Le elezioni di Israele al tempo del coronavirus danno Netanyahu in ottima salute

Lily Galili da Tel Aviv

3 marzo 2020 – Middle East Eye

La composizione del prossimo governo israeliano e le prospettive di altre elezioni sono poco chiare. Ma una cosa è certa: il primo ministro ha messo a segno un colpaccio

Le elezioni di lunedì, ai tempi del coronavirus, in cui migliaia di israeliani in quarantena hanno votato in seggi speciali anti-contagio, non sono state solo il terzo turno di votazioni. Sono state un referendum sul primo ministro Benjamin Netanyahu, accusato di corruzione e truffa, e sullo stato di diritto e sulla democrazia.

Netanyahu, che sarà processato il 17 marzo, ha vinto.

I risultati non sono ancora definitivi, ma, in base al 90% dei voti scrutinati, il Likud supera “Blu e Bianco” con 36 seggi a 32.

La sua alleanza di destra ultra-ortodossa ottiene 59 [al 99% dei voti scrutinati il blocco guidato da Likud scende a 58 e Blu Bianco sale a 33 ndt] dei 120 seggi al parlamento israeliano, la Knesset. Nel contempo il blocco di centro-sinistra è ridotto a 54 seggi, con il partito Laburista- Meretz che ha ottenuto solo sei deputati.

La sinistra sionista, per come la conoscevamo, è scomparsa. Abbandonata dagli ebrei israeliani, ora si deve alleare con i cittadini palestinesi di Israele per sopravvivere.

Benché l’Israele democratica e liberale abbia perso, in un certo modo gli israeliani hanno vinto. Con la più alta affluenza alle urne in 20 anni (circa il 72%) questa volta gli israeliani hanno mandato un chiaro messaggio e forse hanno persino evitato la cosa che più temevano: una quarta tornata elettorale.

Più che votare per un candidato, gli israeliani hanno votato per se stessi. I circa 250.000 elettori – ebrei e arabi – che avevano scelto di starsene a casa durante le elezioni di settembre questa volta sono andati alle urne. La maggior parte dei nuovi voti sono andati al Likud di Netanyahu, anche se un numero considerevole [di voti] è andato alla coalizione “Lista Unita” dei partiti palestinesi.

Stando così le cose, sembra probabile che questi nuovi elettori abbiano evitato di essere di nuovo chiamati al voto. Hanno anche garantito il fatto che la “Lista Unita” sia il terzo maggiore partito, passando da 13 a 14 seggi. [15 a fine scrutinio ndt]

Ma soprattutto hanno incoronato Bibi.

Sotto attacco

Se non importano la corruzione e la totale mancanza di limiti e di moralità del leader, allora questa scelta ha senso.

Se non importa che l’annessione delle colonie nella Cisgiordania occupata sia immorale e cambi la vita sia degli israeliani che dei palestinesi, allora Netanyahu è certamente la scelta giusta.

Se non importa il razzismo che si diffonde più rapidamente del coronavirus, questa scelta è pienamente giustificata. Mentre le acque si stanno calmando, gli strateghi concordano: la frase che Netanyahu ha ripetuto in continuazione – “Gantz non può governare senza Tibi”, in riferimento ad Ahmad Tibi, il leader della “Lista Unita” – si è dimostrata estremamente efficace.

Tibi è stato usato da Netanyahu non solo come slogan, ma come simbolo della minaccia collettiva che il primo ministro accusa ogni arabo di rappresentare per lo Stato ebraico.

Benny Gantz, il principale sfidante di Netanyahu e capo del partito “Blu e Bianco”, ha scelto di essere messo in un angolo, impegnandosi a formare un governo solo di ebrei e definendo la “Lista Unita” un partner illegittimo.

Così facendo ha reso ancor più sfumato il confine tra il suo partito e il Likud e non ha fornito nessuna ragione per votarlo.

Netanyahu, giustamente definito il miglior personaggio nelle campagne elettorali della storia politica di Israele, ha condotto da solo la campagna elettorale più sporca, vergognosa e di livello più basso di sempre. Ha vinto.

Ciò dice molto di lui e ancor di più di quello che Israele è diventato.

Il processo democratico è servito come strumento per creare un Israele ancora meno democratico, più razzista e rancoroso. Ora è un Paese in cui gli arabi sono partner illegittimi, chi si oppone agli obblighi religiosi (come gli immigrati dai Paesi dell’ex-Unione Sovietica) è antisemita e chi è di sinistra e crede nella soluzione dei due Stati con i palestinesi è etichettato come nemico dello Stato.

Ogni istituzione democratica è sotto attacco.

Un percorso verso l’immunità?

Una delle prime questioni poste ai parlamentari del Likud durante la notte è stata se la vittoria di Netanyahu porterà al licenziamento di Avichai Mandelbit, il procuratore generale che lo ha messo sotto accusa. Questa domanda rimane senza risposta, benché alcuni analisti di destra siano ansiosi di dichiarare che a Netanyahu è stata concessa dal popolo l’immunità morale.

Martedì mattina il deputato del Likud Miki Zohar, ardente difensore di Netanyahu, ha annunciato alla radio che i risultati dicono forte e chiaro che il primo ministro non affronterà un processo. Queste dichiarazioni non hanno alcun valore giuridico, ma sono realmente pericolose.

Il sistema giudiziario israeliano consente a un primo ministro accusato di corruzione e truffa di rimanere in carica fino alla condanna definitiva, ma la questione se sia legale sceglierlo per formare un governo rimane irrisolta.

Si tratta semplicemente di una situazione senza precedenti nella storia del Paese, potenzialmente esplosiva per la società israeliana.

Per il blocco di destra e ultra-ortodosso di Netanyahu, e per i suoi elettori, le elezioni di ieri sono state un referendum su questo problema ed ogni interferenza giuridica potrebbe persino portare a una risposta violenta.

Nonostante l’evidente vittoria di Netanyahu, il futuro rimane complesso. I 59 [ 58 ndt] seggi del suo solido blocco non sono sufficienti per formare un governo. A Netanyahu ne sono necessari altri, e in fretta.

Da ieri Israele si muove su due strade: quella politica, nel tentativo di formare un governo funzionante, e quella dei problemi giudiziari di Netanyahu. In due settimane, con l’inizio del processo, i due percorsi si incroceranno.

Netanyahu è impaziente di formare il suo governo prima del 17 marzo in modo da arrivare in tribunale come primo ministro e non solo come politico incaricato di formare un governo. Questo obiettivo sarà difficile da raggiungere. Molti fattori potrebbero interferire in questo processo. Quello più immediato è il voto dei soldati che sarà conteggiato e preso in considerazione solo mercoledì sera. Vale 5-6 seggi e può fare una grande differenza. Nel voto di settembre la maggioranza dei soldati aveva scelto “Blu e Bianco”.

L’altro fattore ignoto è di nuovo Avigdor Lieberman, capo del partito “Yisrael Beitenu” [Israele casa nostra, partito di estrema destra laica votato soprattutto da ebrei dell’ex-Unione Sovietica, ndtr.]. Come dice il proverbio, non è finita finché non canta la grassona, e con i suoi sei seggi Lieberman è meno grasso che a settembre, quando ne aveva ottenuti otto, ma molto dipende ancora da lui.

Se sceglie di unirsi alla coalizione di destra perde la faccia, ma garantisce la creazione di un solido governo di destra. Per farlo deve superare il suo disprezzo per Netanyahu, le sue idee contrarie agli ortodossi e smentire tutte le sue promesse elettorali.

Lunedì notte, nella prima dichiarazione dopo gli exit-poll, è sembrato cauto. “Riguardo al blocco ortodosso-messianico scegliamo di attendere i risultati finali,” ha affermato nel suo quartier generale tutt’altro che in festa. “Siamo un partito di principi, non ci allontaneremo di un millimetro da quello che abbiamo promesso nella nostra campagna.”

Quello che hanno promesso è: niente Bibi, niente arabi, niente alleati ortodossi. Finché non importerà un elettorato israeliano del tutto nuovo, non potrà stringere nessuna alleanza senza infrangere le sue “promesse”.

Costruzione di una coalizione

Confuso? Proprio così. Una previsione contraddice l’altra.

In alcune interviste prima del voto, Netanyahu ha insinuato – ammiccando – che si aspetta disertori da altri partiti che gli consentano di formare una coalizione stabile di 61-62 seggi. Dopo gli exit poll, i collaboratori di Netanyahu hanno continuato a riproporre questo scenario.

Teoricamente ci sono tre possibili riserve di voti: deputati scontenti in fondo alla lista di “Blu e Bianco”, membri del partito di Lieberman e Orly Levy, che una volta era di Yisrael Beitenu e ora è alleata del partito Laburista e del Meretz. La sua storia politica la indica come l’anello più debole. Finora nessuno di questi scenari sembra particolarmente realizzabile.

L’altra possibilità è un governo di unità.

Parlamentari e ministri del Likud la ritengono possibile. Politicamente avrebbe senso. Non ci sono reali differenze ideologiche tra i due principali partiti, a parte il fatto che “Blu e Bianco” si è impegnato a non stare con Netanyahu finché è imputato di truffa e corruzione.

Meir Cohen, un parlamentare di “Blu e Bianco”, martedì durante un’intervista radiofonica ha insistito che non ci saranno disertori e che un’alleanza con Netanyahu è da escludere.

Dato che Netanyahu è riuscito a perfezionare il concetto “L’etat c’est moi” [Lo Stato sono io, frase attribuita a Luigi XIV di Francia ed assurta a simbolo dell’assolutismo monarchico, ndtr.] è difficile separare il suo destino da quello del futuro governo.

Realisticamente 60-61 seggi sono sufficienti per governare, ma non per salvare Netanyahu dal primato del sistema giustiziario. A questo punto la sua mossa migliore sarebbe la legge francese sull’immunità concessa a chi governa che rimanda il processo fino al giorno dopo la fine del mandato.

Ha bisogno di una maggioranza più ampia per far approvare quella legge. Se non ci riesce, insisterà per essere primo ministro e al contempo essere processato.

Suona come una quarta tornata elettorale? Probabilmente no, benché non si veda ancora un’altra soluzione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli israeliani scelgono un governo di destra – rispetto ad un governo di destra moderata

Jonathan Ofir

3 marzo 2020 Mondoweiss

Con il 90% dei voti scrutinati nella terza elezione in un anno in Israele, la grande sorpresa è che il Likud di Netanyahu supera il partito rivale di centro “Blu e Bianco” di Gantz. Il conteggio è di 36 (seggi) per il Likud e 32 per “Blu e Bianco”. Per alcuni mesi il Likud è rimasto sostanzialmente indietro, e solo nelle ultime due settimane i sondaggi hanno iniziato a mostrare un lieve vantaggio del Likud su “Blu e Bianco”. Nessun sondaggio aveva assolutamente previsto una vittoria di questa portata prima della giornata elettorale di ieri.

Però in base al conteggio sembrano mancare al blocco di destra del Likud 2 seggi –con 59 eletti– per raggiungere una coalizione di governo senza  “Blu e Bianco” e senza i sette seggi di Lieberman nel partito “Yisrael Beitenu” [ultranazionalista laico, ndtr.]. Ma Lieberman ha sempre dichiarato che la sua unica opzione è un governo di unità senza i partiti religiosi, che hanno ottenuto 17 seggi e sono una componente essenziale del blocco di Netanyahu.

Quindi, benché non sia ancora una vittoria decisiva per il Likud e per Netanyahu, è comunque una vittoria importante, almeno simbolicamente. Netanyahu ha già salutato la vittoria come “la più grande della mia vita”.

Occorre sottolineare che anche la “Lista Unita”, che rappresenta la maggior parte dei palestinesi israeliani, ha ottenuto un successo storico: 15 seggi. Ma questo conta poco per i sionisti che governano Israele: “Blu e Bianco” ha già affermato chiaramente che non parteciperanno al governo, come è sempre stato in Israele – gli “arabi” possono aumentare o diminuire, semplicemente non contano nel sistema dell’Israele “ebraico e democratico”, che è una forma di “democrazia solo per gli ebrei”.

Qui è importante l’elemento simbolico. Se Netanyahu sembra essere ad un passo dalla maggioranza di 61 seggi, Gantz ne è lontano anni luce. Senza la Lista Unita, una coalizione di centro-sinistra tra “Blu e Bianco” e partito Laburista – Meretz (7 seggi, i rimasugli della sinistra sionista) arriverebbe solo a 39 seggi. Anche se questa coalizione dovesse contare sull’appoggio dei voti della Lista Unita, comunque non si avvicinerebbe nemmeno [alla maggioranza]. Perciò il messaggio è che Israele è un Paese di destra.

E bisogna considerare la logica dal punto di vista dell’elettore israeliano di destra. Se “Blu e Bianco” è sostanzialmente un partito fotocopia del Likud, semplicemente senza Netanyahu, e se votarlo porta ad un’impasse, allora perché non votare direttamente il Likud e aumentare le probabilità di un governo di destra, anche se non ti piace Netanyahu?

Questa sembra essere la logica naturale in questa protratta guerra di logoramento sotto forma di elezioni israeliane senza fine. Netanyahu sembra essere entusiasta di questa prospettiva. Può essere che ciò conduca ad una quarta elezione, ma non sarà affatto un problema per Netanyahu. Il messaggio è “solo un’altra piccola spinta” e “Netanyahu o il disastro”.

Israele può andare avanti per un po’ con questo “governo provvisorio”. Se la realtà dimostra che elezioni ripetute alla fine producono un vantaggio per il Likud, allora dal punto di vista di Netanyahu potrebbe valere la pena di insistere,  non accettare compromessi per un governo di unità e giocare questa carta in vista di una vittoria ancor maggiore e più netta la prossima volta.

Jonathan Ofir . Musicista israeliano, direttore d’orchestra e blogger, vive in Danimarca.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Una settimana prima delle elezioni Netanyahu autorizza nuove unità abitative delle colonie nella E1

Yumna Patel

26 febbraio 2020 – Mondoweiss

Solo una settimana prima delle elezioni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato l’autorizzazione a 3.500 nuove abitazioni illegali per i coloni nella contestatissima zona “E1”, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

Ho dato istruzioni di rendere immediatamente pubblica la presentazione del piano per la costruzione di 3.500 unità abitative nella E-1,” ha detto martedì Netanyahu in un discorso, aggiungendo che i progetti “sono stati ritardati per sei o sette anni.”

I piani di Israele per il corridoio E1, a cui si sta lavorando dal 1995, sono stati considerevolmente ritardati a causa delle pressioni da parte della comunità internazionale, comprese l’UE e l’ex-amministrazione USA.

Il progetto per la E1 intende creare un blocco di colonie che unisca il grande insediamento di Ma’ale Adumim a Gerusalemme, tagliando di fatto la Cisgiordania in due, separando il nord dal sud.

Le conseguenze del piano sono apparse evidenti negli ultimi anni attraverso la lotta per salvare dall’espulsione forzata la comunità beduina di Khan al-Ahmar, che si trova proprio in mezzo al corridoio E1.

La comunità sarebbe una delle decine di enclave beduine del corridoio che, se i progetti venissero portati a termine, verrebbero espulse a forza dalle proprie case.

L’annuncio è arrivato appena una settimana prima che gli israeliani si rechino ai seggi per la terza volta in un anno per eleggere il primo ministro, dopo due falliti tentativi da parte di Netanyahu e del suo rivale Benny Gantz di formare una coalizione di governo.

Nelle ultime due elezioni il governo di destra di Netanyahu si è basato sull’appoggio dei coloni e ha utilizzato promesse politiche simili per garantirsi il loro sostegno.

Nel primo turno delle elezioni nell’aprile dello scorso anno egli si impegnò ad annettere centinaia di colonie nella Cisgiordania occupata e prima delle elezioni di settembre è andato oltre quella promessa giurando che avrebbe esteso la sovranità israeliana alla valle del Giordano, che comprende un terzo di tutta la Cisgiordania.

I leader palestinesi hanno duramente attaccato Netanyahu per il suo annuncio e hanno chiesto agli Stati membri dell’UE di intervenire e di impedire l’attività edilizia israeliana nella zona.

Criticando il piano come un “progetto colonialista”, il capo negoziatore dell’OLP Saeb Erekat ha emanato un comunicato di condanna degli USA per il loro consenso perché Israele vada avanti con tali piani.

In accordo con i progetti concordati tra le delegazioni di USA e Israele, – ha detto Erekat – Israele ora continua a imporre sul terreno nuovi fatti illegali che violano sistematicamente le leggi internazionali e i diritti umani, annullano i diritti inalienabili del popolo palestinese, e minacciano la stessa pace e sicurezza dell’intera regione”.

Ora è chiaro alla comunità internazionale che questo quadro di annessione intende solo seppellire le prospettive di una soluzione negoziata,” ha continuato, chiedendo che la comunità internazionale imponga sanzioni contro Israele per le sue violazioni delle leggi internazionali nei territori occupati.

L’associazione [israeliana] di monitoraggio delle colonie Peace Now ha criticato duramente la decisione, affermando che “costruire nella E1 interromperebbe questa continuità territoriale, silurando la possibilità di uno Stato palestinese praticabile nel caso in cui Israele continui a conservare per sé la terra.”

L’organizzazione ha affermato: “Israele sta ufficialmente scegliendo di rischiare un conflitto permanente invece di risolverlo. Non è niente di meno di un disastro nazionale che deve essere fermato prima che sia troppo tardi.”

Yumna Patel è la corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Razzisti israeliani uniti contro il razzismo

Ali Abunimah

13 febbraio 2020 – The Electronic Intifada

Una nuova associazione chiamata “Israelis Against Racism” [Israeliani contro il Razzismo] afferma di voler debellare le discriminazioni, ma il fondatore del gruppo è sottoposto a sanzioni USA per traffico di armi e alcuni membri hanno precedenti di fanatismo contro non-ebrei e persone di colore.

In gennaio l’organizzazione ha tenuto un seminario a Netanya, città israeliana sulla costa. In quell’occasione la vice-sindaca [di Netanya] Shiri Hagoel-Saidon ha dichiarato che “il razzismo è diventato la piaga del XXI secolo, profondamente radicato in noi come società, e colpisce ogni strato della popolazione.” Non avrebbe potuto avere più ragione: uno dei luoghi in cui il razzismo e la violenza razzista sono più profondamente inseriti è la stessa “Israelis Against Racism”.

L’associazione ha potenti sostenitori, alcuni coinvolti in gravissimi crimini di guerra ed altri con scioccanti precedenti di fanatismo.

Eppure ciò non impedisce a “Israelis Against Racism” di tenere un pranzo di gala all’inizio di questo mese con il presidente israeliano Reuven Rivlin nella sua residenza ufficiale.

Condannato per traffico di armi

Il fondatore dell’organizzazione, Israel Ziv, è un generale sottoposto a sanzioni dagli USA perché secondo il dipartimento del Tesoro di Washington ha venduto armi a entrambi i contendenti nella sanguinosa guerra civile del Sud Sudan.

Secondo le autorità statunitensi Ziv ha utilizzato un’azienda agricola “come copertura per la vendita di circa 150 milioni di dollari di armi al governo, compresi fucili, lanciagranate e razzi con lanciamento a spalla.”

Avrebbe anche “progettato di organizzare attacchi di mercenari contro campi petroliferi e infrastrutture del Sud Sudan, nel tentativo di creare problemi che solo la sua impresa e quelle ad essa legate avrebbero potuto risolvere.” In conseguenza del fatto di essere stato inserito dalle autorità statunitensi nella lista nera come trafficante d’armi, Ziv ha subito il congelamento dei suoi conti bancari in Israele.

Ha presentato ricorso a un tribunale distrettuale e poi alla Corte Suprema, ma inutilmente,” ha informato il giornale di Tel Aviv Haaretz lo scorso mese. “Ora sta facendo appello contro l’inserimento nella lista nera da parte delle autorità USA.”

Ziv ha sempre negato strenuamente di essere un trafficante d’armi. Fa anche di tutto per intimidire quanti raccontano delle sue attività.

Nel 2017 Ziv ha denunciato il giornalista David Sheen per averlo citato in un articolo pubblicato da The Electronic Intifada in cui venivano elencati i principali razzisti israeliani.

Ziv e Sheen sono arrivati ad un accordo dopo che Ziv non è riuscito a dimostrare alcuna inesattezza concreta nell’articolo.

Nota agenzia di pubbliche relazioni

La reputazione di Ziv ha subito un colpo particolarmente duro quando i media israeliani hanno rivelato come stesse cercando di escogitare un piano per migliorare l’immagine di Salva Kiir, presidente del Sud Sudan, dopo che l’ONU aveva scoperto che il governo di Kiir promuoveva lo stupro sistematico di donne e minori da parte dei suoi soldati.

Può essere che Ziv ora speri di migliorare la sua stessa immagine per niente impeccabile guidando un’organizzazione con il nobile obiettivo di porre fine al razzismo?

Potrebbe essere la copertura perfetta, soprattutto in quanto inizialmente si è concentrato sugli etiopi di Israele, una comunità africana che soffre una parte del peggiore razzismo del Paese.

Questa impressione è certamente rafforzata dal fatto che “Israelis Against Racism” è stata costituita con l’aiuto di Parsi-Zadok Kucik Triwaks, un’agenzia di pubbliche relazioni che ha tra i suoi clienti il ministero della Difesa israeliano.

Questa agenzia si pubblicizza come il “partner esclusivo” della nota azienda di Washington “Hill and Knowlton”, che ora si chiama “Hill+Knowlton Strategies”.

Hill e Knowlton una volta era definita parte della “lobby della tortura”, per la quantità di denaro che aveva guadagnato rappresentando violatori dei diritti umani in tutto il mondo.

L’agenzia è forse meglio – o peggio – ricordata per aver orchestrato false testimonianze al Congresso sui soldati iracheni che toglievano bambini kuwaitiani dalle incubatrici per conquistare l’appoggio dell’opinione pubblica al coinvolgimento USA nella guerra del Golfo del 1991.

Ma, se Ziv spera che un’organizzazione “antirazzista” ripulirà la sua immagine, ha scelto come sostenitori alcuni bizzarri personaggi.

Sostenuta da criminali di guerra

Secondo un documento di “Israelis Against Racism” visionato da The Electronic Intifada, l’associazione ha ottenuto il sostegno di alcuni membri di alto profilo dell’esercito israeliano implicati in crimini di guerra.

Il documento elenca “membri del forum in attività” di “Israeli Against Racism”, tra cui il generale Amir Eshel, ex- capo dell’aviazione israeliana.

Eshel è stato recentemente denunciato in Olanda, insieme all’ex-capo dell’esercito Benny Gantz, per aver ordinato un bombardamento a Gaza che uccise sei membri della famiglia del cittadino palestinese-olandese Ismail Ziada.

I membri della famiglia Ziada furono tra i più di 2.200 palestinesi uccisi – in grande maggioranza civili – durante l’attacco del 2014 contro Gaza guidato da Gantz ed Eshel.

I due generali sono sfuggiti alle loro responsabilità in quanto lo scorso mese i giudici olandesi hanno concesso l’immunità ai crimini di guerra israeliani commessi in veste “ufficiale”.

Un altro membro del forum è Doron Almog, che nel 2005 sfuggì all’arresto da parte della polizia britannica in seguito ad imputazioni per crimini di guerra rifiutandosi di sbarcare da un volo El Al [compagnia aerea israeliana, ndtr.] che era appena atterrato all’aeroporto di Heathrow da Tel Aviv.

Ad essi si è unito Amos Gilad, una presenza fissa dell’establishment militare israeliano che ha promosso alcune delle politiche più repressive contro i palestinesi che protestavano contro l’occupazione militare israeliana.

C’è anche il colonnello Lior Lotan, che ha proposto di rapire palestinesi da usare come merce di scambio nelle trattative per il rilascio di soldati israeliani. La presa di ostaggi, come proposta da Lotan, è un crimine di guerra. Tra i sostenitori citati nel sito web di “Israelis Against Racism” ci sono sindaci di molte città israeliane e presidenti di importanti imprese, comprese l’Israeli Discount Bank e l’Israeli Electric Corporation. Ad essi si è unito Eliezer Shkedi, che ha comandato l’aeronautica israeliana dal 2004 al 2008, un periodo che include l’attacco israeliano contro il Libano del 2006 durante il quale le forze israeliane hanno lanciato un milione di bombe a grappolo.

Gli attacchi indiscriminati di Israele contro il Libano uccisero 900 civili.

Possono i razzisti lottare contro il razzismo?

Forse tutto ciò non sarebbe così vergognoso se “Israelis Against Racism” stesse realmente per mettere in pratica politiche concrete per lottare contro le discriminazioni.

Ma la sua principale iniziativa è invitare le persone a firmare un impegno personale a non essere razziste, come se ciò servisse a cambiare pratiche istituzionali profondamente radicate che perpetuano gravissime diseguaglianze. L’ “Associazione degli ebrei etiopi” ha accolto l’iniziativa in modo tutt’altro che entusiastico, evidenziando che la lotta contro le discriminazioni deve “iniziare dal razzismo istituzionalizzato che si trova nei corridoi del governo, tra i parlamentari e nelle politiche.

Dato che la maggior parte di loro fa parte delle stesse istituzioni che guidano le politiche razziste nei confronti della comunità etiope,” ha aggiunto l’associazione, “è naturale che l’elenco di persone che partecipano a questa iniziativa sollevi dei sospetti.”

Questo punto è sottolineato dai trascorsi dei “membri del forum” di “Israelis Against Racism”, compreso l’ex leader dell’opposizione Isaac Herzog e l’ex-capo della polizia Roni Alsheikh.

Herzog, che ora guida l’Agenzia Ebraica di Israele, ha definito i matrimoni misti tra ebrei e non-ebrei una “piaga” che ha promesso di eliminare.

Alsheikh, nel contempo, ha affermato che è “naturale” per la polizia essere più sospettosa nei confronti degli etiopi. Un altro membro del forum è il giornalista etiope-israeliano Danny Adino Abebe. Una volta ha sostenuto senza alcuna prova che circa 1.000 donne ebree etiopi-israeliane erano state rapite e trattenute contro la loro volontà da richiedenti asilo africani non ebrei. Questa affermazione senza fondamento avrebbe indubbiamente alimentato le fiamme del già crescente razzismo contro gli africani maschi.

La cerimonia di lancio di “Israelis Against Racism” presso la casa del presidente ha coinvolto numerose figure di alto profilo che sono salite sul podio ed hanno firmato pubblicamente l’impegno. Tra questi l’ex vice-ministro dell’Educazione Avi Wortzman, membro del partito ultra anti-palestinese “Casa Ebraica”. Nel 2013 Wortzman e i suoi colleghi di partito appoggiarono il noto razzista Shmuel Eliyahu nel tentativo coronato da successo di essere nominato uno dei due rabbini-capi di Israele.

Non importava che Eliyahu avesse sollecitato Israele a massacrare oltre un milione di palestinesi come metodo per schiacciare la resistenza al suo dominio militare.

Ha anche giustificato lo stupro da parte dei soldati e ha chiesto che gli ebrei non vendano o affittino case agli arabi.

È evidente, anche se per niente sorprendente, che “Israelis Against Racism” ignori totalmente i palestinesi.

I palestinesi sono di gran lunga le vittime più duramente colpite dal razzismo di Stato israeliano, sia come cittadini di seconda classe, sia come sottoposti a una brutale occupazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, sia come rifugiati a cui è negato il diritto al ritorno solo perché non sono ebrei.

Ma questo è il tipo di razzismo che tende ad unire Israele.

Forse un nome più adatto per la nuova organizzazione di Israel Ziv, che evidenzierebbe la sua assurdità e il suo cinismo, dovrebbe essere “Israeli Racist Against Racism” [Razzisti Israeliani contro il Razzismo].

Ali Abunimah è direttore esecutivo di The Electronic Intifada.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’“accordo del secolo” di Trump non porterà la pace, e quello era previsto

Jonathan Cook

29 gennaio 2020 – Palestine Chronicle

Buona parte dell’“accordo del secolo” di Trump a lungo rinviato non è stata una sorpresa. Nel corso degli ultimi 18 mesi fonti ufficiali israeliane hanno fatto filtrare molti dei suoi dettagli..

La cosiddetta “visione per la pace” svelata martedì ha semplicemente confermato che il governo USA ha pubblicamente adottato ciò che da molto tempo è accettato da tutti in Israele: che quest’ultimo ha il diritto di tenersi per sempre le aree di territorio che ha illegalmente sottratto nel corso degli ultimi 50 anni negando ai palestinesi una qualunque speranza di avere uno Stato.

La Casa Bianca ha scartato la tradizionale posizione USA come “mediatore neutrale” tra Israele e i palestinesi. I dirigenti palestinesi non sono stati invitati alla cerimonia e non ci sarebbero andati se lo fossero stati. Questo è un accordo concepito più a Tel Aviv che a Washington – e il suo obiettivo era di garantire che non ci sarebbe stata nessuna controparte palestinese.

Cosa più importante per Israele, esso avrà il permesso di Washington per annettersi tutte le colonie illegali, ora disseminate in tutta la Cisgiordania, così come la vasta area agricola della Valle del Giordano. Israele continuerà ad avere il controllo militare su tutta la Cisgiordania. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato la sua intenzione di portare il prima possibile davanti al suo governo un simile piano di annessione. Ciò rappresenterà senza dubbio l’asse centrale del suo tentativo di vincere le elezioni politiche molto incerte previste per il 2 marzo.

L’accordo di Trump approva anche la già esistente annessione di Gerusalemme est a Israele. Prevede che i palestinesi facciano finta che la loro capitale sia un villaggio della Cisgiordania fuori città, chiamando “Al Quds” [Gerusalemme in arabo, ndtr.] la loro capitale. Ci sono indicazioni con effetti fortemente provocatori che ad Israele sarà consentito di dividere il complesso della moschea di Al Aqsa per creare una zona di preghiera per ebrei estremisti, come è avvenuto ad Hebron.

Oltretutto sembra che l’amministrazione Trump stia prendendo in considerazione l’approvazione delle speranze di lunga data della destra israeliana di ridefinire gli attuali confini in modo tale da trasferire potenzialmente in Cisgiordania centinaia di migliaia di palestinesi che attualmente sono cittadini di Israele. Ciò rappresenterebbe quasi sicuramente un crimine di guerra.

Il piano non prevede nessun diritto al ritorno e sembra che il mondo arabo dovrebbe pagare il conto per indennizzare milioni di rifugiati palestinesi.

Una mappa USA distribuita martedì mostra enclave palestinesi collegate da un labirinto di ponti e tunnel, compreso uno tra la Cisgiordania e Gaza. L’unico incentivo concesso ai palestinesi sono le promesse USA di rafforzare la loro economia. Date le difficili condizioni finanziarie dei palestinesi dopo decenni di furto di risorse da parte di Israele, questa non è molto più di una promessa.

Tutto ciò è stato mascherato da “realistica soluzione dei due Stati”, che offre ai palestinesi circa il 70% dei territori occupati, che a loro volta rappresentano il 22% della loro patria originaria. Detto in altro modo, ai palestinesi viene richiesto di accettare uno Stato sul 15% della Palestina storica, dopo che Israele si è impossessato di tutte le migliori terre agricole e risorse idriche.

Come tutti gli accordi prendere o lasciare, questo “Stato” rappezzato, senza un esercito e in cui Israele controllerebbe la sicurezza, i confini, le acque territoriali e lo spazio aereo, ha una scadenza. Deve essere accettato entro quattro anni. In caso contrario Israele avrà la mano libera per iniziare a depredare ancora più territorio. Ma la verità è che né Israele né gli USA si aspettano o vogliono che i palestinesi collaborino.

Per questo il piano include, oltre all’annessione delle colonie, una miriade di precondizioni irrealizzabili prima che ciò che rimane della Palestina venga riconosciuto: le fazioni palestinesi devono deporre le armi, ed Hamas si deve sciogliere; l’Autorità Nazionale Palestinese, guidata da Mahmoud Abbas, deve elimnare i sussidi alle famiglie dei prigionieri politici; i territori palestinesi devono essere reinventati come una Svizzera del Medio Oriente, una fiorente democrazia e una società aperta, tutto ciò sotto il dominio israeliano.

Al contrario il piano Trump pone fine alla farsa per cui il processo di Oslo, durato 26 anni, ha avuto come obiettivo nient’altro che la resa dei palestinesi. Gli Usa si allineano totalmente con i tentativi di Israele, perseguiti per molti decenni da tutti i suoi principali partiti, di porre le basi per un’apartheid permanente nei territori occupati.

Trump ha invitato per la presentazione sia Netanyahu, il primo ministro israeliano ad interim, che il suo principale avversario politico, l’ex-generale Benny Gantz. Entrambi erano ansiosi di esprimere il proprio appoggio incondizionato.

Tutti e due insieme rappresentano i 4/5 del parlamento israeliano. Il principale campo di scontro delle elezioni di marzo sarà chi dei due potrà sostenere di essere più in grado di mettere in atto il piano e quindi sferrare un colpo mortale ai sogni palestinesi di avere uno Stato.

Nella destra israeliana ci sono state manifestazioni di dissenso. Gruppi di coloni hanno descritto il piano come “lungi dall’essere perfetto”, un’opinione quasi sicuramente condivisa in privato da Netanyahu. L’estrema destra israeliana è contraria a qualunque discorso riguardo alla costituzione di uno Stato palestinese, per quanto illusorio.

Ciononostante Netanyahu e la sua coalizione di destra sarà ben contenta di cogliere i benefici offerti dall’amministrazione Trump. Nel contempo l’inevitabile rifiuto del piano da parte della dirigenza palestinese servirà d’ora in avanti come giustificazione per il furto da parte di Israele di altra terra. Ci sono altri, più immediati vantaggi dell’“accordo del secolo”.

Consentendo a Israele di raccogliere illeciti vantaggi dalla conquista nel 1967 dei territori palestinesi, Washington ha ufficialmente appoggiato una delle più grandi aggressioni coloniali dell’epoca contemporanea. L’amministrazione USA ha di conseguenza dichiarato una guerra aperta ai già deboli limiti imposti dalle leggi internazionali.

Anche Trump ne beneficia di persona. Ciò fornirà un diversivo dalle udienze per il suo impeachment così come una consistente offerta per corrompere, durante la corsa alle elezioni presidenziali, la sua base evangelica ossessionata da Israele e importanti finanziatori, come il magnate USA dei casinò Sheldon Adelson.

E il presidente USA è corso in aiuto a un utile alleato politico. Netanyahu spera che questo sostegno da parte della Casa Bianca possa promuovere la sua coalizione ultra-nazionalista al potere in marzo e intimidire i tribunali israeliani quando prenderanno in considerazione le accuse penali contro di lui.

Martedì è risultato evidente quanto egli preveda di ricavare un vantaggio personale dal piano di Trump. Ha rimproverato la procura generale di Israele per aver presentato le accuse di corruzione, sostenendo che è stato messo a repentaglio un “momento storico” per lo Stato di Israele.

Nel contempo Abbas ha accolto il piano con “un migliaio di no”. Trump lo ha messo totalmente in pericolo. O l’ANP abbandona il suo ruolo di subappaltante della sicurezza a favore di Israele e si scioglie, o continua come prima ma privato ora esplicitamente dell’illusione che si possa perseguire la sua trasformazione in uno Stato.

Abbas cercherà di resistere con le unghie e con i denti, sperando che Trump in questo anno di elezioni venga spodestato e che una nuova amministrazione USA ritorni alla finzione di far avanzare il processo di pace di Oslo ormai da molto tempo arrivato a scadenza. Ma se Trump vince le difficoltà aumenteranno rapidamente.

Nessuno, ancora meno l’amministrazione Trump, crede che questo piano porterà alla pace. Una preoccupazione più realistica è con quale rapidità preparerà la strada per uno spargimento di sangue ancora più grande.

– Jonathan Cook ha vinto il premio speciale di giornalismo “Martha Gellhorn”. Tra i suoi libri “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridisegnare il Medio Oriente] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [Palestina che sparisce: gli esperimenti israeliani sulla disperazione umana] (Zed Books). Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Avanti, annettiamo la Cisgiordania

Meron Rapoport 

23 gennaio 2020 – + 972

L’annessione della Valle del Giordano renderebbe ufficialmente Israele uno Stato di apartheid dal fiume al mare. Ma potrebbe essere meno terribile di come pensiamo.

Si è saputo che anche Benny Gantz, rivale di centro del Primo Ministro Netanyahu, persegue l’obiettivo che Israele annetta la Valle del Giordano. Martedì, durante una visita in quella zona della Cisgiordania occupata, Gantz ha affermato che la Valle del Giordano è “lo scudo difensivo di Israele verso est in qualsiasi futuro conflitto. Consideriamo questa terra come parte inseparabile dello Stato di Israele.” Dopo le elezioni, ha continuato Gantz, avrebbe esteso la sovranità sulla valle con una “mossa concordata a livello nazionale” e coordinata con la comunità internazionale.

Non è una posizione nuova tra i falchi del centro israeliano. Un piano strategico pubblicato nell’ottobre 2018 dal National Security Research Institute, il luogo di formazione ideologica di ex generali dell’IDF come Gantz, afferma che Israele avrebbe già dovuto dichiarare la Valle del Giordano area strategica, da mantenere sotto controllo israeliano fino a quando Israele non arriverà ad un sufficiente accordo per la sicurezza.

È peraltro vero che le recenti condizioni poste da Gantz – che l’annessione della Valle del Giordano abbia il consenso nazionale e sia coordinato a livello internazionale – potrebbero far sì che la dichiarazione resti priva di fondamento. A parte il presidente degli Stati Uniti Donald Trump (e anche questo non è del tutto certo), è improbabile che la “comunità internazionale” accetti la mossa.

Eppure, anche se non ha alcuna reale intenzione di annettere la Valle, Gantz ha deliberatamente scelto di schierarsi con la retorica della destra israeliana, per la quale l'”annessione” è diventata una questione di buone maniere, cartina di tornasole per qualsiasi personaggio politico.

Le affermazioni di Gantz ricordano in qualche modo lo slogan della campagna elettorale di Netanyahu del 1996: “Fare una pace sicura”. Netanyahu all’epoca non aveva intenzione di fare la pace, così come oggi sembra che Gantz non abbia alcuna intenzione di procedere all’annessione. Tuttavia, tre anni dopo gli Accordi di Oslo, Netanyahu fu costretto ad includere il centro-sinistra israeliano dell’epoca, per cui la parola “pace” era una categoria a parte. Questo vale per gli ultimi 25 anni della politica israeliana: la pace è out, l’annessione è in.

Potrebbe non essere terribile come si pensa. Per alcuni aspetti, è veramente deplorevole che la coalizione di destra, secondo recenti sondaggi, non sarà in grado di assicurarsi 61 seggi della Knesset nelle prossime elezioni di marzo. Se dovesse vincere Netanyahu, è difficile immaginare come se la caverà con le sue chiare promesse di annettere immediatamente la Valle del Giordano. Nell’attuale situazione politica, l’annessione è il miglior regalo che possano sperare gli avversari dell’occupazione.

Questo non significa che le cose debbano peggiorare prima di migliorare. L’annessione scuoterà lo status quo di espansione infinita fatta di occupazione e insediamento, diventata molto comoda per Israele. Costringerà la società israeliana e parti della comunità internazionale a tornare a discutere una soluzione politica del conflitto, un obiettivo quasi scomparso. E costringerà i sostenitori della soluzione a due Stati, e persino i sostenitori di un singolo Stato, a uscire dalla loro zona protetta e ricalibrare i loro desideri con la realtà concreta.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’impatto dell’annessione sui confini definitivi di Israele o la fattibilità dell’idea dei due Stati non creerebbero necessariamente un discrimine. Israele ha annesso Gerusalemme Est più di 52 anni fa, pochi giorni dopo la fine della guerra del 1967; ciò non ha impedito a rappresentanti israeliani, ufficiali e non, di discutere dell’annessione in vari negoziati con i palestinesi e concordare che il futuro Stato palestinese avrebbe controllato i quartieri palestinesi della città.

Ciò vale anche per l’ex primo ministro Ehud Olmert, che ha fatto carriera politica nel partito Likud promettendo di tenere Gerusalemme “per l’eternità” (Olmert è stato anche protagonista della campagna elettorale del 1996 di Netanyahu, accusando i laburisti di Shimon Peres di “dividere Gerusalemme”). Un decennio dopo, durante i colloqui di pace con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, fu Olmert a proporre di dividere la città. E l’annessione delle Alture del Golan nel 1981 non ha impedito a Ehud Barak – e secondo i documenti, allo stesso Netanyahu – di discutere della possibilità di restituire il Golan alla Siria di Hafez al-Assad.

L’annessione non migliorerà particolarmente la situazione dei pochi coloni israeliani che vivono nella Valle del Giordano. Oggi, e specialmente dopo un decennio di governo di Netanyahu, la Linea Verde [confine tra Israele e Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza prima dell’occupazione del 1967, ndtr.] è quasi del tutto irrilevante e i coloni che vivono in Cisgiordania godono di diritti quasi identici ai cittadini israeliani all’interno dei confini del 1948.

L’annessione può rimuovere alcune delle barriere attualmente imposte ai coloni, ma può anche rendere loro la vita difficile. Nel momento in cui la Valle del Giordano diventasse soggetta ufficialmente alla legge israeliana – piuttosto che agli ordini militari – potrebbe essere molto più difficile confiscare terre, sfrattare palestinesi e stabilire colonie di soli ebrei.

Anche se Israele decidesse di concedere ai palestinesi che annette lo status di residenti invece della piena cittadinanza (come a Gerusalemme est), tale status consentirebbe loro di muoversi liberamente e lavorare all’interno di Israele, il che sicuramente migliorerebbe la loro attuale situazione. Eppure ci sono poche ragioni per credere che i palestinesi annessi rinuncerebbero alle loro aspirazioni nazionali: non è accaduto a Gerusalemme est dopo 52 anni di occupazione, non è accaduto con i palestinesi cittadini di Israele.

Ma c’è la possibilità che l’annessione possa dare impulso non solo ai palestinesi che si trovano sotto la sovranità israeliana, ma alla lotta palestinese in generale. L’annessione costringerebbe l’Autorità Nazionale Palestinese a emergere dal suo coma; renderebbe più facile smantellarla, costringerebbe Israele a riprendere il diretto controllo sulla Cisgiordania, e il ritorno a una lotta per i diritti civili in uno Stato democratico tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo], simile al programma politico originario dell’OLP.

Se Israele, in effetti, rifiutasse di concedere pieni diritti civili ai palestinesi, sarà ancora più facile dimostrare che il regime in Cisgiordania non è un problema temporaneo di “territorio conteso”, come ama sostenere Israele. L’apartheid diventerebbe la politica ufficiale dello Stato.

Inoltre, l’annessione porterebbe la questione palestinese al centro dell’attenzione del mondo arabo. Il governo giordano sta già affrontando una forte opposizione al suo accordo di pace con Israele. Recenti manifestazioni nel Regno hascemita contro l’accordo con Israele per il gas sono ulteriori prove di dissenso. Se l’annessione dovesse avvenire, è difficile pensare che re Abdullah si atterrebbe all’accordo con Israele, volendo mantenere il potere.

La Giordania potrebbe trasformarsi in Palestina, come sperava Netanyahu nel suo libro del 1993 A Place Among the Nations [Un posto fra le Nazioni, ndtr.] – ma questa “Palestina” avrebbe un esercito che potrebbe puntare le sue armi su Israele per solidarietà con i fratelli dall’altra parte del fiume Giordano.

Netanyahu, che conosce la scena internazionale meglio di qualsiasi altro leader a destra – e forse in Israele – è ben consapevole di tutto ciò. Questo è il motivo per cui, durante il suo decennio al potere, ha evitato di compiere passi drastici, perfezionando allo stesso tempo lo status quo. Le sue politiche hanno assicurato l’annessione strisciante di sempre più colonie, la cancellazione della Linea Verde dalla coscienza israeliana e la completa normalizzazione dell’occupazione.

Netanyahu sperava che l’opinione pubblica israeliana, la comunità internazionale, i regimi arabi filo-occidentali e forse gli stessi palestinesi avrebbero alla fine accettato il dominio israeliano sull’intera terra e avrebbero tolto l’opzione di uno Stato palestinese dal tavolo. Ha funzionato brillantemente; persino Gantz, il maggior rivale di Netanyahu, non parla di due Stati.

Ma per il primo ministro potrebbe aver funzionato troppo bene. Proprio perché uno Stato palestinese non sembra più essere preso in considerazione, la destra nazionalista-religiosa ha trasformato l’annessione in richiesta politica – qualcosa che non ha fatto in 40 anni di permanenza al governo, da quando la destra ha preso il potere nel 1977. Se gli insediamenti sono riusciti a impedire l’istituzione di uno Stato palestinese, dicono, perché non passare alla fase successiva e realizzare l’ideale del Grande Israele?

Finché Netanyahu è stato politicamente forte, poteva evitare di parlare di annessione a gente come Naftali Bennett [politico israeliano dell’estrema destra dei coloni ed attuale ministro della Difesa, ndtr.] Ma non appena i problemi legali hanno cominciato a premergli addosso, lo spazio di manovra di Netanyahu è diminuito. Non ha altra scelta che abbracciare il linguaggio del sovranismo, che solo pochi anni fa giaceva in qualche posto nelle plaghe dormienti della destra.

Non che Netanyahu non creda nell’esclusiva sovranità ebraica tra il fiume e il mare: semplicemente non credeva che dovesse realizzarsi attraverso l’annessione formale. Oggi non si tratta più di buttare sul tavolo l’annessione in cambio dell’immunità politica. È annessione o prigione.

Non vi è dubbio che l’annessione sia una violazione del diritto internazionale, che sarebbe imposta ai palestinesi con la forza e trasformerebbe ufficialmente Israele in uno Stato di apartheid. Bisogna opporsi. Ma dopo tanti anni sotto il dominio della fazione del Grande Israele, potrebbe essere il momento di mettere alla prova la proposta della destra. L’annessione chiarirà il vero dibattito Israele-Palestina: uguaglianza e autodeterminazione per ogni Nazione che vive tra la Giordania e il mare o supremazia ebraica.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi mettono in guardia Israele e gli USA mentre Trump sta discutendo il nuovo ‘piano per la pace’

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

I palestinesi respingono l’incontro tra gli USA e Netanyahu affermando di non riconoscere il piano di pace che si prevede favorisca Israele.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha messo in guardia Israele e gli Stati Uniti dal “valicare le linee rosse” promettendo che non riconoscerà il piano di pace per il Medio Oriente che aveva già respinto in precedenza mentre il Presidente USA Donald Trump si prepara a presentare il piano nei prossimi giorni.

Giovedì Trump ha detto che probabilmente rivelerà il tanto atteso progetto prima della visita a Washington, DC, di Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, la prossima settimana.

“Probabilmente lo renderò noto un po’ prima” ha detto il leader degli USA ai reporter che andavano con lui in Florida a bordo dell’Air Force One, riferendosi all’incontro di martedì alla Casa Bianca.

“È un ottimo piano. È un piano che funzionerà davvero” ha aggiunto.

I palestinesi, che non sono stati invitati alla Casa Bianca per l’incontro con Netanyahu, hanno immediatamente respinto le trattative che si svolgono negli USA, in quanto respingono il piano in sé che è stato elaborato dal 2017. La sua presentazione è stata più volte rimandata.

La parte economica del piano è stata rivelata a giugno e prevede 50 miliardi di dollari di investimenti internazionali nei territori palestinesi e nei Paesi arabi vicini per 10 anni.

I palestinesi hanno respinto i tentativi di pace di Trump dopo il suo controverso riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e lo spostamento dell’ambasciata USA a maggio 2018.

Come ha riferito la WAFA, l’agenzia stampa ufficiale palestinese, Nabil Abu Rudeineh, un portavoce del presidente palestinese, ha dichiarato che i leader palestinesi respingeranno ogni atto USA che infranga le leggi internazionali. 

“Se questo accordo viene presentato con quelle premesse che sono state già respinte, i leader annunceranno una serie di misure volte a garantire i nostri legittimi diritti e pretenderemo che Israele si assuma tutte le responsabilità quale potenza occupante” ha detto Abu Rudeineh.

Sembrava fare riferimento alle minacce, spesso reiterate, di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha un’autonomia limitata in alcune parti della Cisgiordania occupata da Israele. Ciò costringerebbe Israele ad assumersi la responsabilità di fornire servizi essenziali a milioni di palestinesi.

“Noi vogliamo mettere in guardia Israele e l’amministrazione USA dal valicare le linee rosse” ha detto Abu Rudeineh che ha ripetuto la richiesta di porre fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi e detto che dovrebbe essere costituito uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme.

‘Si parla solo di Israele’

In aereo, giovedì, Trump si è detto contento che Netanyahu e il suo principale rivale alle elezioni, Benny Gantz, capo del partito di centro Blu Bianco, avrebbero fatto visita alla Casa Bianca nel mezzo della campagna per le elezioni in Israele del 2 marzo.

“Verranno entrambi i candidati, una cosa mai successa!” ha detto Trump.

Alla domanda se avesse contattato i palestinesi, Trump ha detto: “Abbiamo parlato brevemente con loro, ma lo faremo fra poco.

E loro hanno molti incentivi a farlo. Sono sicuro che forse all’inizio reagiranno negativamente, ma per loro è davvero molto positivo.”

Husam Zomlot, il capo della missione palestinese nel Regno Unito, ha detto all’agenzia di stampa AFP [agenzia di stampa francese, N.d.T] che il fatto che Trump abbia invitato i due leader israeliani e nessun palestinese dimostra che il meeting intende influire sulla politica interna israeliana più che essere un vero tentativo di pace. 

“Questa è la conferma di quella che è stata dall’inizio la loro politica fin dall’inizio – si parla solo di Israele.”

Si prevede che il progetto sia fortemente a favore di Israele e che gli offra il controllo di vaste zone della Cisgiordania.

I palestinesi vorrebbero invece che l’intero territorio, conquistato da Israele nel 1967, diventasse il cuore di un futuro Stato indipendente, parte della soluzione dei due Stati sostenuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

Netanyahu ha detto che intende annettere sia la Valle del Giordano occupata che gli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania, ponendo così fine a ogni possibilità di creare uno Stato palestinese sostenibile.

Netanyahu ha tentato di fare di questa promessa la chiave di volta della sua campagna per la rielezione in seguito al testa a testa senza precedenti dopo le ultime elezioni dell’anno scorso che lo ha lasciato in virtuale pareggio con Gantz, ma senza che nessuno dei due fosse in grado di formare una coalizione di governo.

‘L’accordo del secolo’ di Trump

Trump, la cui squadra sta da tempo lavorando sul progetto di un piano di pace segreto, si è ripetutamente vantato di essere il presidente USA più pro-israeliano della storia.

Abbas ha tagliato ogni rapporto con gli USA dal dicembre 2017, dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele con cui Trump ha rotto decenni di consenso internazionale.

I palestinesi considerano la parte orientale della città la capitale del loro futuro Stato e le potenze mondiali concordano da tempo che il destino di Gerusalemme dovrebbe essere deciso con una soluzione negoziata.

Trump è salito al potere nel 2017 promettendo di mediare la pace tra israeliani e palestinesi, che aveva chiamato “l’accordo del secolo “.

Ma da allora ha preso una serie di decisioni che hanno indignato i palestinesi, incluso il taglio di centinaia di milioni di dollari di aiuti e la dichiarazione che gli USA non considerano più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania.

Si ritiene che il suo piano per porre fine al conflitto israelo-palestinese ruoti attorno alla promozione di enormi investimenti economici.

Dopo molti rinvii, l’iniziativa di pace era prevista parecchi mesi fa, ma è stata rimandata dopo che le elezioni in Israele a settembre si sono dimostrate inconcludenti e non si pensava che sarebbe stata resa nota fino a dopo il voto del 2 marzo.

I media israeliani hanno discusso quella che dicono siano le linee generali dell’accordo trapelate giovedì, sostenendo che gli USA sono d’accordo su molte delle principali richieste israeliane.

L’incontro a Washington, DC, si terrà circa un mese prima delle nuove elezioni, con i sondaggi che mostrano un testa a testa fra la destra del Likud di Netanyahu e il partito di Gantz, il Blu e Bianco.

Il meeting di martedì coincide con una seduta del parlamento [israeliano] prevista per discutere la possibile immunità di Netanyahu per l’imputazione in una serie di casi di corruzione.    

I media israeliani sospettano che Trump abbia scelto di annunciare l’evento per sostenere il tentativo di rielezione di Netanyahu, il terzo in un anno.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele: il voto del partito dimostra che il Likud non ha intenzione di abbandonare Netanyahu

Arwa Ibrahim

27 Dec 2019 27 dicembre 2019 – Al Jazeera

Il primo ministro in difficoltà deve affrontare accuse di corruzione e terze elezioni politiche in 11 mesi

Gli analisti dicono che la vittoria schiacciante del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nelle primarie di giovedì ha dimostrato che il Likud non abbandonerà il suo storico leader e primo ministro in carica per più tempo [nella storia di Israele, ndtr.].

Pur essendo il primo capo del governo in carica ad essere accusato di corruzione e che ha dovuto affrontare gravi sconfitte in due elezioni generali in meno di sei mesi, un conteggio [delle preferenze] del Likud ha dato a Netanyahu il 72,5% dei voti contro il suo sfidante, l’ex ministro degli Interni e dell’Educazione Gideon Sa’ar. La commissione elettorale israeliana deve ancora pubblicare i dati ufficiali del voto, ma il conteggio preliminare ha rafforzato la reputazione di Netanyahu come politico invincibile, soprannominato il “mago”.

Questa schiacciante vittoria è la prova che Netanyahu non ha avversari nel Likud, nonostante le accuse di corruzione e il fatto che per due volte non sia riuscito a formare un governo,” dice ad Al Jazeera l’analista israeliano Mayer Cohen.

Il Likud crede ancora che Netanyahu abbia un ampio sostegno dell’opinione pubblica e sia l’unico in grado di guidare il partito nelle imminenti elezioni,” aggiunge.

Sa’ar, che venerdì ha riconosciuto la sconfitta, aveva annunciato la propria candidatura per la direzione del partito dopo che in novembre il procuratore generale di Israele ha incriminato Netanyahu in tre diversi processi penali per corruzione, frode e abuso di potere.

Netanyahu per due volte non è neanche riuscito a formare un governo in seguito a due elezioni politiche inconcludenti tenutesi nell’aprile e nel settembre di quest’anno.

Il 2 marzo 2020 si terranno le terze elezioni politiche senza precedenti, dopo uno stallo politico derivato dal fatto che neppure il rivale di Netanyahu e leader dell’alleanza “Blu e Bianco” [coalizione di centro destra che ha vinto per un seggio le elezioni di settembre, ndtr.], Benny Gantz, è riuscito a formare una coalizione di governo.

Base d’appoggio

Secondo alcuni analisti, il successo di Netanyahu alle primarie è dovuto a un forte senso di lealtà all’interno del partito e al suo retaggio come primo ministro di successo.

Nel Likud le persone danno importanza alla lealtà. Considerano il partito una famiglia e nessuno tradisce la famiglia,” dice Uri Dromi, direttore generale del Jerusalem Press Club [agenzia che fornisce servizi ai giornali, ndtr.].

Yair Wallach, importante docente di politica israeliana presso la Scuola di Studi Orientali e Africani a Londra, è d’accordo.

Il Likud non ha mai cacciato un leader. Farlo viene visto come sleale,” dice Wallach. “Anche l’opinione pubblica israeliana considera il regno di Netanyahu come un successo. È visto come una forza positiva per Israele sia economicamente che diplomaticamente, così come riguardo alla sicurezza. Il suo approccio militare relativamente cauto è considerato (dai suoi sostenitori) un pregio,” aggiunge Wallach.

Ma secondo lui tenersi stretto Netanyahu potrebbe porre seri rischi al Likud nelle prossime elezioni, e aggiunge che “per il Likud la seconda elezione è andata peggio della prima, e la terza potrebbe benissimo essere persino peggiore. Di conseguenza aggrapparsi su Netanyahu è un rischio per il Likud e per la destra in generale.”

Sfide da affrontare

Secondo Dromi molti membri del Likud potrebbero anche considerare Sa’ar un traditore per aver sfidato Netanyahu, ma l’ex-ministro dell’Educazione ora si è collocato nella posizione di essere in futuro il potenziale sostituto del leader del partito.

Sa’ar è visto come l’unico che ha avuto il coraggio di sfidare Netanyahu. Qualora Netanyahu venga spodestato, politicamente o per via giudiziaria, Sa’ar potrebbe sostituirlo,” spiega.

L’Alta Corte israeliana ha affermato che la prossima settimana prenderà una decisione sulla possibilità che un primo ministro sotto processo formi un governo – nel caso in cui Netanyahu vinca le elezioni di marzo.

Finora l’Alta Corte non ha espresso un parere sull’argomento, ma ha chiesto al procuratore generale Avichai Mandelblit di rendere pubblico un parere giuridico sulla questione prima dell’udienza. Secondo l’analista israeliano Eli Nissan la vittoria di Netanyahu alle primarie del partito potrebbe rafforzare la sua posizione in tribunale. “Dopo i risultati di oggi, questa decisione ora spetta all’opinione pubblica più che al tribunale,” dice Nissan a Al Jazeera.

Cohen concorda, affermando che “la base di sostenitori di destra di Netanyahu ha iniziato a convincersi sempre di più che egli è vittima di una caccia alle streghe per ragioni politiche guidata dai media.” Netanyahu, che ha definito la causa legale contro di lui come una caccia alle streghe politica orchestrata dai media e da una sinistra israeliana che spera di cacciarlo, ha cercato [di ottenere] l’immunità dall’incriminazione.

Benché all’inizio dell’anno gli alleati di Netanyahu abbiano sostenuto la bozza di una controversa legge intesa a proteggerlo dall’incriminazione, così come una normativa che limiterebbe il potere della Corte Suprema israeliana, non è scontato che al primo ministro venga concessa l’immunità.

Se i membri della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] che hanno votato per Sa’ar si astengono o si oppongono alla concessione dell’immunità a Netanyahu, allora egli è nei guai e il suo processo inizia,” dice Dromi ad Al Jazeera. “È ciò che potrebbe fare la differenza nelle terze elezioni.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gaza 2020: com’è facile per il mondo cancellare la sofferenza dei palestinesi

David Hearst

13 dicembre 2019 – Middle East Eye

Nel 2012 le Nazioni Unite hanno dichiarato che Gaza sarebbe divenuta invivibile entro il 2020. Israele ha contribuito volontariamente a ciò.

Vorrei che voi faceste una verifica. Cercate su Google le parole “uccisa famiglia di otto persone” e vi verranno fornite diverse alternative: una a Sonora, in Messico, un’altra a Pike, nell’Ohio, un’altra nella Contea di Mendocino, in California.

Ma la sconfinata memoria di Google sembra essere stata colpita da amnesia riguardo a quanto è successo solo un mese fa a Deir al-Baba, a Gaza.

Ricapitolando, perché anche voi potreste aver dimenticato: il 14 novembre un pilota israeliano ha lanciato una bomba JDAM [Joint Direct Attact Munition [bombe munite di un sistema di guida sull’obiettivo, ndtr.] da una tonnellata su un edificio in cui dormivano otto membri di una famiglia. Cinque di loro erano minori, due dei quali neonati.

Inizialmente, l’esercito israeliano ha cercato con la menzogna di liberarsi della responsabilità per l’uccisione della famiglia di al-Sawarka (un altro membro della famiglia è morto in seguito a causa delle ferite, portando il totale a nove). Il suo portavoce in lingua araba ha sostenuto che l’edificio era una postazione di comando nel centro della Striscia di Gaza per un’unità di lancio di missili della Jihad islamica.

Tuttavia, come ha rivelato Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.], il bersaglio era stato considerato tale almeno un anno fa. Le informazioni erano fondate su delle voci e nessuno si era preso la briga di verificare chi vivesse all’interno di quell’edificio: ma hanno lanciato lo stesso la bomba.

L’intelligence militare in grado di identificare e colpire obiettivi in movimento come Bahaa Abu al-Atta, il comandante della Jihad islamica nella Striscia di Gaza settentrionale – o di attentare alla vita di Akram al-Ajouri, un membro del suo ufficio politico a Damasco – è contemporaneamente incapace di aggiornare la banca dati dei suoi obiettivi, risalente ad un anno fa.

L’esercito israeliano non aveva necessità di mentire. Nessuno ci ha fatto caso. Né lo scambio di lanci di razzi né l’uccisione della famiglia Sawarka hanno riempito le prime pagine del Guardian [quotidiano inglese di centro sinistra, ndtr.], del New York Times o del Washington Post.

Piano dietetico israeliano per Gaza

Questo è Gaza ora: un brutale assedio di una popolazione dimenticata che sopravvive in condizioni che le Nazioni Unite hanno previsto come invivibili entro il 2020, un anno che è solo a poche settimane di distanza.

È inesatto affermare che le morti della famiglia Sawarka abbiano riscontrato indifferenza in Israele.

L’unico rivale di Benjamin Netanyahu per la leadership è Benny Gantz. Chiunque nelle capitali occidentali scambi Gantz per un pacifista, semplicemente perché sta sfidando Netanyahu, dovrebbe guardare una serie di video della campagna elettorale che l’ex capo dell’esercito israeliano ha recentemente diffuso riguardo a Gaza.

Uno di questi inizia con una sorta di sequenze che avrebbe potuto realizzare un drone russo dopo il bombardamento di Aleppo Est. La devastazione è come [quella di] Dresda o Nagasaki. Ci vogliono alcuni secondi inquietanti per rendersi conto che queste orribili riprese da parte di un drone non sono una denuncia ma una esaltazione della distruzione.

Il suo messaggio in ebraico è chiaramente ciò che nel diritto internazionale è considerato un crimine di guerra. “Parti di Gaza sono state riportate all’età della pietra … 6.231 bersagli distrutti … 1.364 terroristi uccisi … 3.5 anni di quiete … Solo i forti vincono”.

Indifferenza non è la parola giusta. Assomiglia di più ad un’esultanza.

Il soffocamento di Gaza da parte di Israele precede l’assedio iniziato quando Hamas prese il potere nel 2007. Come ha detto lo scrittore israeliano Meron Rapoport, i leader israeliani hanno a lungo nutrito pensieri genocidi su cosa fare con l’enclave in cui hanno cacciato tutti quei rifugiati dopo il 1948.

Nel 1967, l’ex primo ministro israeliano Levi Eshkol istituì un’unità operativa rivolta a incoraggiare i palestinesi ad emigrare.

“Proprio perché si trovano là soffocati e imprigionati, forse gli arabi si sposteranno dalla Striscia di Gaza … Forse se non diamo loro abbastanza acqua non avranno scelta, perché gli orti ingialliranno e appassiranno”, egli ipotizzava, secondo i verbali declassificati delle riunioni del governo declassificati nel 2017.

Nel 2006, Dov Weisglass, consigliere del governo, dichiarò: “L’idea è di mettere i palestinesi a dieta, ma non di farli morire di fame”.

Il valico di Rafah come valvola di sicurezza

Il passare del tempo non ha intaccato né modificato queste intenzioni.

La differenza oggi è che i leader israeliani non sentono più il bisogno di mascherare le proprie opinioni su Gaza. Come ha fatto Gantz, dicono ad alta voce ciò che in precedenza avevano detto o pensato in privato.

In privato, i primi ministri israeliani non hanno mai smesso di comunicare con Hamas attraverso intermediari, principalmente riguardo agli scambi di prigionieri.

Tony Blair, ex inviato del Medio Oriente per il Quartetto [gruppo composto da ONU, USA, UE e Russia, costituitosi a Madrid nel 2002 al fine di mediare sul processo di pace tra Israele e Palestina, ndtr.] si impegnò sul piano diplomatico offrendo ad Hamas un porto marittimo e un aeroporto in cambio della fine del conflitto con Israele. Non ottenne niente.

Hamas ha offerto autonomamente una hudna [tregua in arabo, ndtr.] o un cessate il fuoco a lungo termine ed ha modificato il proprio statuto per rispecchiare un accordo basato sui confini palestinesi del giugno 1967 [cioè prima della guerra dei Sei Giorni e l’occupazione di Cisgiordania e Gaza, ndtr.]. Ma ha rifiutato di smantellare o trasferire le sue forze militari. Fatah e l’OLP hanno intrapreso un percorso di declino e di perdita di rilevanza politica nel momento in cui hanno riconosciuto l’esistenza di Israele. Ciò non costituisce un grande incentivo per Hamas e gli altri gruppi della resistenza armata a Gaza.

Nel frattempo, sono emerse anche le oscillazioni tra colloqui e guerra, e gli interessi di altre parti nell’assedio di Gaza. A volte, queste parti sono state più realiste del re riguardo al desiderio di vedere Gaza e Hamas sottomesse.

Uno di questi è l’Egitto sotto il governo guidato da Abdel Fattah al-Sisi.

Nel 2012, sotto il governo del presidente Mohamed Morsi, una media di 34.000 persone attraversava ogni mese il valico di Rafah. Nel 2014, dopo l’arrivo al potere di al-Sisi, il confine con l’Egitto è rimasto chiuso per 241 giorni. Nel 2015 è stato chiuso per 346 giorni – e aperto solo per 19 giorni. Al-Sisi ha gestito il valico di frontiera di Rafah esattamente come Israele.

Il valico è un [come] un rubinetto. Lo chiudi e fai pressione politica su Hamas negando l’accesso dei malati terminali a cure mediche adeguate. Lo apri e alleggerisci la pressione sui detenuti di questa gigantesca prigione.

Un terzo complice dell’assedio è la stessa Autorità Palestinese. Secondo Hamas, dall’aprile 2007 l’ANP ha ridotto gli stipendi dei suoi dipendenti a Gaza, costretto alla pensione anticipata 30.000 dipendenti pubblici, ridotto il numero di permessi medici per ricevere cure all’estero, tagliato medicine e forniture mediche. I tagli agli stipendi sono in gran parte indiscutibili.

Un esperimento disumano

L’effetto a lungo termine dell’assedio sull’enclave è devastante, come riportato da MEE questa settimana.

Immaginate come reagirebbe la comunità internazionale se a Hong Kong o a New York, altri due territori altrettanto densamente abitati, la disoccupazione fosse del 47%, il tasso di povertà del 53%, il numero medio [degli alunni] in una classe fosse di 39 e il tasso di mortalità infantile al 10,5 per 1.000 nati.

La comunità internazionale si è assuefatta ad assolvere Israele da ogni responsabilità per le punizioni collettive e le gravi violazioni dei diritti umani.

Ma sicuramente il punto ora è che Gaza deve essere considerata una vergogna umana sulla coscienza del mondo.

Per negligenza o per omissione, tutti i governi occidentali hanno contribuito attivamente alla sua sofferenza. Tutti sono profondamente complici di un esperimento disumano: come mantenere oltre 2 milioni di persone a un livello di sussistenza considerato intollerabile e invivibile dalle Nazioni Unite, senza spingerle verso un’estinzione di massa.

Cosa deve succedere perché questo cambi? Per quanto ancora cancelleremo, come sembra fare Google, Gaza, i suoi rifugiati, la sua sofferenza quotidiana dalla coscienza collettiva del mondo?

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst

David Hearst è caporedattore del Middle East Eye. Ha lasciato l’incarico di caporedattore esteri di The Guardian. In 29 anni di carriera di ha scritto sulla bomba di Brighton [il 12 ottobre 1984 una bomba dell’IRA esplode al Grand Hotel di Brighton, dove si sta svolgendo il congresso del partito Conservatore alla presenza di Margaret Thatcher, causando la morte di 5 persone (tra cui un parlamentare), ndtr.], sullo sciopero dei minatori, sulla reazione dei lealisti in seguito all’accordo anglo-irlandese nell’Irlanda del Nord, sui primi conflitti dopo la separazione dalla ex-Jugoslavia di Slovenia e Croazia, sulla fine dell’Unione Sovietica, sulla Cecenia e i sui conflitti connessi. Ha descritto il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le condizioni che hanno creato l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente dell’Europa per The Guardian Europe, poi è entrato a far parte della redazione di Mosca nel 1992, prima di diventare capo redattore nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per unirsi alla redazione esteri [in GB, ndtr.], è diventato caporedattore per l’Europa e quindi caporedattore associato per gli esteri. È giunto a The Guardian da The Scotsman, dove ha lavorato come corrispondente sulle questioni educative.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rovesciamento della politica di Obama? La dichiarazione di Pompeo sulle colonie israeliane è un fatto già noto

Dania Akkad

19 novembre 2019 – Middle East Eye

Middle East Eye prende in esame le affermazioni del Segretario di Stato USA per separare i fatti dalle interpretazioni

Lunedì il Segretario di Stato USA Mike Pompeo ha annunciato che, dopo quello che ha descritto come un’analisi accurata, l’amministrazione Trump ritiene che le colonie israeliane costruite nella Cisgiordania occupata non siano una violazione delle leggi internazionali.

Come hanno rilevato gli osservatori, non è mai stato precisato chi abbia effettuato lo studio, quanto tempo ci sia voluto e se ci siano stati dissensi; né lo è stata l’esatta motivazione dei tempi dell’annuncio – solo due giorni prima del termine ultimo entro il quale il premier israeliano incaricato Benny Gantz doveva formare una coalizione di governo.

Nella dichiarazione durata 15 minuti, Pompeo ha proceduto a esporre il nuovo corso della politica USA riguardo alle colonie israeliane, che, ha affermato, è “il rovesciamento dell’approccio dell’amministrazione Obama” e l’allineamento a quello dell’amministrazione di Ronald Reagan.

Ma è vero? Middle East Eye riflette su questi punti ed una serie di altri presentati dal Segretario per separare i fatti dalle interpretazioni.

L’amministrazione Trump sta invertendo l’approccio di quella di Obama nei confronti delle colonie israeliane.”

Pompeo ha dato il via alla sua dichiarazione affermando che l’amministrazione Trump sta “invertendo” l’approccio dell’amministrazione Obama nei confronti delle colonie, una linea che molte agenzie di stampa USA hanno preso per buona ed hanno accolto. Ma qual è stato esattamente il punto di vista di Obama sulle colonie?

Verso la fine della sua presidenza, poche settimane prima che Trump assumesse l’incarico, la sua [di Obama, ndtr.] amministrazione si astenne – tra molti applausi – su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva il blocco di tutti gli insediamenti israeliani nei territori occupati. Come dissero i suoi collaboratori al Washington Post, Obama non doveva più presentarsi alle elezioni, e non aveva quindi niente da perdere.

Cinque anni prima, ha raccontato martedì a Democracy Now [rete di notizie e commenti progressista USA, ndtr.] Noura Erakat, avvocato per i diritti umani e giurista palestinese, la storia era stata diversa. Nel febbraio 2011 l’amministrazione Obama fece uso del suo primo veto al Consiglio di Sicurezza ONU contro una risoluzione che condannava le colonie israeliane.

Sì, disse all’epoca l’ambasciatrice all’ONU Susan Rice, gli USA rifiutano “nei termini più decisi” la legittimità della continua costruzione di colonie israeliane, ma la risoluzione rischiava di “rendere più intransigenti le posizioni di entrambe le parti.”

Sicuramente l’amministrazione Obama fece sì che Israele ci pensasse due volte prima di costruire colonie. Basta vedere l’incremento nell’edificazione dopo che Trump ha assunto la presidenza, descritto come potenzialmente “la maggior valanga di costruzioni da anni.”

Ma, come evidenzia Erakat, come tutte le amministrazioni USA negli ultimi 50 anni, quella di Obama ha detto cose contraddittorie. Mentre si è astenuto sulla risoluzione del 2016, solo pochi mesi prima Obama ha accettato di concedere a Israele una cifra record di 3,8 miliardi di dollari di aiuti all’anno per dieci anni – il più grande accordo di questo tipo tra gli Usa e qualunque altro Paese.

Quindi quello che ora stiamo vedendo non è un radicale stravolgimento della politica estera USA sulla questione delle colonie e sulla Palestina, ma piuttosto il suo culmine,” ha detto Erakat martedì.

Tuttavia nel 1981 il presidente Reagan dissentì da questa conclusione e affermò di non credere che le colonie fossero intrinsecamente illegali…Dopo aver attentamente studiato ogni aspetto del dibattito giuridico, questa amministrazione è d’accordo con il presidente Reagan.”

Durante un’intervista con il New York Times nel febbraio 1981, in effetti Ronald Reagan disse di non credere che le colonie fossero illegali, ma affermò anche qualcosa di più in seguito – e le azioni della sua amministrazione furono qualcosa di completamente diverso.

Un giornalista disse che sembrava ci fosse un’accelerazione nella costruzione di colonie in Cisgiordania: “Lei è d’accordo? E, in secondo luogo, la vostra è una politica equilibrata in Medio Oriente?”, chiese il giornalista a Reagan.

Reagan disse che, mentre era in disaccordo quando l’amministrazione del suo predecessore Jimmy Carter aveva definito le colonie come illegali perché, in base a una risoluzione ONU che lasciava la Cisgiordania aperta a tutti, “non sono illegali”, egli riteneva che costruirle fosse “una pessima idea”.

Venne così citato: “Penso che forse ora con questa corsa a edificarle e il fatto di spostarsi all’interno [della Cisgiordania] nel modo in cui lo fanno sia una pessima idea, perché, se continuiamo con lo spirito di Camp David per cercare di arrivare a una pace, forse questo, in questo momento, è inutilmente provocatorio.”

Martedì un ex- consigliere giuridico del ministero degli Esteri israeliano ha detto a Times of Israel [giornale israeliano indipendente in lingua inglese, ndtr.] che, nonostante le sue considerazioni e altre dichiarazioni pubbliche di fonti ufficiali, che si rifiutarono di prendere posizioni giuridiche sulle colonie, durante la sua [di Reagan, ndtr.] amministrazione a porte chiuse i funzionari USA continuarono a dire che le colonie erano illegali.

La stessa proposta di pace di Reagan nel 1982 chiedeva il congelamento [delle costruzioni] sia nelle colonie esistenti che di nuove colonie. La proposta – presentata in una lettera – venne subito respinta da una risoluzione adottata all’unanimità dal governo del primo ministro israeliano Menachem Begin. Begin disse alla radio israeliana che era il suo “giorno più triste come primo ministro”.

La costruzione di colonie civili israeliane in Cisgiordania non è di per sé incompatibile con le leggi internazionali.”

Mentre Pompeo insiste che la legalità delle colonie israeliane è stata attentamente studiata e che, dopo aver esaminato “tutti gli aspetti della discussione giuridica”, l’amministrazione ha concluso che le colonie non sono “incompatibili con le leggi internazionali”, egli non spiega mai davvero esattamente come.

Evidenzia le differenze tra le posizioni dell’amministrazione Trump e le precedenti presidenze, sostiene che il sistema legale israeliano “offre la possibilità di opporsi alle attività di colonizzazione” (asserzioni che un palestinese potrebbe trovare gravemente fuorvianti) e afferma che prendersela con le colonie non ha contribuito agli sforzi per la pace. Ma nelle dichiarazioni di Pompeo non viene mai pienamente chiarito in che modo le colonie non violerebbero più le leggi internazionali, soprattutto le Convenzioni di Ginevra – definite dopo la Seconda Guerra Mondiale per garantire un trattamento umano ai civili durante un conflitto.

In particolare, secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, una potenza occupante “non deve deportare o trasferire parti della propria popolazione civile nel territorio che occupa.” L’Assemblea Generale dell’ONU, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e la Corte Internazionale di Giustizia hanno affermato che le colonie israeliane violano la convenzione che sia gli USA che Israele hanno ratificato. Quindi, cos’è cambiato ora?

E quali sono le conseguenze se le leggi internazionali non contano più? Martedì il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha affermato che il “farsesco annuncio” di Pompeo darà via libera non solo al progetto di colonizzazione illegale di Israele, ma aprirà la via ad altre violazioni dei diritti umani in tutto il mondo.

E infine – in conclusione – definire la costruzione di insediamenti civili incompatibile con le leggi internazionali non ha funzionato. Non ha fatto progredire la causa della pace.”

Forse, come ha detto Pompeo, definire le colonie come illegali non ha fatto avanzare la causa della pace. Ma indiscutibilmente non lo hanno fatto neppure il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e la sovranità israeliana sulle Alture del Golan; il taglio ai fondi destinati all’agenzia delle Nazioni Unite per l’Aiuto e il Lavoro (UNRWA), l’ente dell’ONU che fornisce aiuto a più di cinque milioni di rifugiati palestinesi; la chiusura dell’ufficio dell’OLP a Washington; il sostegno a un “accordo del secolo” che marginalizza una delle due parti per la quale è stata pensata come una soluzione.

Nel solo giorno in cui l’amministrazione Trump ha aperto la sua nuova ambasciata a Gerusalemme, il 14 maggio 2018, 68 persone di Gaza sono state uccise o hanno subito ferite letali a causa delle quali sono in seguito morte, mentre protestavano contro l’iniziativa durante la Grande Marcia del Ritorno.

È stata una giornata nera nel ricordo dei palestinesi,” ha detto a Middle East Eye il direttore dell’ospedale Al-Shifa di Gaza City, il dottor Medhat Abbas, che quel giorno ha curato circa 500 feriti.

In che modo le iniziative che l’amministrazione Trump ha preso dal giorno del suo insediamento abbiano protetto “la sicurezza e il benessere di palestinesi e israeliani,” come Pompeo invita le due parti a fare, è un’altra delle cose che non ha chiarito.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)