Da Gaza al Congo: il sionismo e la storia dimenticata del genocidio

Ramzy Baroud

9 gennaio 2024 – Middle East Monitor

Migliaia di chilometri separano l’Uganda e il Congo dalla Striscia di Gaza, ma questi luoghi sono connessi alla Palestina in modi che le tradizionali analisi geopolitiche probabilmente non riuscirebbero a spiegare. Eppure il 3 gennaio è stato rivelato che il governo israeliano di estrema destra di Benjamin Netanyahu sta attivamente discutendo proposte per espellere milioni di palestinesi verso Paesi africani in cambio di un prezzo definito.

Apparentemente la discussione sull’espulsione di milioni di palestinesi da Gaza è entrata nel pensiero mainstream israeliano il 7 ottobre, tuttavia il fatto che questo dibattito continui a oltre tre mesi dall’inizio della guerra di Israele contro Gaza indica che le proposte israeliane non sono l’esito di uno specifico momento storico come l’Operazione Diluvio Al-Aqsa, per esempio.

Anche a una rapida disamina le testimonianze storiche israeliane puntano al fatto che l’espulsione di massa dei palestinesi, nota in Israele come “trasferimento”, era, e resta, una rilevante strategia sionista che mira a risolvere il cosiddetto “problema demografico” dello Stato di apartheid.

Molto prima che il 7 ottobre i combattenti delle Brigate Al-Qassam e altri movimenti palestinesi assaltassero la recinzione che separa l’assediata Gaza da Israele, i politici israeliani avevano discusso in varie occasioni come ridurre la popolazione palestinese complessiva per mantenere una maggioranza ebraica nella Palestina storica. L’idea non era solo limitata agli estremisti oggi al governo in Israele, ma era anche dibattuta da personaggi come l’ex ministro della difesa israeliana Avigdor Lieberman che, nel 2014, suggerì un progetto per un “piano di scambio della popolazione”.

Persino intellettuali e storici ritenuti progressisti hanno sostenuto questa idea, sia in teoria che in pratica. In un’intervista con il giornale israeliano progressista Haaretz nel gennaio 2004 uno dei più influenti storici israeliani, Benny Morris, si rammaricava che il primo ministro israeliano, David Ben-Gurion, non fosse riuscito ad espellere tutti i palestinesi durante la Nakba, il catastrofico evento di massacri e pulizia etnica che portò alla costruzione dello Stato di Israele sopra città e villaggi palestinesi.

Essi includono una memoria ufficiale pubblicata il 17 ottobre della think tank Misgav Institute for National Security and Zionist Strategy e un rapporto diffuso tre giorni dopo dalla testata israeliana Calcalist, [il principale quotidiano finanziario israeliano, ndt.] che riportava un documento che proponeva la stessa strategia.

Che Egitto, Giordania e altri Paesi arabi abbiano apertamente e immediatamente dichiarato la loro totale opposizione all’espulsione dei palestinesi è un’indicazione del grado di serierà di queste proposte ufficiali israeliane.

Il nostro problema è [trovare] un Paese che voglia accogliere i gazawi,” ha detto il 2 gennaio Netanyahu, “e noi ci stiamo lavorando.” I suoi commenti non sono i soli. Il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ha detto che “la cosa da fare nella Striscia di Gaza è incoraggiare l’emigrazione.”

È stato allora che il dibattito ufficiale israeliano ha adottato il termine “migrazione volontaria”. Non c’è niente di “volontario” in 2.2 milioni di palestinesi ridotti alla fame che devono affrontare il genocidio mentre vengono spinti sistematicamente verso la zona di confine fra Gaza ed Egitto.

Nella causa presentata alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), il governo del Sudafrica ha incluso la pulizia etnica di Gaza pianificata da Tel Aviv come uno degli argomenti principali elencati da Pretoria, che accusa Israele di genocidio.

A causa del mancato entusiasmo da parte dei Paesi occidentali filoisraeliani, i diplomatici israeliani stanno facendo il giro del mondo alla ricerca di governi che vogliano accettare palestinesi vittime di pulizia etnica. Immaginate se questo comportamento provenisse da un qualsiasi altro Paese, un Paese che ammazza civili, minori, donne e uomini e poi fa shopping per trovare altri Stati che accettino i sopravvissuti in cambio di denaro.

Israele non solo si fa beffe del diritto internazionale, ma ha anche raggiunto un livello ancora più basso nel comportamento spregevole di qualunque altro Stato, ovunque nel mondo, in qualsiasi momento della storia, antica o moderna. Nonostante ciò il mondo continua a rimanere a guardare, sostenere, come nel caso degli USA e del Regno Unito, o a protestare timidamente o energicamente, ma senza fare neanche un passo significativo per fermare il bagno di sangue a Gaza, o per bloccare la possibilità di scenari veramente terrificanti che potrebbero seguire se la guerra non finisce, e presto.

Tuttavia c’è una cosa che molti forse non sanno: il movimento sionista, l’istituzione ideologica che fondò Israele, prese in considerazione il suggerimento di spostare gli ebrei del mondo in Africa e stabilire là il loro Stato, prima di scegliere la Palestina quale “focolare ebraico”. Il cosiddetto “Schema Uganda” del 1903 fu formulato da Theodor Herzl, il giornalista ateo che fondò il sionismo politico, al sesto congresso sionista. Era basato su una proposta avanza da Joseph Chamberlain, ministro britannico per le Colonie. Alla fine il progetto venne abbandonato, ma i sionisti prima continuarono a cercare altri posti, per poi decidere per la Palestina e stabilirsi là, sfortunatamente per i palestinesi.

Se paragoniamo il linguaggio genocidiario dei leader israeliani di oggi e studiamo i loro punti di riferimento razzisti riguardo ai palestinesi, possiamo vedere una significativa coincidenza con il modo in cui le comunità ebraiche sono state percepite dagli europei per centinaia di anni. L’improvviso interesse sionista per il Congo come “patria” potenziale per i palestinesi illustra ulteriormente il fatto che il movimento sionista continua a vivere all’ombra della sua storia, proiettando il razzismo europeo contro gli ebrei attraverso il razzismo di Israele contro i palestinesi.

Il 5 gennaio Amihai Eliyahu ministro israeliano per il Patrimonio [di Gerusalemme], ha suggerito che gli israeliani “devono trovare delle soluzioni per i gazawi che siano più dolorose della morte.” Non dobbiamo affannarci per trovare un simile linguaggio usato dai nazisti tedeschi contro gli ebrei nella prima metà del Ventesimo Secolo. Se la storia si ripete, lo fa in modo grottesco e crudele.

Ci è stato detto che il mondo ha imparato dalle uccisioni di massa delle guerre precedenti, incluso l’Olocausto e altre atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Eppure sembra che le lezioni siano state ampiamente dimenticate. Non solo Israele sta ora assumendo il ruolo di assassino di massa, ma anche il mondo occidentale continua a giocare il ruolo assegnatogli in questa storica tragedia. I leader occidentali o applaudono Israele, o protestano garbatamente, o non fanno assolutamente nulla.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’industria dell’hasbara: decostruire la macchina propagandistica israeliana

M. Reza Behnam

8 giugno 2023 – Palestine Chronicle

Tuttavia Tel Aviv sta incontrando difficoltà sempre maggiori a nascondere il suo consolidato sistema di apartheid e il continuo genocidio, soprattutto alla luce delle politiche e prassi apertamente razziste dell’attuale regime di destra messo insieme dal suo primo ministro perseguito dalla giustizia, Benjamin Netanyahu.

Quasi sempre la mattina, mentre mi preparo per fare footing, mi sintonizzo su BBC News. Ultimamente il notiziario presenta, in sobrio stile britannico, il numero dei palestinesi uccisi la notte precedente dall’esercito israeliano durante le sue incursioni quasi quotidiane in case e campi di rifugiati nei territori palestinesi occupati. Quando cerco sui siti di notizie americani per saperne di più, essi non fanno menzione di queste atrocità. Invece le onde radio sono piene di notizie sulla guerra tra Russia e Ucraina e sulla morte di civili.

Quello che molti americani non sapranno da queste fonti di “notizie” è che nel 2022 l’esercito israeliano ha ucciso in Cisgiordania e a Gerusalemme est più di 170 civili palestinesi, tra cui 30 minorenni, e che dall’inizio del 2023 l’esercito di occupazione israeliano ha già ammazzato 158 palestinesi, tra cui 26 minori.

Quello che non sapranno è che Israele controlla le vite e le risorse (l’accesso all’acqua potabile) di circa 7 milioni di palestinesi, e che le città, villaggi, case, coltivazioni e attività economiche palestinesi sono state sistematicamente distrutte e ripopolate con oltre 750.000 occupanti illegali ebrei (“abitanti”).

Non sapranno dei 56 anni di occupazione, spoliazione, demolizioni di case, coprifuoco, posti di controllo, muri, blocchi, permessi, raid notturni, uccisioni mirate, tribunali militari, detenzioni amministrative, migliaia di prigionieri politici, minori palestinesi torturati e di 56 anni di oppressione e umiliazione da parte di Israele.

Cosa spiega l’“eccezionale” trattamento deferente che Israele riceve mentre altri che violano i diritti umani sono condannati o sanzionati dagli Stati Uniti e dai loro alleati?

Buona parte della spiegazione ha a che fare con la poderosa ed efficace industria delle pubbliche relazioni di Israele gestita dallo Stato, che si basa su miti e falsità. Dalla sua fondazione nel 1948 Israele ha creato con successo una nuova assurdità a se stante che ha fatto sembrare l’illegalità come legale, apparire morale l’immoralità e democratico ciò che è antidemocratico. Ha magistralmente spacciato una serie di miti che sono diventati parte della narrazione politica e dei principali media.

Fin dall’inizio i fondatori sionisti di Israele ammantarono di termini eroici il loro vero obiettivo di creare un “Grande Israele”, uno Stato ebraico non solo in Palestina, ma in Giordania, nel sud del Libano e sulle Alture del Golan siriane.

Una storia e figure retoriche inventate sui “buoni” israeliani, che portavano sviluppo a una terra spopolata, creando miracoli agricoli nel deserto e reclamando una storica terra promessa, si sono profondamente radicate.

In realtà i sionisti, come il primo capo del governo di Israele nato in Polonia David Ben-Gurion, videro il piano di partizione della Palestina dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948 come il primo passo verso una futura espansione.

I piani di colonizzazione di Israele

Nel suo libro Vittime [Rizzoli, Milano, 2002] Benny Morris scrive che in una lettera al figlio del 1937 Ben-Gurion architettò il progetto sionista per colonizzare la Palestina: “Nessun sionista può rinunciare a una minima parte della Terra di Israele. (Uno) Stato ebraico su una parte (della Palestina) non è la fine, ma un inizio…attraverso di esso incrementiamo la nostra potenza, e ogni incremento di potenza agevola l’appropriazione del Paese nella sua totalità. Fondare un (piccolo) Stato…servirà come leva molto potente nel nostro storico tentativo di redimere tutto il Paese.”

Che per realizzare i suoi progetti colonialisti Israele avrebbe dovuto trasferire e togliere di mezzo con la forza la popolazione autoctona palestinese venne cancellato dalla narrazione israeliana.

In conseguenza di questa efficace campagna di disinformazione molti americani sono arrivati a credere che Israele sia uno Stato democratico, progressista e umano, una piccola ma coraggiosa Nazione che si difende contro violenza e terrorismo “stranieri”.

Nel realizzare la sua missione annessionista del “Grande Israele”, Israele ha creato un’altra finzione per legittimare la sua scelta di fare la guerra nel 1967. Benché la guerra dei Sei Giorni, iniziata nel giugno 1967, si sia dimostrata un cruciale punto di svolta nella storia contemporanea del Medio Oriente, il mito israeliano della vulnerabilità e le invenzioni sulla “Nazione sotto assedio” rimangono ampiamente indiscussi.

I produttori di miti sionisti

Cinquantasei anni fa l’aviazione militare israeliana attaccò le basi aeree di Egitto, Siria e Giordania, distruggendo a terra oltre l’80% degli aerei da guerra. Le truppe israeliane occuparono rapidamente la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza egiziane, la West Bank giordana e le Alture del Golan siriane. Secondo i verbali del governo israeliano questo attacco non fu difensivo, ma preventivo e pianificato.

Gli israeliani erano pienamente consapevoli della necessità di avviare una campagna di disinformazione insieme alle loro operazioni militari preventive per placare le reazioni avverse da parte di Washington e di altre potenze occidentali.

Il mito israeliano secondo cui lo Stato ebraico stava lottando per la sua sopravvivenza fisica contro un nemico arabo più potente ebbe una forte presa sui dirigenti politici e sull’opinione pubblica statunitensi. Di fatto i leader arabi non avevano nessun piano di invasione e i dirigenti israeliani sapevano che era facile vincere la guerra. La menzogna sulla distruzione totale era diventata un dogma irrefutabile a Washington, il mantra del “diritto all’autodifesa” consentì a Tel Aviv di continuare la sua annessione illegale della terra palestinese conquistata.

I costruttori di miti sionisti si diedero di nuovo da fare negli anni ’80. Per controbattere alle critiche ricevute in seguito ai bombardamenti indiscriminati sul Libano e al massacro di palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut nel 1982, Israele nel 1983 partorì il Progetto Hasbara (“spiegazione” in ebraico).

Quell’anno l’American Jewish Congress [organizzazione creata per difendere gli interessi ebraici negli USA e all’estero, ndt.] sponsorizzò una conferenza di alti dirigenti, giornalisti e accademici di Israele e degli USA a Gerusalemme per elaborare una strategia volta a riabilitare Israele, cementare l’appoggio economico e militare statunitense e rendere estremamente difficile criticare le azioni di Israele.

[Il progetto] Hasbara creò strutture permanenti negli Stati Uniti e in Israele per influenzare il modo in cui in futuro il mondo, soprattutto gli americani, avrebbe pensato a Israele e al Medio Oriente. Gli argomenti che svilupparono sono riconoscibili nel discorso attuale, tra cui: l’importanza strategica di Israele per gli Stati Uniti; la sua vulnerabilità; i suoi valori condivisi con l’Occidente; il suo desiderio di pace. Israele definisce ora “diplomazia pubblica” la sua continua propaganda hasbara.

Mezzi di informazione, giornalisti, accademici, politici e personaggi dello spettacolo sono arrivati al punto di aspettarsi pressioni se superano il livello di accettabilità del discorso stabilito da Israele e dai suoi sostenitori. Narrazioni alternative che evidenziano gli abusi israeliani sono liquidate come anti-israeliani o ricevono la temuta etichetta di antisemite. I propagandisti israeliani hanno fatto in modo di confondere le critiche al regime – anti-sionismo – con l’antisemitismo. L’accusa di antisemitismo si è dimostrata un potente strumento retorico per difendere Israele da ogni colpa. Ha distrutto carriere e reputazioni.

Sfidare i miti israeliani

La defunta Helen Thomas, famosa giornalista, Norman Finkelstein, importante intellettuale ebreo, scienziato politico e scrittore, e Fatima Mohammed, laureata nel 2023 alla scuola di diritto della CUNY [università della città di New York, ndt.] sono tra quanti hanno voluto sfidare la violenta ondata di critiche che avrebbero dovuto inevitabilmente affrontare per “aver osato” mettere in discussione i miti israeliani.

Helen Thomas, icona nazionale e importante corrispondente dalla Casa Bianca di UPI [agenzia di notizie USA, ndt.] nel 2010 è stata obbligata a porre fine alla sua carriera durata 57 anni per aver insistentemente messo in discussione pubblicamente il sostegno statunitense a Israele. In seguito Thomas ha osservato: “In questo Paese non puoi criticare Israele e sopravvivere.”

Nel 2007 la De Paul University [università cattolica con sede a Chicago, ndt.] rifiutò una cattedra a Norman Finkelstein a causa delle sue critiche a Israele. Nei suoi libri Finkelstein ha sostenuto che l’antisemitismo è stato usato per reprimere le critiche alle politiche israeliane verso i palestinesi, e che l’Olocausto è sfruttato da alcune istituzioni ebraiche per i propri interessi e per nascondere l’illegale occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza. Dato che il suo nome è stato calunniato, Finkelstein non ha più potuto insegnare.

Nel suo recente discorso di commiato dai suoi colleghi laureati, Fatima Mohammed ha condannato Israele per aver perpetuato la Nakba (la Catastrofe), affermando che “il nostro silenzio non è più accettabile…La Palestina non può continuare ad essere l’eccezione nella nostra ricerca di giustizia.” Come prevedibile, Mohammed ha dovuto affrontare un’immediata condanna pubblica da parte di politici statunitensi e organizzazioni filo-israeliane, che l’hanno accusata di antisemitismo e hanno chiesto che l’università non riceva più finanziamenti a causa del suo discorso.

Nel dicembre 2008 e gennaio 2009 Israele, come in precedenza, schierò la sua macchina di pubbliche relazioni. Questa volta fu per contrastare le critiche ricevute per i massicci bombardamenti della Striscia di Gaza durati 22 giorni, in cui vennero uccisi 1.398 palestinesi.

L’Israel Project

The Israel Project [Il progetto Israele] (TIP), organizzazione filo-israeliana con sede a Washington, assoldò Frank Luntz, militante e stratega politico del partito Repubblicano, per sostenere la sua immagine. Luntz intraprese un ampio studio per scoprire come inserire la narrazione israeliana nei principali mezzi di comunicazione. I risultati vennero riportati in un documento intitolato The Israel Project’s 2009 Global Language Dictionary [Il dizionario del linguaggio globale 2009 di The Israel Project].

Il linguaggio del manuale di Luntz, con i suoi discorsi scritti per i sostenitori di Israele, è penetrato nel pensiero, nel vocabolario e nei commenti di politici, accademici e dei principali mezzi di comunicazione americani, israeliani ed europei.

Nel suo libretto di 18 capitoli Luntz insegna ai sostenitori di Israele come adattare le risposte a differenti uditori, descrive quello che gli americani vogliono sentire e quali parole e frasi utilizzare e quali evitare. Fornisce una guida su come affrontare affermazioni da parte di palestinesi e ostentare compassione nei loro confronti. Luntz avverte di sottolineare sempre il desiderio di pace da parte di Israele, benché inizialmente affermi come non voglia realmente una soluzione pacifica.

Ai sostenitori viene raccomandato di dare la falsa impressione che il cosiddetto “ciclo di violenza” stia andando avanti da migliaia di anni, che le due parti sono ugualmente in errore e che la catastrofe Palestina-Israele sia incomprensibile. Sollecita i sostenitori a sottolineare la necessità israeliana di sicurezza, evidenziando che gli americani risponderanno favorevolmente se i civili israeliani vengono dipinti come vittime innocenti del “terrorismo” palestinese.

Luntz afferma che, quando viene detto agli americani che l’Iran sostiene Hezbollah e Hamas, essi tendono ad essere più favorevoli a Israele. Quindi, quando si parla di loro, bisogna ripetere continuamente Hamas ed Hezbollah “sostenuti dall’Iran”.

Nelle rare occasioni in cui i principali mezzi di comunicazione riportano le violenze di Israele, si adeguano al lessico ufficiale del dizionario di Luntz. L’esercito di occupazione israeliano, per esempio, viene definito forze “di difesa” o “di sicurezza”, i coloni sionisti (occupanti abusivi) vengono definiti “abitanti”, le colonie sioniste sono definite “insediamenti” o “quartieri”, i palestinesi “aggrediscono”, mentre gli israeliani semplicemente “reagiscono”.

Normalizzare l’anomalo

Tra le falsificazioni più evidenti c’è la descrizione del ginepraio israelo-palestinese come un “conflitto” tra due popoli con le stesse risorse politiche e militari e le stesse rivendicazioni, quando in realtà si tratta di un conflitto tra il colonizzatore, Israele, e il colonizzato, i palestinesi.

Per 75 anni la propaganda israeliana gli ha consentito di essere un’eccezione, di farsi beffe impunemente delle norme e delle leggi internazionali. Grazie ai suoi miti Israele ha avuto una notevole influenza nel definire la politica USA in Medio Oriente. Le campagne di incessante e metodica disinformazione del Paese dal 1948 fino ad ora hanno consentito a Israele di piantare la bandiera sionista su terra palestinese e nei cuori e nelle menti degli americani.

Tuttavia Tel Aviv sta incontrando difficoltà sempre maggiori a nascondere il suo consolidato sistema di apartheid e il continuo genocidio, soprattutto alla luce delle politiche e prassi apertamente razziste dell’attuale regime di destra messo insieme dal suo primo ministro perseguito dalla giustizia, Benjamin Netanyahu. Ma l’industria israeliana dell’hasbara rimane impavida. Il TIP ha chiuso nel 2019 dopo che i suoi finanziamenti si sono prosciugati, ma la Democratic Majority for Israel [Maggioranza Democratica per Israele] (DMFI) continua a portare avanti la missione dell’hasbara israeliana.

Israele sa che la narrazione che racconta a se stesso e al mondo è apocrifa e che lo Stato ebraico, nella sua attuale forma, è illegale e ingiusto. Di conseguenza, nel tentativo di rendere l’apocrifo reale e legale l’illegittimo, Israele continua la sua costante guerra ideologica per normalizzare l’anomalo in Palestina.

Reza Behnam è un politologo specializzato nella storia, la politica e i governi in Medio Oriente. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Smotrich smaschera il vero volto genocida di Israele

Ali Abunimah

20 marzo 2023 – The Electronic Intifada

Bezalel Smotrich, il ministro delle finanze israeliano di estrema destra, ha dichiarato domenica a Parigi che i palestinesi non esistono.

Non esistono “i palestinesi perché non esiste il popolo palestinese”, ha detto Smotrich.

Le sue osservazioni sono state “accolte con applausi e ovazioni dai partecipanti”, ha osservato The Times of Israel e come mostrano i video dell’evento.

Smotrich è andato oltre, dichiarando che lui – un colono della Cisgiordania – è un “vero” palestinese.

Appesa al podio di Smotrich c’era una bandiera che raffigurava l’intera Palestina storica, la Giordania e parti del Libano e della Siria come appartenenti allo Stato sionista, rivelando un desiderio di una ancora più grande espansione territoriale che anche altri funzionari israeliani hanno espresso di recente.

L’affermazione che i palestinesi non esistono o sono un “popolo inventato” è diffusa tra i sionisti.

Nel 2014 Sheldon Adelson, il defunto miliardario grande donatore a favore delle cause anti-palestinesi e del Partito Repubblicano, ha dichiarato allo stesso modo che “i palestinesi sono un popolo inventato”.

Adelson ha aggiunto: “Lo scopo dell’esistenza dei palestinesi è distruggere Israele”.

Due anni dopo Brooke Goldstein, un’importante attivista della lobby israeliana negli Stati Uniti, ha affermato che “non esiste un individuo palestinese”.

Ma forse il fatto più noto è la dichiarazione del 1969 del primo ministro israeliano Golda Meir secondo cui “non esistono palestinesi”.

Meir era uno dei pilastri dell’establishment del partito laburista di Israele che si pretendeva di sinistra.

L’ultimo commento di Smotrich arriva poche settimane dopo aver dichiarato che la città palestinese di Huwwara dovrebbe essere “spazzata via” dallo Stato di Israele.

Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich pensi davvero ciò che dice e, se gli fosse data l’opportunità, lui e il movimento politico in ascesa che rappresenta realizzerebbero questa opzione.

Inoltre, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che ciò di cui Smotrich sta parlando e propagandando è il genocidio del popolo palestinese.

Né le osservazioni di Smotrich sono sfoghi sconsiderati; riflettono un pensiero profondo e attento e un’ideologia coerente.

Valori delle SS tedesche

Nel 2017, Smotrich elaborò un piano per costringere il popolo palestinese a lasciare la propria terra e per occupare una volta per tutte l’intero territorio.

All’epoca, Daniel Blatman, professore di studi sull’Olocausto all’Università Ebraica, scrisse che Smotrich aveva preso ispirazione per il suo piano dal libro biblico di Giosuè, che descrive il massacro totale di un popolo da parte dei “figli di Israele”.

Blatman definì Smotrich, che allora era vicepresidente del parlamento israeliano, la Knesset, “la più importante figura di governo fino ad oggi a dire sfacciatamente che l’opzione del genocidio è sul tavolo se i palestinesi non accettano i nostri termini”.

Secondo il piano di Smotrich, i palestinesi avrebbero dovuto sottomettersi completamente alla supremazia ebraica o essere costretti ad andarsene.

Oggi Smotrich non solo controlla il ministero delle finanze, ma gli sono stati conferiti poteri speciali sulla cosiddetta amministrazione civile, la burocrazia di occupazione militare israeliana che gestisce la vita di milioni di palestinesi, persone che Smotrich ritiene inesistenti.

“L’ammirazione di Smotrich per il genocida biblico Joshua bin Nun lo porta ad adottare valori che assomigliano a quelli delle SS tedesche”, ha aggiunto Blatman, un ex membro del Museo commemorativo dell’Olocausto degli Stati Uniti.

Va sottolineato che anche allora il primo ministro Benjamin Netanyahu era disposto a dare un implicito segno di approvazione alle idee di Smotrich.

“Sono stato felice di sentire che stai indirizzando la discussione dell’incontro al tema del futuro della Terra di Israele”, ha detto Netanyahu in un saluto registrato riprodotto durante l’incontro in cui Smotrich ha esposto il suo piano di genocidio.

Fino a non molti anni fa questo Paese era deserto e abbandonato, ma da quando siamo tornati a Sion, dopo generazioni di esilio, la Terra di Israele è fiorente”, ha affermato Netanyahu.

Tentativi “liberal” di mascheramento.

I sionisti “liberal” hanno già compiuto intensi sforzi per ritrarre personaggi del calibro di Smotrich e il ministro della sicurezza nazionale kahanista [seguace del defunto rabbino Kahan, ndt] israeliano Itamar Ben-Gvir come aberrazioni che in qualche modo non sono veri rappresentanti di Israele e del sionismo.

Possiamo aspettarci che questi sforzi di occultamento si intensifichino.

Ma non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich stia semplicemente articolando l’ideologia e la politica fondative di Israele.

Nel 2004, il quotidiano “liberal” israeliano Haaretz ha intervistato Benny Morris, uno dei “nuovi storici” israeliani che negli anni ’80 ha utilizzato fonti sioniste per convalidare i resoconti palestinesi della Nakba – la sistematica pulizia etnica della Palestina del 1948 durante la quale le milizie sioniste perpetrarono stupri, omicidi arbitrari e dozzine di massacri.

Morris ha spiegato che David Ben-Gurion, il primo ministro fondatore di Israele – come Meir un pilastro del Partito laburista di sinistra nominalmente laico – ha diretto personalmente il deliberato “trasferimento” del popolo palestinese da gran parte della sua patria.

“Ben-Gurion era favorevole al trasferimento”, ha spiegato Morris. “Ha capito che non poteva esistere uno Stato ebraico con una numerosa e ostile minoranza araba al suo interno. Non ci sarebbe stato un tale Stato. Non sarebbe stato in grado di esistere”.

“Non ti sento condannarlo”, ha detto a Morris l’intervistatore di Haaretz.

“Ben-Gurion aveva ragione”, ha risposto Morris. “Se non avesse fatto quello che ha fatto, uno Stato non sarebbe venuto in essere. Questo deve essere chiaro. È impossibile evitarlo. Senza lo sradicamento dei palestinesi, qui non sarebbe sorto uno Stato ebraico”.

Ma per Morris, l’errore di Ben-Gurion è che non ha fatto una sufficiente pulizia etnica.

Dato che lui [Ben-Gurion] era già impegnato nell’espulsione, forse avrebbe dovuto fare un lavoro completo”, ha affermato Morris.

“So che questo fa inorridire gli arabi, i “liberal” e i tipi politicamente corretti”, ha detto Morris. “Ma la mia sensazione è che questo posto sarebbe più tranquillo e conoscerebbe meno sofferenze se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben-Gurion avesse effettuato una grande espulsione e ripulito l’intero paese, l’intera Terra d’Israele, fino al fiume Giordano”.

“Potrebbe anche diventare evidente che questo è stato il suo errore fatale”, ha aggiunto Morris. “Se avesse effettuato un’espulsione totale – piuttosto che parziale – avrebbe stabilizzato lo Stato di Israele per generazioni”.

Nessuno che si definisca sionista, sia di “sinistra” che di estrema destra, può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris.

Ecco perché nessuno che si definisce sionista sostiene il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

È per questo che i sionisti, anche della varietà “liberal”, si preoccupano costantemente della “minaccia demografica” derivante dalla nascita di bambini palestinesi.

Questo è genocidio

E se nessun sionista può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris, allora non può nemmeno essere in disaccordo con Smotrich.

In effetti, lo stesso Smotrich ha fatto eco a Morris quasi alla lettera nel 2021, quando ha urlato ai legislatori palestinesi nel parlamento israeliano che “è stato un errore che Ben-Gurion non abbia finito il lavoro e non vi abbia buttati fuori nel 1948”.

Possono fingere shock e disgusto per il linguaggio di Smotrich, ma chiunque creda che Israele debba rimanere uno “Stato ebraico” con una maggioranza ebraica deve almeno sostenere la pulizia etnica dei palestinesi che Israele ha perpetrato fino ad oggi, indipendentemente dal fatto che sostenga o meno attivamente ulteriori espulsioni su vasta scala in futuro.

In effetti la posizione del numero sempre minore di “liberal” israeliani e di altri sostenitori della cosiddetta soluzione dei due Stati può essere riassunta come segue: sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra che Israele ha già effettuato, ma pensiamo che le future espulsioni e sottrazioni di terre dovrebbero essere limitate, anche se è ampiamente aperto il dibattito sulla loro entità.

Mentre la posizione di Smotrich e compagnia è: noi, come voi, sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra fino ad oggi, ma pensiamo che ce ne debba essere molto di più.

Moralmente e praticamente non c’è differenza perché entrambe le posizioni relegano milioni di palestinesi a vivere sotto il brutale dominio del suprematismo e dell’apartheid ebraico, o esiliati dalla loro patria, solo ed esclusivamente perché non sono ebrei.

Insieme alle frequenti affermazioni secondo cui i palestinesi non esistono e non sono mai esistiti come popolo, le espulsioni e i massacri di Israele trascendono il crimine già sufficientemente orribile della pulizia etnica ed entrano nel regno del genocidio: la completa cancellazione dei palestinesi come popolo.

Anche qui, la posizione di Smotrich secondo cui i palestinesi non hanno esistenza e tanto meno diritti come popolo non è un’aberrazione ma un riflesso del consenso israeliano.

Ricordiamo che nel 2018 Israele ha adottato la cosiddetta Legge sullo Stato-Nazione, uno strumento costituzionale che dichiara che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivo del popolo ebraico”, negando così ai palestinesi qualsiasi diritto nazionale o esistenza.

E a dicembre, quando il nuovo governo di coalizione di Benjamin Netanyahu si è insediato, ha dichiarato come primi principi guida che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della terra di Israele”.

Israele torna alle sue radici

Si dice spesso, comprensibilmente, che l’attuale governo israeliano sia il più apertamente razzista e di destra della storia.

Ciò può essere vero in termini di retorica, ma non c’è alcuna differenza pratica tra il fondatore “socialista” laico di Israele, David Ben-Gurion, e un sionista religioso di estrema destra come Smotrich.

Ma dopo decenni di soppressione del linguaggio apertamente genocida di Smotrich a favore della presentazione di un volto “liberal” e “democratico”, perché gli israeliani ora stanno abbracciando questa retorica?

Ciò dipende dal fatto che il “problema demografico” di Israele – l’esistenza di “troppi” palestinesi che vivono e respirano sul proprio suolo – sta diventando urgente.

Con gli ebrei ancora una volta una minoranza tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, molti israeliani sentono chiaramente di non avere altra scelta che tornare pienamente alle radici genocide del loro paese.

Ecco perché l’ostracismo verso Smotrich – come hanno fatto i funzionari francesi rifiutandosi di incontrarlo durante la sua permanenza nel loro paese – è insufficiente e fuorviante perché ritrae falsamente un “estremista” come il problema.

Il problema è il sionismo stesso e l’incubo genocida e coloniale in corso che ha scatenato sul popolo palestinese e sulla sua terra.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele-Palestina: come la cucina è diventata un obiettivo della conquista coloniale

Joseph Massad

14 luglio 2022 – Middle East Eye

Molti arabi si indignano giustamente per la trasformazione, nei Paesi occidentali, dei piatti tipici palestinesi in cucina “israeliana”

Qualche anno fa mi scandalizzai nel constatare che un elegante bar-ristorante che frequentavo nel quartiere del Greenwich Village a Manhattan proponeva come piatto del giorno un “couscous israeliano”.

Sconcertato, pretesi che cambiassero immediatamente il nome del piatto. Spiegai al gestore che ciò che definivano couscous “israeliano” era in realtà maftoul palestinese, tradizionalmente preparato a mano.

Mi ricordo che nella mia infanzia una vicina e amica di famiglia, Marie Jou’aneh, che ci ha lasciati, stava seduta per ore a fare il tiftil, cioè arrotondare la semola per farne delle palline a forma di perla.

Anche se riferimenti storici indicano che i palestinesi scoprirono il couscous nordafricano nel XVII secolo, forse prima, grazie ai nordafricani arrivati in Palestina con le armate musulmane venute a combattere i crociati e che in seguito si stabilirono a Gerusalemme, la versione moderna del piatto potrebbe essere stata reintrodotta in Palestina e nella Grande Siria [Regione storica del Vicino Oriente, confinante con il mar Mediterraneo a ovest, con il deserto siriano (o arabico) a est, con l’Egitto a sud e con l’Anatolia a nord, ndt.] nella seconda metà del XIX secolo e all’inizio del XX.

Fu a quell’epoca che degli esuli algerini, marocchini, tunisini e libici che fuggivano dal colonialismo francese e italiano vi si stabilirono ed introdussero il couscous nordafricano, i cui grani sono molto più piccoli e che i palestinesi e altri siriani hanno modificato per ottenere il maftoul, dai grani più grandi e a forma di perle.

La grande e ricca famiglia culinaria siriana

Tuttavia in modo arrogante il gestore del ristorante newyorkese affermò di non conoscere l’origine di questo piatto e che esso era noto a New York col nome di couscous “israeliano”. Gli spiegai che questo prodotto veniva venduto a New York anche col nome più “neutro” di “couscous perlato”, cosa che lui avrebbe potuto scegliere come alternativa per non contrariare i clienti.

In modo spiccio il gestore rispose con quella che riteneva essere la risposta più intelligente possibile: il ristorante denominava anche le patatine fritte “fritte francesi”, anche se sono originarie del Belgio.

Andandomene dal locale, replicai che non erano stati i francesi a rubare le patate fritte “belghe”, perché in Francia si chiamano semplicemente “patatine fritte”.

Sono stati invece gli americani a chiamarle a torto patatine “francesi” (la storia reale, o apocrifa, vorrebbe che i soldati americani abbiano scoperto le patate fritte durante la prima guerra mondiale nelle regioni francofone del Belgio, prima di chiamarle a torto “francesi” al loro ritorno in patria.)

Nel caso del maftoul, gli israeliani hanno rubato il piatto palestinese e lo hanno venduto come proprio, esattamente come hanno fatto con la patria palestinese e con altri piatti palestinesi. Inutile precisare che non ho mai più messo piede in quel ristorante.

La cucina palestinese fa parte della grande e ricca famiglia culinaria siriana, che comprende due branche principali: la cucina di Damasco e quella di Aleppo.

La maggior parte dei piatti cucinati nella regione che comprende la Siria, il Libano, la Giordania e la Palestina moderni proviene da queste due tradizioni culinarie, con alcune innovazioni che inseriscono coltivazioni locali di ortaggi, cereali ed erbe.

Mentre il falafel, l’hummus, il taboulé, il maftoul, il mix di spezie zaatar a base di issopo palestinese, l’insalata contadina (fallahi, chiamata negli Stati Uniti insalata “israeliana”), il knafeh nabulsi ed altre specialità sono state riprese, o più esattamente rubate, dai coloni ebrei di Israele per decenni, nella stampa occidentale è nata tutta una gamma di giustificazioni.

Più di recente la shakshuka, una frittata, e il labneh, yoghurt colato, il cui nome è una forma al femminile del termine arabo laban, che significa yoghurt in arabo siriano, sono stati aggiunti al bottino dei piatti rivendicati da Israele.

Un legame con la terra e gli antenati”

Alcuni potrebbero sostenere con disinvoltura che gli ebrei israeliani fanno ormai parte della regione e che quindi hanno il diritto di mettere mano nella sua cucina, anche se la linea ufficiale israeliana evidenzia che il Paese vive “in un contesto difficile” – sostanzialmente il Medio Oriente, senza tuttavia farne parte.

Mentre il famoso storico israeliano Benny Morris sostiene che Israele è “Roma” e che gli arabi sono i “barbari” che la minacciano, l’ex Primo Ministro israeliano Ehud Barak una volta descrisse Israele come una “villa nella giungla”.

L’ex ambasciatore di Israele in Svezia e in Egitto, Zvi Mazel, da parte sua ha affermato: “Israele è un Paese occidentale che, nonostante il comportamento a volte perfido delle società della sua famiglia occidentale, sul piano culturale, concettuale ed economico si colloca ancora in quel contesto.”

L’autrice ebrea britannica di libri di cucina Claudia Roden, nata Douek (la cui famiglia ebrea egiziana è di origine siriana), sottolinea che molti ebrei europei emigrati in Palestina “volevano dimenticare la loro tradizionale cucina perché gli ricordava le persecuzioni.”

Secondo un articolo del New York Times, “tramite la cucina dei loro vicini palestinesi (gli ebrei israeliani) hanno ritrovato un legame con la terra e i loro antenati.”

Il problema è che i palestinesi non sono i vicini degli ebrei israeliani, bensì il popolo che i coloni israeliani hanno conquistato e di cui hanno rubato le terre e la cucina.

Lo chef e autore di libri di cucina israeliano Yotam Ottolenghi ed il suo coautore palestinese, Sami Tamimi, vogliono liberarsi della questione imbarazzante della “proprietà” culinaria e del furto coloniale.

Affermano esplicitamente: “L’hummus, per esempio, argomento altamente esplosivo, è innegabilmente un alimento fondamentale della popolazione palestinese locale, ma era anche una costante sulla tavola da pranzo degli ebrei di Aleppo che hanno vissuto in Siria per millenni e sono poi arrivati a Gerusalemme negli anni 1950-60. Chi merita maggiormente di appropriarsi dell’hummus? Nessuno. Nessuno ‘possiede’ un piatto, perché è molto probabile che qualcun altro lo abbia preparato prima e qualcun altro prima ancora.”

Il problema di questa spiegazione sta nel fatto che gli ebrei di Aleppo non erano i soli a mangiare l’hummus: la maggior parte della popolazione musulmana e cristiana di Aleppo, come anche altri siriani, ne faceva parimenti un alimento di base.

Il problema non è che gli ebrei di Aleppo non ne mangiassero, ma che oggi esso venga identificato come alimento “ebraico” o “israeliano”, attraverso questa argomentazione surrettizia.

Yotam Ottolenghi e Sami Tamimi affermano che i tentativi di rivendicare la cucina e i piatti “sono futili perché ciò non ha veramente importanza.”

Ma per chi questo non ha importanza? Per gli israeliani che vendono una cucina palestinese rubata come se fosse la loro, o per i palestinesi che sono privati della possibilità di rivendicare i propri piatti in un contesto occidentale favorevole a Israele?

Intimidazioni

Il furto della cucina palestinese e siriana da parte degli israeliani è diventato un fenomeno talmente normale, tenendo conto della sua proliferazione nei libri di cucina mediorientale e nei ristoranti “israeliani” in Europa e in Nordamerica, che i palestinesi subiscono intimidazioni se aprono dei ristoranti che identificano la loro cucina come palestinese.

Un grande ristorante palestinese di Brooklyn si è recentemente lamentato delle molestie online da parte di persone che non erano mai venute al ristorante, ma erano spinte da ostilità anti-palestinese.

Il proprietario ha dichiarato in un’intervista che il semplice fatto di qualificare il suo ristorante come “palestinese” lo esponeva a potenziali intimidazioni.

E poi c’è l’affermazione secondo cui gli ebrei originari dei Paesi arabi costituiscono la metà della popolazione di Israele e dunque hanno lo stesso diritto dei palestinesi di rivendicare la cucina regionale.

Ma ciò si basa sulla presunzione razzista secondo cui tutta la regione araba, dal Marocco all’Iraq, passando per lo Yemen, ha un’unica identica cucina. Di fatto la gran maggioranza degli ebrei arabi di Israele sono originari del Marocco, dello Yemen e dell’Iraq, regioni del mondo arabo che hanno una propria cucina regionale.

Esiste un numero esiguo di ebrei siriani e libanesi che vivono in Israele, costituendo “uno dei più piccoli gruppi etnici” del Paese. E anche se la maggioranza degli ebrei israeliani provenisse dalla Grande Siria, come potrebbe questo permettere loro di definire la cucina siriana o palestinese come “ebrea” e tanto meno “israeliana”, senza ricorrere ad un furto coloniale?

Yotam Ottolenghi ringrazia Claudia Roden per aver aperto la strada a chef come lui. Secondo un recente articolo del New York Times dedicato a quest’ultima, lei “descrive la cucina degli ebrei siriani come sofisticata, abbondante, varia – e volutamente complessa e lunga da preparare”, come se gli ebrei siriani avessero una cucina diversa da quella dei cristiani o dei musulmani siriani, cosa non vera.

Se gli ebrei originari della Grande Siria, come i musulmani e i cristiani, hanno assolutamente il diritto di appropriarsi dei piatti siriani a livello della Siria o della regione, non hanno però il diritto di rivendicarli come piatti appartenenti agli ebrei e poi di venderli come tali, mentre questi furti vengono in seguito celebrati dai media europei e americani che parlano di una cucina nazionale “israeliana”.

Israele è diventato parte della regione grazie a una conquista coloniale. La maggior parte degli arabi si indigna giustamente nel vedere le proprie specialità e la propria cucina fare parte integrante degli sforzi di colonizzazione israeliani.

Joseph Massad è docente di storia politica e intellettuale araba moderna alla Columbia University di New York. È autore di diversi libri e articoli, sia accademici che giornalistici. In particolare ha scritto: ‘Colonial effects: the making of national identity in Jordan’, ‘Desiring Arabs’ e, pubblicato in francese, ‘La persistence de la question palestinienne’ (La Fabrique, 2009). Più di recente ha pubblicato ‘Islam in Liberalism’. I suoi libri e articoli sono stati tradotti in una decina di lingue.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono solo all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




I palestinesi “sono destinati a vincere”: perché gli israeliani profetizzano la fine del loro Stato

Ramzy Baroud

13 giugno 2022 – Middle East Monitor

Se è vero che il sionismo è un’ideologia politica moderna che ha sfruttato la religione per raggiungere specifici obiettivi coloniali in Palestina, le profezie continuano a essere una componente fondamentale della percezione di Israele di se stesso e del rapporto dello Stato con altri gruppi, in particolare i gruppi messianici cristiani negli Stati Uniti e nel mondo.

Il tema delle profezie religiose e della loro centralità nel pensiero politico israeliano è stato nuovamente messo in luce dopo le osservazioni dell’ex primo ministro israeliano Ehud Barak in una recente intervista al quotidiano in lingua ebraica Yedioth Ahronoth [quotidiano di centro, ndt.]. Barak, percepito come un politico “progressista”, leader un tempo del Partito laburista israeliano, ha espresso il timore che Israele “si disintegrerà” prima dell’80° anniversario della sua fondazione, avvenuta nel 1948.

Barak afferma: “Nel corso della storia ebraica gli ebrei non hanno mai governato per più di ottant’anni, tranne che nel corso dei due regni di Davide [intorno al 1000 a.c., ndt.] e della dinastia degli Asmonei [dal 140 al 63 a.c., anno della conquista romana, ndt.] e in entrambi i periodi il loro crollo iniziò nell’ottavo decennio”.

Basata su un’analisi pseudo-storica, la profezia di Barak sembra fondere i fatti storici con il tipico pensiero messianico israeliano, rievocando le dichiarazioni fatte dall’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel 2017.

Come Barak, le considerazioni di Netanyahu vennero proferite sotto forma di paura per il futuro di Israele e l’incombente “minaccia esistenziale”, la pietra angolare dell’hasbara [parola in lingua ebraica che indica gli sforzi di propaganda per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt.] israeliana nel corso degli anni. In una sessione di studi biblici nella sua casa di Gerusalemme, Netanyahu aveva poi ricordato che il regno asmoneo, noto anche come dei Maccabei, sopravvisse solo 80 anni prima di essere conquistato dai romani nel 63 a.c.

Secondo una dichiarazione di uno dei partecipanti citata dal quotidiano israeliano Haaretz, Netanyahu avrebbe detto: ” Lo Stato Asmoneo è durato solo 80 anni e noi dovremmo superarlo“.

Ma, pur prendendo atto della presunta determinazione di Netanyahu di andare oltre quel numero [di anni, ndt.], sembra che egli abbia promesso di garantire che Israele superi gli 80 anni dei Maccabei per sopravvivere per 100 anni. Sono solo 20 anni in più.

La differenza tra le affermazioni di Barak e Netanyahu è abbastanza trascurabile: le opinioni del primo sono presumibilmente “storiche” e quelle del secondo sono bibliche. È tuttavia degno di nota che entrambi i leader, sebbene aderiscano a due diverse correnti politiche, convergano su punti di incontro simili: è in gioco la sopravvivenza di Israele; la minaccia esistenziale è reale e la fine di Israele è solo questione di tempo.

Ma il pessimismo in Israele non è certo confinato ai leader politici, che sono noti per esagerare e manipolare i fatti allo scopo di instillare paura e mobilitare i loro schieramenti politici, in particolare i potenti gruppi elettorali messianici di Israele. Anche se questo è vero, le previsioni sul cupo futuro di Israele non si limitano alle élite politiche del Paese.

In un’intervista ad Haaretz del 2019 Benny Morris, uno degli storici israeliani più conosciuti e rispettati, ha avuto molto da dire sul futuro del suo Paese. A differenza di Barak e Netanyahu, Morris non stava inviando segnali di allarme, ma affermava quello che a lui sembrava un risultato inevitabile dell’evoluzione politica e demografica del Paese.

“Non vedo come ne usciremo”, ha detto Morris, aggiungendo: “Oggi ormai ci sono più arabi che ebrei tra il mare (Mediterraneo) e il (fiume) Giordano. L’intero territorio sta inevitabilmente diventando uno Stato con una maggioranza araba. Israele si definisce ancora uno Stato ebraico, ma una situazione in cui governiamo un popolo sotto occupazione e senza diritti non può persistere nel XXI° secolo”.

Le previsioni di Morris, pur rimanendo fedeli ai miti razziali di una maggioranza ebraica, erano molto più articolate e anche realistiche rispetto a quelle di Barak, Netanyahu e altri. L’uomo che una volta si rammaricò che il fondatore di Israele, David Ben Gurion, non avesse espulso tutta la popolazione nativa della Palestina nel 1947-48, ha affermato con rassegnazione che, nel giro di una generazione, Israele cesserà di esistere nella sua forma attuale.

Particolarmente degna di nota nelle sue affermazioni è l’accurata percezione che “i palestinesi osservano le cose secondo una prospettiva ampia e a lungo termine” e che essi continueranno a “chiedere il ritorno dei rifugiati”. Ma chi sono i “palestinesi” a cui si riferisce Morris? Certamente non l’Autorità Nazionale Palestinese, i cui leader hanno ormai messo da parte il Diritto al Ritorno per i rifugiati palestinesi, e sicuramente non hanno “prospettive ampie e a lungo termine”. I “palestinesi” di Morris sono, ovviamente, lo stesso popolo palestinese, generazioni che hanno servito, e continuano a servire, in prima linea la causa dei diritti palestinesi nonostante tutte le battute d’arresto, le sconfitte e i “compromessi” politici.

In realtà le profezie riguardanti la Palestina e Israele non sono un fenomeno nuovo. La Palestina fu colonizzata dai sionisti con l’aiuto della Gran Bretagna, anche sulla base di quadri di riferimento biblici. Venne popolata da coloni sionisti sulla base di riferimenti biblici riguardanti la restaurazione di antichi regni e il “ritorno” di antichi popoli ad una loro presunta legittima “terra promessa”. Sebbene Israele abbia assunto molti significati diversi nel corso degli anni – a volte percepito come un’utopia ‘socialista’, in altri casi come un rifugio democratico e liberale – è sempre stato ossessionato da significati religiosi, visioni spirituali e inondato da profezie. L’espressione più sinistra di questa verità è il fatto che l’attuale sostegno a Israele da parte di milioni di fondamentalisti cristiani in Occidente è in gran parte guidato da profezie messianiche sulla fine del mondo.

Le ultime previsioni sul futuro incerto di Israele si basano su una logica diversa. Poiché Israele si è sempre definito uno Stato ebraico, il suo futuro è principalmente legato alla sua capacità di mantenere una maggioranza ebraica nella Palestina storica. Per ammissione di Morris e altri questo sogno irrealizzabile sta ora sgretolandosi poiché la “guerra demografica” si sta chiaramente e rapidamente perdendo.

Naturalmente, la convivenza in un unico Stato democratico sarà sempre una possibilità. Purtroppo per gli ideologi sionisti israeliani un tale Stato difficilmente soddisferà le aspettative minime dei fondatori del Paese, poiché non esisterebbe più nella forma di uno Stato ebraico e sionista. Perché si realizzi una coesistenza l’ideologia sionista dovrebbe essere totalmente eliminata.

Barak, Netanyahu e Morris lo stanno bene: Israele non esisterà come ‘Stato ebraico’ ancora per molto. Parlando rigorosamente in termini demografici, Israele non è più uno Stato a maggioranza ebraica. La storia ci ha insegnato che musulmani, cristiani ed ebrei possono coesistere pacificamente e prosperare collettivamente, come hanno fatto in tutto il Medio Oriente e nella penisola iberica per millenni. In effetti, questa è una predizione, persino una profezia, per la quale vale la pena lottare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli ulivi che raccontano la storia dell’espropriazione palestinese

Meron Rapoport

28 aprile 2020 – +972mag

I palestinesi di Saffuriya furono espulsi con la forza nel 1948 e gli fu vietato il ritorno; abbandonarono i loro antichi ulivi di cui oggi si prendono cura gli ebrei israeliani.

La scorsa settimana, il mio collega Edo Konrad ha pubblicato un articolo in cui rivelava come, in onore del Giorno del Ricordo [dei caduti nel conflitto con arabi e palestinesi, ndtr.] di Israele, il Ministero della Difesa avesse deciso di consegnare alle famiglie israeliane in lutto bottiglie di olio d’oliva prodotte in una colonia della Cisgiordania occupata.

L’olio d’oliva è prodotto da Meshek Achiya, un’azienda situata nel cuore dei territori occupati a circa 45 chilometri a nord di Gerusalemme, fondata nel 1997 nell’avamposto di Achiya. Come ha spiegato a Konrad Dror Etkes, esperto per le attività di insediamento, Meshek Achiya era uno dei sei avamposti costituiti a ovest dell’insediamento di Shiloh al fine di conquistare terre palestinesi di proprietà privata.

Dopo la pubblicazione dell’articolo, un certo numero di famiglie in lutto ha lanciato una petizione chiedendo al Ministero della Difesa di riprendersi il suo dono.

Durante il fine settimana, Haaretz Magazine [inserto settimanale dell’omonimo quotidiano israeliano di centro-sinistra, ndtr.] ha pubblicato un articolo sugli israeliani che coltivano ulivi secolari in Galilea, nel nord di Israele. L’articolo si concentra sulla famiglia Noy-Meir, che coltiva “centinaia di alberi secolari”, molti dei quali hanno tra i 200 e gli 800 anni, su terreni adiacenti a Moshav Tzippori nella bassa Galilea. L’olio d’oliva prodotto dall’azienda di Noy-Meir, Rish Lakish, veniva molto elogiato da Ronit Vered, autore dell’articolo e critico gastronomico di Haaretz.

Ma come mai alberi così antichi sono di proprietà della famiglia Noy-Meir, che si stabilì a Tzippori solo 20 anni fa? Nell’articolo non viene fornito alcun contesto storico per spiegare l’esistenza di questi alberi, che, scrive Vered, “sono sparsi su una vasta area e si trovano su terreni difficili per la coltivazione e la raccolta”.

Non è necessario essere un esperto di alberi per trovare una risposta: Moshav Tzippori si trova sulla terra appartenente al villaggio palestinese distrutto e spopolato di Saffuriya.

Secondo Palestine Remembered, un sito web dedicato alla conservazione della memoria degli oltre 400 villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba, nel 1948 Saffuriya era una comunità relativamente grande con oltre 5.000 residenti. Secondo il libro di Walid Khalidi Ciò che rimane, l’area intorno al villaggio “aveva molti terreni fertili e risorse idriche di superficie e sotterranee”, e le olive costituivano il “principale prodotto agricolo” del villaggio.

Saffuriya fu conquistata dalle forze israeliane il 15 luglio 1948. Secondo gli abitanti del villaggio, solo un piccolo numero di persone rimase nel villaggio dopo che fu bombardato dagli aerei israeliani, e pochissimi furono in grado di tornare e recuperare le loro proprietà.

Nel suo libro L’origine del problema dei rifugiati palestinesi, che ha svelato archivi statali israeliani precedentemente nascosti (a cui fa riferimento Khalidi), lo storico israeliano Benny Morris scrive che coloro che rimasero a Saffuriya furono espulsi nel 1948, ma che “a centinaia tornarono di nascosto indietro” nei mesi seguenti.

Le autorità israeliane, scrisse Morris, temevano che se i palestinesi di ritorno fossero stati autorizzati a rimanere, il villaggio sarebbe “presto tornato alla sua popolazione prebellica”. All’epoca, i vicini insediamenti ebraici avevano già “messo gli occhi sulle terre di Saffuriya”.

Secondo Morris, un alto funzionario israeliano nel novembre del 1948 dichiarò: “Accanto a Nazareth c’è un villaggio … le cui terre lontane sono necessarie per i nostri insediamenti. Forse gli si può dare un altro posto. ” Poco dopo, “nel gennaio del 1949 gli abitanti furono caricati su camion e nuovamente espulsi verso le comunità arabe di ‘Illut, al-Rayna e Kafr Kanna”.

In breve, le “centinaia di ulivi secolari” non sono cresciute dal nulla. I residenti palestinesi di Saffuriya li hanno piantati e coltivati per secoli. Gli alberi gli sono stati rubati con la forza. Lo Stato dà in affitto quegli alberi dopo aver rivendicato la terra del villaggio come propria. Su parte di quella terra è stata piantata una nuova foresta dal Fondo Nazionale Ebraico [ente sovranazionale dell’Organizzazione Sionista Mondiale e proprietario di circa il 15% della terra di Israele, ndtr.].

A suo merito, la famiglia Noy-Meir si è coinvolta negli aiuti ai raccoglitori di olive palestinesi in Cisgiordania e ha lavorato a fianco dei palestinesi le cui famiglie sono state sradicate da Saffuriya. Tuttavia, ignorare la storia del villaggio, come ha fatto l’articolo di Haaretz, non è meno grave che ignorare il furto della terra in Cisgiordania, su cui Meshek Achiya produce il suo olio d’oliva.

Taha Muhammad Ali, il famoso poeta palestinese, è nato ed è stato espulso da Saffuriya. La famiglia di Mohammad Barakeh, il politico che dirige l’Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele, è stata cacciata via dal villaggio. Saffuriya può anche essere sparito, ma il suo ricordo vive.

Appartengo a un movimento israelo-palestinese – Due stati, una Patria – che propone che ogni israeliano palestinese ed ebreo possa vivere ovunque desideri tra il fiume [Giordano] e il mare, sia nello Stato di Israele che nello Stato di Palestina. I rifugiati che torneranno saranno cittadini della Palestina, ma potranno vivere come residenti con pieni diritti in Israele, proprio come i cittadini israeliani potranno vivere come residenti con pieni diritti in Palestina. Una federazione istituirebbe un meccanismo per facilitare il ritorno e / o offrire un risarcimento finanziario per i beni espropriati durante il conflitto.

Non abbiamo un futuro qui se chiudiamo gli occhi su ciò che è accaduto nel 1948, immaginando che il conflitto sia iniziato solo con l’occupazione del 1967. Non è così.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Settant’anni a sparare ai rifugiati

Jake Batinga 

8 ottobre 2019 – The Electronic Intifada 

Dal marzo del 2018 si sono tenute a Gaza delle proteste settimanali, note come la Grande Marcia del Ritorno.

I dimostranti esigono che alle persone sradicate dalle forze sioniste durante la Nakba, la pulizia etnica della Palestina nel 1948 sia permesso di tornare a casa. Questo diritto al ritorno era stato riconosciuto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 194, approvata nel dicembre del 1948.

Israele ha risposto con brutalità alle richieste che sia rispettato questo diritto fondamentale. Oltre 210 palestinesi sono stati uccisi durante la Grande Marcia del Ritorno e oltre 9000 sono stati feriti da proiettili veri.

Oltre a pretendere che il diritto al ritorno sia rispettato, negli ultimi settant’anni i rifugiati palestinesi hanno cercato, di tanto in tanto, di esercitare quel diritto e sono stati trattati con estrema violenza.

Negli anni seguenti l’adozione della risoluzione 194 dell’ONU, molti abitanti di Gaza hanno cercato di attraversare il confine con Israele, Stato di recentissima costituzione. Con un’espressione di sapore orwelliano le autorità israeliane hanno definito questi rifugiati che cercavano di tornare degli “infiltrati.”

Nel suo libro Le guerre di confine di Israele. 1949-1956, lo storico Benny Morris scrive che le cosiddette infiltrazioni erano “una conseguenza diretta dell’espropriazione di centinaia di migliaia di palestinesi.”

I rifugiati cercavano di ricongiungersi con le proprie famiglie, di coltivare i campi, di recuperare le proprietà perdute e naturalmente di rivedere le loro vecchie case.

Sparare a “tutto ciò che si muove”

Le guerre di confine di Israele fu pubblicato nel 1997 – sette anni prima che Morris sostenesse che le forze sioniste avrebbero dovuto espellere tutti i palestinesi negli anni ’40. Nonostante i suoi tentativi di difendere la pulizia etnica, Morris non ha mai ripudiato gli importanti fatti che aveva in precedenza scoperto.

Grazie al suo lavoro noi continuiamo a scoprire molto sui crimini commessi nel nome di Israele e della sua ideologia di Stato, il sionismo.

Egli racconta, per esempio, di come Israele abbia applicato la politica di “fuoco a volontà” contro i rifugiati che cercano di ritornare a casa. Secondo Morris, le forze israeliane “sparavano a tutto ciò che si muoveva” e spesso giustiziavano “sul posto” dei rifugiati feriti. 

In conseguenza di questa politica di fuoco indiscriminato, dal 1949 al 1956 sono stati uccisi tra i 2700 e i 5000 rifugiati, per la gran parte civili disarmati. Morris scrive inoltre che “nessun soldato, poliziotto o civile israeliano è mai stato processato per aver sparato e ucciso un infiltrato arabo disarmato.”

Mentre i rifugiati palestinesi venivano massacrati quando tentavano di esercitare il loro diritto al ritorno, il parlamento israeliano, la Knesset, nel 1950 approvò la legge cinicamente chiamata “ del ritorno” che garantiva agli ebrei in tutto il mondo il diritto di ottenere la cittadinanza israeliana e vivere in Israele.

Quelli che immigravano in Israele, molti dei quali erano sopravvissuti all’Olocausto, spesso si insediavano nelle case vuote dei rifugiati palestinesi.

Un’altra politica implementata contro i rifugiati palestinesi che cercavano di tornare a casa era nota come “ritorsione.”

Israele “operava rappresaglie” facendo incursioni nei villaggi in Giordania, Egitto, Gaza e Siria. Questi raid avevano lo scopo di punire le comunità che si presumeva avessero aiutato il rientro dei rifugiati.

Nel suo libro Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo lo storico Avi Shlaim scrive che le rappresaglie erano in realtà “una forma di punizione collettiva contro interi villaggi.”

Un caso di “rappresaglia” degno di nota è avvenuto nell’ottobre del 1953 nel villaggio giordano di Oibya.

Secondo il libro di Shlaim, i commando israeliani assalirono Oibya e costrinsero gli abitanti a restare nelle proprie case, che poi furono fatte saltare in aria con dentro la gente. Almeno 69 persone furono uccise, la maggioranza donne e bambini.

Il capo di questo raid era un giovane comandante di nome Ariel Sharon, che in seguito fu soprannominato “il macellaio di Beirut” per il suo ruolo nel massacro di massa del 1982 in Libano nei campi di rifugiati palestinesi di Sabra e Shatila.

Addossare la colpa agli altri

Israele ha costantemente cercato di dare la colpa delle sue violenze agli altri.

Negli anni ’50, il governo israeliano incolpava i governi arabi e gli stessi rifugiati palestinesi. Secondo Shlaim, Israele sosteneva che l’uccisione di civili era “una forma legittima di auto-difesa.”

Parole identiche, o quasi, vengono usate oggi dai leader politici di Israele.

Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele, ha invocato “l’auto-difesa” per cercare di giustificare l’uccisione di manifestanti disarmati a Gaza. L’anno scorso, dopo un massacro israeliano a Gaza, Netanyahu ha affermato che lo Stato stava agendo per “proteggere la sua sovranità e la sicurezza dei suoi cittadini.”

Quando è stato trasmesso un video che mostrava le truppe israeliane esultare allegramente e ridere mentre un cecchino sparava a un manifestante, i politici israeliani si sono affrettati a difendere i soldati.

Avigdor Lieberman, l’allora ministro della Difesa israeliano, dichiarò che il cecchino nel video “meritava una decorazione.” Naftali Bennett, anche lui all’epoca ministro del governo, disse che “giudicare i soldati perché non si esprimono elegantemente mentre stanno difendendo i nostri confini non è serio.”

Oggi il governo di Israele denigra i manifestanti di Gaza chiamandoli “terroristi.” Benny Morris ha fatto notare che “infiltrato”, il termine usato per i rifugiati palestinesi che cercano di tornare a casa, è rapidamente diventato sinonimo di “terrorista.”

Nello stesso modo in cui le autorità israeliane hanno tentato di sfuggire alla responsabilità dei loro attacchi sui vicini arabi negli anni ’50, i politici di oggi cercano di dare la colpa delle morti dei manifestanti a Gaza ad Hamas.

Lieberman ha asserito che “nessun civile innocente” ha preso parte alle proteste a Gaza, che lui ha soprannominato la “marcia del terrorismo.” Tutti i manifestanti, secondo Lieberman, sono membri di Hamas.

Si può interpretare in modo diverso: i palestinesi hanno combattuto per i loro diritti negli anni immediatamente dopo la Nakba, così come stanno facendo nel ventunesimo secolo.

La brutalità di Israele continua e così fa anche la lotta contro Israele.

Jake Batinga è uno scrittore e attivista basato in California. È vissuto nella città di Hebron nella Cisgiordania occupata quando lavorava con l’International Solidarity Movement, [movimento internazionale di solidarietà e lotta non violenta per la liberazione della Palestina, ndtr.] per documentare le violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito israeliano e dei coloni.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Un dipartimento del ministero della Difesa israeliano è incaricato di nascondere le prove della Nakba – da “Haaretz”

Jonathan Ofir

5 luglio 2019 MondoWeiss

Israele ha un dipartimento segreto del ministero della Difesa incaricato di far sparire documenti relativi alla Nakba. Oggi il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato un‘estesa inchiesta di Hagar Shezaf intitolata “Seppellire la Nakba: come Israele ha sistematicamente nascosto le prove dell’espulsione degli arabi nel 1948”.

Il dipartimento è chiamato “Direzione della sicurezza dell’Istituzione della Difesa”, con l’acronimo in ebraico MALMAB. In ebraico risulta persino più ossessivo, perché le parole “Difesa” e “Sicurezza” sono le stesse (‘Bitahon’), quindi sarebbe “Direzione della Sicurezza per l’Istituzione della Sicurezza”. Quindi, da cosa l’istituzione della sicurezza si sta proteggendo?

Apparentemente si tratta della ricerca di documenti relativi a informazioni sensibili che riguardano il programma nucleare segreto di Israele. Ma è chiaro che il dipartimento si è occupato di informazioni sulla pulizia etnica della Palestina nel 1948 (e anche di espulsioni successive) in quanto minaccia strategica. Quindi documenti che sono già stati approvati dal censore per essere declassificati, già pubblici e citati, sono stati di nuovo messi in cassaforte per ordine di questi funzionari.

Per parecchi decenni il dipartimento segreto ha fatto sparire documenti. Alla fine degli anni ’80 le prove documentali relative ad avvenimenti della Nakba da parte di storici quali Benny Morris, Ilan Pappe e Avi Shlaim, noti anche come “Nuovi Storici”, sono diventate un problema per lo Stato, in quanto mettevano in dubbio la versione della propaganda israeliana e confermavano in larga misura quella che era stata derisoriamente definita la “narrazione palestinese”. Yehiel Horev, l’ufficiale che ha fondato e guidato il dipartimento per due decenni, fino al 2007, non è stato per niente reticente riguardo alla sua subdola motivazione. Alla domanda riguardo a un documento problematico che Morris aveva già citato nel 1986, Horev ha detto:

Non ricordo il documento a cui lei si riferisce, ma se l’ha citato e quello stesso documento non è là (cioè dove Morris dice che sia), allora i fatti di cui parla non sono affidabili. Se dice: ‘Sì, ho il documento,’ non lo posso discutere. Ma se dice che è scritto là, potrebbe essere vero o falso. Se il documento fosse già stato reso pubblico e fosse rinchiuso in archivio, direi che è una follia. Ma se qualcuno l’ha citato, c’è una differenza tra il giorno e la notte riguardo alla validità della prova che ha citato.

In altre parole, l’obiettivo del lavoro è minare la credibilità di quanti hanno già citato quei documenti.

Il documento specifico a cui ci si riferisce nella domanda non è un documento qualunque. È un documento del 30 giugno 1948 chiamato “L’emigrazione degli arabi della Palestina”, redatto dal servizio di intelligence militare israeliana, che elenca le ragioni della fuga dei palestinesi. Vengono elencati undici motivi in ordine di importanza, di cui i primi tre sono:

1. Operazioni ostili ebraiche (Haganah/IDF [principale milizia sionista/esercito israeliano, ndtr.] dirette contro insediamenti arabi;

2. Gli effetti delle nostre (Haganah/IDF) operazioni ostili contro insediamenti (arabi) vicini…(…soprattutto la caduta di grandi centri nei dintorni);

3. Operazioni di dissidenti (ebrei: Irgun Tzvai Leumi e Lohamei Herut Yisrael [altre due milizie sioniste ultranazionaliste e dedite al terrorismo fin dagli anni ‘30, ndtr.]).

In seguito il documento riepiloga i fattori e conclude:

Per riassumere le sezioni precedenti, si potrebbe pertanto dire che l’impatto delle “azioni militari ebraiche (Haganah e dissidenti) sulla migrazione è stato decisivo, in quanto circa il 70% degli abitanti ha lasciato le proprie comunità ed è emigrato in conseguenza di queste azioni.

A conferma che queste sono state le principali e fondamentali ragioni della fuga dei palestinesi, il documento attesta che i palestinesi per lo più se ne andarono per il timore immediato e a causa delle ostilità dirette, e non, come sosteneva la versione della propaganda israeliana, perché “i leader arabi glielo avevano detto.” Tale documento si riferisce alla responsabilità in termini di espulsione attiva dei palestinesi, indicando la nozione di pulizia etnica – che Ilan Pappe ha esplicitato nel suo libro fondamentale del 2006 “La pulizia etnica della Palestina.”

Dopo aver scritto l’articolo nel 1986, Morris ha citato questo documento anche in libri successivi. Ho fatto riferimento a questo in precedenti articoli, citando queste parti cruciali.

Quel documento è molto esteso. Nel bel mezzo della Nakba descrive già nei minimi dettagli lo spopolamento di 219 villaggi e 4 città, di 239.000 palestinesi. La campagna di pulizia etnica era in pieno svolgimento, e in sei mesi avrebbe riguardato lo spopolamento di 500 villaggi e città e circa 750.000 palestinesi. Il documento contiene 29 pagine ed è meticoloso in modo agghiacciante. Elenca il numero di abitanti in ogni località “durante un periodo normale”, in modo molto preciso (per esempio: Salihiyya – 1.520”; “Mansura – 360”) e poi elenca la ragione dello spopolamento (ad esempio: “Ein Zaytoun – distruzione del villaggio da parte nostra”; Qabba’a – nostro attacco contro di loro”). In genere viene elencata la direzione della fuga (per esempio: Qabba’a – “Libano”).

Quindi, che ne è di questo documento? C’è stato un incidente, una crepa nel muro del negazionismo. Benché sia diventato riservato dopo essere già stato citato, e nonostante il gruppo di lavoro del Malmab avesse ordinato che rimanesse segreto, pochi anni dopo ricercatori di Akevot, un istituto di ricerca che si dedica a documentare questioni relative ai diritti umani nel conflitto israelo-palestinese, trovarono una copia del testo e lo mostrarono alla censura militare – che ne autorizzò senza condizioni la pubblicazione. A quanto pare i dipartimenti deputati a nascondere le prove non hanno comunicato in modo corretto tra di loro. Questo documento fondamentale ora si può trovare integralmente grazie ad Akevot.

Ma il sistema di occultamento retroattivo continua a funzionare. Haaretz racconta la recente vicenda della storica israeliana Tamar Novick, che ha scoperto un documento del 1948 presso l’archivio Yad Yaari [centro di documentazione e studio su alcuni movimenti sionisti, ndtr.] di Givat Haviva [centro di documentazione del movimento dei kibbutz, ndtr.]. Il documento afferma:

Safsaf (in origine un villaggio palestinese nei pressi di Safed) – 52 uomini sono stati presi, legati uno all’altro, hanno scavato una fossa e sono stati colpiti a morte. Dieci si stavano ancora contorcendo. Sono arrivate le donne, chiedendo pietà. Sono stati trovati i corpi di 6 anziani. C’erano 61 corpi. Tre casi di stupro, uno a est di Safed, una ragazzina di 14 anni, e quattro uomini colpiti e uccisi. A uno hanno tagliato le dita con un coltello per prendergli l’anello.

Continua descrivendo altri massacri, saccheggi e violenze. Il documento in sé non era firmato (benché fosse nella documentazione del funzionario del dipartimento arabo del partito di sinistra MAPAM Yosef Vashitz) ed era tagliato a metà, per cui Novick ha deciso di consultarsi con Morris – che aveva citato avvenimenti simili nei suoi scritti. Le descrizioni di Morris sono prese da un altro documento (un rapporto del membro del Comitato Centrale del MAPAM Aharon Cohen), che proveniva anch’esso dallo stesso archivio. Quindi Novick è tornata a Givat Haviva per confermare i due documenti, ed ha scoperto che quello citato da Morris non c’era più.

In un primo tempo ho pensato che forse Morris non era stato preciso nelle sue note, che forse aveva fatto un errore,” ricorda Novick. “Mi ci è voluto del tempo prima di prendere in considerazione la possibilità che il documento fosse semplicemente scomparso.” Quando ha chiesto ai responsabili dove fosse il documento, le è stato detto che era stato messo sottochiave allo Yad Yaari per ordine del ministero della Difesa.

La Malmab ha fatto sparire anche documenti successivi. Per esempio una testimonianza del geologo Avraham Parnes relativa a un’espulsione di beduini nel 1956:

Un mese fa abbiamo visitato Ramon (cratere). Nella zona di Mohila alcuni beduini sono venuti da noi con le loro greggi e le loro famiglie e ci hanno chiesto di mangiare con loro. Ho risposto che avevamo molto lavoro da fare e non avevamo tempo. Nella nostra visita di questa settimana abbiamo di nuovo visitato Mohila. Invece dei beduini e delle loro greggi c’era un silenzio di morte. Una serie di carcasse di cammelli era sparsa nella zona. Abbiamo saputo che tre giorni prima l’IDF aveva ‘tolto di mezzo’ i beduini e le loro greggi erano state sterminate – i cammelli a fucilate, le pecore con le granate. Uno dei beduini, che ha iniziato a protestare, era stato ucciso, gli altri erano scappati…Due settimane prima era stato loro ordinato per il momento di rimanere dov’erano, poi era stato ordinato di andarsene e per accelerare le cose più di 500 capi erano stati massacrati…L’espulsione era stata realizzata ‘in modo efficace’.

La lettera continua citando quello che aveva detto uno dei soldati a Parnes, secondo la sua testimonianza:

Non se ne sarebbero andati se non avessimo fatto fuori le loro greggi. Una ragazza di circa 16 anni si è avvicinata a noi. Aveva una collana di perline di serpenti d’ottone. Le abbiamo strappato la collana e ognuno di noi ha preso un pezzetto come souvenir.

Recenti interviste, come quelle rilasciate all’inizio degli anni 2000 dal centro Yitzhak Rabin, sono state quasi tutte fatte sparire dalla Malmab, come questa sezione con il generale (della riserva) Elad Peled, intervistato dallo storico Boaz Lev Tov:

Peled: “Guarda, lascia che ti racconti qualcosa ancora meno piacevole e più crudele riguardo alla grande incursione a Sasa (villaggio palestinese nell’Alta Galilea). L’obiettivo era in effetti di scoraggiarli, di dire loro: ‘Cari amici, il Palmach (le truppe d’assalto dell’Haganah) può raggiungere ogni posto, voi non siete al sicuro.’ Quello era il cuore dell’insediamento arabo. Ma cosa abbiamo fatto? Il mio plotone ha fatto saltare 20 case con tutto quello che c’era dentro.”

Lev Tov: “Mentre la gente vi stava dormendo?”

Peled: “Penso di sì. Quello che avvenne là: arrivammo, entrammo nel villaggio, piazzammo una bomba nei pressi di ogni casa e poi Homesh suonò una tromba, perché non avevamo radio, e quello era il segnale perché (le nostre forze) se ne andassero. Corremmo all’indietro, gli artificieri rimasero, schiacciarono i pulsanti, era tutto rudimentale. Accesero la miccia o premetterono sul detonatore e tutte quelle case sparirono.”

Fortunatamente Haaretz ha avuto le trascrizioni integrali.

Questa ‘task force’ chiamata Malmab ha anche lanciato minacce contro archivisti. Menahem Blondheim, direttore dell’archivio presso l’Istituto di Ricerca Harry S. Truman dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ricorda i suoi scontri con funzionari della Malmab nel 2014:

Ho detto loro che i documenti erano vecchi di decenni e che non potevo immaginare che ci potesse essere alcun problema di sicurezza che potesse giustificare una restrizione al loro accesso per i ricercatori. Mi hanno risposto: ‘Mettiamo che ci sia una testimonianza secondo cui durante la guerra d’indipendenza [la guerra tra milizie israeliane, Paesi arabi e palestinesi nel 1947-48, ndtr.] i pozzi vennero avvelenati?” Ho risposto: “Bene, quella gente dovrebbe essere processata.”

Haaretz nota come “il rifiuto di Blondheim portò a un incontro con un funzionario più importante del ministero, solo che questa volta l’atteggiamento che riscontrò fu diverso e vennero fatte minacce esplicite. Alla fine le due parti raggiunsero un compromesso.”

A quanto pare questo intervento di un ente segreto del ministero della Difesa sta provocando un considerevole dissenso negli archivi di Stato. Circa un anno fa, il consigliere giudiziario degli archivi di Stato, l’avvocatessa Naomi Aldouby, ha scritto un parere intitolato “Documenti negli archivi pubblici secretati senza autorizzazione.” Secondo lei la politica di accessibilità agli archivi pubblici è di esclusiva competenza del direttore di ogni istituzione. Gli storici sospettavano che questo ente segreto esistesse, perché ne avevano trovato tracce. Benny Morris:

Ne ero a conoscenza. Non ufficialmente, nessuno mi ha informato, ma ci ho avuto a che fare quando ho scoperto che documenti che avevo visto nel passato ora sono secretati. C’erano documenti dell’archivio dell’esercito che avevo usato per un articolo su Deir Yassin [villaggio palestinese in cui nel 1948 avvenne la strage più nota, ndtr.) e che ora sono secretati. Quando sono andato nell’archivio non mi è più stato possibile vedere l’originale, per cui ho sottolineato in una nota (nell’articolo) che l’archivio di Stato aveva negato l’accesso ai documenti che avevo reso pubblici 15 anni prima.

Questa scomparsa di documentazione in precedenza disponibile è parte di un più generale modello di segretezza. Secondo il direttore di Akevot , Lior Yavne, l’archivio dell’IDF, che è il più grande di Israele, è quasi del tutto inaccessibile. L’archivio dello Shin Bet (servizio di sicurezza [interna]) è “totalmente chiuso salvo una manciata di documenti.” Nel 1998 la riservatezza dei documenti più antichi dello Shin Bet e del Mossad [servizio di sicurezza esterno, ndtr.] doveva scadere (dopo 50 anni). Nel 2010 esso è stato retroattivamente esteso a 70 anni, e lo scorso febbraio a 90 anni, nonostante l’opposizione del Consiglio Supremo degli Archivi.

Lo storico Tuvia Friling, che fu capo archivista tra il 2001 e il 2004, dice che una delle ragioni principali per cui diede le dimissioni fu questo intervento da parte della Malmab. Afferma che in un primo tempo accettò il suo intervento con il pretesto che i documenti sarebbero stati messi su internet e che essa operava con il mandato di impedire che segreti nucleari divenissero accessibili a tutti, ma poi censurarono altre cose:

La secretazione posta su documenti riguardanti l’emigrazione araba nel 1948 è esattamente un esempio di quello che temevo. Il sistema di conservazione e archiviazione non è un’arma delle relazioni pubbliche dello Stato. Se c’è qualcosa che non ti piace – bene, così è la vita. Una società sana impara anche dai propri errori…Lo Stato può imporre riservatezza su alcuni dei suoi documenti – la domanda è se la questione della sicurezza non agisca come una sorta di copertura. In molti casi è già diventata una beffa.

Il fondatore della Malmab Yehiel Horev ha detto a Hagar Shezaf:

Quando lo Stato impone riservatezza, il lavoro pubblicato viene danneggiato perché lui (Morris) non ha il documento.

Shefaz gli chiede:

Ma nascondere documenti presenti nelle note di libri non è un tentativo di chiudere la porta della stalla dopo che i buoi sono già scappati?

Horev:

Se qualcuno scrive che il bue è nero, se il bue non è fuori dalla stalla, non puoi dimostrare che lo sia davvero.

Ma il bue è davvero nero. Un’altra intervista che la Malmab ha tentato di nascondere è quella con il generale Avraham Tamir (sempre tratta dalle interviste del Centro Yitzhak Rabin). Tamir dice:

Ben Gurion stabilisce come politica che dobbiamo demolire (i villaggi) in modo che non abbiano dove tornare. Cioè, tutti i villaggi arabi.

Proprio come la sistematica distruzione dei villaggi durante la Nakba, l’agenzia segreta israeliana Malmab “per la sparizione di documenti” sta cercando di far sparire le tracce della Nakba, in modo che gli storici non possano avere “nessun posto in cui tornare” in termini di ricerche, persino quando si tratta di verificare una documentazione storica critica già citata. La Malmab cerca di riportare i “buoi” della Nakba nella stalla – in modo che per dimostrare che “il bue è nero”, per dimostrare che c’è stata una Nakba, l’onere della prova spetti agli storici. E allora tutto diventa una discussione tra “narrazioni”.

Come dice Horev:

C’è ogni sorta di narrazione. Alcuni dicono che non ci fu nessuna fuga, solo espulsioni. Altri che ci fu una fuga. Non è bianco o nero. C’è una differenza tra la fuga e quelli che dicono che furono espulsi con la forza. È un’immagine diversa.

Hover e Israele sanno, precisamente, che nella stragrande maggioranza dei casi si trattò di una questione di espulsione forzata e del terrore di tale espulsione che si sparse tra le comunità palestinesi. Cercano di nascondere proprio i documenti che confermano ciò in termini chiari. La logica di questa negazione è evidente: intende scongiurare il problema della colpa per l’espulsione, per la pulizia etnica, in modo da negare la responsabilità per il ritorno dei rifugiati. Perché l’espulsione dei palestinesi è stata una necessità assolutamente fondamentale per il sionismo e Israele nei termini dell’”equilibrio demografico” in uno Stato “ebreo e democratico”. Conservare questo “equilibrio”, e negare il ritorno ai rifugiati è un obiettivo centrale del sionismo, e lo è stato dalla creazione di Israele.

La doppia presenza del termine “sicurezza” nell’acronimo Malmab è indicativo del suo opposto, l’insicurezza. Questa è l’intrinseca insicurezza morale israelo-sionista, che deriva dalla consapevolezza che il progetto sionista è basato per la sua stessa esistenza sullo sradicamento di altri. C’è una profonda consapevolezza in ogni sionista: non si potrà mai ottenere la sicurezza se non verrà posto rimedio al torto della (continua) pulizia etnica. Invece di affrontarlo, Israele pratica la negazione, nella speranza che se esso ne andrà via. Ma non lo farà. Questo bue è decisamente nero.

Jonathan Ofir è un musicista, conduttore e blogger / scrittore israeliano che vive in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ideologia della “Nakba 2.0” di Benny Morris

Hossam Shaker

2 febbraio 2019 Middle East Monitor

Benny Morris sa benissimo cosa significhi il termine “Nakba”. Tuttavia non pare avere alcun problema a ripeterla, considerandola più adeguata per il XXI^ secolo e, di fatto, un obbligo. Come si può dedurre dalle sue parole, questa dovrebbe essere la “Nakba 2.0” – che sarà una versione più intelligente e più decisiva della prima, avvenuta in Palestina durante la guerra del 1948.

Morris, uno dei più illustri storici israeliani, è famoso per aver riesaminato documenti d’archivio sull’espulsione forzata dei palestinesi. Tuttavia ha smesso di utilizzare il termine “pulizia etnica” per riferirsi alla Nakba, che ha trasformato in profughi la maggior parte dei palestinesi. Il suo lavoro – insieme a quello di altri pensatori noti come “Nuovi Storici”- ha contribuito a smentire la propaganda israeliana, che ha messo in circolazione affermazioni relative ai rifugiati palestinesi e all’espulsione di massa del popolo palestinese.

Tuttavia Morris non ha espresso posizioni di principio. Ha invece rifiutato quello che è successo solo da un punto di vista specifico, che ha deciso di rivelare in seguito, quando ha sostenuto che la pulizia etnica non era terminata. In ciò differisce dall’ altro suo collega che ha mostrato una posizione di principio e un impegno morale, come Ilan Pappé, autore di “Ethnic Cleansing of Palestine” (2006) [“La pulizia etnica della Palestina”, Fazi, 2008, ndtr.]

Benny Morris ha fatto un’apparizione pubblica nel XXI^ secolo con una palese tendenza di estrema destra. Oggi parla come se fosse una guida ideologica del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Questa tendenziosità politica ha un enorme significato. Attualmente Morris sta facendo uso della sua competenza e reputazione come illustre storico per giustificare la pulizia etnica dei palestinesi attraverso la sottovalutazione del processo o considerandolo come una necessità per l’esistenza dello Stato di Israele. Morris ritiene che l’espulsione forzata o la pulizia etnica non siano così negative come il mondo e i sostenitori di diritti umani, valori, principi e trattati pensano che sia. Secondo lui, l’unica alternativa a questa scelta è il genocidio.

Morris esprime crescente preoccupazione esistenziale riguardo al “destino di Israele”. Tuttavia la preoccupazione in questo caso pare essere semplicemente una scusa astuta per giustificare il comportamento definitivo che le élite dominanti desiderano adottare riguardo al popolo palestinese, senza prendere in considerazione considerazioni etiche. Quando si tratta della questione “essere o non essere”, ignorare i valori e negare gli obblighi diventa per tali persone una scelta ragionevole.

La giustificazione di Morris è la migliore interpretazione delle dichiarazioni che terrorizzano gli israeliani e che sono state esposte dal settantenne storico a gennaio durante un’intervista con Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.]. In quell’intervista – intitolata “Questo posto è destinato ad affondare e gli ebrei rimarranno una minoranza perseguitata e potrebbero scappare negli USA” – Morris è stato molto pessimista nelle sue previsioni. Ha detto che “questo posto (Israele) sarà un paese mediorientale al collasso con una maggioranza araba e gli ebrei rimarranno come una piccola minoranza all’interno di un grande mare arabo di palestinesi. Una minoranza soggetta all’oppressione o al massacro.”

Morris ha scelto di lanciare il suo avvertimento contro questo terribile destino in occasione del suo pensionamento dalla vita accademica. Tuttavia è un modo consueto di ravvivare il senso israeliano di pericolo esistenziale, che è una tipica premessa ai discorsi di mobilitazione israeliani che incitano ad azioni risolute e crudeli contro l’origine della minaccia, rappresentata dal popolo palestinese sottoposto ad occupazione e non, per esempio, dalle “armi chimiche di Saddam Hussein (l’ex presidente iracheno)” o dall’ “Olocausto (dell’ex presidente iraniano Mahmoud) Ahmadinejad,” o dalla “bomba iraniana.” Questo discorso quindi corrisponde alla crescente retorica fascista nelle posizioni dei dirigenti israeliani.

Le conclusioni di Morris sembrano ideali da adottare per l’élite dominante estremista israeliana per scatenare una campagna finale contro il popolo palestinese – oltre a tutto quello che finora è stato commesso – con il pretesto che “se noi non uccidiamo loro, loro uccideranno noi.”

Nell’intervista Benny Morris ha disegnato un quadro mostruoso dei palestinesi senza osare descriverli come umani, proprio come ogni politico e militare israeliano. Questo è assolutamente adeguato per giustificare il fatto di ucciderli e incolparli del loro stesso destino. Morris non è solo uno storico, è anche un brillante sostenitore dell’espulsione forzata e della pulizia etnica. Ha chiaramente espresso ciò durante un’intervista con Ari Shavit su Haaretz nel 2004, quando ha detto: “Lo Stato ebraico non avrebbe potuto nascere fino a quando 700.000 palestinesi non vennero cacciati. È stato quindi necessario espellerli.”

L’impressione che si ricava dalle successive posizioni di Morris nel corso degli anni è che il fatto di non aver completato il compito di fare una pulizia etnica contro il popolo palestinese sia stato un grave errore.

Come storico è più probabile che comprenda che la sopravvivenza di popoli indigeni nel loro Paese, senza il loro totale sterminio o la loro espulsione, ha portato alla fine di ogni occupazione coloniale a cui il mondo ha assistito in precedenza. Ciò è dovuto al fatto che cercare di stabilire il controllo assoluto su un altro popolo e sottometterlo al potere di un’occupazione militare non è stata una scelta razionale nel passato. Come potrebbe avere successo ora? Morris lo esprime attraverso chiari indicatori demografici, che descrivono la crescente popolazione palestinese nella Palestina mandataria (27.000 km2, di cui la Cisgiordania costituisce solo un quinto) a un ritmo superiore di quello degli ebrei israeliani, nonostante tutti i tentativi generosamente finanziati e incessanti di fondare colonie illegali.

Il problema demografico di Morris non si limita alla Cisgiordania occupata e alla Striscia di Gaza assediata. Invece sembra essere evidentemente angosciato dai palestinesi a cui è stata concessa a forza la cittadinanza israeliana dopo la Nakba – i cosiddetti “arabo-israeliani” o “palestinesi cittadini di Israele” – e questa sensazione è condivisa da alcuni ministri del governo di Netanyahu. Morris arriva a utilizzare espressioni umilianti che lo rivelano come un razzista. Considera la maggior parte del popolo palestinese con un atteggiamento arrogante, che non contempla la logica dei diritti e della giustizia.

Morris appare come un individuo nel mezzo di una trincea ideologica, che utilizza la propria posizione accademica ed espressioni scientifiche a favore di un progetto di occupazione inconsueto in questo mondo. Ha riconosciuto le proprie inclinazioni politiche di destra e è sembrato persino entusiasta di Netanyahu, solo due mesi prima delle elezioni politiche del 9 aprile.

Quello che deliberatamente Morris non menziona è che il governo di Netanyahu – che include coloni e personaggi noti per il loro fascismo – ha già incluso nel proprio programma l’espulsione forzata di palestinesi da alcune città. Ciò riguarda almeno l’Area C della strategicamente importante Cisgiordania, come Khan Al-Ahmar, un villaggio beduino che si trova ad est di Gerusalemme e che è stato ripetutamente previsto di demolire, solo per fare un esempio. I politici israeliani, compreso il dimissionario ministro della Difesa Avigdor Lieberman, hanno tentato di incitare all’espulsione forzata del popolo beduino. A novembre Netanyahu ha annunciato: “Khan Al-Ahmar sarà evacuato molto presto. Non vi dirò quando, ma preparatevi a questo,” ma il problema è che la messa in pratica dell’espulsione forzata in questa zona strategica non sarà una passeggiata.

I palestinesi di Khan Al-Ahmar restano determinati, nonostante le dure condizioni di vita che vengono loro imposte. Hanno lanciato una lotta civile che ha raggiunto il resto del mondo, che in cambio li ha appoggiati. Continuano ad aggrapparsi al luogo che le autorità occupanti vogliono destinare all’espansione delle colonie e a rafforzare il controllo sulle terre che dovrebbero rimanere libere da palestinesi. Le autorità israeliane agiscono allo stesso modo anche con circa 45 villaggi palestinesi che non sono riconosciuti nella regione del deserto del Negev. Spesso ne distruggono qualcuno per cercare di espellerne gli abitanti, come a Al-Araqeeb e a Umm Al-Hiran. Nel contempo la città settentrionale di Umm Al-Fahm, occupata nel 1948 insieme alla sua popolazione palestinese, è stata sottoposta per decenni a successive minacce di deportazione di massa.

Più in generale, il governo israeliano continua a perseguire la sua politica di lenta e silenziosa deportazione forzata, che si basa sull’espansione delle colonie, sulle restrizioni alla vita dei palestinesi, sulla confisca delle terre, sul controllo delle risorse idriche ed economiche e sull’intensificazione delle restrizioni sulle costruzioni residenziali e sull’urbanizzazione. Israele ha anche provocato problemi per loro con quotidiane campagne di arresti e il gran numero di posti di controllo che separano città e villaggi le une dagli altri, oltre al “muro di separazione” costruito attraverso la Cisgiordania, che le autorità occupanti hanno continuato a costruire nonostante le obiezioni del resto del mondo sulla sua costruzione, comprese l’Assemblea generale delle Nazioni Unite e la Corte Internazionale di Giustizia (CIG).

I dirigenti politici israeliani stanno monitorando l’influenza di queste condizioni sui palestinesi in Cisgiordania, come il parlamentare della Knesset Bezalel Smotrich, che sta seguendo con grande interesse come ogni anno la situazione dell’occupazione obblighi circa 20.000 palestinesi della Cisgiordania ad andarsene. Tuttavia sta anche scommettendo sulle tendenze per risolvere la situazione demografica, parlando del 30% della popolazione della Cisgiordania che desidera emigrare, cioè, è più probabile che venga allontanata con maggiori fattori di spinta.

Questi politici che hanno una posizione compulsiva non sono soddisfatti nel vedere le conseguenze delle politiche di occupazione. Stanno piuttosto spingendo per una situazione finale decisiva senza il popolo palestinese sulla sua terra. Smotrich e i suoi colleghi del partito “Casa Ebraica” [partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] nel settembre 2017 hanno adottato un “piano decisivo” che, secondo loro, sarebbe “meno costoso” delle guerre di Israele ogni qualche anno. Il piano chiede la cacciata di un gran numero di palestinesi dal loro Paese e l’intensificazione delle colonie in Cisgiordania, come l’intento di “determinare un fermo ed eterno destino” in uno Stato che dovrebbe essere solo ebraico, così come un atteggiamento deciso da parte delle autorità e dell’esercito israeliano nei confronti di tutti quelli che rifiutano l’occupazione.

Questo progetto fascista riceve un appoggio ideologico anche da siti “accademici”, come suggerito dalle affermazioni di Benny Morris, che formula pareri sufficienti a far suonare campane d’allarme in tutto il mondo. Per esempio, egli sottovaluta centinaia di massacri commessi dalle forze sioniste durante la Nakba – come quello di Deir Yassin nei pressi di Gerusalemme – che è particolarmente simbolico nella memoria collettiva del popolo palestinese. Pensa anche che l’espulsione forzata sia un’opzione meno pesante dello sterminio.

Le affermazioni scorrette di Morris non sono slegate da importanti sviluppi. Di fatto Morris parla mentre al potere c’è un presidente USA “scelto da dio per questo ruolo”, come la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders ha detto alla CBN in gennaio. Questa è una definizione coerente con l’opinione di circoli USA e israeliani, che vedono il presidente Donald Trump come “un inviato dal cielo per Israele”. A differenza dei suoi predecessori, Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele ed ha trasferito là l’ambasciata USA. I suoi collaboratori stanno partecipando ad attività pubbliche di colonizzazione e la sua amministrazione sta cercando di affamare e impoverire i profughi palestinesi e di spingerli ad emigrare riducendo le risorse UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.]. Sotto il suo governo la Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana ha anche approvato la legge dello Stato Nazione, che esprime le tendenze razziste nelle posizioni dei decisori politici israeliani.

Benny Morris concorda con queste tendenze con il suo tono prevenuto persino con i palestinesi, che rappresentano circa un quarto della popolazione del suo Paese e la cui nazionalità è stata loro imposta a forza e che non hanno posto nell’identità o nella cultura di questo Stato in base alla stessa legge razzista. Lo storico svolge il suo lavoro ideologico in un Paese che rifiuta di definire i propri confini. Alcuni dei suoi dirigenti politici sono impazienti di intraprendere campagne definitive di pulizia etnica, e, chissà, qualcuno a Washington, commentando la “Nakba 2.0”, potrebbe dire “dio lo vuole!”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Settant’anni e una brutta storia

Vercelli C., Israele 70 anni. Nascita di una Nazione, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, 12,90 €.

Amedeo Rossi

Questo libro merita una recensione solo per una ragione: è una chiara dimostrazione del perché non sia possibile instaurare un dibattito serio neppure con i filo-israeliani di “sinistra” (Vercelli, autore di vari libri su Israele, è un collaboratore de “Il Manifesto”).

Il sottotitolo fa riferimento, in modo involontariamente ironico, ad un famoso film americano del 1915, “The born of a Nation”, un capolavoro del cinema ma anche un’esaltazione del razzismo. Non è certo la nota predominante del libro, che in quarta di copertina viene definito “una ricostruzione puntuale e obiettiva”, ma neppure questa è la descrizione corretta di questo lavoro.

Il punto di vista dell’autore viene chiarito in primo luogo dall’uso del lessico: i problemi con i palestinesi sono definiti “frizioni”, questi ultimi in genere indicati genericamente come “arabi” o “arabo musulmani”, la pulizia etnica del ’48 “fuga”, la Cisgiordania sarebbe “Giudea e Samaria”, le colonie israeliane sono definite “insediamenti”, “stanziamenti”, in un caso (Gilo) “quartiere”.

Vercelli assume, senza renderlo mai esplicito, esclusivamente il punto di vista sionista e israeliano, facendo eco a tutti i luoghi comuni ormai smentiti dalla storiografia. Dei nuovi storici israeliani in bibliografia compaiono solo Tom Segev e il libro di Benny Morris “Vittime”, di cui però non cita i passaggi che mettono in dubbio la lettura degli avvenimenti dal punto di vista israeliano.

Ecco alcuni degli esempi più evidenti a un lettore informato di questa posizione dell’autore.

Secondo Vercelli “l’ostilità delle popolazioni arabe” verso i sionisti era dovuta al fatto che queste ne vedevano la presenza “come una crescente intrusione che, in prospettiva, poteva portare all’espropriazione delle terre e alla limitazione delle possibilità di lavoro.” Inoltre sarebbe stato particolarmente ostile “il ceto medio urbano” che “dovette confrontarsi con la concorrenza ebraica in campo commerciale, artigianale e della piccola industria.” L’autore liquida così quello che fu un tipico processo colonialista di espulsione dei contadini e di creazione di un mercato della terra in un contesto di economia agraria tradizionale, che determinò un aumento vertiginoso dei prezzi, una crisi dell’agricoltura, l’inurbamento dei coltivatori espulsi dalle campagne, la creazione di un‘ economia e di un mercato paralleli che escludevano la popolazione nativa, come aveva preconizzato lo stesso Herzl, padre del sionismo. Tutto ciò grazie anche al favore del potere mandatario inglese, che nel libro invece non viene evidenziato.

Negli anni ’30 i flussi dell’immigrazione ebraica in Palestina sarebbero stati incentivati dalla chiusura delle frontiere USA, ma anche in questo caso viene ignorato l’intervento dei dirigenti sionisti che si attivarono per promuovere questa chiusura. In merito Enzo Sereni, dirigente sionista, affermò: “Non abbiamo nulla di cui vergognarci nel fatto che abbiamo usato la persecuzione degli ebrei in Germania per l’edificazione della Palestina.” Di questo non c’è traccia nella ricostruzione qui proposta.

Altrettanto avviene riguardo alle tattiche terroristiche messe in atto da tutte le milizie sioniste, a cui Vercelli dedica solo un accenno ed una foto dell’esplosione dell’hotel King David, ma la didascalia non dice che ci furono 97 morti e 58 feriti. Vengono totalmente ignorate le centinaia di vittime arabe di attacchi terroristici sionisti, oppure l’uccisione del mediatore Onu conte Bernadotte, e il fatto che alcuni primi ministri israeliani, come Begin, Shamir e Rabin, erano stati capi o militanti di gruppi che praticavano il terrorismo indiscriminato contro i civili.

Ancora più grave è la versione accolta nel libro riguardo alla guerra del ’48, da cui è nato lo Stato di Israele. Ad esempio la questione dell’espulsione dei palestinesi dalla loro terra viene così spiegata : i profughi sarebbero stati “popolazioni civili coinvolte nei combattimenti e fuggite dai loro luoghi di residenza.” Inoltre, secondo Vercelli, questo esodo sarebbe stato incentivato dalla “propaganda dei paesi arabi… che garantivano una vittoria certa sugli ebrei”. “Nondimeno,” concede l’autore, “da parte sionista l’interesse ad avere territori abitati in grande maggioranza da popolazione ebraica era nell’ordine delle cose.” Viene liquidato in questo modo il processo di pulizia etnica e con esso il lavoro degli studiosi palestinesi e dei nuovi storici israeliani, compreso il già citato Benny Morris. Certo, dal punto di vista sionista ciò era “nell’ordine delle cose” per la semplice ragione, non menzionata nel testo, che anche nei territori destinati dal piano di spartizione dell’ONU al futuro Stato di Israele la maggioranza della popolazione era araba. Vercelli cita solo la strage di Deir Yassin, troppo nota per essere ignorata, ma non le decine di massacri perpetrati dalle milizie sioniste e le centinaia di villaggi distrutti durante la guerra. Ma definisce la cacciata degli ebrei dai Paesi arabi “un brutale meccanismo di ritorsione” e “una massiccia espulsione.”

A questo proposito, pur dedicando alcune analisi interessanti alle caratteristiche della società ebreo-israeliana, il libro ignora i molti episodi di discriminazione di carattere tipicamente eurocentrico e colonialista cui furono sottoposti gli ebrei arabi, dal rapimento di bambini di famiglie yemenite all’ emarginazione territoriale nelle zone di confine. Nel 1949 comparve su Haaretz, giornale progressista, un articolo in cui si affermava che gli ebrei di lingua araba: “Sono appena meglio del livello di arabi, negri e berberi della regione.” Un’immagine molto diversa da quella di una società felicemente multietnica, dinamica, che presterebbe “particolare riguardo ai diritti civili.” Basti pensare al trattamento riservato in Israele ai lavoratori immigrati, ai richiedenti asilo, in generale ai non ebrei. Vercelli ignora anche la condizione di inferiorità giuridica a cui sono soggetti i cittadini arabo-israeliani, sottoposti all’amministrazione militare fino al 1966, espropriati delle terre e discriminati da più di 50 leggi e regolamenti, definiti sbrigativamente nel libro “diversi vincoli e numerose limitazioni” che avrebbero provocato “un misto di diffidenza ed estraneità”. Gli “attriti” con gli “arabo musulmani” (ma ci sono anche gli “arabo-cristiani”) avrebbero determinato in “alcuni arabi” il senso di appartenenza “a quell’identità palestinese” maturata nei campi profughi “come nei Territori a maggioranza palestinese, a est e a sud di Israele”.

Grazie alla guerra dei Sei Giorni e alla conseguente occupazione della Cisgiordania e di Gaza, da cui altre centinaia di migliaia di palestinesi secondo il libro sarebbero “fuggite”, “la nozione di spazio [degli ebrei israeliani]…si svincolò dalle dimensioni asfittiche legate a una piccola porzione di territorio quale era lo Stato del 1948.”

Il libro non accenna neppure al metodico, pianificato e progressivo processo di espropriazione ed oppressione imposto alle comunità locali dai vari governi israeliani, rispetto alla quale i palestinesi manifesterebbero una “crescente indisponibilità”, non dovuta a fatti concreti ed oggettivi ma al “senso di discriminazione”. Allo stesso modo il libro minimizza, parlando di qualche centinaio di vittime, le responsabilità (riconosciute persino da un’inchiesta parlamentare israeliana) dell’esercito e dell’allora ministro della Difesa Sharon nella strage di Sabra e Shatila durante la guerra contro il Libano; la Prima Intifada sarebbe scoppiata perché “[I giovani palestinesi] si sentivano vittime di un’ingiustizia,”; la Seconda dalla “disillusione” e dal “malessere della popolazione palestinese”, che portarono ad una radicalizzazione, attribuita al successo dei gruppi islamisti, senza spiegarne le cause. Sensazioni, opinioni, emozioni soggettive. Quanto infine al fatto che nel nuovo contesto mediorientale “Israele non può dare risposte di merito ai problemi degli altri paesi della regione, ma si confronta, inevitabilmente, con gli effetti prodotti dalla loro persistenza,” andrebbe chiesto conto all’autore degli sviluppi diplomatici che vedono Israele allineato sempre più esplicitamente con i peggiori regimi arabi.

 Si potrebbe proseguire, ma credo che quanto scritto finora dia sufficientemente conto del tenore di questo libro. Si tratta di un’opera celebrativa (come testimonia il notevole apparato iconografico) ed elogiativa che esalta l’impresa sionista con un approccio solo apparentemente neutrale, la cui lettura è utile più per analizzare l’ideologia dell’autore e dei suoi sodali filo-israeliani che per il suo valore storiografico.