Il vento sta cambiando: Israele sta perdendo su due fronti di guerra

Ramzy Baroud

19 novembre 2018,Middle East Monitor

La maldestra operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza del 12 novembre sta delineando il fallimento di Tel Aviv nell’utilizzare il suo esercito come strumento per ottenere concessioni politiche dai palestinesi. Ora che la resistenza popolare palestinese è diventata globale attraverso l’aumento esponenziale ed il crescente successo del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), il governo israeliano sta combattendo due guerre disperate.

In seguito all’attacco di Gaza, i palestinesi hanno risposto con una pioggia di razzi sul confine meridionale di Israele ed hanno messo in atto un’operazione precisa prendendo di mira un autobus dell’esercito israeliano. Mentre i palestinesi hanno manifestato per festeggiare il fatto di aver respinto l’esercito israeliano fuori dall’enclave assediata, in Israele il fragile ordine politico – a lungo controllato dal primo ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu – è stato rapidamente smantellato.

Due giorni dopo l’attacco israeliano a Gaza, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman si è dimesso per protesta contro “l’arrendevolezza” di Netanyahu verso la resistenza palestinese. I dirigenti israeliani si trovano in una situazione precaria. La violenza selvaggia avviene al prezzo della condanna internazionale e di una risposta palestinese che è sempre più coraggiosa e strategica. Tuttavia, non aver insegnato a Gaza la sua proverbiale “lezione” è visto dai politici israeliani opportunisti come un atto di resa.

Mentre Israele sta sperimentando tali limiti sul campo di battaglia tradizionale, che una volta dominava completamente, la sua guerra contro il movimento globale del BDS è sicuramente una battaglia persa. Israele ha una scarsa efficacia nello scontro con la mobilitazione della società civile. Nonostante la vulnerabilità dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana, al governo e all’esercito israeliani ci vollero sette lunghi anni per pacificare l’Intifada, la rivolta popolare del 1987. Anche a questo proposito si discute ancora riguardo a cosa realmente vi abbia posto fine.

Naturalmente si dovrebbe riconoscere che un’Intifada globale è molto più difficile da soffocare, o persino da contenere. Eppure, quando Israele ha iniziato a rendersi conto del crescente pericolo del BDS – che è stato ufficialmente lanciato dalla società civile palestinese nel 2005 – ha risposto con lo stesso schema inutile e prevedibile: arresti, violenze e un fiume di leggi che criminalizzano il dissenso in patria, scatenando al contempo una campagna internazionale di intimidazioni e calunnie contro attivisti e organizzazioni del boicottaggio.

Questo approccio ha raggiunto pochi risultati, oltre a raccogliere maggiore attenzione e solidarietà internazionale per il BDS. Tuttavia la guerra di Israele contro il movimento è drasticamente peggiorata lo scorso anno, quando il governo Netanyahu ha destinato circa 72 milioni di dollari per sconfiggere la campagna guidata dalla società civile. Utilizzando il sempre disponibile governo USA per promuovere le sue tattiche anti BDS, Tel Aviv si sente sicura che i suoi tentativi contro il BDS negli USA promettono bene. Tuttavia è solo di recente che Israele ha iniziato a formulare la parte europea più complessiva della sua strategia globale.

In una conferenza di due giorni a Bruxelles all’inizio di questo mese funzionari israeliani e i loro sostenitori europei hanno scatenato una vasta campagna europea contro il BDS. Organizzata dall’ “European Jewish Association” [Associazione Ebraica Europea] (EJA) e dal “Europe Israel Public Affairs group” [gruppo per le Questioni Pubbliche Europa Israele] (EIPA), la conferenza è stata pienamente sostenuta dal governo israeliano ed ha ospitato il ministro israeliano per gli Affari di Gerusalemme Ze’ev Elkin, di destra.

Con il solito pretesto di contrastare il pericolo dell’antisemitismo in Europa, i partecipanti hanno confuso il razzismo con qualunque critica nei confronti di Israele, della sua occupazione militare e della colonizzazione delle terre palestinesi. La conferenza annuale dell’EJA ha accolto la manipolazione israeliana del termine “antisemitismo” a un livello totalmente nuovo, in quanto ha stilato un testo che sarà presumibilmente presentato a possibili canditati del parlamento europeo chiedendo la loro firma prima di partecipare alle prossime elezioni [europee] di maggio. Quelli che si rifiuteranno di firmare – o peggio, condanneranno l’iniziativa israeliana – probabilmente si ritroveranno a doversi difendere da accuse di razzismo e di antisemitismo.

Certo non è stata la prima conferenza di questo tipo. L’euforia anti BDS che ha travolto Israele negli ultimi anni ha prodotto parecchie conferenze affollate e appassionate in hotel di lusso, in cui dirigenti israeliani hanno apertamente minacciato attivisti del BDS come Omar Barghouti. Durante una conferenza del 2016 a Gerusalemme Barghouti è stato minacciato di “omicidio civile” per il suo ruolo nell’organizzazione del movimento.

Nel marzo 2017 la Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana ha approvato un divieto di viaggio contro il BDS, che impone al ministero degli Interni di negare l’ingresso nel Paese a qualunque straniero che “consapevolmente abbia espresso una richiesta pubblica di boicottaggio dello Stato di Israele”. Da quando il divieto è diventato effettivo, molti sostenitori del BDS sono stati arrestati, deportati ed è stato loro impedito di entrare nel Paese.

Mentre Israele ha dimostrato la sua capacità di spronare politici che pensano di trarne profitto per i propri fini negli USA e in Europa perché appoggino la sua causa, non ci sono prove che il movimento BDS sia stato in alcun modo represso o indebolito. Al contrario, la strategia israeliana ha sollevato le ire di molti attivisti, di gruppi della società civile e per i diritti civili che si sono infuriati per il suo tentativo di sovvertire la libertà di parola nei Paesi occidentali.

Recentemente nel Regno Unito l’università di Leeds si è unita a molti altri campus nel mondo che hanno disinvestito da Israele. Di certo il vento sta cambiando.

Decenni di indottrinamento sionista non sono riusciti non solo a invertire l’opinione pubblica che si sta notevolmente modificando riguardo alla lotta palestinese per la libertà e i diritti, ma persino a conservare quello che una volta era il sentimento solidamente filoisraeliano tra i giovani ebrei, soprattutto negli USA. Invece per i sostenitori del BDS ogni iniziativa israeliana rappresenta un’opportunità per accrescere la consapevolezza sui diritti dei palestinesi e per mobilitare la società civile nel mondo contro l’occupazione ed il razzismo israeliani.

Il successo del BDS è attribuito alla concreta ragione per cui Israele non riesce a contrastare le sue iniziative: è un modello disciplinato di resistenza popolare e civile basato sull’impegno, sul dibattito aperto e su scelte democratiche, fondate sulle leggi internazionali e umanitarie.

I “fondi per la guerra” di Israele alla fine si prosciugheranno, perché nessuna quantità di denaro avrebbe potuto salvare il regime razzista dell’apartheid in Sud Africa quando è crollato decenni fa. Inutile dire che 72 milioni non faranno cambiare il vento a favore dell’Israele dell’apartheid, né cambieranno il corso della storia che può solo appartenere a quei popoli che sono ostinati quando si tratta di raggiungere la propria libertà a lungo desiderata.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Netanyahu: una biografia, un destino

Il mare è sempre il solito mare

The London Review of Books

Adam Shatz

Bibi: The Turbulent Life and Times of Benjamin Netanyahu [Bibi: La vita e i tempi turbolenti di Benjamin Netanyahu]di Anshel Pfeffer, Hurst, 423 pp, £20.00, Maggio.

“Il problema di Israele,” ha scritto Tony Judt sulla New York Review of Books nel 2003,

“non è –come qualcuno ha sostenuto – che sia un’‘enclave’ europea nel mondo arabo, ma piuttosto che è arrivato troppo tardi. Ha importato un progetto di separatismo tipico della fine del XIX° secolo in un mondo che è andato avanti, un mondo di diritti individuali, frontiere aperte e leggi internazionali. La stessa idea di uno ‘Stato ebraico’ – uno Stato in cui gli ebrei e la religione ebraica hanno privilegi esclusivi da cui i cittadini non ebrei siano per sempre esclusi – è radicata in un altro tempo e luogo. In breve, Israele è un anacronismo.”

Oggi è la certezza internazionalista liberale di Judt che sembra un anacronismo, mentre Israele – una “società ibrida di antiche fobie e speranze di tecnologia avanzata, una combinazione di tribalismo e globalizzazione”, nelle parole del giornalista Anshel Pfeffer – assomiglia sempre più all’embrione di un nuovo mondo governato da timori atavici, il cui sintomo più malefico è la presidenza di Donald Trump.

Pfeffer, corrispondente di “Haaretz”, ha scritto una biografia di Benjamin Netanyahu per spiegare l’odierno Israele – un compito per niente invidiabile. Dite quello che volete dei predecessori di Netanyahu, ma essi avevano un loro fascino, dall’autodisciplina monacale di David Ben-Gurion all’avidità di Ariel Sharon. Netanyahu sembra un personaggio vuoto: un “responsabile del marketing”, con le parole di Max Hastings, che lo ha incontrato mentre scriveva una biografia di suo fratello Jonathan. Eppure Netanyahu può difficilmente essere ignorato, o la sua capacità di sopravvivenza negata. Se non verrà obbligato a lasciare il suo incarico per accuse di corruzione prima del luglio 2019, sarà il primo ministro più a lungo in carica, superando Ben-Gurion. La democrazia israeliana, il marchio del responsabile del marketing, è caduta in un discredito totale tra i progressisti dell’Occidente, ma lui non si è mai preoccupato di quello che pensano i progressisti, ed essi hanno un’influenza molto minore in un’era di demagogia populista. Trump, Putin, Modi, Orbán: Netanyahu non potrebbe essere più a suo agio in un mondo di uomini forti nazionalisti. Senza restituire neppure un centimetro di terra occupata, ha sconfitto gli Stati arabi sunniti, paralizzati dal timore per l’Iran sciita, che ne hanno abbastanza dei palestinesi e incapaci di esercitare pressioni su Israele. La resistenza palestinese in Cisgiordania ha in pratica subito una battuta d’arresto. Gli ebrei israeliani –  più di 600.000 dei quali vivono nelle colonie – non hanno alcuna ragione per preoccuparsi dei palestinesi, salvo che si stiano appassionando agli episodi di “Fauda”, la serie televisiva israeliana sull’occupazione. La maggioranza degli ebrei israeliani considera l’assedio di Gaza, che ha reso il territorio quasi inabitabile, un prezzo accettabile da pagare per la ‘sicurezza’, anche se è proprio la miseria provocata dall’assedio che accresce la loro insicurezza. Questa opinione non è condivisa dai cittadini palestinesi di Israele, circa il 20% della popolazione, ma essi sono degli emarginati interni.

L’Israele di Netanyahu incarna quello che Ze’ev Jabotinsky, l’idolo di suo padre, chiamava “un muro di ferro di baionette ebraiche”. Jabotinsky, il fondatore del sionismo revisionista [corrente di destra del sionismo, ndtr.], sognava un Israele su entrambe le rive del Giordano. Netanyahu ha fatto la pace con il dominio degli Hascemiti [la dinastia regnante, ndtr.] sulla Giordania, ma nel suo impegno per un Israele più grande e nella sua implacabile opposizione all’autodeterminazione dei palestinesi rimane figlio di suo padre. Nato nel 1910 in una famiglia sionista a Varsavia, Benzion Mileikowsky si stabilì a Gerusalemme nel 1924 e si unì a “Hatzohar”, l’Unione Mondiale dei Sionisti Revisionisti, sionisti di destra ma laici, profondamente influenzati dal nazionalismo sangue e terra, ed adottò lo pseudonimo di suo padre, ‘Netanyahu’, ‘donato da dio’. Diventò uno studioso dell’inquisizione spagnola, proponendo la tesi spietata secondo cui, invece di morire per la loro fede, i conversos accettarono la Chiesa [cattolica] per ambizione.

Il maggior risultato raggiunto da Benzion in “Hatzohar” fu di esserne il rappresentante ad una conferenza del 1940 a New York: era un militante di destra di poco conto, “al massimo, una figura marginale nel circolo del leader”. Ma era uno che ci credeva davvero, sconvolto dalla sconfitta del movimento nella sua rivalità con il sionismo socialista di Ben-Gurion, che per questioni di tattica accettò l’idea della partizione della Palestina. Con la fondazione dello Stato di Israele sotto la direzione di Ben-Gurion, uomini come Benzion Netanyahu vennero lasciati a leccarsi le ferite. Uomo rigido e cupo, continuò a leccarsele per tutta la vita, per lo più passata in un orgoglioso e autoimposto esilio da Sion. Convinto che “il cuore della nostra Nazione sia stato distrutto” dopo l’Olocausto, vedeva i nuovi dirigenti dello Stato come uomini deboli, che preparavano la strada per la “liquidazione dei sionisti”. Dopo l’indipendenza trovò lavoro come uno dei redattori della nuova Encyclopedia Hebraica, ma si rodeva dall’amarezza per la sua incapacità di garantirsi un incarico accademico degno di quelle che sentiva essere le sue capacità.

Bejamin Netanyahu, ‘Bibi’ per la sua famiglia, è nato nel 1949 a Tel Aviv, tre anni dopo il suo fratello maggiore, Jonathan (‘Yoni’), ed è cresciuto a Katamon, un sobborgo abitato prevalentemente da arabi cristiani prima della guerra del 1948. (Un terzo figlio, Iddo, è nato nel 1952). Nel 1963 i ragazzi vennero sradicati quando il padre, convinto di essere stato messo nella lista nera dal mondo accademico, spostò la sua famiglia a Elkins Park, un verdeggiante quartiere periferico di Filadelfia. Per una famiglia revisionista lasciare Israele non era un’umiliazione da poco: gli ebrei che emigrano [da Israele] sono noti come yordim, quelli che scendono (gli immigrati fanno aliyah e “salgono”). Scendendo, i ragazzi Netanyahu dovettero rimandare il loro ingresso nell’esercito, la loro più profonda aspirazione: sia Yoni che Bibi erano decisi a lavare l’onta del loro colto padre, un profeta reietto nello Stato ebraico. Le lettere di Yoni ai suoi amici in patria fanno pensare ad  un Sayyid Qutb [leader islamico egiziano, dirigente della Fratellanza musulmana, ndtr.] sionista, disgustato dall’edonismo americano: “Qui la gente parla di macchine e ragazze. La loro vita gira attorno ad un argomento – il sesso – e penso che Freud qui avrebbe avuto un fertile campo per seminare e raccogliere i suoi frutti. Mi sto convincendo di vivere in mezzo a scimmie, non a esseri umani.” Yoni inizialmente si accontentò di predicare il sionismo con i suoi compagni di classe, ma nel 1964 tornò in Israele per diventare paracadutista, realizzando la fantasia di suo padre del guerriero ebreo che difende la sua terra dagli arabi, che vedeva come “una marmaglia di cavernicoli”.

Senza il fratello maggiore, che adorava, Netanyahu sembra si sia perso nella selva degli anni ’60 americani. A “Cheltenham High” [prestigioso college nei pressi di Filadelfia, ndtr.] era noto come Ben, non Bibi. Giocava nella squadra di calcio ed era membro della società di scacchi, ma per lo più se ne stava per conto suo. Aveva poco in comune con i suoi compagni di classe ebrei progressisti infervorati dal movimento per i diritti civili [degli afroamericani, ndtr.]. Lettore di Ayn Rand [scrittrice e filosofa liberale di destra, ndtr.], era preoccupato dei mali del comunismo, non di quelli del razzismo. Una settimana prima dello scoppio della guerra del 1967 [tra Israele e gli Stati arabi, nota come la Guerra dei Sei Giorni, ndtr.] volò in Israele. Netanyahu sostiene di essere tornato per lottare per il suo Paese, ma Pfeffer afferma che la ragione principale era che gli mancava Yoni.

Tornato in Israele, Bibi si addestrò come soldato combattente, e si unì a “Sayeret Matkal”, un’unità speciale d’élite la cui esistenza rimase un segreto ufficiale fino al 1992. Benché più corpulento del suo slanciato e spartano fratello maggiore, era estremamente in forma, e rimase nell’esercito per cinque anni, partecipando a molti attacchi al di là dei confini, compresa la battaglia di Karameh, in Giordania, del 1968 [nota come prima vittoria dei palestinesi contro l’esercito israeliano, ndtr.], in cui combatté contro i guerriglieri palestinesi sotto il comando di Arafat. Nel maggio 1972 venne ferito a una spalla da fuoco amico durante la liberazione del Boeing 707 della Sabena dirottato [dal gruppo palestinese “Settembre nero”, per chiedere uno scambio di prigionieri, ndtr.].

Bibi avrebbe potuto continuare la carriera militare come Yoni, ma aveva ambizioni più mondane. Due mesi dopo la liberazione del volo Sabena ritornò negli Stati Uniti con la sua ragazza, Miki Weizmann, con cui si sposò poco dopo. Si iscrisse ad un corso di architettura e urbanistica al MIT [Massachusetts Institute of Technology, ndtr.] (in seguito prese una seconda laurea alla scuola di management), mentre Weizmann studiò chimica a Brandeis [prestigiosa università nei pressi di Boston, ndtr.]. Ritornò a chiamarsi Ben invece di Bibi; cambiò persino il suo cognome in ‘Nitay’ perché gli americani facevano fatica a pronunciare ‘Netanyahu’. Era un tipico insieme di zelo assimilazionista e di disprezzo per l’unico Paese in cui aveva conosciuto qualcosa di simile a una vita civile: in Israele da adulto è stato solo un soldato o un politico. Pochi mesi prima dello scoppio della guerra del 1973 indusse Yoni, diventato ora vice di Ehud Barak nell’unità “Sayeret Matkal”, a passare il semestre estivo ad Harvard. Benché Yoni condividesse l’ammirazione di Bibi per l’intraprendenza americana, gli attivisti contro la guerra nel campus lo disgustarono, soprattutto quelli ebrei: “Sembra che abbiano smesso da molto tempo di essere obiettivi. Un peccato per l’America, perché questi pazzi la distruggeranno.” (Tutti e due i fratelli parteciparono alla guerra: Bibi ha raccontato con orgoglio di essere stato vicino ad Ariel Sharon e a Ehud Barak sulle sponde del Canale di Suez, ma Barak dice di non ricordarsi di un simile incontro).

Il dramma che ha segnato la vita di Netanyahu da giovane ha avuto luogo nel luglio 1976, quando Yoni venne ucciso all’aeroporto di Entebbe durante una missione per la liberazione di ostaggi israeliani ed ebrei del volo Air France 139, dirottato da quattro membri di una cellula tedesca del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [gruppo armato marxista, ndtr.]. La storia della sua morte e di chi l’abbia ucciso rimane controversa. Secondo il racconto più ampiamente accettato, contravvenne agli ordini aprendo il fuoco contro i soldati ugandesi, attirando quindi l’attenzione della torre di controllo, da cui molto probabilmente vennero sparati i colpi che lo uccisero. La famiglia Netanyahu, tuttavia, rifiutò di credere che il loro figlio fosse stato ucciso da un soldato semplice ugandese, e insistettero che fosse stato ucciso dal comandante tedesco dei dirottatori. Benché Yoni fosse stato depresso per mesi e poco comunicativo nelle riunioni, venne esaltato nella mitologia familiare come “l’impareggiabile comandante”, trasformato in un’icona anche prima del suo funerale. “Mi aspettavo che il padre dicesse quanto amasse suo figlio e gli mancasse,” ricordò dopo il funerale Moshe Arens, politico del Likud. “Invece Benzion disse: ‘Gli arabi non sanno ancora quale perdita hanno inflitto agli ebrei.’”

Incaricato dalla famiglia di scrivere la biografia di Yoni, Max Hastings lo ritrasse come un tipo scontroso, testardo e solitario, molto simile al padre, solo senza la sua intelligenza – “un giovane problematico di media intelligenza, che si sforzava di fare i conti con concetti intellettuali al di là della sua comprensione.” Lungi dall’essere un comandante senza pari, Yoni era stato “attivamente detestato da non pochi dei suoi uomini.” Furiosi contro Hastings, i Netanyahu pubblicarono il libro in forma depurata. Hastings, che nelle sue memorie scrisse dei suoi incontri con la famiglia (“uno dei più spiacevoli episodi della mia carriera”), prese in particolare antipatia Bibi, che si vantò: “Nella prossima guerra, se facciamo le cose come si deve, avremo la possibilità di buttar fuori tutti gli arabi…Possiamo ripulire la Cisgiordania, mettere a posto Gerusalemme.” Il razzismo di Bibi, ricordò Hastings, non si limitava agli arabi: “Scherzava sulla brigata Golani, il corpo di fanteria [dell’esercito israeliano, ndtr.] in cui molti uomini erano ebrei nordafricani o yemeniti. ‘Vanno bene finché sono guidati da ufficiali bianchi,’ ghignava.”

Con tutta la sua spacconeria, ‘Ben Nitay’ era ancora confuso in pieni anni ’70. Tenne occasionali discorsi nella zona di Boston a favore del governo israeliano, che riconobbe in lui un elemento prezioso per la sua esperienza nelle forze speciali, per il suo accento americano, per il bell’aspetto e, non da ultimo, per la sua predisposizione per l’hasbara – una parola ebraica che significa difendere Israele attraverso una presentazione notevolmente selettiva dei fatti. Ma a 25 dollari a discorso, l’hasbara non lo ripagava delle spese, o non ancora, per cui Netanyahu si mantenne con il suo lavoro di consulente e, per un breve periodo, come direttore commerciale per un produttore di mobili in Israele. La sua vita privata  era un disastro. Il suo matrimonio finì poco dopo la nascita della figlia Noa nel 1978, quando Weizmann venne a sapere della sua storia con Fleur Cates, una donna anglo-tedesca che aveva incontrato nella biblioteca della facoltà di economia di Harvard e che in seguito sposò.

Netanyahu rimase nell’ombra di Yoni, il figlio favorito: si impegnò nella supervisione della pubblicazione delle lettere di suo fratello e nella costituzione di un gruppo di ricerca intitolato a lui. L’elezione di Menachem Begin nel 1977, che portò al potere il Likud e preannunciò un grande riassetto nella politica israeliana a favore della Destra, avrebbe dovuto migliorare le sue prospettive. Ma Begin, l’ex-comandante della milizia “Irgun” e seguace di Jabotinsky, considerava il padre di Bibi “un borioso parolaio che aveva preferito una comoda vita negli Stati Uniti”, e guardava con sospetto al suo figlio yordim [espatriato]. Quando Begin acconsentì a ritirarsi dal Sinai, Netanyahu vide la decisione come un tradimento, ma fu abbastanza calcolatore da non firmare nessuna petizione di protesta: la famiglia aveva bisogno del beneplacito di Begin per la prima conferenza internazionale dell’istituto “Jonathan”, tenutasi a Gerusalemme nel 1979.

Due anni più tardi il discorso di Netanyahu a quella conferenza gli diede la prima occasione in politica come vicecapo della missione diretta da Moshe Arens, il nuovo ambasciatore di Israele negli USA, un falco. Tanto edotto del pensiero di Ayn Rand quanto fluente in inglese, Netanyahu prosperò nella Washington di Reagan, dove l’economia ultraliberista e il sionismo revisionista erano i due pilastri di centri di ricerca di destra come l’”American Enterprise Institute” e la “Heritage Foundation”. Egli si abituò alle interviste davanti alle telecamere e imparò a “tenere l’occhio fisso sugli obiettivi mentre presentava la parte sinistra del suo viso, quella senza la cicatrice sul labbro”. (Netanyahu si tagliò il labbro superiore da bambino quando scivolò dalle braccia di Yoni mentre scavalcavano un cancello, un’altra ‘eresia’ eliminata dalla mitologia di Yoni.) “Giovane, di bell’aspetto e ostentando fiducia in se stesso” come lo presenta Pfeffer, si ingraziò i campioni di Israele nei media americani, da William Safire, un editorialista neoconservatore del “New York Times”, al più affabile sionista Ted Koppel dell’ABC, nel cui spettacolo, “Nightline”, fece frequenti apparizioni come ‘esperto di terrorismo’. Safire chiese ad Israele di nominare Netanyahu suo nuovo ambasciatore quando Arens sostituì Sharon come ministro della Difesa, dopo che Sharon fu obbligato a dimettersi in seguito al massacro di Sabra e Shatila [campi profughi palestinesi a Beirut in cui nel settembre 1982, durante la prima guerra di Israele contro il Libano, i miliziani cristiani massacrarono centinaia di civili con la complicità delle truppe israeliane, ndtr.]. Ma Yitzhak Shamir, il nuovo primo ministro, considerava Netanyahu “superficiale, vanitoso, autodistruttivo e prono alle pressioni.” Come diceva lui: “Il mare è il solito mare e Netanyahu è il solito Netanyahu.”

I ‘principi’ del Likud forse avevano poco tempo da dedicare a Netanyahu, ma egli ebbe successo nel corteggiare Shimon Peres, il dirigente laburista, che lo nominò ambasciatore alle Nazioni Unite nel 1984, dopo aver formato un governo di unità nazionale con Shamir. Appena Netanyahu si trasferì a New York fece richiesta di ristrutturazioni nella residenza dell’ambasciatore di fronte al Met [Metropolitan Museum of Art, ndtr.]. Egli visse nel lusso con Fleur all’hotel Regency finché l’appartamento fu pronto, e corteggiò ricchi ebrei newyorkesi come Ronald Lauder, che lo presentò ad altri miliardari, tra cui Donald Trump. Benché non praticante, strinse alleanza con il leader dei Lubavitcher [setta chassidica originaria della Bielorussia, ndtr.] Menachem Mendel Schneerson, che lo accolse nella sua residenza di Brooklyn e gli ordinò di “accendere una candela per la verità e per il popolo ebraico” in quella “casa di menzogne”, l’ONU.

Nel suo ruolo di ambasciatore, Netanyahu era poco più che un corretto professionista dell’hasbara – un “modesto demagogo”, nelle parole di Reuven Rivlin, segretario della sezione di Gerusalemme del Likud ed ora presidente di Israele. Ma trovò un alleato più utile in Moshe Arens, che nel 1988 convinse Shamir a nominarlo rappresentante al ministero degli Esteri. Netanyahu ingaggiò un collaboratore non ufficiale: Avigdor Lieberman [attuale ministro e capo di un partito di estrema destra, ndtr.], un colono estremista moldavo, di nove anni più giovane, un ex buttafuori di nightclub. Benché Arens fosse il suo capo, Netanyahu aveva difficoltà a controllarsi, al punto da denunciare la politica americana come “fondata su menzogne e distorsioni”.  James Baker, il segretario di Stato di George Bush, gli vietò di entrare nel dipartimento di Stato. “Ero offeso dalla sua disinvoltura e dalle sue critiche alla politica USA – per non parlare dell’arroganza e della sua bizzarra ambizione,” ricorda nelle sue memorie Robert Gates, allora vice consigliere per la sicurezza nazionale.

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Ma Netanyahu aveva come obiettivo impossessarsi del Likud, non la pace in Medio Oriente; si stava esibendo per il pubblico di casa. Il suo insieme di magniloquenza e calcolo funzionò. Durante la prima guerra del Golfo mise in relazione la minaccia degli attacchi iracheni con gas letale con le camere a gas naziste, e si mise una maschera antigas durante un’intervista con la CNN. Dovette trovarne una speciale, con il filtro di fianco, dato che quelle normali hanno un grande filtro sul davanti che non permette di ascoltare le parole di chi se le mette. “Devo dire che questo è il modo più stupido per fare un’intervista,” disse. “Tuttavia quello che mette in evidenza è la minaccia che Israele deve affrontare.” Di fatto, la minaccia che cercava di neutralizzare non era Saddam Hussein, ma il suo principale rivale nel Likud, David Levy, un ebreo marocchino che non parlava inglese e non aveva talento per l’hasbara.

Netanyahu quasi perse la sua lotta con Levy quando la sua nuova moglie, Sara Ben Artzi, una giovane hostess che aveva incontrato ad Amsterdam poco dopo la fine del suo matrimonio con Fleur, ricevette una telefonata da una fonte anonima che sosteneva di avere un video di lui che faceva sesso con un’altra donna. Cacciato dalla dimora del suo ultimo matrimonio e finito a casa dei suoi genitori, Netanyahu si dichiarò vittima di “un delitto senza precedenti nella storia della democrazia” e praticamente accusò Levy. Il matrimonio sopravvisse, grazie ad un accordo architettato da avvocati che concedeva a Sara pieno accesso alla sua agenda e il diritto di bloccare la nomina di ogni membro dello staff. E Netanyahu venne regolarmente eletto leader del Likud, con il 52% dei voti degli iscritti al partito. Si circondò di israeliani di destra che erano nati negli USA o vi avevano passato lunghi periodi: David Bar-Ilan, un pianista da concerto che era editorialista del Jerusalem Post [giornale israeliano in inglese e francese, all’epoca di destra, ndtr.], Dore Gold, un docente universitario del Connecticut che aveva scritto la sua tesi di laurea sull’appoggio dei sauditi al terrorismo (ora un argomento delicato, suppongo [si riferisce al recente avvicinamento tra Arabia Saudita ed Israele, ndtr.]), e l’intellettuale revisionista Yoram Hazony.

“Pochi politici hanno avuto una così lunga ed intensa carriera senza che le loro opinioni cambiassero,” scrive Pfeffer. Queste opinioni sono state espresse chiaramente con impressionante ampiezza nel libro del 1993 di Netanyahu “Un posto tra le Nazioni”, in cui (nell’utile riassunto di Pfeffer) egli sostenne che il conflitto arabo-israeliano non ha niente a che vedere con “palestinesi, confini o rifugiati. Non riguarda neanche Israele. Deriva da un odio implacabile di arabi e musulmani nei riguardi dell’Occidente, e di Israele come avamposto dell’Occidente in Medio Oriente”. Solo la “pace della deterrenza” farà rigare dritti gli arabi; un compromesso territoriale era impensabile, persino un tradimento. “Sei peggio di Chamberlain [primo ministro inglese che consegnò la Cecoslovacchia a Hitler pensando di salvare la pace, ndtr.],” disse Netanyahu a Rabin [primo ministro israeliano che firmò gli accordi di Oslo, ndtr.] nella Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], quando nell’agosto 1993 i colloqui di Oslo vennero rivelati per la prima volta. “Egli mise in pericolo un’altra Nazione, ma tu lo stai facendo con la tua stessa Nazione.” Pfeffer insiste che i discorsi di Netanyahu contro Rabin erano “misurati”, e lo difende dall’accusa di essere responsabile per la campagna di istigazione all’odio che portò all’uccisione di Rabin il 4 novembre 1995. “Pur cavalcando la tigre dell’estrema destra,” scrive, “in nessun momento Netanyahu utilizzò il vocabolario dell’estrema destra contro Rabin ed i suoi ministri.” Ma non ne aveva bisogno. Doveva semplicemente andare ai comizi in cui Rabin veniva chiamato assassino e traditore, e non dire niente. La vedova di Rabin, Leah, rifiutò di stringergli la mano durante i funerali di Stato: “Non lo perdonerò finché vivrò.”

Nelle elezioni del 1996, Netanyahu sconfisse di poco Peres, che aveva fallito la campagna contro Hezbollah, e la cui operazione “Furore” culminò con il bombardamento di una struttura dell’ONU nel sud del Libano [la cosiddetta strage di Canaa, ndtr.] e l’uccisione di più di cento civili che vi si erano rifugiati. “Per gli ebrei ci vuole Netanyahu” fu lo slogan della sua campagna. “Gli ebrei hanno sconfitto gli israeliani,” commentò Peres, un’amara allusione all’oscura mentalità da shtetl  [villaggi ebraici dell’Europa orientale, ndtr.]  che, secondo lui, isolava il revisionismo di Netanyahu dal fiducioso ethos sabra [gli ebrei nati in Palestina prima della nascita dello Stato di Israele, ndtr.] promosso da Ben-Gurion. Nel suo primo discorso, Netanyahu promise di incoraggiare “colonie d’avanguardia” e non tracciò distinzioni tra i due lati della Linea Verde che separava i confini di Israele prima del 1967 e i territori occupati: “I coloni sono i veri pionieri dei nostri giorni e meritano il nostro aiuto e la nostra stima.” I coloni del complesso di Gush Etzion [prima colonia costruita nei territori palestinesi occupati, ndtr.] presto avrebbero goduto dei benefici di una nuova strada e di un tunnel –creazione del ministro alle Infrastrutture di Netanyahu, Ariel Sharon – che permise loro un accesso diretto a Gerusalemme, evitando le città palestinesi.

Diventando primo ministro, Netanyahu aveva superato Yoni, ma suo padre non rimase impressionato: “Sarebbe stato un eccellente ministro dell’hasbara,” o “un ottimo ministro degli Esteri,” disse Benzion a un giornalista poco dopo le elezioni. Cosa ne pensa come primo ministro, chiese il giornalista: “Il tempo lo dirà.” Il primo mandato di Netanyahu fu burrascoso ed effimero come una prova di matrimonio. Si circondò di persone leali con poca o nessuna esperienza, tutte approvate da Sara, che egli “non cercò mai di contrastare.” (Lei si fece anche la fama di terrorizzare le bambinaie del loro figlioletto, Yair). Dopo il suo primo incontro con Arafat annunciò immediatamente la costruzione di 1.500 abitazioni per i coloni, e minacciò di chiudere il dipartimento dell’OLP a Gerusalemme est. Con un puro e semplice tentativo di affermare la sovranità ebraica su Gerusalemme, aprì l’uscita del tunnel di Asmodeo che unisce la via Dolorosa al Muro del pianto. Dato che l’uscita era nel quartiere musulmano della Città Vecchia, ciò era destinato a far infuriare i palestinesi, ma Netanyahu insistette che l’uscita “riguarda i fondamenti della nostra esistenza.” Il risultato fu una breve guerra, che lasciò un centinaio di palestinesi e 17 soldati israeliani uccisi. Pfeffer atrribuisce a Bibi il fatto di essere stato il primo dirigente del Likud ad aver ordinato il ritiro di truppe israeliane da una parte della “terra di Israele” quando accettò il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese su una parte di Hebron. Ma il ‘compromesso di Hebron’ lasciò lì 450 coloni ebrei con il controllo sul 20% della città, e migliaia di palestinesi ed il centro della città sotto occupazione militare.

Pfeffer sostiene che Netanyahu era detestato dalla sinistra in parte perché proveniva dallo stesso contesto askenazita [lett. “tedeschi”, ebrei originari dell’Europa centro-orientale, ndtr.] cosmopolita e secolarizzato, eppure condivideva le convinzioni dell’“altro Israele”, di cui facevano parte la classe operaia, i mizrahi [ebrei originari dei Paesi arabi o musulmani, ndtr.] e gli ebrei russi. Può darsi, ma la sua determinazione ad uccidere Rabin per la seconda volta, seppellendo ogni possibilità di accordo con i palestinesi, era più importante. Era irresponsabile quanto provocatore. Nel 1997 cercò di far avvelenare Khaled Meshal, il capo dell’ufficio politico di Hamas, ad Amman, violando l’ordine di Rabin di porre fine alle operazioni clandestine in Giordania, e danneggiando gravemente le relazioni di Israele con il suo unico reale alleato arabo.

Non solo Netanyahu venne obbligato a fornire l’antidoto che salvò la vita di Meshal, ma dovette anche rilasciare lo sceicco Ahmed Yassin, il leader di Hamas a Gaza, un grave colpo per Arafat, il presunto partner per la pace con Israele. “The Economist” [settimanale liberal-democratico inglese, ndtr.] definì Netanyahu il “pasticcione seriale di Israele”. Alla fine del suo primo mandato, aveva perso persino il rispetto della destra religiosa, il suo più prezioso alleato. Il rabbino Ovadya Yosef, il fanatico clericale nato in Iraq che guidava il partito Shas, lo definì “una capra cieca”.

Nelle elezioni del 1999 Netanyahu venne sconfitto da Barak, che corse con l’appoggio del rivale di Netanyahu nel Likud, David Levy. Solo pochi mesi dopo venne aperta un’inchiesta sul suo esorbitante appannaggio mensile per i sigari cubani e la stravagante ristrutturazione della residenza di Netanyahu che Sara, “la sua perfetta co-reggente”, aveva ordinato. Ma nel suo ultimo anno di governo Netanyahu fece una serie di mosse che lo avrebbero profumatamente ripagato. Mentre tranquillizzava Bill Clinton che il “Monicagate” [scandalo sessuale tra il presidente USA e Monica Levinsky, ndtr.] “si sgonfierà”, iniziò a comparire nei comizi degli evangelici tenuti da detrattori di Clinton come Pat Robertson e Jerry Falwell [pastori evangelici di estrema destra, ndtr.], forgiando l’alleanza tra Israele e gli evangelici che ora è un pilastro del mondo di Trump. E il seguace di Ayn Rand si reinventò come uomo del popolo, candidato, come lo raccontava lui, contro “i ricchi, gli artisti…quelle élite. Odiano chiunque…Odiano il popolo. Odiano i mizrahi, i russi, chiunque non sia come loro.”

Quel messaggio non funzionò nelle elezioni del 1999. Né Netanyahu si fece amici tra “il popolo” quando, come ministro delle Finanze di Barak [in un governo di unità nazionale, ndtr.], umiliò una madre single, elettrice del Likud, che aveva marciato dal Negev fino a Gerusalemme per protestare contro i tagli all’assistenza. (“Probabilmente fa jogging tutte le sere”). Ma, come sottolinea Pfeffer, l’uomo del marketing aveva una particolare intuizione su come la politica stesse passando dalle strade a internet, e dell’importanza fondamentale della comunicazione. Contrattò un nuovo consigliere, Ron Dermer, un consulente nato in America che sarebbe diventato famoso come “il cervello di Bibi”, e decise che aveva bisogno di un “suo personale media”. Il magnate americano dei casinò   Sheldon Adelson accettò, e nel 2007 creò  “Yisrael Hayom” (Israele oggi), un quotidiano gratuito di destra, al costo di circa 25 milioni di dollari all’anno. Per conservare la sua immagine di uomo del popolo, Netanyahu annullò la pubblicazione del suo manifesto per il libero mercato “La tigre israeliana”, per non inimicarsi i votanti colpiti dalla crisi finanziaria del 2008. (Non è mai stato pubblicato). E nel 2009 ritornò al potere, con Barak come suo ministro della Difesa. Il ministro degli Esteri – promosso a ministro della Difesa quando Barak diede le dimissioni – fu il suo vecchio amico, l’irriducibile colono moldavo Avigdor Lieberman, che sosteneva che i cittadini palestinesi di Israele dovrebbero essere obbligati a prestare un giuramento di fedeltà o perdere la cittadinanza.

Pfeffer afferma che Netanyahu “non è un guerrafondaio”, e che “nonostante le sue chiacchiere sullo scontro con la minaccia iraniana, è stato talmente prudente da non scatenare nessuna guerra – il che depone a suo favore.” È vero in parte. Netanyahu è un pragmatico di destra la cui principale preoccupazione è sempre stata di rimanere al potere; ha il senso del limite. Ma, come dimostra Pfeffer, ha il gusto del rischio calcolato, soprattutto quando si tratta dell’Iran, il cui programma nucleare è stato la sua ossessione negli ultimi due decenni. Nel 2010 Netanyahu e Barak ordinarono a Gabi Ashkenazi, il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, di mettere l’esercito in massima allerta, utilizzando il termine che in ebraico significa “alzare il cane della pistola”. Cedettero quando Ashkenazi ricordò loro che fare ciò sarebbe stato un atto di guerra, che in base alla legge richiede l’autorizzazione di tutto il governo. Nell’estate del 2012 progettò di avviare un attacco preventivo contro le strutture nucleari dell’Iran poco dopo un’esercitazione congiunta con l’esercito americano, e due settimane prima delle elezioni presidenziali USA. Un gruppo di ex-ufficiali dell’intelligence, che comprendeva comandanti di “Sayeret Matkal”, gli inviarono una lettera riservata avvertendolo del “terribile caos che ne sarebbe derivato in vari modi dopo l’euforia iniziale.” Barak sostiene che non aveva bisogno di essere convinto: attaccando poco prima di un’elezione, “avremmo piazzato una trappola politica per il presidente degli Stati Uniti.”

That president was, of course, Barack Obama, whom Netanyahu famously loathed (the feeling was mutual). Netanyahu lobbied furiously against Obama’s efforts to reach a peaceful agreement over Iran’s nuclear programme, most notably in his bellicose speech to a joint session of Congress in 2014. For this shameless defiance of Israel’s major patron, he received 26 standing ovations – in Jon Stewart’s words, ‘by far the longest blowjob a Jewish man has ever received’. There were side benefits to Obama’s Iran diplomacy, which, as Pfeffer notes, ‘saved Netanyahu from making progress with the Palestinians’. Even so, Netanyahu cast Obama ‘in the consciousness of the Israeli public as the nation’s enemy’. They didn’t require much persuading: the son of a Kenyan father with a Muslim middle name and a surname that rhymed with Osama, Obama cut a suspiciously Third World figure in a country where race prejudice runs deep, as not only Palestinian Arabs but African asylum-seekers and Ethiopian and Moroccan Jews can attest. Never mind that Obama had declared the American bond with Israel ‘unbreakable’: he had also described the occupation’s ‘daily humiliations’ as ‘intolerable’. Worst of all, in the minds of Netanyahu and his supporters, he had suggested that Israel was created because of the Holocaust, rather than because of the Jews’ ancestral claim to the land, tapping into Zionist anxieties about ultimate ownership rights.

Quel presidente era ovviamente Barack Obama, che notoriamente Netanyahu detestava (ricambiato). Netanyahu fece pesanti pressioni contro i tentativi di Obama per raggiungere un accordo pacifico sul programma nucleare iraniano, in particolare nel suo bellicoso discorso durante una sessione congiunta del Congresso nel 2014. Per la sua sfida senza pudore al maggiore protettore di Israele, ricevette 26 ovazioni – secondo Jon Stewart “in assoluto il più lungo pompino che un ebreo abbia mai ricevuto.”  C’erano vantaggi secondari per la diplomazia di Obama con l’Iran, che, come nota Pfeffer, “evitarono a Netanyahu di fare progressi [nei colloqui di pace] con i palestinesi.” Nonostante ciò, Netanyahu assegnò ad Obama la parte di “nemico della Nazione nella coscienza dell’opinione pubblica israeliana.” Non ci voleva molto per convincerla: figlio di un padre  keniota con un secondo nome musulmano e un cognome che fa rima con Osama, Obama era un personaggio sospettosamente terzomondista in un Paese in cui i pregiudizi razziali sono molto profondi, come possono testimoniare non solo arabi palestinesi, ma anche richiedenti asilo africani ed ebrei etiopi e marocchini. Non importa che Obama abbia dichiarato “indistruttibile” il legame dell’America con Israele: egli ha anche descritto le “quotidiane umiliazioni” dell’occupazione come “intollerabili”. Peggio ancora, nelle menti di Netanyahu e dei suoi sostenitori, ha insinuato che Israele è stato creato a causa dell’Olocausto, piuttosto che a causa dell’ancestrale rivendicazione degli ebrei sulla terra, andando a toccare le preoccupazioni sioniste sui definitivi diritti di proprietà.

Nella sua risposta al discorso di Obama, Netanyahu fece finta di riconoscere la necessità di uno Stato palestinese, ma la sua versione di un simile Stato corrispondeva a cantoni demilitarizzati e aggiunse una nuova precondizione: che prima che venisse raggiunto un qualsiasi accordo i palestinesi riconoscessero Israele come “Stato del popolo ebraico”. Israele non chiese mai all’Egitto o alla Giordania di concedere un tale riconoscimento, né Netanyahu fece lo stesso con la Siria quando cercò di aprire negoziati con Damasco durante il suo primo mandato come primo ministro. “Che bisogno abbiamo che i palestinesi, o chiunque altro, ci legittimino come Stato ebraico?” scrive (Ehud) Barak nelle sue memorie. “La tua retorica suggerisce che tu abbia una spina dorsale d’acciaio,” dice di aver detto a Netanyahu, “ma il tuo comportamento è una prova vivente del vecchio detto che sia più facile portare gli ebrei fuori dal galut” – la diaspora – “che portar fuori il galut dagli ebrei.” Secondo Barak, Netanyahu non sembrava tanto un primo ministro israeliano quanto un timoroso “rabbino di uno shtetl, o un oratore che cerca di raccogliere fondi per Israele all’estero.” Ma qui sta il punto: la nuova precondizione di Netanyahu era semplice hasbara. Sapeva che nessun dirigente palestinese – ancora meno un uomo vecchio, debole e screditato come Mahmoud Abbas –  avrebbe potuto riconoscere Israele come Stato del popolo ebraico, dato che ciò sarebbe stato come approvare il sionismo, il progetto che aveva lasciato i palestinesi senza uno Stato. Ma questo rifiuto poteva essere bollato come ‘rifiuto di trattare’ e invocato come pretesto per continuare a prendere tempo, e lui sapeva che Obama non aveva intenzione di imporre nessuna reale sanzione. Nella sua ultima intervista prima di morire, all’età di 102 anni, Benzion Netanyahu chiarì che suo figlio non appoggiava la creazione di uno Stato palestinese. “Non c’è posto qui per gli arabi, e non ce ne sarà. Non ne accetteranno mai le condizioni.” Quando nel 2014 fu candidato alle elezioni per un secondo mandato, Netanyahu promise che non ci sarebbe mai stato uno Stato palestinese, dato che sarebbe diventato solo un trampolino di lancio per l’’Islam radicale’. L’argomento giocò un ruolo importante tra gli ebrei israeliani già spaventati dalle turbolenze nel mondo arabo. La guerra in Siria non fece altro che confermare che, in un futuro prevedibile, le Alture del Golan rimarranno in mani israeliane.

I palestinesi pagano un caro prezzo per resistere all’occupazione, sia con la violenza che con la non-violenza. L’esercito israeliano lo chiama ‘falciare il prato’. Pfeffer descrive Netanyahu come “il primo ministro con la più bassa percentuale di vittime nella storia di Israele,” ma sta contando solo i morti israeliani. Nel 2014 nella sola guerra di Gaza più di duemila palestinesi vennero uccisi, due terzi dei quali civili, mentre il numero di morti israeliani si limitò a 64 soldati e 6 civili. La risposta di Netanyahu fu accusare Hamas di usare “i morti palestinesi in modo telegenico per la propria causa”. La maggioranza degli israeliani condivide questa opinione. Nel 2016 a Hebron, durante l’’Intifada dei coltelli’ di breve durata, il sergente Elor Azaria venne filmato mentre giustiziava un ferito sospetto [di aver accoltellato un soldato, ndtr.] di nome Abdel Fattah al-Sharif. Era steso a terra da 10 minuti quando Azaria gli sparò. Azaria venne condannato dal ministro della Difesa di Netanyahu, Moshe Yaalon, ma quando la maggioranza degli israeliani sembrò sollevarsi in sua difesa, Netanyahu cambiò atteggiamento, facendo una telefonata di solidarietà alla famiglia dell’assassino. Dopo nove mesi in prigione, Azaria è stato liberato.

*

II progressisti israeliani sono soliti consolarsi con l’idea che all’interno della Linea Verde [cioè in territorio israeliano, ndtr.] le cose fossero diverse: passare dalla Cisgiordania a Israele era come entrare nelle ricche praterie di una vivace democrazia. Ciò è sempre stata una favola: la democrazia israeliana non è mai rimasta immune dall’occupazione, o dal governo militare autoritario imposto ai palestinesi dal 1948 al 1966, un anno prima che l’occupazione iniziasse. Eppure i progressisti israeliani potrebbero ragionevolmente invocare le libere elezioni e una stampa vivace come prova della vitalità democratica nel Paese, almeno per gli ebrei. Sotto Netanyahu non solo l’occupazione è diventata ancora più dura, ma il confine tra Israele ed i territori occupati ha continuato a sfumare. Ahmed Tibi, un deputato palestinese della Knesset, ha spesso evidenziato che Israele è una democrazia per gli ebrei ma uno Stato ebraico per gli arabi. Con l’approvazione della nuova ‘legge fondamentale’, che dichiara Israele ‘lo Stato-Nazione del popolo ebraico’, ciò ora è iscritto nella costituzione dello Stato. Israele è ufficialmente diventato quello che è sempre stato nella pratica: una democrazia herrenvolk [del popolo superiore], in cui solo gli ebrei hanno pieno diritto di cittadinanza e i non-ebrei sono al massimo una minoranza tollerata, in cui un immigrato da Miami o da Mosca può spadroneggiare su un cittadino palestinese nativo la cui famiglia ha vissuto ad Haifa o a Nazareth per secoli. L’arabo, in precedenza lingua ufficiale, è stato declassato a idioma con ‘status speciale’.

Quelli che all’interno di Israele si oppongono all’occupazione o alle discriminazioni contro gli arabi non sono più critici, sono nemici. Giornalisti progressisti, artisti e professori di sinistra, ricercatori per i diritti umani, elettori arabi ‘che vanno in massa a votare’: a sentire Netanyahu c’è da immaginare un complotto interno contro Israele. “Abbiamo due nemici principali, il ‘New York Times’ e ‘Haaretz’,” ha detto Netanyahu durante un incontro privato. “Essi definiscono l’agenda della campagna contro Israele in tutto il mondo.” Quando Sara Netanyahu venne accusata di truffa e di abuso d’ufficio nel settembre 2017, dopo essere stata incriminata per aver speso illegalmente fondi pubblici per cene preparate da chef famosi, il figlio della coppia, Yair, postò su Facebook un cartone neonazista su cui aveva sovrimpresso i volti di chi criticava i suoi genitori.

Con tutta la sua ossessione nei confronti dell’antisemitismo dei palestinesi, Netanyahu ha assunto un atteggiamento più indulgente verso l’antisemitismo dei suoi amici. Quando Victor Orbàn lanciò una campagna antisemita contro George Soros, provocando le ire dell’ambasciatore israeliano a Budapest, Netanyahu difese il suo alleato ungherese contro Soros, critico dell’occupazione [dei territori palestinesi].  Né l’antisemitismo dei sauditi né l’appoggio saudita agli jihadisti in Siria ha impedito il crescente amore-che-non-osa-dire-il-suo-nome tra Tel Aviv e Ryad. E poi c’è Donald Trump, la cui campagna per le presidenziali è stata appoggiata dal patrono di Netanyahu, Sheldon Adelson, e che si è circondato di un inquietante entourage di ebrei di destra e nazionalisti bianchi. Puntando su Trump nelle elezioni del 2016, Netanyahu ha sfidato quello che a lungo è stato il più importante sostegno di Israele all’estero: gli ebrei americani, molti dei quali detestano Trump e erano turbati dalle notizie sull’antisemitismo di Bannon. Ma Ron Dermer gli garantì che Bannon era un convinto sostenitore di Israele, e ciò per lui era sufficiente. (Come Netanyahu, Bannon è stato cresciuto dal padre nella convinzione che la Reconquista, la vittoria dei cristiani sui mori in Spagna, avesse salvato la civiltà, e prefigurato il ritorno a Sion). Trump ha onorato Netanyahu lodando il muro di Israele come un modello del muro che spera di costruire sul confine degli USA con il Messico, e Netanyahu ha risposto a tono su Twitter. Ora l’America è a tutti gli effetti schierata con i coloni. L’apertura dell’ambasciata USA a Gerusalemme è stata festeggiata mentre decine di palestinesi disarmati venivano uccisi a Gaza. E la strada verso una guerra ancora più sanguinosa è stata aperta dal ritiro di Trump dall’accordo con l’Iran.

“Siamo proprio come te,” ha detto Sara Netanyahu a Trump. “I media ci odiano ma il popolo ci ama.” Ha ragione per metà: suo marito rimane popolare tra gli ebrei israeliani. Ma il ‘popolo’ di Trump include pochissimi ebrei americani, e l’alleanza di Israele con lui ha accentuato la divisione tra gli ebrei americani e lo Stato ebraico. Molti ebrei americani, persino alcuni liberal, erano disposti a ignorare, o a giustificare, le violazioni dei diritti umani contro i palestinesi da parte di Israele. Ma non sono disposti ad approvare la guerra contro gli immigrati, il divieto di ingresso ai musulmani o l’erosione della democrazia americana. La convergenza tra il populismo autoritario di Trump e il sionismo colonialista di Netanyahu ha ulteriormente evidenziato le contraddizioni tra le loro convinzioni progressiste e l’Israele attuale. Il risultato è stato una sinistra ebrea americana con nuova linfa e sempre più radicale. Bernie Sanders si è espresso eloquentemente contro le uccisioni da parte di Israele a Gaza, risparmiando ai suoi ascoltatori i luoghi comuni sulla sicurezza di Israele, e il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni è guidato, in parte, da “Jewish Voices for Peace” [“Voci ebraiche per la pace”, organizzazione americana contro l’occupazione, ndtr.]. Alcuni democratici ebrei rimangono fedeli sostenitori di Israele, ma sono sempre più in difficoltà, e il sostegno ad Israele tra i giovani ebrei americani è in declino.

Netanyahu non se ne preoccupa. Come ha spiegato recentemente Dermer al “New York Times”, i cristiani evangelici, che sommano “un buon quarto della popolazione, e sono forse 10, 15, 20 volte la popolazione ebraica,” ora costituiscono il ‘nocciolo duro’ del sostegno USA ad Israele. Le loro idee nei confronti degli ebrei non sono affatto tenere. Il reverendo Robert Jeffress, che ha pronunciato la preghiera iniziale per l’apertura dell’ambasciata a Gerusalemme, dice che “non puoi essere salvato se sei un ebreo.” Il reverendo John C. Hagee, il tele-evangelico che ha dato la benedizione conclusiva, ha descritto l’Olocausto come il modo in cui dio ha fatto in modo che gli ebrei “tornassero alla terra di Israele.” Netanyahu si deve ancora pronunciare su questa teoria dell’Olocausto, ma ha espresso l’opinione che gli ebrei americani sono destinati ad essere assimilati e a scomparire come i conversos spagnoli che suo padre disprezzava. Appoggiato da Trump e dagli evangelici sionisti, l’Israele di Netanyahu non ha bisogno degli ebrei, per lo meno non di quelli politicamente inaffidabili della diaspora.

Dove tutto questo porterà rimane incerto. Netanyahu, per il momento, sembra molto attivo, incoraggiato dai suoi legami con Trump, dall’espansione del commercio con l’Asia e dalla complicità dei regimi arabo-sunniti. La posizione strategica di Israele non è mai stata così forte, o i suoi vicini così deboli. Ma le scene dei manifestanti disarmati uccisi dai cecchini israeliani a Gaza sono un richiamo allo scontento che giace sotto la superficie. Con Netanyahu, Israele ha accumulato un consistente conto di sangue e lacrime. Come la carta di credito di sua moglie, prima o poi dovrà pagarlo.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Con le nuove leggi, Netanyahu sta sequestrando l’ebraismo che conosciamo

David Sarna Galdi

22 luglio 2018 , +972

Il leader della più grande popolazione ebraica del mondo sta abbandonando consapevolmente l’identità ebraica moderna per inaugurare un nuovo ebraismo. Quale? Basta guardare alle leggi dello Stato Nazionale Ebraico e sull’olocausto.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha suscitato le ire del mondo ebraico all’inizio di questo mese quando è apparso alla televisione nazionale per annunciare il suo sostegno a una versione modificata della controversa legge sull’olocausto polacca, una trovata inventata dal governo anti-democratico della Polonia per ottenere il favore della sua base di destra.

La legge mette in serio pericolo la libera discussione sull’Olocausto e presenta una narrazione ripulita del comportamento polacco durante la seconda guerra mondiale: le autorità polacche e la maggior parte dei civili avrebbero fatto di tutto per salvare gli ebrei e il tradimento di un ebreo da parte di un polacco sarebbe una rara anomalia.

I politici di tutto l’arco parlamentare israeliano hanno attaccato il primo ministro. Lo Yad Vashem, il Museo israeliano dell’Olocausto, ha espresso un ufficiale dissenso, mentre lo storico dell’Olocausto Yehuda Bauer, vincitore di un premio Israele, ha lanciato l’accusa più grave, definendo la legge un “tradimento” e una “completa menzogna”.

Poche settimane dopo, Netanyahu ha spinto per l’approvazione alla Knesset della controversa Legge dello Stato Nazionale Ebraico, nonostante le accese e negative reazioni pubblica e istituzionale. La legge è di buon senso in superficie, riaffermando il carattere ebraico di Israele. Lascia subdolamente fuori, tuttavia, qualsiasi impegno alla parità dei diritti, legalizza la preferenza per gli insediamenti ebraici e declassifica lo status dell’arabo da lingua ufficiale dello stato. 

In parole povere, è un gratuito attacco ultranazionalista – una legge razziale che istituzionalizza la discriminazione contro le minoranze di Israele, in particolare gli arabi, che costituiscono il 20% della popolazione. Prima che passasse, migliaia di manifestanti si sono radunati a Tel Aviv per protestare. Un’associazione di 14 organizzazioni ebraiche americane ha ufficialmente espresso la propria disapprovazione e personalità politiche di tutti i partiti si sono opposte alla legge.

La tempistica di queste due leggi apparentemente non correlate esprime il silenzioso colpo di stato di Netanyahu: la revisione calcolata e radicale di ciò che significa essere ebreo.

Abbandonare l’Ebraismo

L’identità ebraica è drasticamente cambiata due volte nella storia. Una prima volta, quando l’esilio trasformò la nazione ebraica in una minoranza dispersa e frantumata, suscettibile sia all’antisemitismo che alla riuscita assimilazione nella diaspora. Gli ebrei cominciarono a guardare, parlare e pensare in modo diverso, in base alla cultura ospite. Alla fine, gli ebrei yemeniti sembravano yemeniti e gli ebrei polacchi, polacchi.

Il progetto sionista ha ridefinito l’ebraismo ancora una volta. Ha cancellato l’immagine dell’ebreo come vittima indebolita e curva nel ghetto, imbastardita dall’esilio. Ha cercato di trasformare ebrei profondamente diversi e lontani in una potente nazione di forti lavoratori / combattenti che parlano una sola lingua.

Dopo l’Olocausto, Israele fu naturalmente ritenuto garante della sicurezza ebraica e rappresentante dei valori ebraici. I leader israeliani della Diaspora, come Moshe Dayan, emblematico generale e ministro, hanno detto chiaramente che il loro governo “non dovrebbe rappresentare solo il popolo di Israele, ma gli interessi di tutti gli ebrei”.

Ma con Netanyahu al timone, Israele ha ripetutamente e intenzionalmente sputato sull’ebraismo mondiale e sulla sua sensibilità. Il risultato? A cinquant’anni dall’euforia che seguì la Guerra dei Sei Giorni, il lontano sionismo idealistico degli ebrei della diaspora zoppica come un cane a tre zampe. Un recente studio del ‘Pew Research Center’ ha rilevato che solo il 35% degli ebrei americani tra il 18 e il 50 anni ha identificato Israele come parte fondamentale della propria identità ebraica.

Un’identità mutata

Non è una coincidenza. Netanyahu ha gettato i dadi e preso la calcolata decisione di abbandonare non solo gli ebrei americani in disaccordo con l’agenda populista in ascesa in Israele, ma proprio l’ebraismo stesso.

Cioè, l’ebraismo come lo conosciamo: ebraismo progressista, erudito, in dialogo con il mondo esterno per migliaia di anni. L’ebraismo le cui maggiori opere e innovazioni si sono sviluppate a Babilonia, in Spagna e in Polonia. L’ebraismo intellettuale che ha assorbito e impollinato l’Illuminismo (Mendelssohn); la filosofia (Buber, Scholem, Marx, Frankl, Arendt); i movimenti americani per l’uguaglianza dei diritti (Steinem, Friedan, Milk); e la cultura (Gershwin, Berlin, Streisand, Mailer, Allen, Marx, Polanski). Un ebraismo tollerante con la sensibilità dello straniero che “ama lo straniero”, come raccomandato 36 volte nella Torah.

Netanyahu vuole buttare tutto questo nel cestino della storia. Vuole mutare l’identità ebraica in hubris ebraica e trasformare Israele nella fortezza murata di una etnocrazia illiberale.

Come altro spiegare l’approvazione di Netanyahu per una maligna legge polacca che dissacra l’Olocausto? Come capire il tradimento di Netanyahu nei confronti degli ebrei riformisti e conservatori nel più sacro spazio comunitario dell’ebraismo? Come spiegare che nel 2016 Netanyahu ha ignorato le lodi del presidente Trump per i neo-nazisti americani e le oltre 190 minacce e attacchi antisemiti negli Stati Uniti? Queste domande hanno acquistato ulteriore rilievo in questa settimana, in cui Netanyahu ha dato il benvenuto al primo ministro ungherese Viktor Orban in visita ufficiale, nonostante la sua retorica antisemita e il suo apprezzamento per politici alleati dei nazisti.

Solo l’anti-ebraismo di Netanyahu può spiegare il nuovo fenomeno di leader come John Hagee, Richard Spencer o per l’appunto Orban, che sono pro-Israele e contemporaneamente denunciati come antisemiti.

Ci sono voci secondo cui la resa di Netanyahu alla legge sull’olocausto fa parte di un quid-pro-quo ideato per trasferire le ambasciate dell’Europa orientale a Gerusalemme. Ci sono ragioni diplomatiche e politiche per tutte le azioni di Netanyahu – ma c’è anche un quadro più ampio. Il leader della più grande popolazione ebraica del mondo sta abbandonando consapevolmente – se non attaccando – l’identità ebraica moderna per inaugurare un nuovo ebraismo. Di che tipo? Basta guardare alle leggi dello stato- nazione ebraico e sull’Olocausto.

Lo stop all’ebraismo di Netanyahu legalizza il furto di terra, limita la libertà di parola della sua stessa gente, maltratta i rifugiati africani, demolisce le comunità israeliane-beduine, discrimina le coppie omosessuali, esclude gli ebrei di sinistra dall’entrare in Israele e mitizza un soldato condannato di omicidio colposo. Non rispetta la lingua delle minoranze native perché è razzista. Demonizza la stampa perché teme la verità. Finanzia la giudaizzazione di Gerusalemme Est e della Cisgiordania perché è avido e deve cancellare le tracce di qualsiasi narrativa in competizione. Si oppone ai matrimoni LGBT o a qualsiasi matrimonio civile perché è governato da un’intollerante egemonia ortodossa.

Netanyahu immagina il futuro dell’ebraismo non come una piazza con molte differenze, influenze e dibattiti, ma piuttosto come un uccello raro e feroce che sopravvive in gabbia ed è estinto ovunque al di fuori di essa.

David Sarna Galdi è stato redattore del quotidiano Haaretz. Lavora a Tel Aviv per un’organizzazione senza scopo di lucro.

(traduzione di Luciana Galliano)

 




‘Per molti giovani ebrei americani l’asse Trump-Bibi [Netanyahu] è il nemico’

Edo Konrad

2 Luglio 2018, +972

Bradley Burston ribadisce che le sue opinioni su Israele non sono cambiate da quando si è trasferito qui negli anni ’70. È Israele che è cambiato. ‘Mi piacerebbe avere due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani hanno detto ‘non puoi averli’, e loro governano il Paese’, dice in un’ intervista ad ampio raggio su Israele, sulla Nakba e sulle trasformazioni nella comunità ebraica americana.

Tra gli ebrei americani ci sono sempre state correnti di dissenso a proposito di Israele. Dopotutto, sono stati gli ebrei americani progressisti, radicalizzati dalla nuova sinistra degli anni ’60, che sono diventati l’avanguardia della sinistra ebraica americana, che chiedeva che il governo di Israele tenesse colloqui con l’OLP, decenni prima che questo divenisse la politica israeliana. Sono stati gli ebrei americani che, dieci anni dopo aver manifestato contro la guerra in Vietnam, hanno incominciato a protestare di fronte alle ambasciate e ai consolati israeliani durante la prima guerra del Libano.

Decenni dopo, stiamo sentendo parlare spesso dei mutati rapporti tra gli ebrei americani ed Israele, sia da parte di chi si sente deluso, tradito dalle storie e mitologie diffuse dalle proprie stesse comunità, sia da parte di chi semplicemente si allontana del tutto dallo Stato ebraico.

Ciò di cui sentiamo parlare molto meno sono gli ebrei americani progressisti che hanno scelto di vivere in Israele. Cosa provano oggi riguardo a Israele gli americani con cittadinanza israeliana, soprattutto quegli influenti intellettuali che hanno contribuito ad informare molta gente sui cambiamenti che ribollono tra i loro parenti rimasti negli USA?

Per Bradley Burston, far sentire la propria voce ebraica americana è diventata una specie di missione – anche quando nessuno la ascoltava veramente. Burston è diventato una delle voci più importanti del sionismo progressista (lui rifiuta questo termine, definendosi “qualcosa di più di un personaggio-etichetta”), attraverso la sua rubrica su Haaretz, “Un posto speciale all’inferno”. Molto prima che ‘SeNonOra, Voci ebraiche per la pace’, J Street e Peter Beinart [giornalista liberal americano, ndtr.] sollevassero il coperchio di una crisi latente tra gli ebrei americani e Israele, i suoi scritti sono stati un rifugio per chi si sentiva preso in mezzo tra i propri valori e Israele.

Più la dittatura militare sui palestinesi si consolidava, più le rubriche di Burston diventavano taglienti, mettendo in guardia gli israeliani – ed i loro paladini ebrei americani – sulle sue tragiche conseguenze. Perciò è piuttosto incredibile sentire Burston dichiarare che le sue opinioni riguardo a Israele non sono cambiate dal 1971. Dopotutto, soprattutto per la sua indignazione, il suo nome è diventato sinonimo di una tendenza di sionismo liberale che ha lottato per continuare ad essere significativo nell’era Natanyahu – che crede nella soluzione di due Stati, in uno Stato ebraico che rispetti e dia importanza alle sue minoranze, e in un sano rapporto con il resto del mondo.

Nonostante le sconfitte politiche e le speranze svanite per i due Stati, Burston crede comunque che, in fondo, la maggioranza degli ebrei americani sia d’accordo con quell’ipotesi.

La maggioranza degli ebrei americani vuole vedere una democrazia qui, e sono terribilmente a disagio per come stanno andando le cose”, dice l’originario di Los Angeles, mentre siamo seduti per un’intervista a Giaffa, dove vive. “Sono preoccupati per la questione dei richiedenti asilo e per il rapporto tra Israele e la comunità ebraica americana. Per molti giovani ebrei americani, se non per la maggioranza, l’asse Trump-Bibi è davvero il loro nemico.”

Eppure, sulla questione palestinese, Burston crede che la maggior parte degli ebrei americani abbia ancora una strada da percorrere. E’ un processo lento, dice, ma è solo questione di tempo. “(Gli ebrei americani) hanno subito il lavaggio del cervello in modo da credere che gli israeliani sappiano qual è la cosa migliore. Ma è solo una questione di tempo. Se Netanyahu si aliena gli ebrei americani su una questione dopo l’altra, le cose cambieranno. Io spero che stiamo andando verso una situazione migliore – più sostenibile.”

Questo Paese è enormemente cambiato da quando ci sono arrivato a metà degli anni ‘70”, dice, lisciandosi la barba sale e pepe, come usa fare quando è immerso nei pensieri. “Eppure credo ancora in ciò in cui ho sempre creduto: che la soluzione migliore al conflitto israelo-palestinese sia quella dei due Stati, uno accanto all’altro. Il problema è che non penso sia più possibile.”

Come sei arrivato a renderti conto che non ci sarà una soluzione dei due Stati?

Mi piacerebbe che ci fossero due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani hanno detto ‘non può essere’, e loro governano il Paese. Quando Netanyahu vinse le elezioni nel 2015 dopo una campagna razzista – è stato allora che ho capito che era finita. Ma non sarà per sempre.”

L’idea di uno Stato ebraico e democratico è sostenibile nel lungo termine?

Credo che ci possa essere una confederazione che renda possibile uno Stato ebraico e democratico. Non voglio buttare il bambino con l’acqua sporca, ma ritengo che ci sia qualcosa di positivo nella cultura ebraica e nel suo rinnovamento.

Bisogna ricordare che sta accadendo qualcosa agli ebrei in Israele – che vengano a viverci o no –  che è estremamente potente. Non si tratta dell’acqua sporca. L’acqua sporca è fascismo, è il dominio su un altro popolo. Per Netanyahu l’acqua sporca è l’essenza di questo Paese.”

Hai scritto che l’ideologia dominante del Paese è diventata simile al razzismo. Ti identifichi ancora come sionista?

Non sono sicuro di averlo mai fatto. Non ho alcun problema rispetto all’esistenza di uno Stato ebraico. Ho problemi con uno Stato ebraico oppressivo. Ho problemi con uno Stato ebraico che sopprime i propri tratti democratici. Ho problemi con uno Stato ebraico che è esclusivamente per ebrei di ogni genere. Se sionismo equivale al sostegno alle colonie o all’espulsione dei richiedenti asilo, diventa estremamente facile per me rispondere alla domanda. Se ciò è quello che [il sionismo] è, allora non sono sionista.”

Gli ebrei americani sono più che mai propensi a parlare della Nakba e dell’espulsione dei palestinesi. Come si possono conciliare idee progressiste come l’uguaglianza con la storia di come è stato fondato questo Paese?

La verità è che si tratta di un’incredibile confusione. Benny Morris ha condotto un immane studio su ciò che accadde nel 1948 e ciò che si capisce leggendolo è che ci furono circostanze di vera nobiltà e circostanze di tremende atrocità. Improvvisamente la gente ha avuto l’opportunità di essere sé stessa ed in molti casi questo ha portato ad un risultato terribile, in altri casi no.

È la tempesta perfetta. Gli ebrei erano legittimamente preoccupati di essere nuovamente sterminati. Se sono convinto che tutti stanno cercando di uccidermi, divento tremendo nei loro confronti. Ci sono abbastanza persone propense a dire che vogliono uccidere gli ebrei e che noi non abbiamo il diritto di stare qui, da fornire agli israeliani la giustificazione per usare modi terribili verso di loro.”

Questa mentalità è rimasta tale dal 1948?

Sì, e questo spiega perché oggi agli israeliani non importa nulla dei palestinesi uccisi al confine con Gaza. È stata l’idea geniale di tagliare ogni contatto tra israeliani e palestinesi, perché se davvero vuoi che la gente detesti e tema il campo avverso, allora devi assicurarti che non vi siano contatti. Ora noi non vediamo mai l’altra parte. Se io penso che l’altra parte mi vuole morto, farò cose terribili.

Nel bene o nel male, molti degli ebrei che sono venuti qui lo hanno fatto perché credevano profondamente in questo posto, di appartenere a questo posto, anche se non lo avevano mai visto. Proprio come i palestinesi che conservano le loro chiavi, che sono anch’essi di qui. L’ebreo estone che non poteva essere apertamente ebreo nell’Unione Sovietica – era di qui. Era disposto ad andare in prigione per vivere qui.”

Ma perché questo dovrebbe importare al palestinese che conserva la sua chiave?

L’unica cosa che non possiamo fare è rimuovere ingiustamente la portata del coinvolgimento totale ed emotivo di entrambe le parti rispetto a questo luogo. È il loro luogo, per entrambe le parti. E questo è il problema. Deve esserci qualche ragione per cui questo è il luogo più terribile del mondo eppure ha presa su di noi. In parte è una sorta di lavaggio del cervello che fa parte della cultura israeliana, ma non si tratta solo di questo. C’è qualche elemento mistico qui, a cui la popolazione è indissolubilmente legata. Il governo non può rovinare tutto.”

* * *

Alcune settimane dopo la nostra prima intervista, in un solo giorno i cecchini israeliani sul confine di Gaza hanno ucciso oltre 60 manifestanti che chiedevano il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, e ne hanno feriti altri mille. Sono tornato ed ho chiesto a Burston se la carneficina avesse cambiato qualcosa per lui.

Non so come conviviamo con noi stessi, sapendo quello che sta accadendo a persone che sono praticamente vicine di casa. Non sto parlando in particolare dei morti e feriti nelle proteste della ‘Marcia del Ritorno’. Sto parlando di anni e anni che le hanno precedute. L’assedio di Gaza è stato ed è un terribile errore, il peggior errore che Israele ha fatto negli ultimi 12 anni, non solo in termini morali, ma anche tattici e strategici, per il futuro di Israele e dei palestinesi. Il governo lo sa.

Ma il governo ha troppa paura per fare qualcosa in proposito. L’esercito fa continue pressioni su Netanyahu per promuovere gli aiuti umanitari e lavorare con la cooperazione internazionale per ricostruire le infrastrutture essenziali che abbiamo bombardato fino a distruggerle, impianti energetici, impianti di depurazione, il sistema di acqua potabile. Ma Netanyahu ha troppa paura. È troppo occupato a guardarsi le spalle e a cercare di dimostrare che ha più testosterone di Bennett [ministro dell’Educazione e leader del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.], il quale cerca di dimostrare la stessa cosa riguardo alla propria virilità rispetto a Lieberman [ministro della Difesa e leader di un altro partito di estrema destra nazionalista “Israele Casa Nostra”, ndtr.].”

C’è un’altra cosa per cui mi dispero. Per alcuni leader della destra israeliana un alto numero di vittime palestinesi può in realtà essere considerato come una risorsa politica. Un sondaggio condotto dopo il massacro delle prime marce ha mostrato che il 100% degli intervistati che ha votato per il partito ‘Ysrael Beiteinu’ [‘Israele casa nostra’, ndtr.] del ministro della Difesa Lieberman approvava le azioni dell’esercito. Il cento per cento.”

* * *

Non pensi mai di tornare in America?

C’è stato un periodo durante la seconda Intifada in cui eravamo terrorizzati per la nostra personale incolumità o di lasciare che nostra figlia prendesse l’autobus a Gerusalemme. Ma penso che ci sia qualcosa che ci trattiene qui. Chiunque sia qui e sia un progressista deve essere un rivoluzionario completamente matto, perché altrimenti come potrebbe sopportarlo?”

Eppure la sensazione è che le cose stiano andando peggio.

Io spero ancora in qualcosa di meglio. Quando sono venuto in Israele ho detto ‘ci vado per un anno e poi vedo che cosa succede’.”

E hai continuato a dirlo da allora.

Esattamente. Ogni anno, più o meno ad ottobre, dico ‘E va bene, gli concedo ancora un anno’, ed eccomi qui.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele ha segnato uno “spettacolare autogol” con un’umiliante sconfitta ad opera del BDS

Middle East Monitor

7 giugno 2018

Politici israeliani si stanno incolpando a vicenda per l’imbarazzante sconfitta di martedì che ha visto l’Argentina annullare il proprio incontro di calcio con Israele. Secondo il “Times of Israel” [giornale israeliano on line indipendente, ndt.], nel contesto della sconfitta, il primo ministro Benjamin Netanyahu e la sua solitamente fedele ministra della Cultura e dello Sport Miri Regev si sono reciprocamente incolpati della decisione di tenere la partita a Gerusalemme, la mossa che si pensa abbia contribuito alla decisione dell’Argentina.

Mentre Regev e Netanyahu hanno seguito il solito copione e attribuito l’annullamento da parte dell’Argentina al terrorismo palestinese, in Israele le accuse sono reciproche. In particolare Regev sta ricevendo tutte le colpe per quello che gli stessi partiti dell’opposizione al governo israeliano hanno descritto come un evidente tentativo da parte della ministra dello Sport di politicizzare l’incontro spostandolo a Gerusalemme.

Parlando ieri, sia Netanyahu che Regev hanno negato che il luogo della partita abbia a che vedere con l’annullamento, ma ognuno di loro dice anche che l’altro è stato responsabile per il cambiamento di sede. Netanyahu, che si trova a Londra, ha detto che è stata Regev a decidere di spostare la partita a Gerusalemme. “Io non ho sollecitato o chiesto che la partita fosse spostata a Gerusalemme. Non so niente dei tentativi che sono stati fatti”, ha detto Netanyahu.

In contemporanea con la conferenza stampa nel Regno Unito e apparentemente all’oscuro delle dichiarazioni del primo ministro, Regev ha dato una versione molto diversa degli avvenimenti. Durante un’intervista con un giornale israeliano ha detto: “È stato il primo ministro a mandare una lettera al (presidente argentino Mauricio) Macri quattro mesi fa chiedendo che venissero a giocare a Gerusalemme.”

In precedenza alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] c’era stata un’infuocata discussione sulla figuraccia nazionale. Ad alcuni parlamentari è stato detto che Regev avrebbe accettato di pagare agli organizzatori 730.000 dollari per spostare l’incontro da Haifa a Gerusalemme a condizione che alla ministra venisse attribuito un “ruolo attivo” nell’evento, compresa una stretta di mano con Messi in campo e una conferenza stampa.

Politici dell’opposizione hanno accusato Netanyahu e Regev di aver politicizzato la partita insistendo perché avesse luogo a Gerusalemme. Secondo il “Times of Israel” Isaac Herzog, capo dell’opposizione, in un comunicato ha affermato che Israele ha segnato uno “spettacolare autogol” a favore del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) [contro Israele, ndt.], contestando affermazioni secondo cui la posizione internazionale di Israele sta migliorando e descrivendo la decisione dell’Argentina come “un fallimento simbolico di un governo che sta nascondendo la testa nella sabbia”.

La deputata dell’”Unione Sionista” [coalizione di centro, all’opposizione, ndt.] Tzipi Livni ha detto che l’annullamento è stato il prodotto dell’“insistenza di Regev e Netanyahu di trasformare la partita da una manifestazione sportiva in una manifestazione di politica personale.” Regev, che pare sia stata estremamente amareggiata dall’umiliazione, ha fatto una scenata e ha chiesto che la competizione canora “ Eurovisione” del prossimo anno [che si terrà in Israele, in quanto Paese che ha vinto quest’anno, ndt.] si tenga a Gerusalemme, che pare essere un altro tentativo da parte dell’esponente politica israeliana di trasformare un evento culturale in una presa di posizione politica.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Li mandavano alla guerra

Luis Bruschtein

6 giugno 2018, Página 12

L’annullamento della partita che la Selezione nazionale [argentina] avrebbe dovuto giocare questo sabato a Gerusalemme est è stato il culmine di decisioni assurde di una politica estera da sciocchi. Il Medio Oriente è una zona di conflitti infiniti, ma che anche così ha conservato determinate regole del gioco. Non sarebbe stata la prima volta che la Selezione avrebbe giocato in Israele. Prima di ogni Mondiale la squadra nazionale ha giocato in quel Paese, qualcosa che aveva cominciato a diventare una specie di fatto scaramantico anche se aveva provocato proteste e discussioni. Però tutte le precedenti partite erano state ad Haifa o a Tel Aviv. Giocare a Gerusalemme est rompe tutti i precari equilibri che reggono le relazioni internazionali con le parti in conflitto. Implica prendere una posizione, impegnarsi come parte del conflitto a fianco di Israele.

Risulta quanto meno sospetto che il ministero degli Esteri non abbia cercato di impedire la realizzazione della partita per garantire per lo meno l’integrità fisica dei giocatori. Pur essendo alleati incondizionati di Israele, i presidenti degli Stati Uniti avevano resistito allo spostamento dell’ambasciata di questo Paese a Gerusalemme, come esigeva il governo di destra israeliano. Alla fine il 14 maggio Donald Trump ha spostato l’ambasciata, il che ha determinato il fatto che migliaia di palestinesi siano scesi in piazza per protestare. Ci sono stati circa 60 morti e migliaia di feriti a causa della repressione. Sono passate solo due settimane da quegli scontri. In quello scenario volevano che si giocasse una partita che di “amichevole” non aveva niente, e che semmai si poteva interpretare come un’aperta provocazione contro i palestinesi.

Israele ha occupato Gerusalemme est nel 1967. L’ONU non riconosce questa situazione dato che i trattati internazionali non ritengono Gerusalemme come parte di Israele, ma condivisa con la Palestina. In seguito all’occupazione di Gerusalemme est nel 1967, i governi e la destra israeliani hanno promosso una campagna di colonizzazione di quei territori occupati e hanno cercato di ottenere il riconoscimento internazionale. Anche all’interno di Israele questa politica espansionistica è messa in discussione da settori della popolazione. E a livello internazionale gli Stati Uniti hanno spostato la propria ambasciata dopo quasi 50 anni. Dopo l’iniziativa nordamericana il governo del Guatemala ha annunciato che seguirà i suoi passi e Washington gli ha promesso di pagare le spese.

Il governo israeliano ha promosso la colonizzazione di questi territori e l’espulsione dei cittadini palestinesi. A quelli che sono rimasti ha concesso lo status di residenti. Non sono neppure cittadini, abitanti che sono nati in quei territori così come il loro padri, i loro nonni e i loro antenati sono “stranieri”.

Ma la decisione unilaterale dei governi espansionisti israeliani non aveva avuto nessuna conseguenza internazionale finché pochi giorni fa Trump ha deciso di spostare la sua ambasciata. L’invito del governo di destra di Netanyahu alla squadra nazionale argentina non ha avuto niente di innocente perché dopo la sanguinosa repressione ci sarebbe stata la festa con una partita internazionale che Israele e Argentina avrebbero giocato nei territori occupati.

Non sarebbe la prima volta che il bellicoso governo di Netanyahu cerca di utilizzare l’Argentina per i suoi fini politici. Sia l’annullamento dell’accordo con l’Iran che la morte del procuratore Alberto Nisman [pubblico ministero molto discusso che stava facendo un’inchiesta sull’attentato contro un centro ebraico AMIA a Buenos Aires, che nel 1994 fece 85 morti e centinaia di feriti, e trovato ucciso in circostanze misteriose nel 2015. Nisman accusò Iran ed Hesbollah e la presidentessa Kirchner di complicità nell’insabbiamento delle prove, ndt.] sono stati usati da Netanyahu nella sua campagna internazionale contro l’accordo di pace che all’epoca stava firmando l’allora presidente nordamericano Barak Obama con il governo iraniano. E in questi due fatti ha lasciato il segno il servizio segreto israeliano, il Mossad, nel lavoro che ha fatto insieme all’ex SIDE diretto da Jaime Stiuso [collaboratore della dittatura militare e poi direttamente implicato nelle indagini di Nisman e con CIA e Mossad, ndt.]. Sono dettagli oscuri dietro le quinte, che includono viaggi, finanziamenti e informazioni false. In quell’occasione Netanyahu viaggiò negli Stati Uniti invitato dai Repubblicani e nel suo discorso a Washington usò la situazione argentina per mettere in dubbio il trattato di pace firmato da Obama.

È stato inusuale che un presidente straniero parlasse negli Stati Uniti contro il presidente di quel Paese. Netanyahu ha dimostrato di non avere scrupoli per intervenire nelle questioni interne di altri Paesi. Dopo gli attentati contro la rivista “Charlie Hebdo”, a Parigi, il governo francese gli chiese di non partecipare alla grande manifestazione di ripulsa che vi si tenne. La presenza del capo israeliano di destra era una provocazione per la popolazione islamica francese, al di là degli attentati. Il governo voleva abbassare la pressione di una situazione molto tesa. Però Netanyahu volle approfittare degli attentati a Parigi per la sua campagna elettorale e non gli importarono né le vittime né la situazione che provocava nel Paese ospite.

Anche i sostenitori di Macri durante la campagna elettorale hanno utilizzato l’accordo con l’Iran e la morte di Nisman. Sulla base di queste coincidenze il governo di Mauricio Marci ha rafforzato i rapporti con Benjamin Netanyahu con l’acquisto di materiale bellico israeliano per la repressione interna. Ci sono stati viaggi di protocollo della vice-presidentessa Gabriela Michetti e poi della ministra della Sicurezza Patricia Bullrich.

Nel contesto di questa relazione è emersa questa grave decisione diplomatica che poneva la squadra nazionale in un contesto di guerra a favore di una delle due parti in conflitto. È stata una decisione politica, oltre ai milioni di dollari che si è fatta pagare la AFA [Federación Futbolística Argentina, ndt.]. E nessuno ne ha discusso con i giocatori e con l’allenatore, né ha chiesto loro se fossero disposti ad assumersi questo impegno di carattere politico in mezzo a un conflitto.

I giocatori hanno cominciato a rendersi conto che li avevano messi in un gioco pericoloso quando hanno percepito il forte tono delle proteste che aveva provocato l’annuncio della partita. L’intenzione, inoltre, era chiara, perché gli stadi di Haifa e di Tel Aviv sono più grandi del “Teddy” di Gerusalemme. Il malessere, che già si era sentito in qualche commento, si è trasformato in preoccupazione. Ci sono state richieste perché si garantisse che nello stadio non fosse presente nessun politico israeliano. Però, quando si sono resi conto del carattere della partita, i giocatori e l’allenatore hanno dichiarato il proprio rifiuto.

È ovvio che non si è trattato solo dell’AFA e che c’è stato un intervento della presidenza e del ministero degli Esteri su richiesta del governo israeliano. Netanyahu è comparso solo quando è stata annullata la partita, però quelli che conoscono le sue ambizioni politiche danno per certo che è stata una sua idea. Prima non ha voluto che apparisse che stava facendo pressioni sul governo argentino e poi ha voluto presentare di fronte ai suoi elettori la cancellazione della partita come un atto antiebraico. Non è stato un atto contro gli ebrei, ma la reazione di fronte alla prepotenza di Netanyahu e ad una iniziativa irresponsabile del governo e del ministero degli Esteri argentino.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)

 




Pressioni palestinesi fanno annullare la partita amichevole Israele –Argentina a Gerusalemme per la coppa del mondo

Uzi Dann, Noa Landau e Jonathan Lis

6 giugno 2018,  Haaretz

L’ambasciata israeliana in Argentina afferma che la partita è stata cancellata a causa di “minacce e provocazioni” contro il fuoriclasse Messi – Higuain, della squadra argentina: “Alla fine hanno fatto la cosa giusta”

Mercoledì mattina presto l’ambasciata israeliana in Argentina ha confermato, citando minacce non meglio definite e provocazioni contro il fuoriclasse Lionel Messi, che la partita di pallone tra Israele e Argentina in programma sabato a Gerusalemme è stata annullata.

I media argentini hanno informato che le ragioni della cancellazione sono state le pressioni palestinesi e la richiesta dei più importanti calciatori della squadra argentina, compresi Messi e Javier Mascherano, di non venire in Israele. Il quotidiano sportivo argentino “Olé” ha affermato che la partita è stata cancellata in seguito a “minacce e polemiche”.

Su richiesta della ministra della Cultura [e dello Sport, del partito Likud, ndt.] Miri Regev, martedì notte il primo ministro Benjamin Netanyahu ha parlato con il presidente argentino Mauricio Macri, nel tentativo di evitare la cancellazione dell’incontro. Fonti dell’ufficio del primo ministro hanno affermato che in un’ulteriore conversazione Macri ha tuttavia informato Netanyahu di non essere in grado di influenzare la decisione finale.

Il quotidiano argentino “Clarín” ha informato che, secondo fonti ufficiali, Marci ha esaminato il problema con la federazione calcistica argentina ed ha appreso che “i giocatori non vogliono giocare in Israele a causa di minacce contro Messi.” Secondo l’articolo Macri si è scusato con Netanyahu e ha detto che le ragioni dei giocatori non erano politiche.

L’articolo afferma anche che Macri aveva intenzione di essere presente alla partita insieme ad una delegazione di uomini d’affari della comunità ebraica argentina.

Fine modulo

Il giocatore argentino Gonzalo Higuaín ha detto a ESPN [emittente televisiva Usa che si occupa solo di sport, ndt.] che “alla fine hanno fatto la cosa giusta. La ragione e l’incolumità fisica vengono prima di ogni altra cosa. Pensiamo che sia meglio non andare in Israele.”

La Federazione Calcistica Israeliana ha affermato di non aver ancora ricevuto una comunicazione ufficiale sulla cancellazione della partita e di essere stata in “contatto diretto” con i dirigenti della Federazione Calcistica Argentina e con la FIFA in seguito alla notizia. La Federazione [israeliana] ha attaccato il presidente della Federazione Calcistica Palestinese Jibril Rajoub, affermando che le sue minacce hanno “superato la linea rossa”.

Domenica Rajoub aveva invitato i tifosi a bruciare foto dell’attaccante Messi e copie della sua maglietta se avesse giocato la partita.

I palestinesi non erano contenti che la partita venisse giocata a Gerusalemme, e la scorsa settimana Rajoub aveva scritto a Claudio Tapia, il capo della Federazione Calcistica Argentina, accusando Israele di utilizzare la partita come “strumento politico”.

Negli ultimi giorni sono state esercitate pressioni su Messi e sulla Federazione Calcistica Argentina perché non giocasse a Gerusalemme, comprese manifestazioni a Buenos Aires e a Barcellona, davanti al campo di allenamento della squadra nazionale [argentina].

Nel suo account di twitter il ministro della Difesa Avigdor Lieberman [del partito di estrema destra nazionalista “Israele Casa Nostra”, ndt.] ha deplorato la decisione, scrivendo: “È molto grave che i calciatori dell’Argentina non abbiano resistito alle pressioni di quanti incitano all’odio contro Israele, il cui unico scopo è di influire sul nostro diritto fondamentale all’autodifesa e ottenere la distruzione di Israele. Non ci piegheremo di fronte a un branco di sostenitori del terrorismo antisemita.”

Mercoledì il ministro della Sicurezza Pubblica Gilad Erdan [del partito di destra Likud, ndt.] ha risposto su Israel Radio alla cancellazione. “Quello che è successo in verità non ha molto a che fare con il boicottaggio. C’è un buon rapporto di amicizia con l’Argentina, ottime relazioni. A causa delle violente istigazioni e minacce da parte di Jibril Rajoub e di tutta la pagliacciata delle magliette insanguinate [da parte dei manifestanti a Barcellona, ndt.] sono sorti timori per la sicurezza personale e i giocatori hanno iniziato a preoccuparsi di essere aggrediti fisicamente a Gerusalemme. Purtroppo prima di informarsi realmente hanno preferito lasciar perdere, il che significa piegarsi alla violenza e al terrorismo che i palestinesi stanno cercando di esercitare, ma guardiamo a tutto il quadro e non perdiamo il senso delle proporzioni.”

Il viceministro alla Difesa Eli Ben-Dahan [rabbino e parlamentare del partito di estrema destra dei coloni “Casa Ebraica”, ndt.] ha detto che “bisogna lottare contro il terrorismo,” chiedendo a Netanyahu di annullare il permesso di Rajoub per entrare in Israele. “Rajoub è un nemico spregevole,” ha detto, “(Israele) deve dichiarare nemici lui e tutta l’Autorità Nazionale Palestinese.”

Il deputato Izik Shmuli (Unione Sionista [coalizione di centro, all’opposizione, ndt.]) martedì notte ha parlato dell’annullamento dell’incontro, dicendo: “Invece di calcio, Miri Regev ha voluto la politica e questo ha avuto, e quelli che ne pagheranno il prezzo sono i tifosi che attendevano con tanta ansia la storica partita. Nonostante tutto, imploriamo ancora i giocatori dell’Argentina: è un errore. Venite per il calcio, lasciate perdere la politica.”

Anche il presidente della “Lista Unitaria” [coalizione di partiti arabo-israeliani nel parlamento israeliano, ndt.] Ayman Odeh ha fatto riferimento alla questione in un comunicato, affermando: “Il governo Netanyahu può conquistarsi Trump, ma sta perdendo il resto del mondo. Non puoi continuare a goderti le partite mentre i diritti di milioni di palestinesi sono calpestati. C’è un solo modo per vincere: porre fine all’occupazione e un reale trattato di pace. È ancora possibile.”

La deputata Haneen Zoabi (“Lista Unitaria”) ha salutato la decisione dell’Argentina, affermando che “tenere la partita mentre i soldati massacrano gli abitanti di Gaza è indecente e può essere visto come un’approvazione di ciò.” Anche il parlamentare Yousef Jabareen (“Lista Unitaria”) ha lodato la richiesta, aggiungendo che “il governo di destra deve capire che non può calpestare in modo crudele le risoluzioni dell’ONU e le sentenze delle corti internazionali e aspettarsi che il mondo lo ignori.”

Va notato che la squadra nazionale argentina fin dall’inizio non voleva giocare in Israele, ma preferiva prepararsi per i mondiali, che inizieranno tra nove giorni in Russia, a Barcellona.

Jorge Sampaoli, allenatore dell’Argentina, che non era interessato ad una partita in Israele, si era lamentato di nuovo di ciò negli ultimi giorni. Le possibilità che la squadra di Israele vada a Barcellona sono scarse e l’Argentina ha già iniziato a cercare un altro rivale per l’amichevole.

La gara spostata a Gerusalemme

Lo stadio “Teddi”, che si supponeva avrebbe ospitato la partita, è a Gerusalemme ovest. I palestinesi vedono la parte orientale della città come la capitale del loro futuro Stato che include la Striscia di Gaza e la Cisgiordania occupata da Israele.

Comunque lo status della città è in generale una questione molto sensibile. La partita era inizialmente prevista ad Haifa, ma le autorità israeliane hanno contribuito a stanziare fondi perché venisse spostata a Gerusalemme, irritando ulteriormente i palestinesi dopo il riconoscimento da parte del presidente USA Donald Trump della città come capitale di Israele. Lo scorso mese l’ambasciata USA è stata spostata lì.

Il governo israeliano ha trasformato una normale competizione sportiva in uno strumento politico. Come è stato ampiamente scritto nei media argentini, la partita ora si sta giocando per celebrare il 70^ anniversario dello Stato di Israele,” afferma una parte della lettera di Rajoub.

Domenica Rajoub ha lanciato una campagna contro l’Argentina e in particolare contro Messi, sottolineando che ha milioni di tifosi in tutto il mondo arabo e islamico, in Asia e in Africa.

È un grande simbolo, per cui noi stiamo prendendolo di mira personalmente e chiediamo a tutti di bruciare la sua foto e la sua maglietta e di abbandonarlo. Speriamo ancora che Messi non venga,” ha detto a giornalisti dopo aver lasciato la rappresentanza argentina nella città cisgiordana di Ramallah.

Un piccolo gruppo di giovani con la sciarpa della squadra di calcio palestinese ha manifestato fuori dall’ufficio di rappresentanza e ha tentato di dare fuoco a una bandiera argentina.

Rajoub ha a lungo tentato di fare in modo che l’associazione che governa il calcio mondiale, la FIFA, e il Comitato Olimpico Internazionale impongano sanzioni contro Israele. Ciò soprattutto a causa della politica di colonizzazione in Cisgiordania da parte del governo israeliano e perché ha imposto limitazioni ai viaggi degli atleti palestinesi adducendo preoccupazioni per la sicurezza. Questi enti non hanno accolto le sue richieste.

Dal 1986 l’Argentina ha tenuto in precedenza quattro incontri in Israele. La squadra è stata inserita nel gruppo D della coppa del mondo e inizierà i campionati contro l’Islanda a Mosca il 16 giugno.

Molti Paesi non riconoscono né la sovranità israeliana né quella palestinese su Gerusalemme e hanno l’ambasciata in Israele nella zona di Tel Aviv. Tuttavia il Guatemala e l’Honduras hanno seguito l’esempio degli USA spostando le loro ambasciate [a Gerusalemme] lo scorso mese.

La Reuter [agenzia di notizie Britannica, ndt.] ha contribuito a questo articolo.

[traduzione di Amedeo Rossi]




I settant’anni di Israele: perché ora la democrazia è in declino

Eyal Chowers

mercoledì 18 aprile 2018, Middle East Eye

L’uso del potere in Israele è ora separato dalla responsabilità. I semi sono stati piantati nel 1948?

In un discorso alla “Globes”, Israel Business Conference [“Conferenza sull’economia di Israele”, il più importante incontro annuale sull’economia del Paese, ndt.] a gennaio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha esposto la sua visione del mondo riguardo alle fonti di potere in Israele.

Innanzitutto, ha detto, gli israeliani hanno imparato a difendersi, sviluppando competenze militari che sono sempre più basate su nuove tecnologie innovative e sull’esperienza in anni di lotta contro il terrorismo.

In secondo luogo, ha sostenuto, Israele ha una florida economia in crescita, con tasse ridotte, un fiorente settore privato e sta avviando un’intensa liberalizzazione. Netanyhau ha citato con orgoglio specifiche imprese come quelle per la sicurezza informatica, per la produzione di parti computerizzate di automobili, per i programmi di salute digitale e per le tecnologie idriche.

Ha previsto che in termini di PIL pro capite Israele presto supererà il Giappone. (Il PIL pro capite di Israele è di 38.000 dollari, la disoccupazione è scesa a circa il 4% e le disuguaglianze economiche, benché ancora significative, si stanno riducendo).

Ha detto che, sulla base dei suoi successi economici e in termini di sicurezza, la terza risorsa di potere di Israele è rappresentata dalla sua reputazione e dai suoi rapporti nella comunità internazionale, che derivano principalmente dall’interesse per la sua economia basata sulla conoscenza e dalle competenze e tecnologie militari innovative.

Infine Netanyahu ha fatto riferimento alla creatività culturale di Israele: l’affascinante dialogo che ha luogo tra un antico passato e un presente che accoglie la contemporaneità. È un dialogo che in effetti contribuisce a un contesto di sviluppo della letteratura, dell’industria cinematografica e televisiva, della musica, della danza, dell’insegnamento e di molti altri settori. E Netanyahu ha ragione: a settant’anni Israele è più forte che mai.

Tuttavia Netanyahu non ha citato la democrazia come una delle quattro risorse di potere di Israele. Probabilmente non si tratta di una dimenticanza: Netanyahu non è Pericle, il padre della democrazia. Gli piace gloriarsi del fatto che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, ma quando si guarda a tutta la sua carriera, sembra che per lui la democrazia sia più un mezzo per incrementare il potere della Nazione che un nobile ideale valido in assoluto.

Netanyahu è stato la figura chiave nella politica israeliana fin dal 1996, ma in quel periodo non ha mai pronunciato un discorso rilevante sul valore del libero autogoverno, dei diritti individuali, del pluralismo e della tolleranza. Mentre Israele ha effettivamente prosperato in molti aspetti durante gli ultimi decenni – soprattutto grazie al suo popolo dotato e dinamico – la sua democrazia è seriamente in pericolo.

Ma forse i semi della sua attuale tormentata vita politica sono stati presenti fin dall’inizio.

Scrivere il futuro di Israele

Al giurista Zvi Berenzon, un giuslavorista che in seguito diventò giudice della Corte Suprema, venne chiesto di scrivere una delle prime bozze della Dichiarazione di Indipendenza di Israele. All’inizio del maggio del 1948 [quando venne fondato lo Stato di Israele, ndt.] le giornate erano caotiche e la guerra imminente. Era difficile capire il peso che le parole avrebbero avuto poche generazioni dopo.

Eppure Berenzon, con un insieme di preveggenza e ingenuità, suggerì che la dichiarazione includesse quanto segue:

“Noi, il congresso del popolo…con il presente atto annunciamo la fondazione dello Stato ebraico, libero, indipendente e democratico in Eretz Israel (la Palestina), all’interno dei confini definiti dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.”

Benché alcune delle proposte di Berenzon siano state inserite nella bozza finale della dichiarazione, i suoi suggerimenti di introdurre la parola chiave “democratico” e di specificare i confini del futuro Stato vennero respinti dai suoi superiori e dai dirigenti politici, in particolare da Moshe Sharet e da Ben Gurion.

Mentre questa settimana lo Stato di Israele celebra i settant’anni di indipendenza, pare che il principale conflitto con se stesso sia sintetizzato dalla frase eliminata e da tempo dimenticata di Berenzon.

Dal 1948, e soprattutto dopo la guerra del 1967, la domanda è diventata: può Israele occupare tutto il territorio tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano, sottomettere i palestinesi al governo militare e rimanere ancora democratico in modo significativo?

Dato che né la natura del governo né i confini internazionali furono chiaramente definiti dalla dichiarazione, emerse una pericolosa elasticità per mezzo della quale le istituzioni politiche, le leggi costituzionali e le norme democratiche poterono essere gradualmente adeguate per soddisfare l’interesse dell’espansione territoriale.

La direzione è chiara: ci sono circa 400.000 coloni ebrei in Cisgiordania (senza contare Gerusalemme). Politicamente ed ideologicamente, il loro potere sembra decuplicato. Ci si chiede se il grande slancio sionista verso l’antico passato ebraico e la scoperta di un lontano immaginario religioso non abbiano aperto il vaso di Pandora: dopotutto nella Bibbia Dio promette al suo popolo una terra santa, ma non cita, ahimé, la democrazia.

L’ironia sta nel fatto che ai giorni nostri l’ascesa del nazionalismo illiberale è diventata così pronunciata che la versione finale della dichiarazione – per quanto possa essere insoddisfacente – è diventata il principale punto di appoggio per quanti si impegnano a favore di una democrazia che rispetti l’universalità e l’uguaglianza dei diritti individuali e il ruolo di una minoranza nel plasmare le caratteristiche dello Stato.

La cultura politica israeliana non è basata sul linguaggio. Difficilmente ogni discorso, testo e proclama si radica nella memoria collettiva; piuttosto, il mondo israeliano è plasmato per lo più attraverso l’azione e la costruzione, non attraverso le parole, che sono spesso poco affidabili.

Ma forse la dichiarazione è un’eccezione a questa regola – o almeno ci sono quelli che, in mancanza di qualunque altro baluardo, la vedono come la migliore possibilità di difendere la propria visione relativamente liberale.

Dopo che Aharon Barak, l’ex-presidente della Corte Suprema – e forse la persona più rispettata tra i sionisti liberali – ha sostenuto che la dichiarazione rappresenta i fondamentali valori e fini dello Stato ebraico, in Israele si è sviluppato un dibattito molto acceso. La dichiarazione include un impegno a sostenere la libertà, la giustizia e la pace, così come diritti individuali, politici e sociali eguali per tutti. Esorta anche i cittadini palestinesi di Israele a partecipare alla costruzione dello Stato.

Barak ha affermato che, secondo le leggi e la tradizione giuridica israeliane, la dichiarazione, benché non considerata in sé un documento costituzionale, definisce il criterio più elevato in base al quale ogni legge deve essere valutata. Ciò include le “leggi fondamentali”, che sostituiscono una costituzione nazionale.

Tutti concordano,” ha detto Barak in un’intervista a Yediot Ahronot [il giornale israeliano più venduto, di tendenza centrista, ndt.] a febbraio, “che essa (la dichiarazione) definisce i criteri di base con cui dovrebbero essere interpretate le leggi e le leggi fondamentali.” Ha aggiunto che le leggi, comprese quelle fondamentali, devono essere studiate preventivamente in modo che siano coerenti con la dichiarazione.

La Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] è libera di determinare in una nuova legge fondamentale tutto quello che vuole o ci sono limitazioni costituzionali nel suo ragionare e nelle sue deliberazioni?” ha chiesto retoricamente Barak.

Sono in questione specificamente la proposta di una nuova legge sullo “Stato-Nazione ebraico” e la domanda se supererà la revisione giuridica della Corte Suprema.

Come la dichiarazione, che in parte potrebbe sostituire da un punto di vista costituzionale, la legge non menziona la democrazia come costitutiva dello Stato e dichiara il monopolio della nazione ebraica sulla sua natura e identità. Peggio ancora, non promette neppure pari diritti individuali a tutti i cittadini e consente di segregare comunità in base alla religione e/o alla nazionalità.

La Corte e la dichiarazione sotto attacco

Negli ultimi anni i cittadini palestinesi di Israele sono più sparsi sul territorio, e in alcune città vivono fianco a fianco con gli ebrei. Più cittadini palestinesi del Paese sono stati coinvolti nella vita generale di Israele, soprattutto nelle università e nei luoghi di lavoro.

Di fatto gli ultimi due governi di Netanyahu hanno aumentato i finanziamenti per il settore arabo, per esempio alle scuole. Eppure, come il governo incoraggia i cittadini palestinesi ad integrarsi completamente – soprattutto come produttori, lavoratori e consumatori in un’economia neoliberista in espansione – così cerca, allo stesso tempo, di indebolire i loro diritti di cittadinanza dal punto di vista politico e giuridico, per “metterli al loro posto” e ricordargli chi “possiede” lo Stato e le sue risorse.

Con la nuova legge i cittadini palestinesi e altre minoranze potrebbero avere minor accesso alla terra e alla casa, o a finanziamenti per promuovere la loro cultura.

Barak avverte che la legge sullo Stato-Nazione ebraico (se accolta) potrebbe avere profonde conseguenze per la situazione dei palestinesi cittadini di Israele e altrove, e limiterà in generale le sentenze “liberali” della Corte Suprema – un’istituzione spesso dipinta dai partiti di Destra come pericolosamente “antipatriottica”.

Molti anni fa mi è capitato di sedere vicino a Barak durante una cena: a un certo punto, durante la nostra conversazione, ha aperto il suo portafoglio, ha preso una copia della dichiarazione, l’ha aperta con cautela e mi ha spiegato il senso dei diritti promessi dal documento.

Sono rimasto colpito dalla sua sincerità. Era evidente che per lui, un sopravvissuto all’Olocausto che ricorda cosa significhi far parte di una minoranza indifesa, le parole della dichiarazione erano molto attuali e una promessa che Israele dovrebbe concretizzare.

Tuttavia oggi un genere molto diverso di persone governa il sistema giuridico israeliano. La ministra della Giustizia, Ayelet Shaked, per esempio, ha risposto a Barak dicendo che le sue affermazioni relative alla preminenza della dichiarazione sulla legge fondamentale proposta e il ruolo della Corte Suprema di garantire questa preminenza attraverso il controllo giurisdizionale, “demoliscono la democrazia, in quanto è la Knesset che deve definire cosa ha valore costituzionale e cosa non ce l’ha.”

Quindi per Shaked e per i partiti di destra la dichiarazione è diventata un documento “di sinistra”, nonostante la sua notevole enfasi sul legame tra la Nazione e la sua antica terra senza frontiere. Dato che la Corte Suprema fa (con molta cautela) uso della dichiarazione per criticare decisioni discutibili del governo e abolisce alcune delle leggi della Knesset (solo 18 dal 1995), un deputato del partito “Casa Ebraica” ha suggerito che la Corte dovrebbe essere demolita con un bulldozer D-9.

Shaked è di “Casa Ebraica”, un partito di destra dominato dai coloni, benché lei sia laica e viva a Tel Aviv. Ora, all’inizio dei 40 anni, Shaked è un’importante voce della nuova destra israeliana: assolutamente nazionalista, astuta nel far appello al centro laico israeliano e particolarmente desiderosa di utilizzare tutti i mezzi e le risorse del governo per promuovere la sua ideologia.

È un importante esponente di quanti a destra hanno come passatempo preferito attaccare la Corte Suprema perché difende il diritto di proprietà dei palestinesi in Cisgiordania, perché interviene in questioni relative alla sicurezza e ogni tanto critica le forze di sicurezza, e perché protegge, in qualche misura, i richiedenti asilo. Recentemente ha evidenziato che, per la Corte, “il sionismo è diventato lettera morta.”

Shaked cerca di rimodellare la Corte Suprema e i tribunali inferiori con nuove nomine di giudici che non sono “attivisti” e creativi nel loro approccio giuridico, più in consonanza con la legge ebraica e, soprattutto, meno liberali nella loro ideologia. Finora ha avuto una serie di successi.

Il leader del suo partito è Naftali Bennett, il ministro dell’Educazione, che sta introducendo contenuti religiosi ebraici nel curriculum delle scuole e che vorrebbe anche imporre ai professori dell’università un codice etico che garantisca che non possano portare nelle classi la loro “politica” potenzialmente critica. Shaked e Bennett insieme influenzano l’identità del futuro Israele più di qualunque altro ministro.

L’avvilimento degli altri

Fin dal suo inizio il sionismo ha sempre avuto un’ardente relazione con la “volontà” umana, un fondamentale concetto presente nei primi testi del sionismo fin dai tempi di Theodor Herzl, il fondatore del moderno sionismo politico. Era necessaria una grande quantità di tale volontà collettiva per creare un nuovo mondo per gli ebrei in Palestina, ma esso ha anche dovuto essere limitato e circoscritto per fondare istituzioni politiche stabili e democratiche in un dato territorio.

Tuttavia oggi per la maggior parte della destra la democrazia è diventata sinonimo di imporre la volontà della maggioranza, slegata da documenti fondativi, norme che rispettino gli individui in quanto tali e i diritti collettivi delle minoranze o persino dei tribunali. Chiedono l’abolizione del controllo giurisdizionale che Barak e altri giudici hanno introdotto nel 1995, o almeno una sua limitazione.

Proprio questa settimana per la prima volta Netanyahu si è unito a loro. Nei loro discorsi la Knesset è l’unica titolare della sovranità e solo essa rappresenterebbe la reale volontà del popolo. La volontà della maggioranza può quindi non essere controllata, dato che Israele ha una sola camera dei rappresentanti e un presidente senza potere di veto sulle leggi.

In qualunque circostanza questa sarebbe una visione pericolosa, ma lo è particolarmente quando si unisce ad un nazionalismo centrato sulla terra in cui i non-ebrei non giocano alcun ruolo, e in cui le istituzioni dello Stato sono sempre più orientate verso la legittimazione del completamento dell’espansione territoriale di Israele.

Di sicuro ci sono quelli per i quali c’è poca differenza tra individui come Aharon Barak e Ayelet Shaked e le diverse visioni di Israele che ognuno di loro rappresenta. Questi critici vedono Israele come uno Stato occupante, coloniale, nazionalista, militarista, persino illegittimo, alla radice; dopotutto, dicono correttamente, la Corte Suprema ha fatto ben poco per bloccare l’occupazione e l’oppressione di Israele sui palestinesi (anche se è intervenuta su questioni e casi singoli).

Ma per quanti vedono lo Stato ebraico come non meno legittimo di qualunque altro, e che ricordano le molte correnti nel, e la complessità del, movimento ebraico di rinascita nazionale e i suoi risultati senza precedenti (nonostante i suoi gravi difetti), la distanza tra i due Israele fa un’enorme differenza.

Sono tempi duri per la democrazia in tutto il mondo. Viktor Orban in Ungheria, Nicolas Maduro in Venezuela, Vladimir Putin in Russia e Recep Tayyip Erdogan in Turchia sono tra i leader e i Paesi che testimoniano che l’autoritarismo è in ascesa.

Nel contesto più vicino ad Israele, le Primavere Arabe sono fallite, come i processi di democratizzazione nell’Autorità Nazionale Palestinese. Molti libri sono stati dedicati a questo argomento, soprattutto dopo l’ascesa di Donald Trump (vedi per esempio “How Democracies Die” [“Come muoiono le democrazie”, ndt.] di Daniel Ziblatt e Steven Levitsky, come anche “Fascism: A Warning” [“Fascismo: un avvertimento”, ndt.] di Madeleine Albright). 

È inquietante, di fatto deprimente, vedere come in molti diversi contesti, la democrazia possa essere allontanata utilizzando le stesse tecniche poco originali eppure efficaci. Queste includono:

  • identificare nemici della Nazione reali o immaginari – interni o esterni

  • coltivare la paura e un senso di allarme

  • introdurre politiche polarizzanti e dipingere l’opposizione come illegittima

  • personalizzare i partiti e idolatrare un leader “forte”

  • creare un legame diretto tra il leader e le masse attraverso messaggi populisti

  • criticare le élite culturali e intellettuali come non patriottiche esaltando quella militare

  • manipolare e falsificare la legge a piacere

  • cercare di ottenere il controllo diretto o indiretto sui tribunali e sui media

  • tollerare intimidazioni o persino violenze contro cittadini “sleali” e organizzazioni dei diritti umani

Tutto ciò con l’obiettivo di aumentare e centralizzare il potere.

Come in Israele la democrazia è in declino

Israele non è uno Stato autoritario: per certi aspetti, data la sua scena politica caotica, è molto lontano dall’esserlo. Lo Stato di diritto esiste ancora. L’ex-primo ministro Ehud Olmert è appena uscito di prigione, come l’ex-presidente Moshe Katzav, e in febbraio la polizia ha raccomandato che Netanyahu venga sottoposto a processo per varie accuse di corruzione.

Partiti di tutto lo spettro ideologico competono in libere elezioni e il diritto di parola è – per lo più – rispettato. Il procuratore generale e altri garanti della democrazia non sono stati destituiti né si sentono minacciati, e l’apparato amministrativo non viene epurato per ragioni politiche. La democrazia non è in pericolo immediato.

Eppure, purtroppo, negli ultimi anni Israele “ha fatto progressi” in ognuno dei parametri delle democrazie in declino elencati in precedenza. Il capo della polizia Roni Alsheikh, lui stesso un colono, è stato ferocemente attaccato per aver consentito che l’inchiesta su Netanyahu andasse avanti. Al contempo gli scagnozzi del primo ministro stanno pescando nei codici di altri Paesi occidentali alla ricerca di sistemi “legittimi” per proteggere il primo ministro in carica.

Ascoltate un talk show radiofonico locale israeliano e potreste rimanere scioccati dal fanatismo come normale conversazione quotidiana. Se siete un artista, o una personalità dei media, è meglio che non diciate cose considerate antipatriottiche perché potreste perdere la vostra fonte di reddito. Spesso membri palestinesi della Knesset vengono aggrediti. La violenza dei coloni contro i palestinesi in Cisgiordania non è, per lo più, neppure raccontata. Potrei continuare all’infinito.

Le cose sono diventate così gravi che oggi è soprattutto Benny Begin, figlio di Menachem Begin [ex-capo del gruppo terrorista sionista “Irgun”, primo ministro di Destra e premio Nobel, ndt.] e membro della vecchia scuola del Likud, noto per la sua totale sfiducia nell’Autorità Nazionale Palestinese e negli accordi di pace di Oslo, che coerentemente e coraggiosamente lotta per conservare nel suo partito almeno qualche impegno per la cittadinanza universale e uguale, per i diritti di proprietà dei palestinesi in Cisgiordania, per la trasparenza delle inchieste della polizia e delle raccomandazioni giudiziarie – e per un generale senso di correttezza e umanità.

In ogni Paese in cui la democrazia è in declino ciò avviene per diverse ragioni: la difficoltà di affrontare un grande numero di migranti e rifugiati, la grave crisi economica e la disoccupazione, la sfiducia nelle istituzioni politiche, una situazione di emergenza e un crollo della sicurezza.

Tuttavia, come rilevato sopra, nessuno di questi fattori conta nel caso di Israele. Di fatto gli israeliani riferiscono costantemente di essere molto soddisfatti della propria vita privata. Israele è collocato all’11^ posto nel “Rapporto sulla Felicità nel Mondo” del 2017.

No, se la democrazia liberale è in declino in Israele è a causa di altre ragioni. L’occupazione della Cisgiordania – che sia attuata per ragioni religiose, di sicurezza o economiche – richiede l’indebolimento delle istituzioni israeliane e delle forze politiche che possono metterla in questione, che si tratti dei tribunali o di intellettuali delle università. Pone una nazione contro l’altra in un continuo conflitto, e quindi richiede di mettere a tacere ogni voce che sfidi il primato della nazione o dubiti dell’esercito israeliano e delle forze di sicurezza, persino quando il loro comportamento diventa molto discutibile, come attualmente sul confine con Gaza.

Cosa più preoccupante, l’occupazione porta troppi israeliani a svalutare gli altri come esseri umani inferiori per giustificare la loro sottomissione e l’usurpazione della loro terra. Dipinge come traditori quei cittadini che rifiutano questa degradazione come inumana e non-ebraica.

Infatti all’inizio di questo mese il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha detto che il partito progressista “Meretz”, il cui principale appoggio viene da elettori ebrei, “rappresenta gli interessi palestinesi nella Knesset israeliana.”

Di fatto l’occupazione israeliana della Cisgiordania – che a 51 anni è la più lunga della storia contemporanea – sta modellando la concezione che gli israeliani hanno del governo. Poiché le due popolazioni, di coloni israeliani e di palestinesi, vivono sempre più fianco a fianco in Cisgiordania nell’area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale controllo israeliano, ndt.], i due modelli di leggi e di sovranità esercitata sullo stesso territorio si influenzano sempre più a vicenda.

Le leggi penali israeliane, per esempio, sono gradualmente applicate nei tribunali militari, dato che la maggior parte dei giudici sono avvocati israeliani, civili che stanno facendo il servizio militare. In certa misura essi hanno esteso i diritti dei palestinesi nei tribunali.

Ma l’effetto di gran lunga maggiore dell’occupazione è stato in senso inverso: la penetrazione della logica militare di sovranità nella concezione del governo e del potere nello Stato israeliano. Sotto il potere militare non ci sono tre poteri di governo separati e indipendenti.

Al contrario, i tribunali sono sotto il controllo del comandante militare di zona, e questo comandante è anche il supremo legislatore e arbitro. Con questo modello molto efficace in mente, ben noto alla maggioranza degli israeliani attraverso il servizio militare, gli ultimi sviluppi hanno più senso.

Come il destino del Likud è legato ad un uomo

Ho già sottolineato in precedenza il tentativo di ridurre il potere della Corte Suprema e di indebolire l’idea di una democrazia costituzionale. Tuttavia la Knesset israeliana non se la passa molto meglio. A differenza dell’asserzione di Shaked secondo cui è sovrano, questo parlamento sta soccombendo al potere dell’esecutivo, perdendo la sua capacità di verificare e controllare quest’ultimo, così come di produrre leggi che siano in qualche modo indipendenti dal governo e non segnate da esigenze politiche pressanti.

In Israele le elezioni sono per i partiti, non per singoli candidati, e il governo è formato attraverso un’alleanza tra partiti. Dato che molti dei parlamentari sono o ministri o sottosegretari, la sovrapposizione tra potere esecutivo e legislativo è sempre stata un problema del sistema israeliano.

Ma negli ultimi anni è avvenuto uno sviluppo particolarmente inquietante: gli stessi partiti sono diventati meno democratici. Attualmente cinque partiti della Knesset (religiosi e laici, di destra e di centro) non svolgono elezioni interne. In tre di essi (compreso “Yesh Atid” [partito di centro, ndt.] di Yair Lapid, che è il principale candidato a sostituire il Likud come partito principale), è praticamente il capo del partito che designa da solo i candidati per la Knesset, e la loro carriera dipende totalmente da lui. In totale, 40 parlamentari sono stati eletti in questo modo – un terzo della Knesset.

Poiché questi specifici partiti fanno di solito parte di qualunque coalizione di governo, la loro influenza è particolarmente pronunciata.

Piuttosto che di parlamentari indipendenti, ognuno dei quali si forma la propria opinione sull’argomento in questione, rappresenti diversi interessi e visioni, eserciti il proprio pari diritto e responsabilità ad esprimere le proprie opinioni e agisca in base ad esse nello stesso parlamento che si suppone incarni questi valori, il numero reale di persone che prendono le decisioni è molto ridotto (anche in materia di leggi), garantendo che prevalga uno spirito servile. Partiti che al proprio interno eludono i principi democratici non possono difendere realmente questi principi nella vita pubblica in generale.

È in questo contesto politico che l’attuale capo dell’esecutivo, il primo ministro Benjamin Netanyahu, ha consolidato il proprio potere personale: è diventato l’incontestato leader del maggior partito nella coalizione di governo, il Likud.

Benché il partito sia democratico, vede il proprio destino inesorabilmente legato a quello del suo leader, a tal punto che, mentre si accumulano le prove che Netanyahu ha ricevuto regali in champagne e sigari pari a circa 330.000 dollari da “amici” e che potrebbe aver tentato di influenzare i media attraverso varie forme di corruzione indiretta, il suo sostegno popolare è aumentato.

Invece di dare le dimissioni, Netanyahu insiste di essere vittima di una caccia alle streghe, minando progressivamente gli standard etici dei suoi stessi sostenitori e la loro fiducia nelle istituzioni pubbliche. E una tale cecità etica, coltivata attraverso molti anni di occupazione, diventa funzionale per molti israeliani quando si tratta di avere a che fare con comportamenti eticamente scorretti dei loro dirigenti nella politica interna.

Qualcosa è già cambiato negli ultimi due anni, e Netanyahu è stato adulato in forme inimmaginabili nel passato. Recentemente, per esempio, in una riunione di governo convocata dopo che il primo ministro è tornato da una fortunata visita in India, la ministra della Cultura e dello Sport Miri Regev ha detto davanti alle telecamere:

Tu sei un grande leader, anche se qualcuno in questo Paese non ama dirlo o diffonderlo. Ma bisogna dire la verità…Ci hai reso un grande servizio, con molto orgoglio e dignità…sei stato trattato come il re dell’India. È commovente fino alle lacrime, molte grazie a te per quello che stai facendo per lo Stato di Israele.” (traduzione di Haaretz).

In Israele non ci sono limiti. Netanyahu è stato primo ministro per 12 degli ultimi 20 anni, anche se non consecutivi. Quando ha iniziato la sua carriera politica, Netanyahu aveva acerrimi rivali nel partito, che non solo lo hanno affrontato nelle elezioni interne, ma che hanno esercitato un’influenza politica con cui ha dovuto fare i conti.

Ma ormai da parecchi anni Netanyahu non ha dovuto affrontare sfidanti di rilievo all’interno del partito. Per qualche ragione i membri del partito Likud, condividendo una sorta di amnesia collettiva, sono arrivati a credere che “è nel loro DNA” essere leali al leader del proprio partito praticamente in qualunque circostanza.

Singoli che tentino di sfidare la posizione di comando di Netanyahu sanno che starebbero rischiando tutta la propria carriera politica. Netanyahu, da parte sua, fa tutto il possibile per indebolire i suoi potenziali rivali nel partito, rifiutando, per esempio, di nominare un ministro degli Esteri [attualmente Netanyahu ricopre anche la carica di ministro degli Esteri, ndt.], di cui c’è estremo bisogno, a quanto pare per il timore del potere e del prestigio che un simile ministro potrebbe guadagnare all’interno del partito.

Il partito di governo Likud non si è preoccupato di rendere pubblico un programma elettorale durante le ultime elezioni del 2015. Il suo leader, il primo ministro, ha concesso solo un discorso in tutta la campagna elettorale: al Congresso USA sul programma nucleare iraniano.

L’esercizio del potere si è quindi separato dalle parole e dalla responsabilità. Allora non è solo la Knesset che ora desidera non essere controllata, e Netanyahu ha già fatto ciò a un livello significativo: nessuna parola lo vincola, neppure la sua. E questo, forse, è il segno più inquietante per la democrazia israeliana.

– Eyal Chowers insegna teoria politica all’università di Tel Aviv. Il suo libro “The Political Philosophy of Zionism: Trading Jewish Words for a Hebraic Land” [La filosofia politica del sionismo: scambiare parole ebraiche per una terra ebraica”] è stato pubblicato da Cambridge UP nel 2012.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




L’asino del Messia indossa il fascismo

Nota redazionale: su Haaretz è comparso il seguente articolo che riteniamo interessante pubblicare in quanto, nell’imminenza delle celebrazioni del 25 aprile si sono rinfocolate, soprattutto a Roma, le polemiche sulla presenza della Brigata Ebraica, con tanto di bandiere israeliane, e su quella delle organizzazioni che solidarizzano con la causa palestinese. L’autore dell’articolo mette in guardia sui rischi di deriva fascista del sistema politico israeliano. Anche se riteniamo che queste tendenze siano implicitamente presenti nell’ideologia sionista e non solo nelle sue espressioni più estremiste, ci pare che questa denuncia sia significativa e sollevi ulteriori dubbi sulla democrazia israeliana.

Shaul Arieli – 22 aprile 2017,Haaretz

Nel 1995 Umberto Eco delineò 14 caratteristiche di quello che chiamò il “fascismo perenne”. Un esame delle affermazioni da parte di politici israeliani suggerisce che nello Stato ebraico la democrazia potrebbe essere in pericolo

Il tentativo di far arrivare il Messia “attraverso l’intervento dell’ uomo” – per esempio di membri del partito di destra Habayit Hayehudi [“Casa Ebraica”, partito di estrema destra dei coloni attualmente al governo, ndt.] e dei loro colleghi del Likud [partito di destra al governo con la maggioranza relativa in parlamento, ndt.] – sta forse permeando Israele con caratteristiche del fascismo come le ha definite Umberto Eco nel suo celebre articolo “Ur-fascismo” nella “New York Review of Books” nel giugno del 1995?

Il semiologo e scrittore italiano, deceduto l’anno scorso, scrisse che il fascismo perenne (“Ur-Fascismo”) è presente ovunque, costantemente. A volte indossa abiti civili e può tornare nelle fogge più innocenti. Nell’articolo, che scrisse in occasione del 50esimo anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale – che più di ogni altra cosa simbolizzò la vittoria dello spirito umano sui regimi delle tenebre -, Eco affermò che è nostro dovere denunciare il fascismo e mettere in rilievo ogni sua nuova manifestazione ogni giorno, in qualunque parte del mondo.

Egli scrisse che le caratteristiche del fascismo elencate nel suo articolo non possono essere organizzate in un sistema – alcune si contraddicono a vicenda, mentre altre caratterizzano altre forme di dispotismo e fanatismo. Tuttavia, la presenza di una sola di queste caratteristiche è sufficiente per consentire al fascismo di coagularsi attorno ad essa.

Certo, il Messia non sta per arrivare – ma forse il suo asino [“asino del Messia” è il termine con cui i sionisti religiosi seguaci del rabbino Kook indicano i sionisti laici, che hanno iniziato il lavoro che permetterà di accelerare il ritorno del Messia, ndt.] sta indossando gli abiti del fascismo. Il Messia non sembra condividere la convinzione dell’ “Inizio della Redenzione” enunciato dal seguaci del rabbino Kook, che vedono nella fondazione dello Stato [di Israele], le sue vittorie militari e l’impresa di colonizzazione come segni che Egli arriverà nei nostri tempi per costruire il Terzo Tempio e ristabilire il Regno di David.

Ho scelto di presentare una selezione di affermazioni fatte da politici israeliani – per lo più sulle reti sociali – insieme a sette delle caratteristiche che Eco propone, per verificare se Israele sta andando verso un regime fascista, o se non si tratta di nient’altro che della schiuma delle onde, che scomparirà quando le acque si infrangeranno sulle spiagge della forte democrazia israeliana.

Culto della tradizione

Un “culto della tradizione”, basato sull’assunto che la verità (divina) ci è già stata data e che tutto ciò che resta da fare è continuare ad interpretare il messaggio che abbiamo ricevuto, emerge nelle parole di tre membri della Knesset [il parlamento israeliano, ndt]. La ministra dello Sport e della Cultura Miri Regev ha concluso il suo discorso alla Knesset per celebrare il “Giorno della Bibbia” nel luglio 2015 affermando: “E’ già stato detto molte volte che la Bibbia non è solo una vicenda storica… ma anche un libro che ha sempre conservato una dimensione attuale.” La parlamentare del Likud ha aggiunto: “Le risposte che si trovano nelle sue pagine, come le domande formulate nei suoi versetti, la collocano come una costante, eterna guida spirituale e pratica che ci guida in ogni tempo.”

Il secondo deputato, Moti Yogev (di “Casa Ebraica”), ha espresso più di chiunque altro la filosofia del suo partito. Lo ha fatto esplicitamente e senza infingimenti, che è quello che fa il segretario del suo partito (e ministro dell’Educazione) Naftali Bennett. Nell’agosto 2015 Yogev ha scritto un post su Facebook, in cui condannava le azioni del capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Gadi Eisenkot, affermando: “Il rabbinato militare mette in rapporto i soldati con la tradizione ebraica come le radici dell’albero che gli dà la forza di crescere e fiorire.” E il collega di partito di Yogev Nissan Slomiansky sta dedicando le sue energie a promuovere una legge della Knesset che accentuerebbe l’influenza delle leggi religiose ebraiche (halakha) sulla giurisprudenza contemporanea.

Il rifiuto della modernità

Questa forma di tradizionalismo contiene una caratteristica che Eco ha definito “il rifiuto della modernità”. I tradizionalisti percepiscono l’età moderna come l’inizio di un pericoloso processo che porta all’apostasia. Nell’agosto del 2015 Yogev ha pubblicato un post su Facebook in cui protestava contro l’apertura il sabato della multisala “Yes Planet” a Gerusalemme. “L’osservanza dello Shabbath [il sabato festivo ebraico, ndt.] è una questione che definisce il carattere della Nazione israeliana,” ha scritto, rammaricandosi del fatto che “Tel Aviv è ‘una città che non si ferma mai’ [slogan per promuovere il turismo a Tel Aviv, ndt.] e forse non sa neppure cosa significa perdere lo Shabbath.”

Nel settembre 2016, durante un evento in onore della “Tali Foundation” (che finanzia studi sull’eredità ebraica nelle scuole laiche), Bennett ha dichiarato: “Studiare l’ebraismo ed eccellere in questo è più importante per me che studiare matematica e scienze,” ed ha respinto le successive accuse a questa sua posizione.

L’anti-intellettualismo è sempre stato un sintomo di fascismo. La persecuzione di intellettuali liberali per il loro tradimento dei valori tradizionali è stata una linea-guida delle elite fasciste. La poetessa Lea Goldberg lo ha spiegato quando ha scritto che intellettuali ed artisti minacciano le dittature e le visioni del mondo che negano le libertà degli esseri umani, insegnando “all’umanità a dire ‘no’ con amara derisione quando i tempi lo richiedono.”

In un’intervista con il giornale Israel Hayom nel settembre 2015 Regev ha presentato i nuovi criteri per definire la cultura: “Anche chi non è mai andato a teatro o al cinema e non ha mai letto Haim Nahman Bialik [considerato il poeta nazionale di Israele, ndt.] può essere considerato una persona di cultura, ” ha dichiarato. “Può esserlo molto più di persone che fanno prendere aria alla propria pelliccia una volta al mese in qualche teatro.” Ma persino queste definizioni impallidiscono in confronto alle parole del deputato David Bitan (del Likud), che in marzo ha dichiarato: “L’ultima volta che ho letto un libro è stato 10 anni fa.”

Nel gennaio 2015 Ayelet Shaked (di “Casa Ebraica”, ed ora ministra della Giustizia) ha postato su Facebook: “Natan Zach appoggia il terrorismo diplomatico contro Israele,” in riferimento allo stimato poeta israeliano, ma si è affrettata a rimuovere il suo post. E in un post del luglio 2016, in risposta a un attacco su Facebook da parte del critico cinematografico e presentatore radiofonico Gidi Orsher, Regev ha promesso: “Sono gli ultimi spasmi della vecchia elite, e io non smetterò finché questa elite razzista non sarà privata delle sue risorse e posizioni di potere.”

Paura della differenza

Definire ogni opposizione come tradimento è un’altra caratteristica che contraddistingue il fascismo. Nell’ottobre 2016 Bitan ha chiesto la revoca della cittadinanza al capo dell’associazione per i diritti umani B’Tselem. Nel febbraio scorso il suo collega del Likud, il deputato Miki Zohar, ha scritto su Facebook: “Ogni volta che spunta un’organizzazione di estrema sinistra, essa si adopera per proclamare i propri principi ipocriti, presumibilmente per fare bella figura con il resto del mondo, anche al prezzo di danneggiare lo Stato di Israele e la sua sicurezza. Per cui una volta è B’Tselem, un’altra è “Breaking the Silence” [associazione di ex-militari che denuncia quanto avviene nei territori palestinesi occupati, ndt.], e nel caso di Amona (colonia evacuata), c’era Yesh Din (Volontari per i Diritti Umani). E’ importante notare che queste organizzazioni sono finanziate con milioni di dollari da elementi di ogni parte del mondo che sono ostili ad Israele.”

La deputata Tzipi Hotovely (del Likud, ora anche vice-ministro degli Esteri) ha scritto su Facebook nel settembre 2014: “Il rifiuto da parte di ufficiali dell’ “Unità 8200″ (in riferimento a riservisti dell’intelligence che si sono rifiutati di prestare servizio nei territori) è una cintura esplosiva sociale, e riflette la bancarotta morale del sistema educativo in cui sono cresciuti. Non sono degni di fare il servizio militare nell’esercito più morale del mondo [autodefinizione dell’esercito israeliano, ndt.].”

Al contempo nel settembre 2014 Shaked si è rammaricata che “l’Alta Corte di Giustizia abbia calpestato il potere legislativo,” dopo che la Corte ha respinto un emendamento a una legge riguardante i richiedenti asilo. E nell’agosto 2015 Yogev ha scritto su Facebook: ” Il giudice della Corte Suprema Uzi Vogelman, nella sua decisione odierna che ritarda la demolizione delle case di terroristi omicidi, si è messo dalla parte del nemico. Egli sta difendendo i diritti di assassini e quindi impedisce misure punitive e mette in pericolo vite umane.”

In un post su Facebook del 2015 Bennett ha chiesto agli israeliani di votare per “Casa Ebraica” sulla base del fatto che “nessun altro lotterà contro la tirannia legale dell’Alta Corte di Giustizia, che sta danneggiando mortalmente il nostro Stato.” E non ha esitato a fare campagna elettorale nel’esercito israeliano, scrivendo “Per il bene del popolo ebraico: prendete i vostri telefonini, convincete i soldati della vostra brigata!” Quindi ha inserito i duri commenti dei membri del suo partito riguardo la Corte Suprema.

Tutti questi gravi interventi indicano ignoranza e mancanza della minima comprensione dei rispettivi ruoli del potere legislativo e di quello giudiziario. La loro intenzione è di “etichettare” come traditori – delegittimare – tutti quelli che si oppongono allo spirito dell’attuale governo.

Appello ad una classe media frustrata

Ancora una volta in questo campo “Casa Ebraica” è all’avanguardia. Nel marzo 2015 Bennett ha dichiarato che “Habayit Hayehudi (cioè “Casa Ebraica”) è la casa sociale di Israele.” Nel contempo in un post su Facebook del settembre 2013 il deputato Eli Ben-Dahan ha spiegato che quando ha visitato il sud di Tel Aviv, “ho visto gli effetti di lasciare gli infiltrati (i richiedenti asilo africani) in Israele. Gli abitanti di Tel Aviv sud hanno vissuto a lungo nella paura. Dobbiamo modificare ciò, e sto lavorando per ripristinare lo spirito ebraico in quel luogo.”

Ognuno è educato per diventare un eroe

Il culto dell’eroe è direttamente legato al culto della morte – l’eroismo è la regola nel fascismo. Dichiarazioni che esprimono militarismo e sacrificio nell’interesse dello Stato hanno molti progenitori. Nel febbraio 2015 Bennett ha scritto un post rivolto al leader dell’opposizione, il deputato Isaac Herzog: “Il Sionismo religioso non va più in giro a testa bassa,” ha scritto. “Stiamo dritti in piedi. Siamo grandi e forti, influenzando e portando il nostro contributo, orgogliosi di quello che siamo. I cimiteri sono pieni di eroi, diplomati nei programmi di formazione militare, delle scuole rabbiniche militari e di Ezra e Bnei Akiva” – movimenti giovanili religiosi sionisti.

E nell’ottobre 2015 il presidente di “Israele Casa Nostra” [partito di estrema destra che rappresenta soprattutto gli immigrati russofoni, ndt.] Avigdor Lieberman (attualmente ministro della Difesa) ha scritto su Facebook: “Mi aspetto che alla fine della riunione di governo di questo pomeriggio ci siano chiare decisioni e linee guida: nessun terrorista maschio o femmina uscirà vivo da ogni attacco terroristico; si applicheranno leggi d’emergenza e verrà instaurato un governo militare se necessario, per sradicare il terrorismo. La sicurezza si ottiene con il pugno di ferro!”

La vita è una guerra permanente.

“Il fascismo non combatte per la vita, vive per la lotta.” Sembra essere la convinzione del primo ministro Benjamin Netanyahu, che, alludendo all’assassinio dell’ex-primo ministro Yitzhak Rabin, ha affermato nell’ottobre 2015 al Comitato della Knesset per gli Affari Esteri e la Difesa: “In questi giorni si parla di cosa sarebbe successo se questa o quella persona fosse rimasta [in vita]. E’ irrilevante…Mi viene chiesto se vivremo sempre con la spada – sì.”

In un post del febbraio 2014 Bennett ha promesso ai soldati che fanno il turno di guardia sotto la pioggia che prima o poi finirà, ma “un giorno sarete a casa con vostra moglie, i vostri bambini, al caldo, con una spessa coperta, e allora i futuri soldati faranno la guardia per voi.”

L’ossessione di un complotto

Alla radice della psicologia fascista c’è la convinzione ossessiva che le istituzioni internazionali stanno cospirando contro lo Stato, che è quindi sotto assedio. Di conseguenza, molti regimi fascisti sono caratterizzati dall’apparizione della xenofobia. Questo gli risulta molto utile. Netanyahu primeggia tra simili commenti nel suo sito web ufficiale: “Un abisso profondo ed ampio ci separa dai nostri nemici. Essi santificano la morte mentre noi santifichiamo la vita. Santificano la crudeltà, mentre noi santifichiamo la compassione” (luglio 2014). “Circonderemo tutto lo Stato di Israele con una recinzione e una barriera? La risposta è ‘sì’. Nel contesto in cui viviamo, ci dobbiamo difendere da belve selvagge” (2016).

Nel fascismo “gli individui come tali non hanno diritti, e il Popolo è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la Volontà Comune. Poiché non molti esseri umani possono avere una volontà comune, il Capo rivendica di essere il loro interprete.” Queste sono le parole del deputato Bezalel Smotrich (De “la Casa Ebraica”), in un articolo del 2011 intitolato “Noi meritiamo di più”, nella rivista dei coloni “Sheva”: “E’ opportuno che lo Stato investa maggiori risorse nell’educazione sionista religiosa,” prosegue. “Perché? Perché ai suoi figli è stato assegnato il compito di guidare il popolo ebraico.”

Quando si tratta di machismo e di oppressione delle minoranze sessuali, Smotrich è senza dubbio il campione. Nel febbraio 2015, in un seminario in una scuola superiore di Givatayim, ha affermato che gay e lesbiche sono “anormali”. E il suo collega Yogev ha parlato contro la comunità LGBT nel luglio 2013, dicendo a Channel 10 [catena televisiva israeliana, ndt.]: “E’ un fenomeno degno di pietà, non da incoraggiare…Non si tratta solo di un punto di vista dell’ Halakhà [norme religiose ebraiche, ndt.], ma anche una posizione morale che è corretto articolare.”

Un’altra caratteristica del fascismo, l’impoverimento del linguaggio, può essere riscontrata in molti dei succitati parlamentari, ma nessuno raggiunge i livelli così bassi del ministro della Cultura Regev. Tutti i testi fascisti utilizzano un vocabolario ristretto e la sintassi più elementare, limitando gli strumenti necessari per un pensiero critico e complesso. In un breve discorso di cinque minuti a un pubblico di studenti delle superiori nel 2012, Regev ha affermato che il deputato Stav Shaffir (dell'”Unione Sionista” [coalizione di centro tra Laburisti e Khadima, ndt.]) era un comunista; che l’ex segretaria del partito Laburista Shelly Yacimovich aveva votato per Hadash [partito di sinistra non sionista, ndt.]; ha dichiarato: “Gerusalemme nei secoli dei secoli…applaudite!”

Nel suo articolo Eco citò le parole del presidente USA Franklin D. Roosevelt del 4 novembre 1938, che sono significative per la democrazia israeliana oggi: “Mi avventuro a fare l’impegnativa affermazione che se la democrazia americana cessa di avanzare come una forza viva, che cerca giorno e notte di migliorare con mezzi pacifici la condizione dei nostri cittadini, nella nostra terra il fascismo si rafforzerà.”

Eco iniziò il suo articolo raccontando la sua fanciullezza nell’Italia di Mussolini, preda dell’ideologia fascista per più di 20 anni. Siamo proprio certi che ora, 50 anni dopo la guerra dei Sei Giorni, tutte quelle affermazioni da parte di esponenti israeliani eletti non siano altro che schiuma nell’acqua? La democrazia israeliana è così forte e solida come siamo soliti pensare?

(traduzione di Amedeo Rossi)