lei era sui 50, io avevo 24 anni, ero più giovane di sua figlia. Ma ci piaceva chiacchierare in inglese. Lisa era ebrea ed era emigrata dalla Gran Bretagna da ragazzina e aveva sposato un israeliano del posto. Spesso si presentava sulla porta del mio ufficio per fare due parole dopo aver preparato il tè nella vicina cucina.

Un giorno Lisa apparve per la nostra solita chiacchierata. Grata, sollevai gli occhi dallo schermo. Ma lei era agitata. “Sono un po’ preoccupata di tornare a casa in macchina in questi giorni,” esclamò.

Perché?” Lisa viveva ad Atzmon, una comunità ebraica in Galilea.

A causa dei recenti disordini. Alcuni arabi gettano pietre lungo la strada.”

Arabi, notai, non palestinesi. Lo Stato aveva faticato a negare la nostra identità e non aveva usato la parola ‘palestinesi’ fino a dopo gli accordi di Oslo e, anche successivamente, solo per riferirsi ai palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, non ai suoi cittadini.

Era la prima volta che Lisa parlava di noi. “Disordini?” ripetei.

Alcuni ragazzi arabi hanno lavorato per un po’ ad Atzmon, ma delle persone si sono arrabbiate e li hanno costretti ad andarsene. Ora da alcuni giorni tirano pietre alle nostre auto mentre passiamo. È veramente stressante!”

Perché sono stati licenziati?” chiesi.

Oh, sai … ” sembrava a disagio, agitando una mano. “Alcuni proprio non vogliono che gli arabi lavorino nel kibbutz.”

Oh.” deglutii. Molte comunità ebraiche non permettevano ai palestinesi di lavorarci e la maggior parte nemmeno di viverci. Uno dei miei cugini faceva il tuttofare in un kibbutz, ma erano pochi quelli come lui. La maggior parte di queste comunità aveva una procedura per vagliare le domande tramite una “commissione di ammissione”, la cui decisione era inappellabile. Alcune cominciarono persino a chiedere a chi si presentava di giurare lealtà ai principi sionisti. Alcuni palestinesi erano andati in tribunale a protestare, ma raramente avevano vinto.

Allo stesso modo era impensabile per un ebreo vivere in un villaggio palestinese. Quelli che lo facevano, per mandare un messaggio, di solito non erano benvenuti nelle comunità palestinesi e per lo più evitati dalle loro. Ma di nuovo, erano molto pochi.

Guardai Lisa chiedendomi quale fosse la sua posizione sull’argomento. Ma era così agitata che sembrava ignara dei miei pensieri. “Telefono a mio marito per dirgli di star pronto in caso avessi bisogno di aiuto.”

Annuii. Mi salutò in fretta e se ne andò.

Tornando a casa pensai alle sue parole mentre oltrepassavo una colonia ebraica con le sue file di villette curate, giardini lussureggianti, fontane e ampi marciapiedi.

La differenza tra comunità palestinesi ed israeliane, spesso l’una accanto all’altra, erano così marcate che chiunque poteva distinguerle. Fondi statali per le comunità israeliane garantivano che avrebbero offerto un livello di vita tale da attrarre immigranti. Centinaia di località ebraiche erano state costruite da Israele dalla sua fondazione, ma non fu creato neppure un nuovo villaggio o paesino palestinese e quelli esistenti furono soffocati. In ogni villaggio palestinese che avevo visitato, vidi ghetti trascurati e sovraffollati, strade strette piene di buche, mancanza di spazi attrezzati, nessun parco o spazi pubblici e un’atmosfera pesante, depressa.

I villaggi palestinesi si sono sviluppati per centinaia di anni, prima dell’attuale zonizzazione e dei piani comunali. Le nuove comunità ebraiche sono state costruite in modo pianificato e metodico, le loro case copie esatte una dell’altra, come i quartieri in Occidente. Sembravano cadute dal cielo al posto dei villaggi distruttti. In tutta quella bellezza e ordine io vedevo solo bruttezza perché con la mente ripensavo a come erano state costruite.

Questo è un estratto editato da Stranger in My Own Land: Palestine, Israel and One Family’s Story of Home di Fida Jiryis, pubblicato da Hurst e disponibile dal guardianbookshop.co.uk

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)