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Le aziende di Gaza sfruttano laureati e laureate alla disperata ricerca di lavoro

Yasmin Abusayma 

10 febbraio 2023 – The Electronic Intifada 

Rami Bulbul si è laureato nel 2021 in Scienze della comunicazione e media presso l’University College of Applied Sciences di Gaza risultando il migliore del suo corso.

Come molti laureati il ventiquattrenne sogna una vita migliore e come la maggioranza degli abitanti di Gaza ha ridimensionato i suoi sogni data la situazione che vive nella morsa dell’assedio israeliano che per oltre 15 anni ne ha distrutto l’economia.

Ma anche cosi è scioccato dal comportamento di alcune aziende a Gaza che, dice, hanno sfruttato al massimo la disponibilità di tantissimi laureati disoccupati fra cui scegliere stagisti senza pagarli.

Ho fatto il volontario in due agenzie lavorando di media dalle 9 del mattino alle 9 di sera e senza ricevere alcunché in cambio e anche se le aziende avevano delle opportunità lavorative noi eravamo esclusi dal processo di assunzione.”

Lo stage, o lavoro volontario, come si chiama talvolta a Gaza, è diventato sempre più comune. Le aziende sono senza soldi proprio come i lavoratori, e si dice che il volontariato avvantaggi entrambi: aiuta la comunità in termini di formazione, sostegno psicologico, persino ospitalità per alcuni, e copre posti vacanti che le imprese non riuscirebbero altrimenti a pagare.

Bulbul non è d’accordo e vuole leggi per impedire che le aziende se ne approfittino.

Lui ha fatto uno stage con una compagnia mediatica che non vuole nominare proprio per fare un tirocinio sul posto di lavoro e capire le sfide davanti alle quali potrebbe trovarsi nella sua carriera in futuro.

Ma durante l’attacco del 2021 contro la Striscia di Gaza il palazzo in cui l’agenzia aveva i propri uffici è stato bombardato e completamente distrutto. Con la pandemia del COVID-19 e il generale malessere economico la ditta non ha più riaperto e Bulbul ha perso il lavoro con altri 14 che facevano anche loro parte del gruppo di volontari.

Eravamo 15 stagisti che stavano imparando il mestiere e le sfide che i giornalisti devono affrontare. Nessuno di noi ha chiesto qualcosa.”

Ciò non ha impedito alla ditta di inserirli fra i dipendenti per garantirsi i risarcimenti da parte delle autorità. I soldi, mille dollari ciascuno, sono comunque andati direttamente agli stagisti.

Il manager che ci aveva assunto ha cominciato a minacciarci e continuava a chiederci i soldi,” dice Bulbul a The Electronic Intifada.

Comunque nessuno degli ex stagisti l’ha fatto. Nessuno di loro aveva mai ottenuto nulla dall’azienda.

Avevamo chiesto rimborsi per i trasporti, una paghetta o almeno l’opportunità di lavorare per la ditta in futuro. Non abbiamo ottenuto nulla.”

Bulbul dice che, anche se i volontari non vogliono soldi ma solo aiutare le loro comunità, le ditte dovrebbero almeno dimostrare un apprezzamento offrendo un ambiente di lavoro sicuro che garantisca i diritti dei volontari.

Lui sta cercando di ottenere delle sanzioni contro quelli che sfruttano i laureati. Le aziende dovrebbero come minimo rimborsare le spese e trattare le persone con un minimo di dignità.

Abbiamo bisogno di normative e di essere protetti dalle leggi,” continua Bulbul, ora uno stagista pagato dall’UNRWA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi. “Il ministero del lavoro è responsabile delle violazioni dei manager incaricati delle assunzioni. I volontari non dovrebbero essere sfruttati solo perché hanno bisogno di un lavoro.”

È necessaria una riforma legislativa

Secondo l’ufficio centrale di statistica palestinese il tasso di disoccupazione dei giovani laureati fra i 19 e i 29 anni con una laurea breve o di grado più elevato è di poco inferiore al 50% nella Cisgiordania occupata e a Gaza.

Ma questa cifra nasconde la reale situazione di Gaza, dove la disoccupazione giovanile fra laureati è di oltre il 70%.

Wala Jonina ha conseguito una laurea in media digitali presso l’University College of Applied Sciences e fa la stagista dal 2019.

Eppure fino ad ora non ha ancora ricevuto un’offerta di lavoro nonostante l’importante esperienza che ha maturato nel corso degli anni.

Ho fatto il tirocinio in un’azienda di comunicazioni lavorando dalle 8 alle 4,” dice la trentaduenne con due figli a The Electronic Intifada. “Credevo veramente che lavorando duro i miei sforzi sarebbero stati ricompensati.”

Tutto invano, continua, scoprendo invece di essere stata facile preda di sfruttamento in tempi difficili.

Il manager mi incolpava di tutti gli errori. Talvolta dovevo lavorare da casa per finire tutti i miei incarichi. Una volta che ho chiesto un periodo di ferie mi ha detto che sarebbe stato sufficiente un giorno perché erano sotto pressione.”

Jonina è particolarmente delusa perché non ha potuto mantenere una promessa fatta al padre che con il suo magro stipendio di operaio l’aveva mantenuta all’università.

Gli avevo promesso che una volta laureata l’avrei ripagato e sostenuto economicamente. Sfortunatamente non posso.”

Ciononostante non ha rinunciato al suo sogno di aprire un’attività in proprio.

Non voglio più essere sfruttata e vorrei smettere di preoccuparmi per il mio futuro, essere indipendente e avere una vita decente.”

Alcuni invocano un cambiamento delle leggi sul lavoro.

L’avvocato Muhammad Abu Dayyah afferma che la legislazione palestinese sul lavoro non contiene alcuna norma in materia e dice a The Electronic Intifada che il suo studio legale, Alsalah, riceve regolarmente denunce da stagisti e volontari.

Sarebbe estremamente consigliabile considerare il volontariato come una promessa di una futura assunzione. Noi riceviamo molte proteste riguardo a società che sfruttano giovani laureati senza offrire neppure un contratto lavorativo alla scadenza del volontariato.”

Abu Dayyah suggerisce che la legge dovrebbe regolare gli obblighi delle aziende che assumono stagisti per porre fine a pratiche di sfruttamento.

Un lavoro dignitoso

Ahmad, 28 anni, ha un master in gestione aziendale ma non è riuscito a trovare un lavoro retribuito.

Per oltre tre anni ha invece fatto lo stagista come assistente amministrativo per varie imprese, senza risultato.

Qui a Gaza non abbiamo un futuro,” dice Ahmad che non ha voluto dare il suo vero nome per questo articolo. “Talvolta penso di emigrare in un posto dove trovare un lavoro che mi permetta di conservare la mia dignità.”

Ahmad crede che il settore del volontariato stia diventando una trappola per molti laureati e pensa inoltre che ci sia un problema in un sistema educativo che non include esperienze lavorative come parte dei requisiti per laurearsi.

Siamo sfruttati con la scusa che non abbiamo esperienza, eppure, anche dopo essermela fatta, il manager dell’azienda per cui facevo il volontario all’epoca mi ha detto che non poteva assumermi perché non avevano i fondi.”

Secondo uno studio condotto nel 2016 dall’Al-Quds Open University c’è un legame significativo tra stage organizzati dalle università e future prospettive di lavoro.

Ho studiato in tre università per la laurea, il master e la laurea breve,” ci dice Ahmad. “Nessuna delle università aveva programmi di volontariato per studenti.”

Ahmad sostiene che includere volontariato o stage come parte di un corso di laurea dovrebbe ridurre il tempo che i laureati passano lavorando gratis dopo aver finito gli studi.

Invece di perdere tempo dopo la laurea, le università dovrebbero includerlo nei loro curricula, così i laureati sarebbero pronti per il mercato del lavoro quando hanno finito [l’università],” conclude Ahmad.

Yasmin Abusayma è una scrittrice e traduttrice freelance di Gaza, Palestina.




Vera emancipazione: un incontro con le donne pugili di Gaza

Salsabeel M.A. Abu Loghod

27 gennaio 2023 – Palestine Chronicle

Dopo aver lottato negli ultimi 5 anni senza nessun tipo di appoggio e allenandosi in un piccolo luogo sotto la casa del capitano Osama Ayoub, nel dicembre 2022 è stato finalmente aperto il Palestinian Women’s Boxing Center [Centro Pugilistico delle Donne Palestinesi].

Ma sicuramente ci sono delle difficoltà. Il Centro è la prima società pugilistica femminile di Gaza City. Con le sue 30 associate intende migliorare le capacità di autodifesa, forma fisica e perdita di peso delle donne palestinesi attraverso l’integrazione delle donne nel mondo pugilistico palestinese.

La società affronta diverse sfide dovute all’ermetico assedio israeliano imposto alla Striscia così come al rifiuto da parte della società palestinese di insegnare alle ragazze tale sport. Nonostante rispetti le tradizioni e costumi della società, compresa una sala coperta, e con una donna per allenare le allieve, nonostante gli appelli di oltre 90 mezzi di comunicazione arabi, locali e internazionali non ci sono trasporti per le ragazze e non è stato fornito alcun sostegno finanziario.

Sui nostri account nelle reti sociali abbiamo ricevuto alcuni commenti negativi, in cui si sostiene che le donne non dovrebbero allenarsi ma stare a casa accanto ai loro mariti. Altri affermano di non volere donne in grado di picchiare gli uomini,” sostiene Ayoub.

Tuttavia è comparso anche qualche commento positivo, che invita Ayoub a continuare con la sua idea di rafforzare le donne in una società maschilista.

Abbiamo ragazze di talento che possono rappresentare la Palestina in tornei pugilistici all’estero,” osserva Ayoub.

Tra le giovani atlete c’è la quindicenne Farah Abu Al-Qumsan. Cinque anni fa, durante una vacanza scolastica, Al-Qumsan ha parlato con un’amica dello sport. Ha saputo di Ayoub da un’amica parente del capitano, che le ha raccontato del club pugilistico aperto da poco. Farah ha deciso di andarci. I suoi genitori sono stati d’accordo a consentirle di iscriversi per prima. Ha iniziato a boxare all’età di 11 anni, nel novembre 2020 ha partecipato a un torneo locale presso il King’s Club di Gaza e ha vinto il premio come migliore pugile.

Fin da bambina sono sempre stata affascinata dal pugilato e sognavo di diventare una campionessa come Muhammad Alì o Mike Tyson,” afferma Al-Qumsan.

Spesso le viene detto che si tratta di uno sport solo per ragazzi. Tuttavia molte persone la lodano e ciò l’aiuta ad affrontare le critiche. “In genere rispondevo alle osservazioni negative dicendo che ogni ragazza dovrebbe praticare il pugilato,” afferma Al-Qumsan. Sua madre, la trentanovenne Umm Sufyan, l’ha incoraggiata a fare pugilato. “Se dio vuole continuerò ad appoggiarla fino in fondo e lei terrà alto il nome della Palestina in tutti i Paesi arabi e all’estero,” afferma la madre di Farah.

Come Al-Qumsan, Malak Tariq Ziyad Musleh è stata spesso criticata perché pratica il pugilato.

Musleh è pugile nel Palestinian Women’s Boxing Center. Ha iniziato a boxare a 12 anni, cinque anni fa. Anche lei ha partecipato al torneo del King’s Club nel 2020. “Dato che ero solita vedere la boxe su YouTube, mi sono sempre chiesta perché non abbiamo uno sport come questo. Quindi quando alla fine ne abbiamo avuto la possibilità, ho voluto provare,” mi dice Musleh.

Mio padre mi ha molto appoggiata, dato che la mia famiglia sapeva che ero molto timida. L’ho scelto perché mi piace pensare fuori dagli schemi. Si è rivelata una bellissima esperienza,” dice Musleh. Molte persone che hanno assistito al torneo hanno incoraggiato le ragazze con slogan e cori. Ciò ha dato loro la forza di andare avanti, mentre qualcuno è rimasto critico.

Le mie amiche si sono vergognate e hanno pianto quando hanno ricevuto commenti negativi. Quindi, dato che sono la più vecchia della squadra, sono stata dalla loro parte e le ho incoraggiate,” afferma Musleh.

In seguito ai commenti negativi alcune ragazze non hanno boxato per un po’, ma grazie all’appoggio di Ayoub hanno superato ogni difficoltà.

Sviluppano le loro capacità guardando su internet gli allenamenti della boxe femminile internazionale.

Il mio sogno è quello di rappresentare la bandiera palestinese, partecipare a competizioni locali e internazionali e far vedere al mondo che in Palestina c’è un popolo che ha incredibili capacità,” mi dice Musleh.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nessun diritto per i lavoratori di Gaza in Israele

Amjad Ayman Yaghi

7 aprile 2022 – The Electronic Intifada

Muhammad Abdelwahab ha subito un incidente mentre lavorava in un cantiere edile in Israele.

La lesione era grave – una ferita sanguinante alla testa – e si è recato in una clinica.

La clinica gli ha consigliato di rivolgersi in ospedale, ma Abdelwahab ha preferito aspettare e tornare a Gaza per le cure. Dal momento che non aveva l’assicurazione sanitaria, le cure sarebbero state troppo costose in Israele.

Nonostante la gravità dell’infortunio di Abdelwahab, il suo datore di lavoro non gli ha fornito alcun risarcimento finanziario o cure mediche.

Abdelwahab, 39 anni, è padre di quattro figli e vive nel campo profughi di Jabaliya, nel nord della Striscia di Gaza.

Era disoccupato da tre anni quando nel dicembre 2021 ha iniziato a lavorare nel settore edile in Israele. Il suo incidente è avvenuto nel febbraio di quest’anno.

Sebbene sia un fabbro professionista, Abdelwahab era disposto a lavorare in qualsiasi settore in Israele, non solo perché quei lavori vengono pagati relativamente bene, ma perché il blocco israeliano a Gaza imposto nel 2007 ha fortemente ridotto le opportunità di lavoro nella Striscia.

Abdelwahab è riuscito a ottenere un permesso per lavorare in Israele, ma non ha avuto al qualifica ufficiale di “lavoratore”.

Invece, ha ricevuto un permesso per “necessità economiche”, che priva il lavoratore dell’accesso a benefici come l’indennizzo di lavoro, l’assicurazione sanitaria e altri diritti lavorativi concessi in Israele ai lavoratori.

“Sto aspettando di riprendermi dall’infortunio per tornare al lavoro”, ha detto. Più sto a casa, più le cose peggiorano per me. Ho dei figli, tre di loro sono studenti e ho delle grosse spese”.

Sebbene Abdelwahab consideri importanti questioni come la salute e l’assicurazione sulla vita, ha affermato che le condizioni a Gaza sono così terribili che qualsiasi lavoro, anche senza sussidi, è “come un sogno”.

Abdelwahab valuta con attenzione anche il futuro dei suoi figli, che si troverebbe a rischio nel momento in cui a lui e ai suoi colleghi venisse a mancare la sicurezza sul lavoro.

Lavoratori senza assicurazione

Come parte di un accordo con Hamas con la mediazione dell’Egitto, Israele ha recentemente concesso ai lavoratori palestinesi della Striscia di Gaza altri 8.000 permessi per lavorare all’interno di Israele.

Tuttavia, per le caratteristiche dei permessi, questi lavoratori non godono di benefici lavorativi e sociali, sono trattati in modo diverso e spesso pagati meno dei lavoratori palestinesi della Cisgiordania occupata.

Al posto dei permessi di lavoro, ai lavoratori di Gaza vengono concessi permessi per necessità economicheche non garantiscono loro i diritti lavorativi.

I lavoratori della Cisgiordania, invece, hanno permessi regolari.

Fahmi Amin, 40 anni, che lavora in una fabbrica israeliana vicino a Gaza, ha affermato che ottenere tali permessi può costare a un palestinese di Gaza fino a 916 euro in tasse di registrazione al ministero delle finanze di Gaza, una cifra enorme per i disoccupati.

Eppure al checkpoint di Erez, l’unico valico per le persone tra Gaza e Israele, molti vengono trattenuti e subiscono un breve interrogatorio da parte delle autorità israeliane.

Amin sottolinea che i lavoratori palestinesi in Israele, a causa della loro mancanza di diritti, temono che possano essere tagliati gli aiuti umanitari dell’Autorità Nazionale Palestinese e che, da un momento all’altro, possa sorgere una controversia tra Israele e Gaza, lasciandoli disoccupati e con poche prospettive per ulteriori lavori.

Amin sostiene che lavorare in Israele può rendere cinque volte di più del salario che si riceve a Gaza.

“Ma pensare di lasciare il lavoro in Israele sarebbe un disastro” dice Amin.

Abbiamo troppa paura che gli aiuti che riceviamo dall’Autorità Nazionale Palestinese – già sospesi da diversi mesi vengano tagliati, afferma.

L’Autorità Nazionale Palestinese, dipendente dagli aiuti esteri, concede indennità assistenziali alle famiglie più povere di Gaza.

“Il lavoro in Israele non è garantito”, ha aggiunto. Riprenderemo a cercare un modo per convincere le autorità ufficiali della nostra necessità di un sostegno finanziario regolare in caso di interruzione degli aiuti. Non vogliamo che si arrivi a questo”.

Amin dice che lui e gli altri lavoratori lavorerebbero ovunque, pur di poter fornire cibo e indumenti ai loro figli.

“Ci auguriamo di ottenere in prospettiva la concessione dei nostri diritti in modo che nulla possa impedirci di lavorare”, aggiunge.

Negazione dei diritti fondamentali

Dopo l’attacco israeliano del maggio 2021 a Gaza Israele ha autorizzato altri 3.000 permessi commerciali per i palestinesi di Gaza, portando il numero totale di permessi a 10.000. Tuttavia, questi permessi per esigenze commerciali e finanziarie non comportano diritti lavorativi.

Fino allo scoppio della seconda intifada nel 2000 il numero totale di lavoratori di Gaza all’interno di Israele era di quasi 30.000.

Oggi, secondo Sami al-Amasi, capo della Federazione generale palestinese dei sindacati a Gaza, questo numero non supera i 10.000.

Al-Amasi sottolinea che gli israeliani, rifiutandosi di designare i palestinesi di Gaza come “lavoratori”, eludono qualsiasi impegno a fornire lavoro e diritti economici.

Molti lavoratori feriti o licenziati prima del 2000, dice al-Amasi, per ottenere i loro diritti si sono rivolti ad avvocati palestinesi con cittadinanza israeliana.

Alcuni di questi casi sono rimasti fermi nei tribunali per anni poiché i datori di lavoro israeliani hanno cercato di negare ai lavoratori palestinesi i loro diritti.

Al-Amasi spiega che Israele ha sostituito i permessi commerciali con permessi per esigenze economiche per evitare di fornire ai lavoratori l’assicurazione sanitaria, il risarcimento in caso di infortunio e il TFR.

Al-Amasi osserva che prima del 2000 agli abitanti di Gaza impiegati in Israele veniva concessa la qualifica di “lavoratori”.

A tutti dovrebbe essere concesso lo status di lavoratore, aggiunge, in modo che ognuno ottenga i suoi diritti”.

Il sindacato a cui è iscritto ora sta spingendo per il rilascio ad abitanti di Gaza di almeno 30.000 permessi di lavoro in Israele. Questi sforzi sono assistiti da quelli che al-Amassi chiama “intermediari”.

Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese nel 2021 circa 230.000 abitanti di Gaza erano disoccupati.

Tra i palestinesi della striscia di Gaza tra i 19 e i 29 anni in possesso di diploma, il 66% delle donne e il 39% dei maschi era disoccupato.

Maher al-Tabaa, il direttore della Camera di Commercio di Gaza, ha affermato che i permessi commerciali e finanziari rilasciati ai palestinesi di Gaza non conferiscono loro alcun diritto.

Eppure, dice, i lavoratori accettano questi permessi a causa degli alti tassi di povertà e disoccupazione.

Aggiunge che Israele potrebbe in seguito usare ciò come strumento di pressione sulle fazioni palestinesi affinché accettino un armistizio a lungo termine con Israele, non preso in considerazione durante i precedenti negoziati mediati dall’Egitto.

Attualmente, afferma al-Tabaa, i lavoratori in possesso dei permessi hanno un impatto molto limitato sull’economia di Gaza rispetto agli anni precedenti. Il numero di persone in cerca di lavoro supera di gran lunga il numero di permessi disponibili.

Il salario minimo a Gaza è inferiore a 550 euro al mese, ma il salario medio mensile effettivo è di 183 euro.

“I bassi salari sono molto importanti nella Gaza assediata”, dice al-Tabaa, aggiungendo che pochissime istituzioni pubbliche e private sono in grado di pagare il salario minimo.

Tuttavia, osserva, “questo è limitato alle istituzioni principali come banche e importanti società di telecomunicazioni, mentre altri lavoratori a Gaza ricevono la metà o meno della metà del salario minimo”.

Amjad Ayman Yaghi è un giornalista che vive a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Azienda israeliana presenta droni armati da combattimento per pattugliare i confini

Al Jazeera

13 settembre 2021 – Al Jazeera

Israel Aerospace Industries, azienda statale israeliana e principale contractor nel settore della difesa, ha presentato un robot armato controllato da remoto in grado di pattugliare le zone di combattimento, inseguire infiltrati e far fuoco.

Il veicolo senza pilota che si è visto lunedì è l’ultima novità nel mondo della tecnologia dei droni che sta rapidamente cambiando i moderni campi di battaglia.

I fautori sostengono che tali mezzi semi-autonomi permettono agli eserciti di proteggere i propri soldati mentre i critici temono che queste siano un altro pericoloso passo verso le decisioni di vita o morte prese da robot.

Il robot a quattro ruote motrici è stato sviluppato dall’azienda statale israeliana Israel Aerospace Industries’ “REX MKII”.

È manovrato da un tablet elettronico e può essere equipaggiato da due mitragliatrici, telecamere e sensori, ha comunicato Rani Avni, vicepresidente divisione sistemi autonomi dell’azienda. Il robot può raccogliere informazioni per le truppe di terra, trasportare soldati feriti e rifornimenti dal e sul luogo degli scontri e colpire bersagli nei dintorni.

È il più avanzato tra una decina di veicoli senza equipaggio sviluppati negli ultimi 15 anni da ELTA Systems, una sussidiaria di Aerospace Industries.

Per pattugliare il confine con la Striscia di Gaza e contribuire a rafforzare il blocco che Israele ha imposto nel 2007 quando Hamas ha preso il potere, l’esercito israeliano ora usa il “Jaguar”, un veicolo simile, ma più piccolo.

A Gaza abitano 2 milioni di palestinesi, quasi tutti imprigionati dal blocco che è sostenuto in parte anche dall’Egitto. La zona del confine è luogo di frequenti proteste e occasionali tentativi di entrare in Israele da parte di combattenti palestinesi o lavoratori disperati.

Stando al sito web dell’esercito israeliano il semi-autonomo Jaguar, equipaggiato con una mitragliatrice, è stato progettato per ridurre l’esposizione dei soldati ai pericoli del pattugliamento lungo l’instabile confine Gaza-Israele. È uno dei molti strumenti, come i droni armati con missili guidati, che hanno dato all’esercito israeliano un’enorme superiorità tecnologica su Hamas.

I veicoli senza equipaggio sono sempre più in uso in altri eserciti, tra cui quelli di Stati Uniti, Regno Unito e Russia. I loro compiti includono il supporto logistico, la rimozione di mine e l’azionamento di armi.

Il tablet può controllare manualmente il veicolo, ma molte delle sue funzioni, come il movimento e il sistema di sorveglianza, possono anche operare autonomamente.

A ogni missione il dispositivo raccoglie nuovi dati che può memorizzare per quelle future,” ha detto Yonni Gedj, un esperto della divisione di robotica della compagnia.

I critici hanno sollevato preoccupazioni concernenti le armi robotiche che potrebbero decidere da sole, magari sbagliando, di colpire bersagli. L’azienda ha affermato che tali funzioni esistono, ma non sono offerte ai clienti.

È possibile rendere l’arma in sé anche indipendente, tuttavia oggi si tratta di una decisione dell’utilizzatore,” ha precisato Avni. “Non si è ancora raggiunta la maturità del sistema o dell’utilizzatore.”

Bonnie Docherty, ricercatrice di alto livello presso la divisione bellica di Human Rights Watch, sostiene che tali armi sono preoccupanti perché non si può confidare che distinguano tra combattenti e civili o lancino i dovuti avvertimenti riguardo ai danni che gli attacchi potrebbero arrecare ai civili che si trovano nelle vicinanze.

Le macchine non possono comprendere il valore della vita, cosa che, in sostanza, minaccia la dignità umana e viola le leggi sui diritti umani,” ha affermato. In un rapporto del 2012, Docherty, docente presso la Scuola di Diritto di Harvard, ha invocato la messa al bando di armamenti totalmente automi da parte del diritto internazionale.

Jane’s, la rivista che si occupa di tecnologie militari, ha affermato che lo sviluppo di veicoli di terra autonomi è arretrato rispetto a quello di velivoli e navi perché spostarsi sul terreno è molto più complesso che navigare in acqua o in aria. Diversamente dall’oceano, i veicoli devono affrontare “buche” e sapere esattamente quanta forza applicare per superare un ostacolo fisico, afferma l’articolo.

Anche la tecnologia dei veicoli senza conducenti solleva preoccupazioni. Il produttore dell’auto elettrica Tesla, tra le altre imprese, è stato collegato con una serie di incidenti mortali, incluso uno in Arizona nel 2018 quando una donna è stata investita da una macchina con pilota automatico.

Il drone israeliano è stato presentato alla fiera internazionale delle tecnologie per la difesa e sicurezza che si svolge a Londra questa settimana.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I pescatori di Gaza presi tra l’incudine e il martello 

Motasem A Dalloul

9 agosto 2021 middleeastmonitor

“La vita del pescatore è sempre dura, ovunque, ma sotto l’occupazione militare israeliana lo è ancora di più.”

Samya e Omayya Abu Watfa hanno perso il padre undici anni fa. Si stanno preparando per il nuovo semestre all’università, dove Samya studia chimica e Omayya studia sicurezza alimentare. Ognuno ha bisogno di circa 1.100 – 1.200 dollari per le tasse scolastiche, ma dipendono dal fratello Mohammad, 33 anni, che è un pescatore. Ciò significa che il denaro scarseggia.

“Lavora giorno e notte per provvedere a noi, a nostra madre e ai tre fratelli”, mi ha detto Samya. Mohammad è per noi fratello, padre, tutto.” Ha anche la sua famiglia a cui pensare, una moglie e quattro figli.

A 22 anni Mohammad Abu Watfa ha ereditato la barca da suo padre. Ha lasciato l’università per lavorare e provvedere alla famiglia. “Lavoravo con mio padre quando era vivo, anche durante gli studi. Voleva che diventassi ingegnere, ma non potevo lavorare e continuare a studiare”.

Come tutti gli altri pescatori di Gaza, Abu Watfa sarebbe contento del suo lavoro, anche se è molto duro, se non fosse per le restrizioni imposte da Israele e per le quotidiane violenze esercitate dalla marina israeliana.

Il capo del Sindacato dei Pescatori di Gaza ha ribadito come l’occupazione israeliana abbia imposto un rigoroso blocco terrestre, aereo e marittimo sulla Striscia di Gaza dal 2006. “Questo rende insopportabile la vita di oltre 2 milioni di persone a Gaza”, ha affermato Nizar Ayyash. “La pesca è uno dei settori più colpiti dal blocco. Più di 4.500 pescatori, che hanno complessivamente a carico circa 50.000 persone, vivono e lavorano sotto un’estrema pressione e stress a causa delle misure israeliane connesse al blocco”.

Secondo gli Accordi di Pace di Oslo firmati nel 1993 tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, i palestinesi dovrebbero avere accesso alla pesca senza restrizioni fino a 20 miglia nautiche al largo della costa di Gaza. Tuttavia, non sono mai stati autorizzati ad avventurarsi oltre le 16 miglia. Normalmente, sono bloccati entro le 12 miglia; spesso molto meno.

La scorsa settimana, ad esempio, la marina di occupazione israeliana ha ridotto la zona di pesca a sei miglia nautiche in risposta a ciò che Israele ha affermato essere il lancio di palloni incendiari da Gaza verso Israele. È stato poi esteso di nuovo a 12 miglia nautiche. Questo è il gioco israeliano con i pescatori palestinesi dal 2005. Ci sono momenti in cui lo Stato di occupazione vieta del tutto la pesca per giorni o settimane con il più debole dei pretesti.

“Dal 2007”, ha affermato l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari ( OCHA) in un recente rapporto, “Israele ha mantenuto incerta la zona di pesca come parte della sua politica di ‘zone cuscinetto’ marittime, ovvero limposizione unilaterale da parte di Israele di inaccessibili zone militari nelle acque palestinesi, spesso vietando completamente la pesca ai palestinesi”.

La pesca è sempre stata un lavoro pericoloso per uomini come Abu Watfa, che mette in gioco la propria vita per portare il cibo in tavola. “A volte ci sono branchi di pesci a circa 15 miglia al largo. Se vogliamo catturarli, dobbiamo andare più in là e spingerli a riva. Quando lo facciamo, la marina israeliana ci insegue, ci spara e poi ci vieta di pescare”.

L’ OCHA ha sottolineato che “Nel corso degli anni, gli attacchi illegali e ingiustificati di Israele – comprese forme di forza letale e altri eccessi, arresti arbitrari, confisca e distruzione di barche e altri materiali da pesca – e restrizioni punitive contro i pescatori palestinesi hanno reso la pesca al largo della costa di Gaza un rischio per la vita e la sicurezza e ridotto la comunità dei pescatori in povertà estrema”.

Queste pratiche, ha aggiunto l’ONU, fanno parte della attuale politica di Israele di interdizioni nella Striscia di Gaza. “Equivalgono a una punizione collettiva illegale degli oltre due milioni di residenti palestinesi, e sono tra le pratiche, leggi e politiche che costituiscono il regime di apartheid di Israele contro il popolo palestinese”.

Bilal Bashir, 42 anni, lavora insieme ad altri dieci pescatori sulla stessa barca. Si è lamentato delle ripetute aggressioni israeliane contro di loro. “A volte, Israele decide di ridurre la zona di pesca proprio mentre siamo in mare. Apprendiamo della restrizione solo quando la marina apre il fuoco contro di noi o i marinai ci urlano contro con gli altoparlanti”.

La sua barca è stata colpita più volte dal fuoco israeliano. Nel marzo 2015, ricorda con amarezza, il suo collega Tawfiq Abu Riala, 32 anni, è stato ucciso. “Quando Tawfiq è stato colpito siamo rimasti scioccati e abbiamo chiesto aiuto. Invece di aiutarci, la marina ha arrestato altri due uomini”.

L’ultimo incidente del genere è accaduto nel febbraio 2018. Le forze di occupazione hanno spiegato cosa è successo: “Una nave sospetta [sic] ha lasciato la zona di pesca al largo della Striscia di Gaza settentrionale, con a bordo tre sospetti [per cui i marinai israeliani hanno iniziato] il protocollo di arresto, che include richiami [di stop], spari di avvertimento in aria e spari alla barca stessa… A seguito degli spari, uno dei sospetti è stato gravemente ferito e in seguito è morto per le ferite riportate”.

La pesca è un affare costoso. Un giorno in mare di una barca con dieci pescatori a bordo può costare fino a 1.500 dollari. “Quando navighiamo entro le 15 miglia nautiche, difficilmente il pescato può coprire le spese”, ha osservato Kinan Baker, 27 anni. “Quando la zona di pesca viene ridotta a sei miglia nautiche è una perdita enorme perché il pescato non copre le spese .”

Ayyash ha descritto l’industria della pesca come il settore più vulnerabile sotto l’assedio imposto a Gaza dall’occupazione israeliana. “Israele sfrutta tutto per mettere sotto pressione la resistenza palestinese. Questa [punizione collettiva] è una chiara violazione del diritto internazionale”. Il capo del sindacato ha chiesto al mondo di esercitare pressioni su Israele affinché smetta di mettere in pericolo la vita e il sostentamento dei pescatori per motivi politici o di sicurezza.

Le punizioni collettive equivalgono a crimini di guerra, e se parte di una politica diffusa o sistematica sono crimini contro l’umanità e sono i fattori principali del deterioramento della situazione umanitaria a Gaza”, ha aggiunto il Center Al Mezan for Human Rights [organizzazione non governativa con sede nel campo profughi palestinese di Jabalia nella Striscia di Gaza, ndtr.]

Nel giugno dello scorso anno la Banca Mondiale ha affermato che “la pesca è una fonte vitale di occupazione, con più di 100.000 persone che beneficiano del settore”. Oltre ai pescatori e alle loro famiglie, ha indicato come beneficiari del settore i commercianti al dettaglio, i proprietari di ristoranti, gli operatori di vivai e i trasportatori del pesce. “Tuttavia, il mare non è più generoso come una volta. La gente di Gaza non può far conto sul proprio pesce, e a volte nemmeno permetterselo. La maggior parte delle famiglie di pescatori sono povere e il loro reddito sta diventando sempre più precario man mano che gli ecosistemi marini continuano a degradare.”

La vita del pescatore è sempre dura, ovunque, ma sotto l’occupazione militare israeliana lo è ancora di più. I pescatori di Gaza sono presi tra l’incudine dell’occupazione e il martello delle difficoltà economiche.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Le risorse dimenticate di petrolio e gas della Palestina

Mahmoud Elkhafif

Coordinatore, Unità Assistenza al popolo palestinese, UNCTAD

21 giugno 2021 – Al Jazeera

Sarà necessaria un’equa distribuzione delle risorse di petrolio e gas nel bacino di Levante per il raggiungimento di un duraturo accordo politico ed economico tra Israele e Palestina.

Dopo l’ultima operazione militare di Israele e la conseguente massiccia devastazione a Gaza, la comunità internazionale ha promesso centinaia di milioni di dollari per aiutare la ricostruzione della Striscia. Tuttavia, una fine duratura del conflitto tra Israele e Palestina non sarà possibile senza investimenti a lungo termine nello sviluppo economico e umano della Palestina, pari a miliardi di dollari all’anno.

Uno strumento trascurato per generare queste entrate sarebbe quello di destinare alla Palestina la sua giusta quota di benefici dalle riserve di petrolio e gas naturale nei territori occupati e nel Mediterraneo orientale, che sono attualmente sfruttate solo da Israele.

Un recente studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) sottolinea che le nuove scoperte di gas naturale nel bacino di Levante sono dell’ordine di 3 trilioni di metri cubi, mentre si stima che il petrolio recuperabile sia di 1,7 miliardi di barili. Queste riserve offrono l’opportunità di distribuire e spartire circa 524 miliardi di dollari tra le varie parti della regione.

L’occupazione militare israeliana dei territori palestinesi dal 1967 e il blocco della Striscia di Gaza dal 2007 hanno impedito al popolo palestinese di esercitare qualsiasi controllo sulle proprie risorse di combustibili fossili, negandogli le tanto necessarie entrate fiscali e di esportazione e lasciando l’economia palestinese sull’orlo del collasso.

I costi economici inflitti al popolo palestinese sotto occupazione sono ben documentati: severe restrizioni alla circolazione di persone e merci; la confisca e distruzione di proprietà e beni; perdita di terra, acqua e altre risorse naturali; frammentazione del mercato interno ed esclusione dai mercati limitrofi e internazionali; e l’espansione delle colonie israeliane illegali secondo il diritto internazionale.

Il popolo palestinese esercita un controllo limitato anche sui propri margini e politiche di bilancio. Secondo le disposizioni del Protocollo di Parigi sulle relazioni economiche, Israele controlla la politica monetaria, i confini e il commercio palestinesi. Riscuote anche dazi doganali, IVA e imposte sul reddito dei palestinesi impiegati in Israele che poi versa al governo palestinese. L’UNCTAD stima che, sotto l’occupazione, il popolo palestinese abbia perso nel periodo 2007-2017 39,9 miliardi di euro di entrate fiscali, comprese le entrate trafugate da Israele e gli interessi maturati. In confronto, nello stesso periodo la spesa per lo sviluppo da parte del governo palestinese è stata di circa 3,7 miliardi di euro.

Il blocco prolungato e le ricorrenti operazioni militari a Gaza hanno ridotto più della metà della popolazione del territorio a vivere al di sotto della soglia di povertà e hanno un costo di 13,9 miliardi di euro di PIL all’anno. Questa cifra non tiene conto dell’enorme costo connesso all’opportunità negata al popolo palestinese di sfruttare il proprio giacimento di gas naturale al largo delle coste di Gaza.

L’accordo israelo-palestinese del 1995 sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza, noto come Accordo di Oslo II, ha conferito all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) la giurisdizione marittima sulle sue acque fino a 20 miglia nautiche dalla costa. Nel 1999 l’ANP ha firmato con il British Gas Group un contratto di 25 anni per l’esplorazione del gas e nello stesso anno è stato scoperto un grande giacimento di gas, Gaza Marine, a 17-21 miglia nautiche al largo della costa di Gaza. Tuttavia, nonostante le discussioni iniziali tra il governo israeliano, l’ANP e British Gas sulla vendita di gas ottenuto da questo giacimento e la fornitura dei tanto necessari ricavi ai territori palestinesi occupati, i palestinesi non hanno ottenuto alcun beneficio.

Dal blocco di Gaza del 2007 il governo israeliano ha stabilito di fatto il controllo sulle riserve di gas naturale al largo di Gaza. L’appaltatore, British Gas, da allora ha avuto a che fare con il governo israeliano, aggirando di fatto il governo palestinese per quanto riguarda i diritti di esplorazione e sviluppo.

Israele ha anche preso il controllo del giacimento di petrolio e gas naturale del Meged, situato all’interno della Cisgiordania occupata. Israele afferma che il campo si trova a ovest della linea di armistizio del 1948, ma la maggior parte del bacino si trova sotto il territorio palestinese occupato dal 1967.

Più di recente Israele ha iniziato a sviluppare nuove scoperte di petrolio e gas nel Mediterraneo orientale, esclusivamente a proprio vantaggio.

Nel requisire e sfruttare le risorse di petrolio e gas palestinesi, Israele sta agendo in violazione della lettera e dello spirito del Regolamento dell’Aia, della Quarta Convenzione di Ginevra e di un insieme corposo di leggi umanitarie internazionali e dei diritti umani che si occupa dello sfruttamento di risorse comuni da parte di una potenza occupante, senza riguardo per gli interessi, i diritti e le quote della popolazione che subisce l’occupazione.

Dopo il recente attacco a Gaza la comunità internazionale ha finora promesso 860 milioni di dollari per la ricostruzione ma, anche prima dell’ultima aggressione militare, l’UNCTAD ha stimato necessaria una spesa di almeno 838 milioni di dollari per far uscire la popolazione di Gaza dalla povertà. Una quota equa dei proventi del petrolio e del gas fornirebbe ai palestinesi finanziamenti sostenibili da investire nella ricostruzione, riabilitazione e ripresa economica a lungo termine. L’alternativa è che queste risorse comuni vengano sfruttate individualmente ed esclusivamente da Israele e diventino un altro fattore scatenante di conflitti e violenze.

Naturalmente una ripresa economica sostenibile e una soluzione politica sostenibile vanno di pari passo. L’ONU mantiene la sua posizione di vecchia data secondo cui una pace duratura e globale può essere raggiunta solo attraverso una soluzione negoziata a due Stati. L’ONU continua a lavorare per la creazione di uno Stato di Palestina indipendente, democratico, contiguo, sovrano e vitale, che esista in pace e sicurezza con Israele. La sopravvivenza economica di uno Stato palestinese dipenderà dalla capacità dei palestinesi di controllare la propria economia e di avere un accesso equo alla loro quota di riserve di petrolio e gas in Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Traumi e salute mentale a Gaza

Kamran Ahmed

 14 giugno 2021, Al Jazeera

L’occupazione israeliana, le bombe e l’oppressione infliggono non solo danni fisici ma anche psicologici ai palestinesi.

Il cessate il fuoco del 20 maggio tra il governo israeliano e Hamas ha posto fine all’ultima esplosione del conflitto nella regione e ha portato a un senso di sollievo collettivo fra i palestinesi assediati della Striscia di Gaza.

Ma le profonde ferite che la violenza ha inflitto rimangono aperte.

Undici giorni di bombardamenti israeliani sull’enclave assediata hanno causato la morte di 256 palestinesi, tra cui 66 bambini. Quasi 2.000 sono stati feriti. Case, uffici e ospedali sono stati distrutti.

Mentre il fragile cessate il fuoco sembra reggere, coloro che sono sopravvissuti al conflitto stanno ancora una volta cercando di ricostruire le proprie vite. Ma i danni inflitti durante gli 11 giorni non sono stati solo fisici e materiali. Anche la salute mentale dei palestinesi di Gaza è stata bombardata durante quei giorni terribili.

Difficile immaginare quanto sia stata fonte di traumi psichici la situazione di queste persone: sono vissute nella paura del successivo attacco aereo, con lo spettro incombente della morte, di perdere i propri cari e le proprie case.

I residenti di Gaza hanno sopportato per decenni situazioni traumatizzanti una dopo l’altra. Le micidiali offensive israeliane – quattro negli ultimi 14 anni – hanno provocato i danni maggiori, ma si sono verificate sullo sfondo del continuo trauma imposto dall’occupazione.

Atrocità come il sequestro e la demolizione di case, il devastante regime poliziesco, le uccisioni illegali, la detenzione senza processo e la tortura infliggono tutte profondi danni psicologici. Una continua oppressione di questo tipo può distruggere l’autostima e lasciare le vittime in uno stato di “impotenza acquisita” -[assenza di controllo sull’esito di una situazione, ndtr.], rassegnate al loro destino e vulnerabili alla depressione.

Il blocco illegale israeliano di Gaza consiste anche in una sorta di strangolamento psicologico. La deprivazione economica che ne è derivata ha causato una diffusa disoccupazione e povertà – fattori di rischio ben noti per le malattie mentali – e ha lasciato i servizi sanitari senza finanziamenti e incapaci di soddisfare la domanda. Ogni guerra a Gaza li distrugge ulteriormente: questa volta almeno sei ospedali, due cliniche, un centro sanitario e una struttura della Mezzaluna Rossa Palestinese hanno subito danni.

Per la maggior parte degli altri Paesi, il COVID-19 è attualmente il principale problema di salute pubblica e mentale. In Palestina è quasi un pensiero di fondo soverchiato dalla paura di pericoli più immediati: attacchi aerei e oppressione. Ma bisogna ricordare che finora più di 110.000 persone a Gaza sono state infettate dal virus, con oltre 1.000 morti. Sono disponibili solo dosi sufficienti per vaccinare 60.200 persone su una popolazione di oltre 2 milioni. Quindi l’ansia da pandemia dilaga anche a Gaza, aggiungendosi al già insopportabile carico di paure.

Tutto questa insicurezza si traduce in vere e proprie malattie mentali. A Gaza i tassi di disturbi da stress post-traumatico (PTSD) – disturbi del sonno, tensione permanente, irritabilità , paure improvvise, flashback e incubi in cui si rivive il trauma subito e intorpidimento emotivo – sono incredibilmente alti. Uno studio del 2017 ha rilevato che il 37% degli adulti che vivono nella Striscia rientra in questa diagnosi.

Nel mio lavoro di psichiatra ho trattato rifugiati dalle guerre in Iraq e Afghanistan con PTSD: si tratta di una sindrome che può essere grave, complessa e durevole. Iniziare un percorso di guarigione mentre le cause di fondo del trauma persistono è quasi impossibile. Il capo dei servizi di salute mentale in Palestina una volta ha detto che la sua gente non soffre di disturbi da stress post-traumatico perché il trauma non è affatto passato. Disturbo da stress traumatico in corso può essere una descrizione più adeguata della loro situazione.

Come spesso accade in queste situazioni i bambini sono quelli che soffrono di più. Uno studio condotto nel 2020, prima dell’ultimo conflitto, ha rilevato che il 53,5% dei bambini a Gaza soffriva di PTSD. Quasi il 90% aveva subito un trauma personale. Il Consiglio Norvegese per i Rifugiati ha riportato la terribile notizia che 11 dei bambini uccisi dai recenti attacchi aerei israeliani stavano partecipando al suo programma di recupero dai traumi. Non c’è da stupirsi che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres abbia descritto Gaza come “l’inferno in terra” per i bambini.

Naturalmente anche gli israeliani hanno sofferto. Dodici sono stati uccisi dai razzi di Hamas a maggio, due dei quali bambini: una tragica perdita di vite umane. Ma per gli israeliani il sistema di difesa Iron Dome e i rifugi antiaerei forniscono una rete e un senso di sicurezza di cui i palestinesi sono privi. I servizi sanitari israeliani sono molto sviluppati e adeguatamente attrezzati per affrontare sia le lesioni fisiche che l’impatto psicologico del lancio di razzi. Inoltre non stanno vivendo l’angoscia mentale dell’occupazione. Tutto ciò si riflette in tassi di disturbo da stress post-traumatico più bassi che vanno dallo 0,5 al 9% della popolazione.

Nel 2008 ho fatto un viaggio nel Somaliland [Stato non riconosciuto che comprende le province settentrionali della Somalia, ndtr.] postbellico per insegnare psichiatria agli studenti di medicina. La guerra civile che ha colpito l’area è terminata nel 1991 ma i suoi effetti sulla salute mentale della popolazione e sulle infrastrutture sanitarie erano ancora evidenti 17 anni dopo. Continuano ancora oggi. Ci vorrà tempo per ricostruire le menti disturbate e i servizi sanitari a Gaza, ma ci sono poche speranze per loro finché Israele non porrà fine alla sua occupazione illegale, all’espansione degli insediamenti e al blocco di Gaza.

L’oppressione dei palestinesi ha portato Human Rights Watch alla conclusione che Israele è colpevole del crimine di apartheid. Forse considerare questa situazione attraverso il prisma delle violazioni dei diritti umani e del loro grave impatto sulla salute mentale potrebbe spingere la comunità internazionale a fare pressione su Israele affinché agisca. Sia i palestinesi che gli israeliani meritano sicurezza e protezione dai traumi. Il modo migliore per raggiungere questo obiettivo è concedere ai palestinesi i loro diritti umani fondamentali.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

(traduzione di Giuseppe Ponsetti)




Mettere a tacere le persone non condurrà alla pace

Shahd Safi

1 aprile 2021 We Are Not Numbers

Questo contributo è stato scritto nell’ambito della collaborazione con Jewish Voice for Peace per protestare contro la censura da parte di Facebook delle voci dei palestinesi e dei loro sostenitori

Tre guerre. Aggressioni e invasioni troppo numerose per tenerne il conto. Tentativi di proteste spente nel sangue. Acqua che non si può bere. Niente lavoro. E come se questo non bastasse, violenza fra le mura domestiche.

Una persona come affronta tutto ciò? Col passar del tempo io ho letteralmente cominciato ad aver paura di tutto: ricordare il passato, pensare al futuro, conoscere gente nuova, provare ad amare. Spesso avevo persino paura di uscire di casa, e quando incontravo gente nuova, mi tremavano mani e gambe.

La tutela della salute mentale è complicata a Gaza; molti qui sono riluttanti a chiedere aiuto, io no. Il problema è che non potevo permettermelo. Un tempo avevo paura di parlare apertamente del mio conflitto interiore, ma adesso lo sto affrontando. We Are Not Numbers [Non Siamo Numeri, piattaforma fondata nel 2015 per ospitare le storie personali dei palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana o in campi profughi, ndtr] collabora con USA Palestine Mental Health Network [Rete USA per la Salute Mentale in Palestina, formata da operatori professionisti, ndtr] per fornire “interlocutori” ed io sono molto grata di poter contare finalmente su un ascolto professionale.

Non c’è modo di sfuggire alla cause delle mie angosce mentali -che, come ho imparato, consistono essenzialmente nell’esperienza di essere cresciuta e rinchiusa a Gaza. Che la mia stessa identità di profuga palestinese abitante a Gaza rappresenti in sé una specie di disturbo mentale è profondamente doloroso.

Ora mi rendo conto che anche la violenza domestica a cui ho assistito da giovane è in qualche modo collegata al nostro trauma culturale. I miei genitori sono stati troppo duri con me ed i miei fratelli, ma sono arrivata a comprendere il dolore, la paura, l’instabilità tramandati attraverso le generazioni dai miei nonni, sradicati durante la Nakba, fino ai miei genitori per arrivare infine a me. I traumi non curati possono alimentare una sorta di narcisismo, così ora riesco quasi a simpatizzare con i miei genitori. E riesco anche a perdonarli.

Oggi io vivo nella stessa paura ed instabilità. E’ quasi impossibile spiegare quanto sia spaventosa la situazione economica a Gaza. Non siamo autorizzati ad esportare quasi niente, le merci che siamo obbligati ad importare (perché non possiamo produrle qui) sono carissime, spesso di pessima qualità. In generale la gente è così povera che i consumi non sono in grado di sostenere un vero e proprio mercato interno.

Per quanto mi riguarda, è difficile per la mia famiglia pagare le mie tasse universitarie; altri due miei fratelli vanno all’università. Sono sempre stata una studentessa creativa ma ultimamente sto perdendo l’entusiasmo perché è davvero difficile concentrarmi sulle lezioni quando vedo la sofferenza nelle persone che amo.

E intanto è dall’infanzia che sogno di viaggiare. E’ il mio più grande desiderio. La mia anima anela a viaggiare. Voglio vivere quell’esperienza ma a causa del blocco di Israele sembra proprio che non riuscirò a realizzare il mio sogno. Ho vissuto in tante zone di quel “paesone” che è Gaza ed i miei occhi hanno necessità di godersi qualche posto nuovo. Voglio sentire aria nuova, fresca, pulita.

Voglio amare la vita. Ho paura di vivere, ma non voglio che siano le mie paure ad avere il controllo. Sto facendo del mio meglio per comprendere i miei timori in modo da gestirli in maniera sana. Ma è una lotta. Sono arrivata ora ad essere in sovrappeso di quasi dieci chili. In parte ciò è dovuto a “fame nervosa”, ma ho anche capito che molto di ciò che mangiamo non è salutare e la causa di questo è la povertà. E’ più facile trovare fast food e farinacei che alternative fresche e salutari.

Condividere dettagli così personali è difficile ma è parte del mio percorso di guarigione, così come lo sono progetti quali We Are Not Numbers e la sua cooperazione con Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, organizzazione statunitense antisionista che cerca di cambiare la politica degli USA al fine di raggiungere pace e giustizia in Israele e Palestina, ndtr].

Non otterremo mai giustizia se ebrei e palestinesi non si comprenderanno a vicenda. Ma come farlo se Facebook ed altri social media ci bloccano quando ci trovano “offensivi”? C’è bisogno di PIU’ comunicazione, non di meno! Questo è vitale per la mia salute personale – e anche per una comunità internazionale che bene o male deve vivere in pace.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Gaza: cronaca della pandemia, tra voci e verità

Asmaa Rafiq Kuheil

4 marzo 2021 – Chronique de Palestine

Il 25 agosto era previsto il mio colloquio per il lavoro dei miei sogni: insegnare inglese all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati [palestinesi].

Ho lavorato sodo in vista di questo colloquio. Per quasi un mese mi sono rifiutata di consultare le reti sociali, che spesso non sono altro che perdite di tempo! Ho aperto Facebook per non più di cinque minuti al giorno per vedere gli aggiornamenti di ‘We Are Not Numbers’ (Non Siamo Numeri, sito in cui palestinesi di Gaza raccontano le proprie esperienze, ndtr.) e verificare la posta importante su Messenger.

Il giorno prima del colloquio sono andata a dormire alle 22, per svegliarmi all’una del mattino per continuare la mia preparazione. L’elettricità era interrotta. Il mio ventilatore aveva la batteria quasi scarica in quella notte molto calda e tutta la mia famiglia nella nostra casa “al buio” dormiva. Mi sono fatta una tazza di caffè solubile, ho recitato due Rakaat [preghiere islamiche), poi ho acceso la torcia del mio cellulare ed ho cominciato a studiare nel nostro ampio soggiorno.

Come al solito ero sola, con il piccolo fascio di luce sul mio quaderno in mezzo all’oscurità. L’unico rumore era la voce dei grilli che arrivava dalla finestra.

Non so perché, alle 4,20 ho improvvisamente pensato che potevo dare uno sguardo a Facebook usando una scheda internet comprata da mio fratello. La connessione non era molto buona, ma volevo controllare qualche consiglio relativo al mio colloquio, dato che esiste un gruppo su Messenger a tale scopo.

Mi sono connessa e davvero vorrei non averlo fatto. Tutti si affrettavano a parlare delle ultime notizie: quattro persone a sud della Striscia di Gaza erano risultate positive al coronavirus, di cui abbiamo timore da tanto tempo. (Io pensavo davvero che noi lo avessimo scampato, “grazie” al rigido blocco cui siamo sottoposti.)

Sul momento non volevo credere a ciò che leggevo…finché non ho ricevuto un messaggio dell’UNRWA che diceva che tutti i colloqui, compreso il mio, erano stati annullati. Subito mi sono sentita molto male, ma poi mi è venuta voglia di saperne di più sul modo in cui il coronavirus era entrato a Gaza e ho rapidamente messo da parte i miei problemi personali.

Ho letto la storia di Heba Abu Nadi, una gazawi che aveva attraversato il valico di Erez per andare a Gerusalemme con la sua figlioletta ammalata, che doveva essere operata all’ospedale El-Makassed in quella città.

Inizialmente le autorità israeliane di occupazione le hanno rifiutato il permesso di transito da quel posto di controllo e lei ha finito per tornare a casa dopo aver trascorso quattro ore a tentare di accompagnare sua figlia.

Immaginate quanto abbia potuto sentirsi disperata…

Il giorno dopo ha tentato nuovamente di attraversare il blocco e questa volta ha avuto il permesso di uscire. In seguito ha fatto il test ed ha saputo di avere il coronavirus….

Questa sfortunata donna si è ritrovata ovunque sulle reti sociali. Alcuni la insultano per aver infettato i membri della sua famiglia mettendo in pericolo tutta Gaza. Altri pregano per lei. Altri ancora fanno sgradevoli battute!….

Quanto a me, mi metto al suo posto. Come sta ora sua figlia? Come si sente Heba, quando tutti la criticano come se lei fosse la causa della disastrosa situazione di Gaza? O come se si trattasse di un complotto israeliano per distruggere Gaza di cui quindi lei non sarebbe che una vittima?

Oh, gente di Gaza! Smettetela di prendervela con questa povera madre! Noi non sappiamo tutto ciò che è accaduto. Lei deve essere molto infelice, preoccupata per sua figlia e forse si rimprovera terribilmente per aver messo in pericolo quattro membri della sua famiglia.

Anche prima di quest’ultima catastrofe la vita era molto peggiorata a Gaza. Non abbiamo più di quattro ore di elettricità al giorno e adesso siamo tutti in quarantena, il che aggiunge al danno anche la beffa.

Un messaggio su Facebook è stato come il sale su una ferita aperta: una ragazza di fuori Gaza ci diceva che ormai il COVID-19 è una cosa normale e che non c’è motivo di preoccuparsi.

Ma Gaza non è simile a nessun altro luogo! Gaza, questo punto minuscolo sulla mappa con due milioni di persone, non ha che un solo grande ospedale, dove recentemente sono state identificate molte persone contagiate, costringendo ad evacuare un intero reparto.

Sapete che i nostri medici rischiano la vita per un salario mensile di 300 dollari? Sì, cari lettori, 300 dollari, non 3.000. E migliaia di altri in questo periodo non ricevono alcun salario.

Il giorno dopo mio padre ha detto al mio fratellino Hamza di andare a comprare dell’acqua in bottiglia, perché ne avevamo poca. (L’acqua del rubinetto non è potabile in sicurezza). Ma mio padre ha ordinato a Hamza di restare poi in casa, dicendogli che gli avrebbe vietato di uscire se glielo avesse di nuovo chiesto. Rendendoci conto che era la nostra ultima occasione per molto tempo, tutti noi avevamo scritto un lungo elenco di altri prodotti di cui avevamo bisogno e che si trovavano nell’unico supermercato aperto nella nostra zona.

Per strada Hamza ha visto solo poliziotti che controllavano per impedire spostamenti non urgenti.

Intanto mio padre ascoltava la sua radiolina portatile accesa, cercando le notizie sul COVID. Mia sorella Walaa’, che studia per il Tawjihi (diploma di scuola secondaria generale) e che continua a studiare per gli esami finali, ha paura del prossimo futuro. Non sa se deve studiare, sedersi insieme a noi o parlare con i suoi amici di come hanno trascorso la giornata.

I miei fratelli e sorelle più giovani sono contenti che la scuola sia chiusa. Sono ancora troppo giovani per capire che cosa sia il coprifuoco.

Quanto a mia madre, cucina del manakish (la nostra versione della pizza, condita con timo e olio d’oliva). Lo fa sempre durante le guerre ed altre situazioni di emergenza. (E scommetto che non è la sola…in ogni casa ci sono tonnellate di timo e il manakish non costa molto se se ne cucinano grandi quantità). Le due cose sono diventate sinonimi.

Mi viene in mente improvvisamente il tema – che aveva vinto il premio – che avevo scritto per il concorso di scrittura We are not Numbers COVID-19. In questo testo affermavo che Gaza si è rivelata essere il luogo più sicuro al mondo per quanto riguarda la pandemia. Quando l’ho scritto pensavo paradossalmente che l’orrendo blocco israeliano di Gaza, che impedisce la maggior parte degli spostamenti all’interno e all’estero, per una volta ci avrebbe tenuti “al sicuro”, mentre gli altri avrebbero dovuto subire l’epidemia.

Il mio articolo stava per essere pubblicato, ma adesso ne vale la pena? E in caso affermativo, verrà letto? Oppure io sarò presa in giro e ridicolizzata come la povera Heba?

In ogni caso io mi atterrò alla mia convinzione che questi miserabili giorni finiranno – non semplicemente per la speranza, ma piuttosto per la mia fede profonda nel nostro dio e che tutto ciò che lui “scrive” è per il nostro bene, per quanto miserevole possa apparire a prima vista!

Asmaa’ Rafiq Kuheil, palestinese di Gaza, da tre anni è professoressa di inglese. Lavora come assistente di progetto presso l’UNRWA, dove contribuisce a costruire la propria Nazione con tutti i mezzi a sua disposizione. La sua arma è la scrittura.

27 août 2021 – WeAreNotNumbers – Traduction : Chronique de Palestine

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Con la grazia, la fede e una macchina fotografica

Noor Abdo

24 gennaio 2021- Wearenotnumbers

Nato durante la prima Intifada, Momen aveva solo una settimana di vita quando l’occupazione israeliana gli uccise il padre lasciandolo orfano nella Palestina occupata. Da quando è nato niente gli è stato facile. Lottando contro il dolore emotivo e fisico per tutta la vita, Momen ha tracciato un sentiero tutto suo.

Fotografo in divenire

Momen Faiz ha scoperto la sua passione per la fotografia da ragazzo quando viveva ad Al Shejayeh, un’area di confine nella zona est di Gaza. È un posto strategico per fotografare le rivolte e l’oppressione che avvenivano nell’area. Ha fatto i primi tentativi con una macchina fotografica che gli avevano prestato perché non ne aveva una sua. Questo gli ha offerto l’opportunità di stringere rapporti con un gruppo di fotografi e giornalisti. Ha ascoltato i loro consigli su dove mettersi per scattare le foto ed è così diventato un esperto a trovare l’angolazione giusta da cui catturare le immagini.

Momen ha cercato di comprarsi l’equipaggiamento, ma era troppo caro. Ha cominciato a lavorare come fotografo freelance per agenzie internazionali, la prima è stata Domtex.

Momen si è sempre trovato vicino alle zone dove di solito avvenivano gli attacchi perché casa sua è nei pressi del confine.

Da teenager, Momen aveva grandi sogni e visioni: diventare famoso e andarsene da Gaza, la più grande prigione a cielo aperto mai esistita, e riuscire a mostrare il suo talento al mondo. Tutto quello che sapeva del mondo esterno gli veniva dalla TV e dalla radio. Voleva girare il mondo. Ma il blocco aveva altri piani.

Adesso non posso andare” 

Una fredda mattina di settembre, Momen stava digiunando in occasione del Giorno di Arafah, il giorno prima di Eid- Al-Adha [importanti festività religiose islamiche, ndtr.], mentre andava in missione per riprendere la lotta dei commercianti palestinesi. A loro non restava altra scelta che scavare dei tunnel per poter svolgere una normale attività commerciale a causa delle restrizioni imposte dall’occupazione israeliana nelle zone di confine. Per Momen fare delle foto era solo un’altra sfida e stava gironzolando per trovare l’angolatura perfetta da cui scattare le immagini.

In un attimo Momen venne gettato a terra da un missile proveniente da un aereo da ricognizione israeliano che l’ha preso di mira direttamente e intenzionalmente. Il ventunenne perse conoscenza e sentì che l’anima stava abbandonando il suo corpo. Ma, mentre la vita gli stava passando davanti agli occhi, sentì una voce che lo implorava di andare avanti e di mettersi di nuovo in piedi. In quel momento, tutto quello che Momen disse a se stesso fu: “Non posso andarmene ora …. Non ho ancora fatto niente per la Palestina.”

L’inizio di una nuova vita

L’incidente capitato a Momen avvenne nel novembre 2008, durante un altro attacco israeliano contro Gaza durante l’operazione “Caldo Inverno” [dal 29 febbraio al 3 marzo 2008], durante la quale vennero usate contro civili inermi armi bandite a livello internazionale come le bombe al fosforo, e si lasciò dietro distruzioni massicce e un alto numero di morti. 

Fuori dalla sua finestra tutto stava crollando, ma Momen era sotto anestesia e non sentiva nulla. Non sapeva dove si trovasse o cosa gli fosse successo. Quando riprese conoscenza, gli dissero che era nell’ospedale Al-Shifa. Tutto cominciò a essere più chiaro, ma continuava a non sentire nulla. Allungando la mano per toccare le ferite sulle sue gambe, Momen non le trovò, non c’erano più!

I chirurghi avevano dovuto amputare entrambe le gambe sopra il ginocchio dato che la loro condizione continuava a peggiorare a causa della scarsità di attrezzature mediche dell’ospedale. La cancrena si era sviluppata e si era estesa a entrambe le gambe. Momen sarà confinato su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. Per lui la possibilità di ottenere delle protesi è ridottissima a causa della continuazione del blocco e del peggioramento della situazione economica della Striscia. Ha passato 25 giorni nell’ospedale Al-Shifa prima di essere trasferito in Arabia Saudita per la riabilitazione.

La macchina fotografica, la mia migliore amica

Appena fuori dall’unità di terapia intensiva, la prima cosa che Momen ha cercato è stata la sua migliore amica, la macchina fotografica. Era l’ultimo raggio di speranza che aveva. La strinse al cuore sussurrandole: “e adesso non abbandonarmi.”

Momen parla della sua macchina fotografica: “Mi ha confessato che si sentiva frustrata perché scattava immagini di crimini di guerra contro civili disarmati, donne e bambini, sapendo di non poter cambiare la realtà di quello che stava succedendo …Poteva solo scattare immagini e aiutarmi silenziosamente a condividerle con il mondo e così non essere altro che una testimone.”

Un raggio di speranza

Dopo otto mesi di cure in Arabia Saudita, il destino aveva un piano per cambiare la vita di Momen, che aveva attirato una grande attenzione mediatica perché il suo percorso era eroico: sopravvissuto a un attacco brutale, entrambe le gambe amputate e ora determinato a ricostruirsi una vita, sempre sorridendo!

In mezzo a tutto quello che gli stava succedendo notò un reporter che spiccava fra gli altri. Una rifugiata palestinese che aveva passato tutta la sua vita in Arabia Saudita ed era molto interessata a raccontare la storia di Momen. La passione di Dima, la sua fiducia in sé e il suo coraggio hanno fatto innamorare follemente Momen. E lei non ha avuto alcun dubbio quando Momen le ha chiesto di sposarla, pur sapendo molto bene che sarebbe stato difficile lasciare la famiglia e iniziare una nuova vita a Gaza.

E adesso?

Consolato dall’amore, Momen adesso aveva una ragione per andare avanti. Dima l’ha motivato a non arrendersi, lei è stata la sua luce al fondo del tunnel che l’ha spinto, insistendo che sarebbe ritornato ancora più forte.

Con la sua sedia a rotelle e la macchina fotografica Momen ha dato un significato nuovo alla parola perseveranza. Si è rifiutato di stare a letto e ogni giorno si è alzato e ha affrontato la vita. Momen ha scelto di vivere. Ha attraversato paesaggi urbani diversi per scattare foto e non ha avuto paura di salire su auto, edifici, bulldozer, qualsiasi cosa che si frapponesse fra lui e la migliore inquadratura. La sua sedia a rotelle e la macchina fotografica sono diventate parti integranti del suo corpo.

La prima mostra internazionale di Momen è stata in Italia nel 2016. Ovviamente non ha potuto essere presente perché non gli è stato concesso un visto di viaggio. Ha partecipato via Skype e tenuto un discorso per suscitare interesse a favore della lotta palestinese.

La macchina fotografica di Momen era fiera di lui. Avevano ancora una lunga strada da percorrere insieme, ma questo era un primo passo importante nel mondo delle esposizioni internazionali. Dopo quella mostra, è stato conosciuto a livello internazionale ed è riuscito a pubblicare su varie piattaforme altri lavori che documentano la lotta quotidiana dei palestinesi.

In giro per il mondo in sedia a rotelle

Dopo che la sua richiesta di visto era stata respinta varie volte e a causa delle chiusure dei confini, Momen finalmente è riuscito a lasciare Gaza per partecipare alla sua prima mostra in Malesia. Il viaggio fino all’aeroporto internazionale del Cairo è stato movimentato e arrivato là non è stato facile muoversi nell’aeroporto con una sedia a rotelle. Ha dovuto aspettare otto giorni dentro l’aeroporto fino a quando il visto è stato accettato.

La famiglia di Momen è rimasta a Istanbul mentre lui era presente per la prima volta in Malesia alla sua mostra nel 2018.

Al suo ritorno a Istanbul, alla ricerca di una nuova opportunità, ha deciso di restare là.

Sfortunatamente nel 2019, ha perso il lavoro e non ha più percepito lo stipendio. Si trattava di un salario speciale conferito a chi era stato ferito durante la guerra e impossibilitato a lavorare. Questa perdita ha messo in pericolo lui, sua moglie e i loro quattro bambini.

Perché stava succedendo a loro? Tutte le difficoltà che Momen si era trovato davanti non erano colpa sua. Ogni peso che lo opprimeva dipendeva dal fatto che era un palestinese che voleva vivere libero.

A Momen e alla sua famiglia non è rimasta altra scelta che cercare un posto che li avrebbe accolti. All’inizio del 2020 hanno fatto domanda di visto per visitare l’Arabia Saudita e partecipare al pellegrinaggio della Umrah. Ovviamente non sapeva che il Covid-19 avrebbe colpito il mondo, bloccandolo là. Dato che il loro visto stava per scadere, hanno cercato un modo per ritornare in qualsiasi posto li accettasse. Data l’estrema difficoltà di ottenere un visto in un simile momento non trovavano altro che porte chiuse.

Catturare la verità a Gaza

Oggi, dopo sette difficili mesi, Momen e la sua famiglia sono finalmente nella Striscia di Gaza con i loro cari.

La fotografia per Momen, non è solo un hobby, è il suo modo di evadere, uno strumento che gli ha dato le ali per volar via dal blocco di Gaza. La macchina fotografica è dedita a fare il suo dovere, documentare in modo trasparente l’occupazione della Palestina. E, sebbene qualche volta sia stanca, non si arrende mai. Come Momen.

Insieme sono una coppia perfetta, nessuno lascia mai l’altro e insieme trasmettono un messaggio di determinazione, resilienza e patriottismo. Non smetteranno mai di lottare per far sentire la voce della Palestina.

Nonostante le difficoltà quotidiane, con i suoi obiettivi, sulla sua sedia a rotelle e con un sorriso sul volto capace di ispirare chiunque lo veda, Momen continua a catturare la verità.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)