Sprofondate nella disperazione: le politiche di Israele colpiscono le famiglie di Gaza che vivono di pesca

9 settembre 2020 – B’Tselem

Il 12 agosto 2020 Israele ha ridotto da 15 a 8 miglia nautiche [da 27 a 15 km, ndtr.] la zona di pesca nelle acque di Gaza, ufficialmente a causa dei palloni esplosivi lanciati verso Israele. Il 16 agosto 2020 ha poi interdetto totalmente l’accesso al mare di Gaza, ma il 2 settembre 2020 l’ha riaperto entro le 15 miglia. Questa restrizione va ad aggiungersi a varie altre forme di pene collettive inflitte ai pescatori palestinesi dall’inizio del blocco imposto da Israele sulla Striscia nel 2007. Israele ha arrestato pescatori e ne ha confiscato le imbarcazioni, proibito l’importazione di materie prime usate per le riparazioni e sparato ai pescherecci accusati di oltrepassare i limiti permessi. A oggi il fuoco israeliano ha ucciso sette pescatori, ferendone centinaia. Le restrizioni hanno quasi portato al crollo dell’industria ittica: al momento ci sono meno di 4.000 pescatori invece dei circa 10.000 di vent’anni fa. Chi è rimasto soffre per le pericolose condizioni di lavoro imposte da Israele e vive con la propria famiglia in povertà estrema.

Le seguenti testimonianze sono state raccolte sul campo per noi da Olfat al-Kurd fra mogli e madri di pescatori e pescivendoli a Gaza. Descrivendo la loro dolorosa realtà e il loro futuro incerto, le donne hanno parlato della costante paura per i loro cari e dei gravi problemi economici creati dalle restrizioni israeliane al loro sostentamento e destinate a peggiorare a causa della pandemia.

Nella sua testimonianza del 5 agosto 2020, Intesar a-Sa’idi (52 anni), mamma con sei figli che vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, descrive le difficoltà economiche e la tragedia personale che affliggono la sua famiglia:

Quando Muamen va a lavorare sono preoccupata perché penso che non ritornerà, mi tranquillizzo solo quando è di nuovo a casa.

Agli inizi del 2018, Muamen era andato a pesca e non era tornato per molto tempo. Ho avuto paura per la sua vita quando ho saputo da altri pescatori della nostra famiglia che i soldati l’avevano arrestato. Ero terrorizzata e in lacrime. All’epoca i soldati avevano in custodia anche suo fratello. Avevo paura che non sarebbe tornato a casa. Nostro figlio Muhammad aveva solo sette mesi.

Per tre settimane non abbiamo saputo dove lo tenessero e non ho quasi dormito o mangiato. Finalmente l’hanno liberato. Quando è entrato in casa, quasi non credevo ai miei occhi, piangevo e ridevo, l’ho abbracciato, ero così felice.

Dopo l’arresto, nonostante i rischi, è tornato a pescare, è l’unico lavoro che sa fare. Fra il 2013 e il 2017 i soldati hanno confiscato tre dei pescherecci della famiglia e finora ne hanno restituito solo uno. L’anno scorso i fratelli di Muamen hanno comprato una barca e lui ha ricominciato a lavorare con loro, 5 fratelli in una barca. Ogni fine-settimana riceve 150 shekel (circa 40 euro), ma non è abbastanza per noi quattro, specialmente perché i bambini sono piccoli e hanno bisogno di pannolini e latte ogni giorno. La mia vita gira intorno a prestiti e debiti con famigliari e amici. Mia suocera ogni tre o quattro mesi prende 750 shekel (185 euro) dal Ministero del Welfare e li divide fra i figli. Mio marito li usa tutti per saldare i nostri debiti. Qualche volta fa dei prestiti per comprare reti e remi e quando vende il pesce usa tutti i soldi per ripagare i debiti.

Quando sento che i soldati hanno aperto il fuoco contro i pescatori chiamo immediatamente i miei cognati per sapere di Muamen e non sono tranquilla finché non è a casa. Anche lui ha paura di essere arrestato o ucciso, questo mi rende ancora più agitata. Gli chiedo di non dire cose così e di tornare sano e salvo, se dio vuole.

Qualche volta dico a Muamen che spero cambi lavoro per i pericoli che vengono dal mare e dall’esercito israeliano. Gli chiedo di cercarsene un altro e di smettere con la pesca, ma lui dice che la situazione a Gaza è difficile e non c’è nient’altro. Mi chiede di essere paziente e sperare in tempi migliori.

Prego dio che tenga I’esercito israeliano lontano da mio marito e dagli altri pescatori. Prego che la nostra situazione economica migliori, per un futuro sicuro per i nostri figli e perché mio marito rimanga sano e salvo e che non venga ferito.

Anche ‘Ula a-Sa’idi (36), mamma di nove bambini che vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, parla delle difficoltà di dipendere dalla pesca:

Mio marito (42 anni) ha fatto il pescatore fin da quando ci siamo sposati 18 anni fa. È un lavoro impegnativo e non mi piace perché è molto pericoloso, anche se tutti i miei parenti sono pescatori. Ma è la nostra sola fonte di reddito, così dobbiamo vivere con questo rischio.  Abbiamo dei problemi economici. Dall’inizio del blocco, il guadagno di mio marito è crollato a 700 shekel (~170 euro) al mese. Adesso, anche se lavora duro, guadagniamo al massimo 500 shekel (~120 euro). È piuttosto poco e non basta per le nostre necessità. Prendevo un sussidio di 1.800 shekel (~445 euro) dal Ministero dei servizi sociali ogni tre o quattro mesi. Dopo quattro anni è sceso a 700 shekel che non bastano per vivere e qualche volta neppure per i bisogni giornalieri o per comprare dei vestiti nuovi ai bambini per le vacanze.

Dallo scoppio del coronavirus, le cose sono persino peggiorate perché la situazione economica a Gaza è pessima e la gente compra meno pesce, ci sono meno stranieri, meno grandi eventi e ordinazioni.  

Mio marito lavora con il fratello sulla sua barca. Va in mare alle tre del mattino e torna dopo le tre del pomeriggio. Quando va a pesca, prego dio che lo tenga lontano dai soldati e dai loro proiettili. Non sono tranquilla fino a quando non torna a casa o mi chiama. Quando è fuori, sono molto in ansia, specialmente quando sento che sparano ai pescatori. Divento nervosa e lo chiamo immediatamente per controllare che stia bene. Anche i miei bambini stanno in ansia quando sentono degli spari e si chiedono quale dei pescatori è stato arrestato e sperano non sia papà. Io cerco di calmarli, dico di essere pazienti, che papà tornerà a casa. Quando mio marito è in ritardo, nostro figlio Anas di 9 anni è così preoccupato che va al porto ad aspettarlo.

Per una moglie avere un marito pescatore è la cosa peggiore. D’inverno mio marito soffre per il gran freddo e così mi preoccupo anche di quello, oltre ai pericoli del mare e più di tutto delle sparatorie contro i pescatori. Ogni volta che qualcuno mi dice che i soldati hanno sparato contro i pescatori, sento che sto per perdere mio marito. Prego dio che ce lo riporti sano e salvo.

I soldati hanno arrestato mio marito varie volte, l’ultima nel 2018. Nel 2007 è stato in prigione per sei mesi. Avevano anche confiscato due delle nostre barche e quattro motori e li hanno bloccati nel porto di Ashdod. Di solito l’esercito non li restituisce dopo la confisca.

Spero che un giorno la nostra situazione migliori. Vorrei che ci restituissero i nostri pescherecci, così mio marito avrebbe la sua barca, e che allarghino la zona di pesca. Voglio vivere dignitosamente, sicura per il futuro dei bambini e in grado di soddisfare i loro bisogni e desideri. Spero che non diventeranno pescatori, è un lavoro duro e pericoloso.

A.M. (49 anni), sposata e con nove figli, vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, il cui marito è un commerciante di pesce, in una testimonianza rilasciata il 9 agosto 2020 dice:

Mi sono sposata nel 1989. Mio marito ha lavorato nel settore del pesce da quando aveva 12 anni. Lavorava con il padre pescivendolo e con altri parenti. Ho nove figli dai sei ai 29 anni. Viviamo vicino alla costa e molti dei nostri parenti sono in questo settore.

Nei primi anni di matrimonio c’era un sacco di pesce e poca concorrenza. Mio marito andava al mercato alle 3 del mattino e portava a casa grandi quantità di pesce, lo puliva e lo portava al mercato. Di solito lo vendeva tutto nel giro di due ore e tornava a casa. Avevamo un buon reddito di circa 3.000-4.000 shekel mensili (~ 740-990 euro).

È andata avanti così per anni e avevamo un alto livello di vita, ci siamo comprati la casa e avevamo tutto quello che ci serviva, mi ero persino comprata dei gioielli d’oro. Abbiamo allevato i nostri figli in un momento in cui le nostre finanze erano ottime, non gli è mancato niente, vivevamo felici e tranquilli.

Circa 13 anni fa, quando Israele ha cominciato il blocco su Gaza, le cose sono cambiate. Gli affari ne hanno sofferto, la zona di pesca è stata limitata e talvolta la pesca è stata completamente vietata. Il pesce era scarso e caro per i commercianti e i consumatori. D’estate quando ce n’era tanto, la gente ne comprava 4/5 chili, adesso uno o due.

Qualche volta mio marito deve portarsi a casa un po’ o quasi tutto il pesce. Sta al mercato tutto il pomeriggio e la sera cercando invano di venderlo. È impossibile tenere al fresco il pesce per la scarsità di energia elettrica e qualche volta va a male.    

Dall’inizio del blocco le nostre finanze sono peggiorate. Mio marito non possiede una bancarella al mercato e così affitta uno spazio largo un metro o due a circa 10 shekel (~2,50 euro) al giorno. I bambini lavorano con lui, ma in totale non guadagniamo più di 1,500 shekel (~ 370 euro) al mese e siamo in 14 in famiglia. Due figli sono sposati e uno ha dei bambini, ma viviamo tutti nella stessa casa. Anche se siamo una famiglia numerosa, non prendiamo sussidi perché mio marito lavora in proprio. Per saldare i debiti e pagare per i matrimoni dei nostri figli ho venduto tutto il mio oro e 250 mq di terra che avevo comprato. Uno dei nostri figli ha abbandonato l’università perché non potevamo continuare a pagare le rette. Dall’inizio della crisi da coronavirus la situazione è peggiorata: ristoranti e hotel non comprano quasi più pesce perché restano chiusi per lunghi periodi e a Gaza non ci sono visitatori perché i confini sono chiusi. La crisi ha veramente danneggiato il lavoro di mio marito al mercato.  

È molto dura non essere in grado di soddisfare le necessità dei miei figli. Non ho potuto comprare i vestiti per le vacanze da festa e per l’inizio dell’anno scolastico. Devono usare vestiti, zainetti e persino scarpe dell’anno scorso. Mi fa male al cuore perché avrei veramente voluto dar loro delle cose nuove! Ma non possiamo permettercelo e quando chiedono qualcosa, come andare in gita, ogni volta devo rimandare. Mi fa male perché mi piacerebbe vedere i loro occhi riempirsi di gioia.

La situazione è deprimente e opprimente, ma so che non c’è un altro lavoro per mio marito o per i nostri figli. Spero che la nostra situazione migliori.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La malnutrizione affligge Gaza

Isra Saleh el-Namey 

27 agosto 2020 – Electronic Intifada 

Muhammad Abu Amra ha il diabete e non può permettersi le cure: avrebbe bisogno di due iniezioni di insulina al giorno, ognuna a circa 6 euro. Il suo debito con due farmacie cresce in continuazione.

Muhammad vive con la famiglia a Deir al-Balah, cittadina situata nel centro della Striscia di Gaza. La casa è in pessime condizioni, con buchi nei muri e sul soffitto.

Durante l’estate il caldo è stato insopportabile, i suoi cinque bambini hanno subito molte punture di zanzare. Mi sento impotente e senza speranza,” dice Muhammad, 33 anni. “Ho sempre più responsabilità, ma a causa della mia salute, non riesco a occuparmene. E la situazione economica della mia famiglia è molto grave.”

Muhammad, disoccupato, e la moglie Mansoura hanno pochi soldi per comprare da mangiare.

Alle volte devo prendere cose essenziali, pannolini, fazzolettini, sale e zucchero e lo devo fare a credito,” dice Mansoura a cui è stato proibito l’ingresso in un supermercato fino a quando non salderà il suo debito di circa 170 euro.

La maggior parte dei pasti che preparo per i bambini si basa sulle verdure più economiche che riesco a trovare, patate e melanzane,” aggiunge Mansoura.

Mangiamo carne rossa o pollo solo ogni sei mesi. I nostri bambini non bevono latte, sono veramente preoccupata che, a lungo andare, ciò danneggerà la loro salute.”

Ogni tre o quattro mesi la famiglia Abu Amra riceve un pacco con farina, riso e olio per cucinare dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che fornisce aiuto ai rifugiati palestinesi.

Secondo Mansoura il contenuto del pacco dura a malapena un mese

La varietà scarseggia

A Gaza la malnutrizione è un problema serio denunciato da uno studio recente dell’agenzia del Programma alimentare mondiale che ha rilevato che l’86% dei bambini con meno di 5 anni che vive vicino al confine fra Gaza e Israele non ha una dieta minimamente accettabile.

A Gaza, secondo il Programma alimentare mondiale, il 28% delle donne durante l’allattamento ha dei livelli troppo bassi di ferro nel sangue.

In una loro precedente relazione e anche secondo altri gruppi che forniscono aiuti si è rilevato che gli abitanti hanno reagito alla difficile situazione economica riducendo la varietà del cibo.

Secondo le Nazioni Unite più del 68% dei due milioni di abitanti soffre di insicurezza alimentare, definita come la condizione di non avere accesso o non avere i soldi per comprare il cibo necessario per condurre una vita sana ed attiva.

La malnutrizione è stata una delle conseguenze del rigido blocco imposto da Israele. Attivisti per i diritti umani hanno documentato che nel 2008 Israele ha elaborato un piano con lo scopo di ridurre la quantità di cibo disponibile a Gaza.

Aziza al-Kahlout, la portavoce del ministero per gli affari sociali a Gaza, ha detto che negli ultimi mesi i problemi sono peggiorati. Le restrizioni imposte a causa della pandemia hanno portato a un aumento della disoccupazione.

Molti hanno perso la loro fonte di reddito, gli autisti che non hanno più passeggeri, gli operai delle fabbriche e di altre attività che sono state chiuse” dice al-Kahlout. “Tutti questi e le loro famiglie hanno urgentemente bisogno di aiuti in questi momenti difficili.”

Poiché le autorità di Gaza hanno problemi finanziari, è necessario un maggiore supporto da parte di donatori internazionali “per impedire alla situazione umanitaria di peggiorare,” conclude al-Kahlout.

Secondo la Federazione Generale Sindacale palestinese almeno 50 fabbriche hanno chiuso e si sono persi circa 4000 posti di lavoro.

I poveri diventano sempre più poveri

Mahmoud al-Lili ha una bancarella di snack nel campo profughi di Maghazi e prima della pandemia guadagnava un po’ più di 4 € al giorno.

Adesso il ventiseienne talvolta non guadagna nemmeno un euro: le attività sono crollate dall’inizio dell’anno, quando le autorità hanno imposto le restrizioni.

Vivo in una piccola casa con genitori, sorelle e fratello sposato,” dice al-Lili. “Faccio del mio meglio per guadagnare qualche soldo così qualche volta c’è qualcosa per la cena. Siamo una famiglia povera, ma la crisi ci ha resi ancora più poveri.”

Samir al-Sayid, 56 anni, ha vari problemi di salute, inclusa la pressione alta. La sua famiglia di 9 persone vive in una casa di due stanze nel campo profughi di Bureij.

Non lavoro e non posso occuparmi della mia famiglia,” dice Samir. “Per vivere facciamo affidamento principalmente sugli aiuti umanitari.”

I pacchi dell’UNRWA sono essenziali per la sua famiglia.

Quando ne riceviamo uno, pianifico attentamente su come sfruttarlo al meglio e farlo durare il più possibile,” dice Siham, la moglie di Samir. “Non posso comprare gli ingredienti per preparare la maggior parte dei piatti che i nostri bambini vorrebbero. Cucinare per la mia famiglia è un constante incubo.”

Isra Saleh el-Namey è una giornalista di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Hamas afferma che si è raggiunto un accordo con Israele per placare la violenza

Redazione di MEE

31 agosto 2020 – Middle East Eye

L’annuncio giunge dopo settimane di crescenti tensioni e mentre Gaza deve fare i conti con la pandemia da coronavirus

Lunedì Hamas ha annunciato che, grazie alla mediazione del Qatar, è stato raggiunto un accordo per evitare un’escalation con Israele dopo una fiammata durata quattro settimane che ha visto Gaza bombardata quasi quotidianamente.

In un comunicato l’ufficio del leader di Hamas Yahya Sinwar afferma che “dopo una serie di colloqui, mediati dal rappresentante del Qatar Mohammed al-Amadi, si è raggiunta un’intesa per evitare un’escalation e stabilizzare la situazione.”

Israele ha ripetutamente bombardato Gaza dal 6 agosto, con quella che sostiene essere una risposta agli ordigni incendiari inviati in volo e, meno frequenti, razzi lanciati oltre il confine.

Secondo dati dei vigili del fuoco, le bombe incendiarie, ordigni artigianali attaccati a palloni, aquiloni, preservativi gonfiati o buste di plastica, hanno innescato più di 400 incendi nel sud di Israele.

I palloni incendiari sono generalmente visti come un tentativo da parte di Hamas di migliorare le condizioni di una tregua informale in base alla quale Israele si era impegnato ad alleggerire il suo blocco durato 13 anni in cambio della calma sul confine.

Ma finora la risposta di Israele è stata di inasprire il blocco, che secondo i critici rappresenta una punizione collettiva dei due milioni di abitanti della zona impoverita.

Anche l’Egitto ha mantenuto l’assedio, restringendo sul suo confine gli spostamenti in entrata e in uscita da Gaza. In seguito ai tentativi di mediazione, Hamas afferma che “verranno annunciati vari progetti a favore del nostro popolo nella Striscia di Gaza e per contribuire a migliorare” le difficili condizioni di vita. Il suo comunicato non specifica nessuno dei progetti, ma afferma che le condizioni torneranno a essere “quelle che erano prima dell’escalation.”

In base a precedenti accordi non ufficiali raggiunti attraverso mediatori, Hamas ha tentato progetti economici su larga scala per contribuire a ridurre la disoccupazione che si aggira intorno al 50%, un ampio alleggerimento delle restrizioni agli spostamenti e un incremento delle forniture di energia elettrica da parte di Israele. Accusa Israele di muoversi troppo lentamente o di non rispettare i propri impegni.

Lunedì sera il COGAT, un ente militare israeliano responsabile delle questioni dei civili palestinesi, ha annunciato che avrebbe immediatamente riaperto l’unico valico commerciale di Gaza e ripreso la fornitura di carburante al territorio. Ha anche affermato che avrebbe riaperto una zona di pesca di 25 km dalle coste di Gaza.

Questa decisione verrà verificata sul terreno: se Hamas, che è responsabile di ogni azione intrapresa nella Striscia di Gaza, non rispetta i suoi obblighi, Israele si comporterà di conseguenza,” ha affermato.

L’inviato dell’ONU nella regione, Nickolay Mladenov, ha accolto favorevolmente l’accordo.

Porre fine al lancio di ordigni e proiettili incendiari, ripristinare la fornitura dell’elettricità consentirà all’ONU di concentrarsi sulla gestione della crisi da COVID-19”, ha twittato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Hamas rifiuta le condizioni israeliane per gli aiuti a Gaza contro il coronavirus

Adnan Abu Amer

10 aprile 2020 Middle East Monitor

Nei giorni scorsi, Hamas e Israele hanno avuto un evidente scontro sulla fornitura di assistenza medica alla Striscia di Gaza per contrastare il coronavirus, poiché come condizione dell’assistenza medica Israele ha posto il ritorno dei suoi soldati catturati nella guerra del 2014. I media israeliani hanno chiesto a Hamas di liberare i soldati in cambio degli aiuti per combattere il coronavirus.

Da parte sua, Hamas ha annunciato tramite il suo leader a Gaza, Yahya Al-Sinwar, che otterrà quanto serve alle necessità umanitarie con la forza, minacciando che “sei milioni di israeliani potrebbero smettere di respirare” se Israele non sarà disposto a rifornire la Striscia di Gaza dei respiratori necessari ai pazienti con coronavirus.

Al-Sinwar ha lasciato anche intendere che Hamas potrebbe fare una concessione in merito all’accordo di scambio se sarà permesso l’ingresso di forniture per migliorare le condizioni di vita e l’assistenza medica a Gaza nonché il rilascio dei prigionieri palestinesi anziani, malati, minori e donne. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha risposto incaricando Yaron Bloom, coordinatore israeliano dei prigionieri di guerra e prigionieri israeliani MIA [missing in action, dispersi durante una azione, ndtr], di avviare i colloqui necessari per riprendere il negoziato di scambio di prigionieri con Hamas.

Questo tira e molla significa che sarà possibile un incremento di violenza tra Hamas e Israele, perché le fazioni palestinesi cercheranno di fare pressione su Israele affinché conceda l’ingresso di forniture mediche e assistenza sanitaria a Gaza per combattere il coronavirus. Alcuni giorni fa sono stati lanciati dei missili da Gaza contro Israele e questo solleva degli interrogativi, se entrambe le parti si indirizzeranno ad un’escalation militare o se raggiungeranno un accordo di scambio. Assisteremo a uno scontro militare non voluto durante questa disastrosa situazione sanitaria a Gaza e in Israele, o alla fine avranno luogo negoziati per raggiungere un nuovo accordo di scambio di prigionieri tra le parti?

Alcuni giorni fa l’esercito israeliano ha annunciato di aver bombardato le postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza, in risposta a un missile sparato contro gli insediamenti intorno a Gaza. Migliaia di israeliani si sono precipitati nei rifugi, anche se era la prima aggressione dall’inizio dell’emergenza coronavirus a febbraio, con palestinesi e israeliani chiusi nelle loro case per fermarne la diffusione.

Nessuna delle fazioni palestinesi ha rivendicato il lancio di missili, ma il bombardamento israeliano delle postazioni di Hamas è per via del controllo di Hamas su Gaza. Le fazioni palestinesi hanno affermato che Israele stesse approfittando della preoccupazione del mondo nella lotta al coronavirus per intensificare il blocco su Gaza.

L’atmosfera nella Striscia di Gaza segnala che la crisi sanitaria, dopo l’individuazione di numerosi casi di coronavirus, potrebbe spingere Hamas a fare pressione su Israele perché allenti il blocco su Gaza. Alcuni gruppi israeliani hanno profilato un cupo scenario simile al Giorno del Giudizio, con Gaza che esplode in faccia a Israele un diffuso contagio di coronavirus.

Hamas ha ripetutamente affermato che sotto il blocco israeliano Gaza vive in condizioni catastrofiche e che solo Israele è responsabile del suo prolungamento. Hamas è in contatto con dei mediatori per costringere Israele a revocare il blocco su Gaza, alla luce della pandemia di coronavirus che aggrava la situazione – segnalando che il lungo blocco di Gaza non favorisce il mantenimento della calma nei sistemi di vigilanza. Hamas non ha esplicitamente ammesso la sua responsabilità nel lancio di missili contro Israele, ma non ha negato, ammantando la questione di mistero e ambiguità.

La Commissione di Monitoraggio del governo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza ha dichiarato che le autorità governative di Gaza hanno bisogno di supporto dall’interno e dall’esterno per affrontare il virus. Ha annunciato la distribuzione di un milione di dollari in fondi di emergenza urgenti a 10.000 famiglie a basso reddito colpite dai provvedimenti, e l’assunzione di 300 nuovi membri del personale per il Ministero della Sanità di Gaza. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha discusso con alcuni partiti palestinesi, regionali e internazionali, gli effetti della diffusione del coronavirus in Palestina.

La posizione palestinese ammette che Hamas e Israele non hanno interesse a un’escalation militare sotto il coronavirus, e il lancio del missile da Gaza potrebbe far parte del caos nella sicurezza creato dai militanti armati che Hamas sta cercando di controllare. Inoltre, Israele teme la diffusione del virus a Gaza per paura che la comunità internazionale lo ritenga responsabile di Gaza; potrebbe quindi concedere alcune agevolazioni, come consentire l’ingresso di attrezzature sanitarie e forniture mediche di prevenzione, nonché mobilitarsi per un sostegno finanziario alla paralisi economica di Gaza a seguito allo scoppio della pandemia.

Le principali richieste di Gaza per affrontare il coronavirus sono forniture mediche: respiratori, kit per testare il virus, provviste alimentari e aiuti per gli abitanti di Gaza che soffrono i provvedimenti presi per combattere la pandemia.

Vale la pena notare che Gaza è in grado di gestire solo 100-150 casi di coronavirus, perché il suo sistema sanitario è fragile e non può prendere in carico grandi numeri. Ha uno scarso numero di ventilatori e letti per terapia intensiva, nonché una carenza di farmaci del 39%.

Anche se la recente escalation a Gaza potrebbe non essere collegata a una specifica organizzazione palestinese, potrebbe essere un messaggio che segnala che Israele ha la responsabilità di affrontare esaustivamente la situazione sanitaria a Gaza, dove ci sarebbe una grande catastrofe se il coronavirus si diffondesse tra la gente. Chiunque abbia lanciato i missili, sembra aver chiesto a Israele di revocare il blocco su Gaza. Israele è interessato a soddisfare il bisogno di salute e di vita di Gaza, perché se la pandemia si diffonde tra i palestinesi, li spingerà a lanciare e far scoppiare decine, se non centinaia, di missili. Potrebbero anche affollarsi al confine Israele-Gaza per salvarsi dalla pandemia.

Con il mantenimento delle prescrizioni per affrontare il coronavirus a Gaza, le autorità governative di Gaza affiliate ad Hamas stanno, tra le altre misure, sottoponendo i viaggiatori che ritornano a Gaza attraverso il valico di Rafah con l’Egitto e il valico di Beit Hanoun con Israele ad una quarantena obbligatoria di 21 giorni. Hanno anche chiuso tutte le moschee, università, scuole, mercati, sale per matrimoni e ristoranti fino a nuovo avviso. Stanno anche studiando la possibilità di imporre un coprifuoco completo, oltre a chiedere ai palestinesi di rimanere sempre in casa.

Tutte queste misure hanno contribuito alla crescente sofferenza di gruppi vulnerabili come autisti, impiegati di sale per matrimoni, ristoranti e bar. Forse la sovvenzione mensile del Qatar di 100 dollari distribuita a 100.000 famiglie bisognose a Gaza riduce relativamente l’effetto dell’assedio israeliano e allevia il deterioramento della situazione economica di Gaza; la sovvenzione del Qatar faceva parte degli accordi umanitari concordati tra Hamas e Israele nell’ottobre 2018.

In questi giorni, il Qatar ha annunciato che avrebbe fornito 150 milioni di dollari in sostegno finanziario alla Striscia di Gaza per un periodo di sei mesi, per alleviare le sofferenze dei palestinesi e per aiutare a combattere il coronavirus, senza chiarire la natura della distribuzione della sovvenzione né i beneficiari.

Nel frattempo, il Ministero dello Sviluppo Sociale di Gaza ha fornito tutti i pasti a coloro che sono stati messi in quarantena nei centri sanitari, per un totale di 6.000 pasti al giorno. Il Ministero fornisce anche le risorse necessarie ai soggetti in quarantena, come frigoriferi, elettrodomestici e utensili per la casa. Il Ministero ha anche registrato il numero di famiglie colpite dallo stato di emergenza imposto dal coronavirus; queste famiglie saranno raggiunte e aiutate.

Tutto ciò conferma peraltro che le condizioni sanitarie ed economiche a Gaza sono disastrose, le necessità fondamentali dei palestinesi non sono coperte e ciò che le agenzie internazionali e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) forniscono è solo una piccola parte del necessario. Le agenzie governative di Gaza forniscono cibo e bevande a 1.600 palestinesi in centri di quarantena; queste agenzie soffrono da tempo di un grave deficit economico, che richiede un’urgente iniezione di finanze.

Il lancio di un missile da Gaza verso Israele potrebbe essere il messaggio palestinese a Israele che le condizioni a Gaza non sono accettabili e che qualsiasi tentativo israeliano di esimersi dal provvedere alle richieste umanitarie e sanitarie di Gaza potrebbe significare che nel prossimo futuro i missili aumenteranno. Tuttavia, è improbabile che si arrivi ad uno scontro a pieno titolo tra Hamas e Israele, piuttosto ad un processo di progressiva intensità, per diversi giorni, se il virus si diffondesse tragicamente a Gaza.

Middle East Monitor ha appreso da fonti palestinesi che Hamas ha inviato un messaggio a Israele attraverso dei mediatori regionali e internazionali: “Hamas considera Israele direttamente responsabile del deterioramento delle condizioni di vita e salute a Gaza e non rimarrà inerte di fronte alla diffusione del coronavirus, perché Hamas crede che Israele sia tenuto a agire per impedire il collasso del sistema sanitario, con aiuti diretti o attraverso l’ANP o le agenzie internazionali “.

Hamas non ha rivendicato il lancio di missili contro Israele e potrebbe non essere nel suo interesse impegnarsi in un esteso confronto militare. Tuttavia, l’attuale peggioramento delle condizioni nella Striscia di Gaza, l’aumento dei casi di coronavirus, la mancanza di attrezzature mediche sufficienti per esaminare i pazienti e la mancanza di supporto finanziario necessario per aiutare coloro che non possono lavorare in quanto costretti a rimanere a casa, possono intensificare l’effetto a catena. Hamas potrebbe decidere un incremento di violenza contro Israele per costringerlo a fornire le scorte insufficienti a Gaza. Hamas pensa che Israele corrisponderà alle sue richieste, per essere libero di affrontare la diffusione su larga scala del coronavirus tra gli israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Il diritto condizionato alla salute in Palestina

Yara Asi

30 giugno 2019 – Al Shabaka

Nota redazionale: nonostante l’articolo che segue risalga al giugno 2019, riteniamo utile ed interessante proporlo ai lettori in quanto di evidente attualità riguardo all’emergenza sanitaria che si profila a causa dell’epidemia di coronavirus che rischia di espandersi anche nei territori palestinesi e di mettere in crisi un sistema sanitario, ma anche economico, sociale e politico già gravemente segnato all’occupazione e dall’assedio israeliani.

Salute e cure sanitarie nei TPO

L’attuale sistema sanitario dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), creato nel 1994 come parte degli accordi di Oslo, è un settore frammentato, formato dal Ministero della Salute palestinese (MdS), da Ong, dall’UNRWA [commissione ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.] e da strutture private. La qualità delle cure sanitarie varia in base alle possibilità della struttura di acquisire risorse ed avere accesso a servizi come elettricità ed acqua. Le differenze nell’accessibilità, esacerbate da ostacoli economici e di altro tipo alle cure come l’ineguale copertura sanitaria e la segregazione geografica, ha segnato per decenni il sistema palestinese delle cure mediche.

Nonostante un carente sistema sanitario, i palestinesi registrano uno dei migliori risultati rispetto ad altri Paesi arabi quanto agli indici di aspettativa di vita e mortalità materna, infantile e minorile. Gli alti livelli di scolarità nei TPO e gli sforzi del MdS, per quanto limitati, per garantire cure fondamentali come le vaccinazioni, sono i probabili fattori che, combinati con la diffusa corruzione del settore sociale e gli scarsi servizi sanitari offerti in tutto il Medio Oriente, spiegano questi risultati. Al contempo i palestinesi vivono in media 10 anni in meno rispetto agli israeliani, compresa la popolazione di coloni che vive nello stesso territorio. I palestinesi registrano una mortalità materna e infantile da quattro a cinque volte superiore a quella degli israeliani, che inoltre ricevono vaccinazioni, ad esempio contro la varicella e la polmonite, a cui i palestinesi generalmente non hanno accesso. Persino i palestinesi cittadini di Israele in genere stanno peggio rispetto alla popolazione ebraica, con un tasso più alto di malattie croniche.

Il blocco di Gaza ha portato a dati sanitari peggiori rispetto alla Cisgiordania, così come a un numero percentualmente minore di letti in ospedale, di infermieri e di medici. A Gaza buona parte delle carenze mediche hanno poco a che fare con la mancanza di risorse a disposizione e sono invece il risultato diretto di fattori politici. Per esempio, a parte una limitata quantità di cibo o di altre necessità umanitarie, Israele in genere non consente l’importazione di cemento o altri materiali necessari per la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate e degli edifici sanitari distrutti dagli attacchi israeliani. Persino l’importazione delle attrezzature necessarie è difficile, soprattutto per prodotti considerati da Israele potenzialmente pericolosi nelle mani di Hamas, come le attrezzature radiologiche o le batterie utilizzate per supportare i generatori degli ospedali durante le interruzioni di elettricità.

La carenza di batterie, insieme alla scarsità di combustibile e alle limitazioni imposte alla sua importazione, comporta anche il fatto che il personale ospedaliero debba fare molta attenzione nell’uso dell’energia. Nel settembre 2018 il direttore generale del complesso ospedaliero Al-Shifa a Gaza City ha segnalato che la mancanza di elettricità stava esaurendo le riserve di combustibile che l’ospedale usava per i generatori di energia per i pazienti in dialisi, con necessità di interventi chirurgici o che avevano bisogno di trattamenti intensivi. È frequente vedere presso l’unità di terapia intensiva neonatale (UTIN) di Al-Shifa diversi neonati raggruppati in incubatrici che dovrebbero ospitarne uno solo. I medici di Gaza raccontano che a volte non sono neanche in grado di lavarsi le mani per la mancanza di acqua o di elettricità.

Nel 2018 l’ospedale Durrah di Gaza City è stato obbligato a chiudere il servizio di rianimazione e i reparti ad esso collegati per massimizzare l’accesso all’elettricità, che a un certo punto era di sole quattro ore al giorno. Altre 19 strutture sanitarie a Gaza hanno dovuto chiudere a causa della mancanza di elettricità e della scarsità di combustibile per i generatori.

A Gaza le scorte e le medicine fondamentali necessarie a qualunque normale struttura sanitaria sono carenti, soprattutto con l’incremento di pazienti con traumi dovuti alla Grande Marcia del Ritorno. In tutti i TPO i medici avvertono che a causa della carenza di medicine sono possibili conseguenze catastrofiche, tra cui lo scoppio di “supervirus” resistenti agli antibiotici, in particolare quando siano accompagnati dalla mancanza di guanti, camici e pastiglie disinfettanti al cloro. A Gaza nei soli primi due mesi del 2018, a causa della mancanza di farmaci per le vie respiratorie, sono morti sei neonati.

Persino quando ci sono i fondi per una struttura di alto livello, gli ostacoli politici restano. Recentemente i donatori hanno raccolto milioni di dollari per l’ospedale universitario nazionale An-Najah a Nablus, il primo e unico ospedale universitario nei TPO, che dispone di una delle dotazioni di apparecchiature mediche più avanzate. Tuttavia Israele ha bloccato l’importazione di uno degli impianti per la TAC utilizzato per diagnosticare i tumori, per il quale erano già stati raccolti i fondi, sostenendo che ci fosse il rischio di un “uso improprio” da parte dei palestinesi. Inoltre l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che avrebbe dovuto pagare i costi operativi dell’ospedale, a causa della mancanza di fondi è in debito dei soldi del progetto. Con l’appoggio della Turchia, avrebbe dovuto essere costruito l’ospedale Al-Sadaqa come parte dell’università islamica di Gaza, ma è stato rimandato per anni a causa del blocco israeliano.

Mentre le strutture private specializzate spesso riescono ad importare apparecchiature avanzate per le diagnosi, molti palestinesi non possono permettersi di pagare quei servizi, oppure i macchinari non funzionano a causa della manutenzione carente e della difficoltà di ottenere permessi per i pezzi di ricambio. Gli ospedali governativi possono offrire servizi a più cittadini, ma mancano comunque delle risorse per conservare o rinnovare la tecnologia che importano. Uno studio del 2018 degli ospedali pubblici di Gaza ha rilevato che dei sette apparecchi per la Tac a disposizione nel territorio assediato molti erano regolarmente fuori servizio e solo due ospedali avevano ricevuto il permesso da Israele di ricevere le apparecchiature. Un rapporto del 2018 di Medici per i Diritti Umani sostiene che questa mancanza di manutenzione trasforma gli ospedali in semplici “stazioni di transito per il trasferimento in altri ospedali”.

La mancanza di personale addestrato, soprattutto di specialisti, contribuisce significativamente alla scarsità di cure mediche e di risultati nei TPO, dove ci sono solo quattro scuole di medicina. Con una popolazione di tre milioni di abitanti, sei oncologi, più altri sette a Gerusalemme est, hanno in carico tutta la Cisgiordania. A Gaza ce ne sono tre. Lo scarso numero di oncologi nei TPO si traduce in una media di 250 nuovi casi di tumore per oncologo. Con meno del doppio della popolazione dei TPO, Israele conta 250 oncologi, con 116 nuovi casi di tumore per oncologo. Stati con una popolazione di dimensioni simili a quella dei TPO, come l’Irlanda, con 113 casi per oncologo, registrano tassi comparabili a quelli di Israele. 1

Le politiche dell’occupazione rendono difficile ai palestinesi esercitare la professione di medico. Per esempio, la divisione dell’università di Al Quds tra i campus di Abu Dis e Gerusalemme est ha portato ad una annosa battaglia amministrativa tra l’università e gli organismi israeliani di certificazione riguardo al riconoscimento delle lauree in medicina. Benché la questione sia alla fine stata risolta in tribunale, nel solo 2016 30 laureati in scienze infermieristiche hanno presentato un ricorso alla procura generale dello Stato in quanto il ministero dell’Educazione israeliano aveva rifiutato di riconoscere la loro laurea.

Anche la separazione tra Cisgiordania e Striscia di Gaza ha ridotto le possibilità di formazione medica. Nel 1999 l’università di Al-Azhar a Gaza ha creato un dipartimento di studi medici come sede staccata dell’università di Al-Quds a Gerusalemme est. Quando durante la Seconda Intifada il passaggio sicuro tra i due territori è stato bloccato, è finita anche la collaborazione tra le università.

Queste difficoltà portano ad una fuga di cervelli, in quanto i medici palestinesi emigrano per avere una formazione migliore o migliori opportunità di carriera. I dottori giovani a Gaza devono lavorare 70 ore alla settimana per guadagnare solo 280 dollari al mese, e il personale medico e gli addetti alla manutenzione non possono andare a fare corsi di aggiornamento per le nuove tecnologie sanitarie o per altre opportunità professionali. Dottori affermati ricevono meno di metà del loro salario a causa delle sanzioni dell’ANP. Quando, dopo due anni senza percepire lo stipendio, il famoso cardiochirurgo Marwan Sadeq è emigrato per lavorare in una clinica universitaria austriaca, ha affermato: “Se volessi stare a Gaza, mi trasformerei … da cardiochirurgo a uno che si preoccupa solo di come dar da mangiare ai propri figli.” Nel 2018 fonti locali a Gaza hanno stimato che se ne siano andati tra 100 e 160 medici e docenti di medicina; molti di questi non torneranno. Una ricerca del 2008 in tutti i TPO sui professionisti dell’educazione superiore e della salute ha rilevato che circa il 30% desiderava emigrare, principalmente a causa della situazione politica e della sicurezza.

In Cisgiordania le ambulanze devono fare i conti con i posti di blocco militari israeliani e altre interruzioni delle strade e con le limitazioni agli spostamenti. Uno studio del 2011 ha scoperto che ogni anno dal 2000 al 2007 il 10% delle donne incinta è stato bloccato al checkpoint, provocando nei posti di blocco 69 nascite, 35 bambini morti e cinque decessi in conseguenza del parto. I media e le ong hanno reso pubblici i dati di pazienti morti in seguito a ritardi o blocchi nell’attraversamento dei checkpoint. I pazienti della Cisgiordania che abbiano bisogno di cure a Gerusalemme est devono prendere un’ambulanza palestinese a uno dei posti di controllo e poi essere trasferiti su un’ambulanza israeliana per continuare il viaggio, e anche i pazienti palestinesi che muoiono negli ospedali israeliani devono essere spostati da un’ambulanza all’altra durante il viaggio per tornare ed essere sepolti in Cisgiordania. Questo procedimento è noto come trasferimento “consecutivo”, e al 90% delle ambulanze [palestinesi] che sono entrate a Gerusalemme est nel 2017 veniva richiesto di seguire questa procedura.

La procedura richiesta per ottenere un permesso per ragioni di salute e ricevere cure specializzate in Israele o in uno Stato limitrofo è complessa ed arbitraria. A Gaza un medico manda ogni paziente che necessiti di queste cure all’Unità per l’Ottenimento di un Servizio, dove inizia il procedimento di presentazione delle domande per un permesso di ingresso in Israele. Esso può essere negato in qualunque momento senza spiegazione, e, anche se viene approvato, i membri della famiglia del paziente, in alcuni casi i genitori di minorenni malati, potrebbero non ricevere il permesso per accompagnarli. I pazienti devono rifare tutta la procedura per le visite di controllo. Nel 2017 l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ha scoperto che solo il 54% delle richieste dei pazienti da Gaza è stato approvato, il livello più basso da quando nel 2011 l’organizzazione ha iniziato a raccogliere i dati. Quell’anno cinquantaquattro pazienti, principalmente bisognosi di cure per tumori, sono morti in attesa di un permesso di sicurezza.

I pazienti della Cisgiordania che hanno necessità di cure in Israele devono superare un procedimento simile, che richiede il rinvio allo specialista da parte del MdS insieme a un permesso di viaggio. I pazienti devono anche attraversare vari checkpoint e cambiare veicolo per completare il viaggio. Questi permessi sono concessi molto più spesso che a Gaza, ma non sono garantiti. Nel 2016 il 20% dei palestinesi della Cisgiordania che hanno fatto richiesta di un permesso per accedere agli ospedali a Gerusalemme est o in Israele è stato respinto. L’ANP ha anche rilasciato un numero inferiore rispetto agli anni precedenti di voucher per il rimborso delle cure a quei pazienti, una condizione indispensabile per fare richiesta di rilascio di un visto di viaggio da parte di Israele. Tredici pazienti, sei dei quali minorenni, sono morti nel 2017 in attesa dell’approvazione dei loro voucher.

Recentemente l’ANP ha detto che non invierà più pazienti palestinesi negli ospedali israeliani, accusando Israele di far pagare cifre maggiorate per le cure mediche e di dedurre quei fondi dalle tasse che raccoglie per conto dell’ANP. L’ANP ha sottolineato che continuerà ad inviare i pazienti della Cisgiordania agli ospedali di Gerusalemme est e lavorerà anche per mandarne altri agli ospedali negli Stati vicini, come Giordania ed Egitto.

Benché la legge umanitaria internazionale preveda notevoli garanzie per le cure sanitarie in zone di conflitto, nei TPO le forze israeliane continuano ad attaccare ospedali, ambulanze ed equipe mediche. La comunità internazionale non è riuscita ad impedire tali aggressioni.

Poche azioni concrete hanno fatto seguito alle ripetute risoluzioni ONU e agli appelli per l’assistenza da parte dei presidenti di organizzazioni come Medici senza Frontiere o della Commissione Internazionale della Croce Rossa. Nel 2017 i TPO hanno subito 93 attacchi al sistema sanitario, secondi solo alla Siria. In quasi tutti gli esempi la risposta dell’esercito israeliano è stata che l’episodio è stato accidentale o giustificato da attività terroristiche.

Casi particolarmente gravi come quello di Razan Al-Najjar [giovane paramedica palestinese uccisa da un cecchino israeliano nel giugno 2018 a Gaza, ndtr.] e di Tarek Loubani, medico canadese-palestinese che le forze israeliane hanno colpito a una gamba nel maggio 2018 sul confine di Gaza, hanno riportato questi problemi all’attenzione dell’opinione pubblica. Recentemente anche alcuni gruppi per i diritti umani hanno documentato molteplici casi di violenze contro ambulanze e personale medico, così come irruzioni in strutture sanitarie.

Durante i periodi di particolare violenza, come nella guerra del 2014 a Gaza, gli ospedali sono stati direttamente colpiti. Dopo il bombardamento dell’ospedale Shuhada al-Aqsa di Gaza, in cui cinque persone, fra cui tre minorenni, sono rimasti uccisi, le autorità israeliane hanno giustificato l’attacco sostenendo che c’erano munizioni sospette “immagazzinate nelle immediate vicinanze dell’ospedale”. Nella stessa guerra l’ospedale El-Wafa, dove si trovava l’unico centro di riabilitazione di Gaza, è stato totalmente raso al suolo. A causa delle restrizioni all’importazione di materiale da costruzione, l’ospedale rimane distrutto e il personale dell’ospedale ha fornito le cure condividendo lo spazio con un ospedale geriatrico.

Il ruolo del governo locale

La principale ragione delle disastrose condizioni delle cure mediche per i palestinesi nei TPO è l’occupazione israeliana. Tuttavia anche il governo palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza svolge un ruolo [nella situazione].

Nel 2017 le difficoltà finanziarie hanno portato il governo palestinese a tagli ad un programma che dal 2000 forniva l’assicurazione sanitaria ai cittadini disoccupati. Con un tasso di disoccupazione intorno al 30% nei TPO, una cifra stimata di 250.000 persone beneficiava del programma. A Gaza anche famiglie che solitamente erano in grado di pagare per essere curate in strutture private o per l’assicurazione sanitaria pubblica hanno fatto ricorso alla richiesta di esenzione dal pagamento dell’assicurazione sanitaria, che a una famiglia di 4 persone costa meno di 300 dollari all’anno. A partire dal febbraio 2018 sono state esaminate circa 70.000 richieste del genere. I dati di quell’anno mostrano che circa il 40% dei finanziamenti per la salute nei TPO è pagato di tasca propria. Con l’aumento della povertà e della disoccupazione, soprattutto a Gaza, e con l’ANP che deve fare i conti con la continua riduzione degli aiuti e con lo strangolamento dello sviluppo, la crisi del sistema dell’assicurazione sanitaria aumenterà.

Il taglio degli aiuti USA ha esacerbato la situazione. Soggetti coinvolti come OMS e Medical Aid for Palestinians hanno affermato che si faranno carico di alcune delle carenze determinate dai tagli USA, ma, se i benefici degli aiuti devono arrivare al suo popolo, l’ANP deve cambiare il proprio modo di pensare riguardo alle priorità.

Dei 5 miliardi del bilancio dell’ANP approvato nel 2018 il 30-35% è andato al settore della sicurezza, mentre soltanto il 9% è stato destinato alla salute. Del bilancio totale, 775 milioni di dollari (il 15,5%) era previsto arrivassero da aiuti dall’estero, in genere divisi tra il sostegno alla sicurezza, finanziamenti per l’UNRWA e denaro per progetti di USAID [agenzia governativa USA per aiuti all’estero, ndtr.]. Benché gli USA abbiano fatto drastici tagli agli aiuti, che colpiscono le possibilità per milioni di palestinesi di avere accesso a cure mediche, educazione e cibo, politici israeliani ed USA si sono affannati a garantire una parte del pacchetto di aiuti: quella per la sicurezza. Ciò che era iniziato come un accordo “prima di tutto la sicurezza” si è trasformato in una strategia “solo la sicurezza”.

L’ANP sta anche affrontando una crescente crisi di legittimità, con l’80% dei palestinesi nei TPO recentemente interpellati convinto che le istituzioni dell’ANP siano corrotte e più di metà (il 53%) secondo cui l’ANP è diventata un peso per il popolo palestinese. Scarsi controlli, tangenti, malversazioni, nepotismo e altre forme di corruzione sono in crescita nei servizi sociali, come nel servizio sanitario. Questa corruzione non si limita al livello statale. Per esempio, è ben noto che le bustarelle agevolano autorizzazioni per permessi sanitari, soprattutto nella Striscia di Gaza.

Anche la lotta interna tra Hamas e l’ANP ha portato a ridurre le risorse per la salute. Mentre l’ANP accusa Israele di fare leva sui servizi sociali palestinesi per imporre negoziati, a Gaza è l’ANP che utilizza la sua posizione contro Hamas. Nel gennaio 2018 a Gaza era esaurito il 40% dei farmaci essenziali, un approvvigionamento della cui gestione è responsabile l’ANP. Nello stesso anno il ministero della Salute a Gaza, insieme alle associazioni palestinesi per i diritti umani, ha avvertito che la carenza di medicine aveva raggiunto un livello pericoloso ed ha sollecitato il MdS dell’ANP a “garantire l’afflusso libero e sicuro” a Gaza dei beni sanitari necessari. In risposta, l’ANP ha mandato 38 camion con 4 milioni di prodotti. Tuttavia l’assistenza sporadica non può sopperire a un sistema sanitario che da molto tempo è stato indebolito dalla mancanza di personale e di prodotti.

Mentre Israele controlla il valico di Erez sul confine settentrionale di Gaza, l’Egitto controlla quello di Rafah a sud. Da quando è iniziato il blocco anche l’Egitto ha ridotto in modo significativo a persone o cose l’autorizzazione a entrare. Mentre per casi umanitari è possibile chiedere un permesso per attraversarlo, in pratica per molti anni il valico è stato chiuso praticamente ogni giorno, persino per ragioni di salute. Per esempio, nel 2017 in totale Rafah è stato aperto per 36 giorni, permettendo solo a 1.400 pazienti di attraversarlo. Nonostante dal 2018 l’apertura del confine sia più frequente, rimane una lista d’attesa di decine di migliaia di persone che sperano di uscire. Benché non controlli alcun valico, anche Hamas ha sfruttato il proprio potere, vietando pure l’ingresso di beni inviati dall’esercito israeliano, come flebo, disinfettanti e carburante, con l’accusa che Israele stesse “cercando di migliorare la sua immagine negativa”.

Strategie per migliorare il sistema sanitario

Con un margine ridotto come non mai nei decenni per un processo di pace realistico e giusto, i palestinesi non possono attendere un accordo politico per avere l’accesso garantito a cure mediche sicure, di alta qualità e affidabili. Ci sono una serie di settori in cui si può agire nell’immediato per sostenere questo accesso.

1. L’ANP deve rifiutare di concentrarsi sul finanziamento della sicurezza per dare fondi alla salute, destinando più risorse al sistema sanitario. Il suo dialogo con i donatori deve essere strategico e dovrebbe includere: 1) particolare attenzione per le principali priorità condivise dalle parti interessate; 2) una particolare attenzione alla costruzione e conservazione di risorse interne; 3) un approccio che riduca le inefficienze e le diseguaglianze del sistema. In questo modo la necessità più urgente – garantire la solidità delle strutture mediche esistenti e incoraggiarne l’ampliamento – diventerà una priorità. Queste strategie possono anche contribuire a far sì che il sistema vada oltre la sua attuale capacità di rispondere solo alle emergenze, cosa che gli impedisce di essere in grado di migliorare la salute della popolazione al di là di ferimenti e rischi di morte legati a traumi.

2. L’ONU e altre organizzazioni umanitarie devono chiedere l’accesso totale e concreto ai beni umanitari per i palestinesi. L’ANP deve anche far prevalere la vita dei palestinesi rispetto alle manovre politiche e garantire che ai cittadini, soprattutto a Gaza, vengano forniti medicinali ed altri prodotti necessari a garantirne la salute. Per esempio l’ANP può lavorare per esentare i beni sanitari dal protocollo di Parigi, che rallenta per mesi l’importazione di forniture mediche, dato che l’importazione dipende da permessi e altre forme di autorizzazione.

3. Dovrebbe essere formata un’agenzia autonoma che controlli le attività dell’ANP e chiami a rispondere i singoli, compreso il MdS, delle pratiche corruttive. Anche la società civile, i media e i gruppi di sostegno locali ed internazionali dovrebbero fare pressione sulle istituzioni dell’ANP perché forniscano risultati tangibili, come conservare scorte di farmaci essenziali e intervenire per ridurre l’uso di trasferimenti “consecutivi” in ambulanza per i pazienti che devono entrare a Gerusalemme est o in Israele.

4. Sono fondamentali strategie per ridurre al minimo la necessità per i pazienti di uscire dal Paese per aver accesso alle cure. La formazione sanitaria all’interno dei TPO può ridurre la carenza di medici ed infermieri, con una particolare attenzione a programmi per palestinesi che intendano rimanere a lavorare all’interno dei territori. Il MdS, insieme ad organizzazioni come l’International Medical Education Trust [Ong inglese che si occupa della formazione di personale sanitario nelle zone di crisi, ndtr.], ha sviluppato opportunità di formazione a distanza, telemedicina e addestramento di specialisti per superare le limitazioni agli spostamenti. In alcune facoltà di medicina i piani di studio hanno incluso innovazioni tecnologiche, come simulazioni cliniche, consulenze via computer e video conferenze per mettere in contatto tra loro e con colleghi di altre parti del mondo gli studenti palestinesi di corsi di carattere sanitario. Queste iniziative dovrebbero essere ulteriormente sviluppate. Anche i palestinesi della diaspora potrebbero essere incoraggiati a fornire formazione o a fare tirocinio nei TPO per contribuire a ricostituire una comunità funzionante di personale medico palestinese.

5. Gli attori internazionali dovrebbero intraprendere una campagna di pressione perché Israele riveda il suo sistema poco trasparente di permessi per ragioni di salute. Le autorità israeliane dovrebbero motivare il rifiuto del permesso, e dare anche ai pazienti la possibilità di presentare ricorso. Anche i permessi dovrebbero essere controllati in modo efficiente. All’inizio del 2019 le organizzazioni israeliane per i diritti umani Gisha, Physicians for Human Rights e HaMoked hanno chiesto che Israele approvi più rapidamente le richieste di permessi per ragioni di salute, ma l’Alta Corte di Giustizia [israeliana, ndtr.] ha bocciato la richiesta. Questo tipo di tentativi dovrebbe continuare in linea con la posizione dell’OMS, secondo cui Israele è obbligato a “consentire l’accesso immediato per 24 ore al giorno e sette giorni su sette ai pazienti palestinesi che richiedono cure specialistiche.” Anche l’Egitto dovrebbe consentire più ingressi umanitari dal confine di Rafah con Gaza.

6. Le autorità israeliane devono giustificare ogni caso di pazienti palestinesi o ambulanze a cui venga negato il passaggio a un checkpoint con un sistema trasparente monitorato da un controllore esterno. Un ritardo o un rifiuto a un posto di blocco che abbia come conseguenza la morte o danni permanenti dovrebbe essere investigato e considerato una possibile violazione delle leggi umanitarie e dei diritti umani internazionali, non un problema logistico.

7. Tutte le parti, dalle organizzazioni umanitarie agli Stati che hanno relazioni con Israele, devono chiedere indagini approfondite ed indipendenti sugli attacchi contro l’assistenza sanitaria non gestita dalle autorità israeliane. Mentre attacchi contro strutture sanitarie non sono una caratteristica esclusiva dei TPO, è significativo che la frequenza sia così alta in una situazione che non è caratterizzata da violenza attiva, come in Siria, e il cui principale responsabile è uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale. Ciò potrebbe permettere di esercitare una forte pressione su Israele per evitare simili episodi. Oltretutto dovrebbero essere imposte sanzioni a quanti violino la protezione garantita alle strutture e al personale sanitario.

Anche se queste misure indubbiamente aiuterebbero a sostenere il sistema sanitario palestinese e i suoi risultati, l’ANP deve fondamentalmente impegnarsi ad affrontare le cause politiche sottostanti che limitano l’accesso dei palestinesi a un adeguato sistema sanitario. Un sistema sanitario non dovrebbe essere in balia di un occupante militare o dipendere dall’aiuto estero e dalle mutevoli motivazioni e priorità dei donatori. Finché esisterà il modello palestinese di “quasi Stato”, continuerà anche la dipendenza dei servizi sociali dagli aiuti. Questo è un modello insostenibile e ingiusto per un sistema sanitario. Solo affrontando le ingiustizie fondamentali e la violenza quotidiana dell’occupazione israeliana il sistema sanitario palestinese e l’accesso ad esso possono veramente migliorare.

Nota

1. Il cancro è la seconda causa principale di morte nei TPO e molti più casi probabilmente non sono diagnosticati a causa della mancanza di laboratori specializzati in oncologia, così come del limitato numero di strutture diagnostiche e radiologiche, soprattutto per i palestinesi che non possono ricevere un permesso medico per essere curati altrove. Solo sei ospedali pubblici, sparsi tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, sono attrezzati per trattare i pazienti oncologici.

Yara Asi

Componente della direzione di Al-Shabaka, Yara Asi ha conseguito un dottorato in Politiche Pubbliche all’università della Florida centrale, con particolare attenzione a ricerche e gestione del sistema sanitario. La sua tesi di dottorato ha esaminato le misure per la qualità della vita in Cisgiordania e in Giordania. Il lavoro di Yara prende in considerazione principalmente la salute, l’educazione e lo sviluppo in popolazioni colpite dalla guerra, anche se ha tenuto conferenze e scritto articoli anche su altri argomenti, come sicurezza e sovranità alimentare nei territori palestinesi, ruolo delle donne nelle crisi umanitarie e politiche di aiuto dall’estero in Stati vulnerabili. Ha anche lavorato su ricerca e divulgazione con Amnesty International USA e con il Palestinian American Research Center [Centro Palestinese Americano di Ricerca].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nel 2019 Israele ha sparato 347 volte sui pescatori di Gaza

Maureen Clare Murphy

10 gennaio 2020 – The Electronic Intifada

Israele e i suoi leader non provano vergogna di vantarsi per aver commesso crimini di guerra, benché siano sottoposti al controllo del Tribunale penale internazionale.

Più volte l’anno scorso il COGAT, braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana [il COGAT è un’unità del ministero della difesa israeliano che si occupa di coordinare le questioni civili tra il governo di Israele, le forze di difesa israeliane, le organizzazioni internazionali, i diplomatici e l’autorità palestinese, ndtr.], ha annunciato che stava adottando punizioni collettive contro i pescatori palestinesi, ponendo limitazioni all’accesso alle acque costiere di Gaza.

In quattro casi ha proibito del tutto la navigazione ai pescatori di Gaza.

Punizione collettiva

L’anno scorso per venti volte Israele ha annunciato modifiche riguardo l’accesso alle acque costiere di Gaza. Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, ha trattato l’industria della pesca di Gaza come “una leva per esercitare pressioni” sui due milioni di palestinesi che vivono nel territorio sottoposto al blocco economico israeliano dal 2007.

La punizione di una popolazione civile per atti di cui non ha alcuna responsabilità è vietata ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra, che Israele ha ratificato.

Nel corso del 2019 Israele ha imposto restrizioni ai pescatori come punizione collettiva dopo il lancio dal territorio di palloncini incendiari e razzi.

Ma Al Mezan, un’organizzazione per i diritti umani di Gaza [ONG con sede nel campo profughi di Jabalia nell’estremo nord della Striscia di Gaza che difende i diritti socio-culturali ed economici dei palestinesi, ndtr.] afferma che il vero obiettivo delle restrizioni e della violenza di Israele contro i pescatori è la distruzione del settore della pesca.

Tradizionale pietra miliare dell’economia di Gaza, l’industria della pesca si è ridotta negli ultimi anni. Nel 2000 a Gaza erano impiegati nell’industria circa 10.000 palestinesi. Oggi ci sono solo circa 2.000 pescatori che pescano regolarmente.

Nel 2019 Al Mezan ha registrato 351 violazioni contro i pescatori di Gaza.

L’anno scorso si sono verificati 347 casi in cui Israele ha aperto il fuoco contro i pescatori di Gaza, causando 16 feriti.

Nel febbraio dello scorso anno un pescatore, Khaled Saidi, è stato colpito mentre era in mare da numerosi proiettili di metallo rivestiti di gomma e i militari israeliani lo hanno arrestato.

L’ occhio destro di Saidi è stato rimosso in un ospedale israeliano e lui è stato presto rimandato a Gaza. Ma non gli è stato permesso di rientrare in Israele per le cure all’occhio sinistro, anch’esso ferito, nonostante avesse un appuntamento in un ospedale israeliano.

Alla fine si è recato al Cairo per le cure. I medici non sono stati in grado di rimediare alla lesione al suo occhio rimanente.

“Ora la mia condizione economica è inferiore allo zero, non lavoro affatto”, dice il giovane padre in un breve video sulle violazioni di Israele contro i pescatori palestinesi prodotto da Al Mezan.

I pescatori feriti sono [resi] inabili al lavoro, a volte in modo permanente, privando le loro famiglie di un reddito.

Le forze israeliane inoltre inseguono e trattengono i pescatori e le loro navi. L’anno scorso sono stati fermati trentacinque pescatori, tra cui tre minori. Nove degli arrestati si trovano ancora nelle prigioni israeliane.

Al-Mezan sostiene che le forze di occupazione ordinano ai pescatori fermati di togliersi i vestiti e di dirigersi a nuoto nelle acque marine verso le cannoniere israeliane, anche nel gelo invernale. I pescatori fermati dagli israeliani sono sottoposti a umilianti interrogatori e a varie forme di tortura fisica.

In base alla documentazione di Al Mezan, nel 2019 le forze israeliane hanno sequestrato quindici imbarcazioni e ci sono stati 11 casi di danneggiamento alle proprietà dei pescatori.

Violazioni

Secondo l’organizzazione per i diritti le violazioni contro il settore della pesca di Gaza impoveriscono ulteriormente coloro che dipendono da esso e aumentano l’insicurezza alimentare della popolazione in generale.

Al Mezan afferma che gli abusi israeliani nei confronti dei pescatori di Gaza violano anche la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare [UNCLOS, entrata in vigore nel novembre del 1994 e ratificata da 156 Stati più la UE, fissa un regime globale di leggi ed ordinamenti degli oceani e dei mari, e stabilisce norme che disciplinano tutti gli usi delle loro risorse, ndtr.].

L’articolo 3 di tale convenzione stabilisce che “Ogni Stato ha il diritto di stabilire l’estensione del suo territorio marino fino a un limite non superiore a 12 miglia nautiche [22,224 km. ndtr.]”.

Israele attualmente limita [l’accesso] alle acque ai pescatori fino a 6 miglia nautiche al largo della costa settentrionale di Gaza e tra le 9 e le 15 miglia al largo delle sue coste centrali e meridionali. Ai pescatori è proibito l’accesso alle acque di Gaza in un’area di 1,5 miglia situata parallelamente al suo confine settentrionale e in un’area di 1 miglio parallela al suo confine meridionale.

L’articolo 56 della convenzione afferma che uno Stato costiero ha “diritti sovrani allo scopo di esplorare e sfruttare, conservare e gestire le risorse naturali” delle sue acque.

Al Mezan afferma che le parti [contraenti] internazionali hanno la responsabilità legale e morale delle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.

(Traduzione di Aldo Lotta)




Il procuratore della CPI agisce da avvocato difensore di Israele

Ali Abunimah

5 dicembre 2019 – Electronic Intifada

Il procuratore della Corte Penale Internazionale sta di nuovo permettendo a Israele di farla franca sul [caso] del suo assalto mortale di dieci anni fa contro la flottiglia [diretta] a Gaza.

I soldati israeliani hanno colpito a morte 10 persone a bordo della Mavi Marmara dopo aver fatto irruzione sulla nave, che faceva parte di una flottiglia civile.

Lunedì Fatou Bensouda ha dichiarato di confermare la sua decisione del 2015 di non aprire un’indagine sull’attacco, nonostante i giudici della corte le abbiano chiesto per due volte di riconsiderarla.

A settembre, i giudici d’appello della Corte Penale Internazionale hanno definito Bensouda “irrispettosa” affermando che lei avrebbe affrontato in “modo superficiale” un [loro] precedente invito a riconsiderare il caso.

Le hanno nuovamente chiesto di tornare sui propri passi e di giungere ad una nuova decisione – quella emessa questo lunedì.

La sua nuova decisione in realtà stabilisce che Israele dovrebbe continuare a beneficiare della medesima impunità a cui la Corte Penale Internazionale sembra voglia porre fine.

Bensouda riconosce che “esiste un ragionevole fondamento per credere che siano stati commessi dei crimini di guerra da parte di membri delle forze di difesa israeliane” quando salirono a bordo della Mavi Marmara.

Ma insiste sul fatto che l’attacco israeliano in alto mare non è “talmente grave” da giustificare un procedimento giudiziario.

Nelle prime ore del 31 maggio 2010 i commando israeliani salirono a bordo e sequestrarono le imbarcazioni nelle acque internazionali del Mediterraneo orientale.

Le forze israeliane effettuarono un attacco armato particolarmente violento contro la nave più grande, la Mavi Marmara, uccidendo nove persone. Una decima vittima è deceduta nel maggio del 2014 a causa delle ferite riportate.

A bordo della Mavi Marmara almeno altre 20 [persone] vennero gravemente ferite.

“Pretesti procedurali”

Questo giovedì gli avvocati delle vittime hanno accusato il procuratore di parzialità e hanno preannunciato un appello.

“Con questa decisione – affermano gli avvocati – l’intento è quello di difendere Israele nei confronti di qualsiasi accusa di crimini di guerra in maniera così sfacciatamente palese proprio sotto gli occhi della comunità internazionale.

Poiché il procuratore della CPI non può in alcun modo coprire questi crimini, si nasconde dietro pretesti procedurali”.

In effetti, la decisione di Bensouda dello scorso lunedì è accompagnata da un documento di 44 pagine che espone numerose giustificazioni procedurali sul perché non possa perseguire il caso.

Sembra più la relazione di un avvocato difensore al fianco di Israele piuttosto che di un procuratore che tenti di porre fine all’impunità per crimini internazionali.

In alcuni punti sembra incolpare le vittime, sostenendo che “le persone che sono state uccise e ferite intenzionalmente sono state vittime di circostanze come minimo conseguenti alla violenta resistenza dei passeggeri all’abbordaggio del Mavi Marmara da parte delle IDF [esercito israeliano].”

Suggerisce persino che i soldati israeliani bene armati che hanno effettuato un assalto ingiustificato su una nave civile in acque internazionali potrebbero aver agito per “autodifesa” – argomenti che sarebbero potuti provenire direttamente dal governo israeliano.

Uno degli argomenti addotti da Bensouda per non agire è che il numero delle vittime dell’attacco israeliano sia stato “relativamente ridotto rispetto ai casi potenziali derivanti da altre situazioni”.

In precedenza i giudici della CPI avevano sottolineato che il tribunale ha perseguito casi con ancora meno vittime – come [nella causa] contro Bahar Idriss Abu Garda e Abdallah Banda, entrambi accusati di crimini di guerra contro le forze di pace dell’Unione Africana nella regione del Darfur in Sudan.

I giudici hanno stabilito che tali procedimenti giudiziari erano giustificati perché, sebbene i presunti crimini presentassero poche vittime dirette, essi avevano interrotto le operazioni di soccorso umanitario e di mantenimento della pace [condotte] a beneficio di milioni di civili.

Lo stesso ragionamento si applicherebbe esattamente alla flottiglia, che si stava recando a Gaza per rompere un blocco che priva milioni di palestinesi fondamentali diritti umani e umanitari.

Scarso Peso”

L’attacco israeliano alla flottiglia aveva evidentemente lo scopo di inviare un messaggio al mondo secondo il quale nessuno avrebbe dovuto tentare di rompere il blocco illegale di Gaza o fornire solidarietà alla sua gente.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa, tra gli altri, considera il blocco una punizione collettiva, una grave violazione delle Convenzioni di Ginevra.

Ma Bensouda afferma che il significato del messaggio di Israele “non può essere valutato con alcun grado di affidabilità”. Dice quindi di aver dato “scarso peso” alle argomentazioni in base alle quali l’obiettivo di Israele potesse garantire che nessuno osasse rompere il blocco nei confronti di due milioni di persone, la metà delle quali minori.

L’ultima decisione del procuratore sul caso della flottiglia è di cattivo auspicio per i palestinesi che sperano che la CPI garantisca la giustizia a lungo negata.

Dal 2015 il procuratore sta conducendo un esame preliminare di presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza, ma non ha ancora avviato alcuna indagine formale che possa condurre a procedimenti giudiziari.

Questo mercoledì l’ufficio di Bensouda ha pubblicato la sua relazione annuale sui suoi esami preliminari.

In essa si afferma che dopo cinque anni di analisi della situazione in Palestina, Bensouda “ritiene che sia tempo di prendere le misure necessarie per portare a termine l’esame preliminare”.

Resta da vedere se tali conclusioni non costituiranno un ulteriore insabbiamento.

ALI ABUNIMAH

Co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [La battaglia per la giustizia nella Palestina, ndtr.] appena pubblicato da Haymarket Books.

Ha anche scritto One Country: A Bold-Propos to End the Israel-Palestinian Impasse [Uno Stato unico: Una solida proposta a favore del termine dell’impasse israelo-palestinese].

Le opinioni sono soltanto mie.

(Traduzione di Aldo Lotta)




Come Israele ridefinisce il diritto internazionale per coprire i suoi crimini a Gaza

Ben White

5 Novembre 2019 – Middle East Eye

L’approccio di Israele al diritto internazionale può essere sintetizzato così: ‘Se fai qualcosa per un tempo abbastanza lungo, il mondo lo accetterà’.

Da quando Israele, nel 2005, ha evacuato coloni e ha riposizionato le sue forze armate lungo la barriera perimetrale, ha sottoposto i palestinesi di Gaza a numerose aggressioni devastanti, un blocco e costanti attacchi contro persone come agricoltori e pescatori.

Molte di queste politiche hanno ricevuto pesanti condanne – da parte palestinese ovviamente, ma anche da parte di associazioni per i diritti umani israeliane e internazionali e addirittura da parte di leader e politici mondiali – seppure, purtroppo, raramente accompagnate da azioni concrete a livello di Stati. Israele tuttavia ha cercato di evitare anche solo la possibilità di una significativa assunzione di responsabilità. Il suo approccio è stato molto semplice: di fronte alle critiche per aver violato le leggi, cambia le leggi.

Fornire copertura

Più precisamente, Israele si è impegnato molto a sviluppare e promuovere interpretazioni del diritto internazionale che forniscano una copertura alle sue politiche e tattiche nella Striscia di Gaza.

Nel gennaio 2009, all’indomani di un’offensiva israeliana [operazione Piombo Fuso, ndtr.] che ha portato al rapporto Goldstone commissionato dall’ONU, è stato pubblicato su Haaretz un dettagliato articolo sul lavoro della sezione sul diritto internazionale all’interno dell’ufficio dell’Avvocatura Generale militare. Si tratta dei dirigenti responsabili di controllare (o forse autorizzare) le azioni e le tattiche militari e di fornire la giustificazione legale a tali azioni.

Una delle persone intervistate in quell’articolo era Daniel Reisner, che era stato in precedenza a capo della sezione sul diritto internazionale. “Se fai qualcosa abbastanza a lungo il mondo la accetterà”, ha detto. “Il complesso del diritto internazionale è ora basato sul concetto che un atto vietato oggi diventa accettabile se attuato da un sufficiente numero di Paesi…Il diritto internazionale progredisce attraverso le violazioni ad esso.”

È stata la Striscia di Gaza ad essere usata da Israele come laboratorio per simili violazioni “progressive”. Un esempio è dato dallo stesso status di Gaza. Fin dal 2005 la posizione di Israele è stata che Gaza non è né occupata né sovrana, bensì costituisce un’“entità ostile”.

Nel suo recente libro ‘Justice for some’ [Giustizia per alcuni], la studiosa Noura Erakat analizza in dettaglio le implicazioni di una simile definizione, che fa di Gaza “né uno Stato in cui i palestinesi hanno il diritto di governarsi e proteggersi, né un territorio occupato la cui popolazione civile Israele ha il dovere di proteggere.”

Di fatto, Israele ha usurpato il diritto dei palestinesi a difendersi, in quanto non appartengono ad alcuna sovranità embrionale, si è sottratto ai suoi obblighi in quanto potenza occupante ed ha ampliato il proprio diritto a dispiegare la forza militare, rendendo così i palestinesi della Striscia di Gaza tre volte vulnerabili”, ha sottolineato Erakat.

Intento deliberato

La pretesa che la Striscia di Gaza non sia più occupata è ovviamente errata, non ultimo perché Israele ha mantenuto il controllo effettivo sul territorio. Le sue forze armate entrano quando vogliono per terra e per mare e Israele ha il controllo sullo spazio aereo di Gaza, sullo spettro elettromagnetico [cioè sulle frequenze per le telecomunicazioni, ndtr.], sulla maggior parte dei movimenti in entrata e uscita e sull’anagrafe – oltre al blocco tuttora in corso.

La Striscia di Gaza è soltanto una parte del territorio palestinese occupato, che, insieme alla Cisgiordania (compresa Gerusalemme est), costituisce un’unica entità territoriale. Lo status di Gaza come occupata dal 2005 è stato quindi sancito da molte istituzioni importanti, compreso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La “creatività” giuridica dei dirigenti israeliani è dimostrata molto spesso da alcune delle tattiche adottate dall’esercito israeliano durante gli attacchi.

Nell’offensiva israeliana su Gaza del 2014 [operazione Margine Protettivo, ndtr.], 142 famiglie palestinesi hanno subito l’uccisione di tre o più membri nel corso dello stesso incidente. Questi numeri impressionanti sono stati in parte il risultato della scelta di Israele di prendere di mira decine di case di famiglie palestinesi, oltre a quelle colpite in seguito a bombardamenti indiscriminati.

La chiave di lettura è la decisione da parte di Israele che qualunque (presunto) membro di una fazione armata palestinese fosse un obbiettivo legittimo, anche quando non partecipava alla lotta – cioè era a casa con la famiglia – e che i membri della famiglia diventassero legittimi “danni collaterali” sulla base della presenza di un sospetto nella casa (tra l’altro, anche se quella persona non era in realtà in casa in quel momento). Come ha detto un ufficiale israeliano: “Voi la chiamate casa, noi la chiamiamo centrale operativa.”

Vittime civili

Nonostante il fatto che in base al diritto internazionale Israele dovesse dimostrare che ogni struttura presa di mira svolgeva una funzione militare, come ha specificato l’associazione per i diritti B’Tselem, “nessun comandante ha sostenuto che ci fosse alcuna connessione tra una casa presa di mira e una specifica attività militare in quel luogo.”

Perciò le spiegazioni dell’esercito israeliano per la distruzione delle case è apparsa “nient’altro che una mistificazione della reale ragione della distruzione, cioè l’identità degli abitanti” – il che significa che queste sono state “demolizioni punitive di case…condotte da aerei, mentre gli abitanti erano ancora all’interno”.

Un’altra tattica utilizzata dall’esercito israeliano è la diffusione di “avvisi” ai civili, sia attraverso il telefono che con messaggi a specifici edifici, o con volantini lanciati su interi quartieri. Israele presenta questa tattica come una prova del fatto che fa il possibile per evitare vittime civili, anche se questi avvertimenti sono di fatto un obbligo piuttosto che “buone azioni”.

È ovvio che fondamentalmente questi avvisi non privano gli abitanti civili dello status di persone sotto protezione. Tuttavia ci sono sufficienti prove che indicano che questa non è una posizione condivisa all’interno dell’esercito israeliano.

Nel citato articolo di Haaretz del 2009 un comandante ha detto: “Le persone che entrano in una casa nonostante un avviso non devono essere annoverate nel conto dei danni a civili, poiché sono scudi umani volontari. Dal punto di vista legale non devo preoccuparmi per loro.”

Quindi, con una deformazione sconcertante, mentre gli avvisi sono presentati come modo per minimizzare le vittime civili, in realtà servono ad agevolare gli attacchi e possono anche aumentare il numero di morti.

Normalizzare l’illegalità

Questi sono solo alcuni esempi di come Israele cerca di normalizzare ciò che è illegale, con due obbiettivi. Si noti che è stato dopo la pubblicazione del rapporto Goldstone che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu “ha dato ordine ai dirigenti del governo di elaborare proposte per modificare il diritto internazionale di guerra.”

Le “innovazioni” di Israele nel diritto internazionale sono quindi tese a facilitare la sempre più brutale soppressione di palestinesi sul terreno, mentre a livello internazionale queste interpretazioni sono avanzate sia per confondere le acque nei consessi giuridici sia, in ultima analisi, per ottenere l’appoggio da di altri Stati terzi.

È importante ricordare che il problema della responsabilità è precedente agli sviluppi più recenti. Israele ha a lungo violato il diritto internazionale e giustificato in termini giuridici certe politiche – dalla confisca della terra nei territori occupati all’insediamento di colonie.

Questo ci aiuta a capire che il problema centrale è politico – e che la risposta a come contestare l’impunità e resistere alle interpretazioni “innovative” delle leggi da parte di Israele è la stessa: la pressione politica.

Un fallimento su questo fronte verrà percepito molto pesantemente dai più vulnerabili: i palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White

Ben White è autore di ‘Apartheid israeliano: una guida per i neofiti’ e di ‘Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia’. Scrive per Middle East Monitor ed i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un ospedale di Gerusalemme in cui i bambini palestinesi muoiono da soli

Oliver Holmes a Gerusalemme e Hazem Balousha a Gaza

Giovedì 20 giugno 2019 – The Guardian

Il blocco israeliano di Gaza implica che i genitori siano separati dai figli con gravi malattie

A prima vista niente sembra fuori posto nell’unità pediatrica di terapia intensiva. Nove letti ospitano nove piccoli bambini appena nati, tutti con tubi collegati ai corpicini. Monitor emettono suoni di continui segnali elettronici. Infermieri passano da un letto all’altro. Un pediatra dall’aspetto stanco compila scartoffie.

Eppure manca qualcosa: non ci sono genitori.

Alcuni sono stati mandati a casa a riposare, o potrebbero stare a bere ansiosamente caffè nel bar al piano inferiore. Ma in questo ospedale palestinese di Gerusalemme le madri di due bambini sono rimaste intrappolate a un’ora e mezza di distanza al di là del blocco imposto da Israele contro Gaza. Entrambi i bambini sono in seguito morti senza aver rivisto la propria madre.

Bambini palestinesi gravemente malati portati da Gaza, impoverita e sconvolta dalla guerra, all’ospedale Makassed, meglio equipaggiato, soffrono e muoiono da soli.

In qualche caso Israele consente l’uscita temporanea da Gaza per ragioni di salute, ma non a tutti. Al contempo impedisce o ritarda in modo grave l’uscita di molti genitori, e altri non fanno neppure richiesta, temendo che gli approfonditi controlli di sicurezza per gli adulti blocchino l’uscita dei loro figli e facciano perdere tempo prezioso.

Secondo l’ospedale, dall’inizio dello scorso anno 56 bambini di Gaza, sei dei quali sono morti in loro assenza, sono stati separati dai loro padri e madri. In un caso a una madre di 24 anni di Gaza è stato permesso di viaggiare due mesi prima fino a Gerusalemme per dare alla luce tre gemelli gravemente malati. Due pesavano meno di un sacchetto di zucchero.

Ma il permesso di Hiba Swailam è scaduto e lei ha dovuto tornare a Gaza. Non era lì quando il suo primo figlio è morto, a nove giorni [dalla nascita], o due settimane dopo, quando è deceduto anche il suo secondo bambino. È stata informata per telefono. La figlia sopravvissuta, Shahad, ha passato i primi mesi della sua vita accudita da infermieri, e Hiba ha potuto vederla solo con videochiamate. Benché la bambina fosse pronta per essere dimessa da febbraio, nessun membro della famiglia è stato in grado di andarla a prendere.

Dopo essere state contattate per fare un commento, le autorità israeliane hanno concesso a Swailam di uscire da Gaza. Le è stato consentito di andare a Gerusalemme lo stesso giorno in cui Israele ha risposto alla richiesta del Guardian di fare un commento, il 29 maggio.

Medici per i diritti umani-Israele”, una Ong di medici israeliani, ha affermato che lo scorso anno più di 7.000 permessi sono stati rilasciati a minori di Gaza. Sono stati concessi meno di 2.000 permessi per genitori, il che lascia pensare che molti bambini abbiano viaggiato senza i propri genitori. Mor Efrat, il direttore del gruppo per i territori palestinesi occupati, ha affermato che “il governo israeliano dovrebbe essere chiamato a rispondere delle sofferenze umane.”

Separare bambini malati dai genitori può avere conseguenze devastanti. I medici credono che uno dei tre gemelli che è morto quando la madre era a Gaza si trovava in una condizione per cui una delle migliori misure di prevenzione sarebbe stato l’allattamento al seno. “Non potrei dire che se la madre fosse stata qui se la sarebbero cavata, ma ciò potrebbe aver ridotto le loro possibilità,” ha affermato Hatem Khammash, il capo dell’unità neonatale.

Ibtisam Risiq, la caposala del reparto dell’unità pediatrica di terapia intensiva, ha osservato un effetto psicologico nei neonati che sono affidati solo alle sue cure: “Hanno bisogno di amore. Il loro battito cardiaco aumenta. Sono depressi,” afferma.

Seduta alla sua scrivania, con pile di carta ovunque, controlla come le sue infermiere si affrettano per tenere in vita i bambini. Le rimprovera di aver lasciato le confezioni di prodotti medici sul pavimento. Un grande schermo di computer dietro di lei mostra il battito cardiaco dei pazienti. Mentre parla, uno sale a 200 battiti al minuto. “Dovrebbe essere a 130”, dice, e rapidamente manda un’infermiera.

Entrano ed escono medici. Risiq prende il telefono per discutere con un direttore amministrativo che l’ha chiamata perché un altro bambino ha bisogno di cure urgenti. Chiede invano se qualcuno dei pazienti di Risiq è sufficientemente stabile da essere spostato in un’unità a basso rischio. “Siamo al 100% della capienza,” dice Risiq. “Ciò succede tutti i giorni. Devo affrontare questa situazione tutti i giorni.”

Sempre alle prese con problemi finanziari, il Makassed è in una situazione critica da quando l’anno scorso Donald Trump ha tagliato milioni di fondi per l’assistenza medica a questo come ad altri ospedali che si occupano di palestinesi a Gerusalemme est. Anche la feroce rivalità tra le fazioni politiche palestinesi in Cisgiordania e a Gaza ha aggravato la crisi sanitaria. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), con sede in Cisgiordania, l’unico gruppo con cui Israele collabora, è stata accusata di aver tagliato l’aiuto medico a Gaza per obbligare Hamas a cedere il controllo della Striscia – un’accusa che l’ANP smentisce.

Saleh al-Ziq, il capo dell’ufficio dell’ANP per Gaza che trasmette le richieste di permessi d’uscita per Israele, afferma che esso ha informato che i bambini malati siano accompagnati solo da persone con più di 45 anni, i cui permessi vengono di solito esaminati più rapidamente dalle autorità israeliane in quanto considerati meno rischiosi.

Il risultato è che, invece dei genitori, che di solito sono più giovani, il Makassed è pieno di nonni. L’ospedale deve farsi carico di vitto e alloggio, e ha sistemato roulotte per farceli dormire. Ma in qualche caso anche loro devono tornare a Gaza e i bambini vengono lasciati totalmente soli.

Nel reparto di terapia intensiva pediatrica Risiq prende un grande libro verde pieno delle sue annotazioni compilate a mano di ammissioni, molte delle quali di bambini prematuri.

Una neonata, Reema Abu Eita, è arrivata con la nonna da Gaza per un’operazione urgente al midollo spinale. Questa è stata rimandata perché aveva un’infezione, dice Risiq, guardando la bambina, con gli occhi chiusi e il petto ansimante. Il padre di Abu Eita, un guidatore di ambulanze, ha cercato di ottenere un permesso per visitare la figlia, ma la bambina è morta prima di tornare a Gaza. Un altro neonato di Gaza, Khalil Shurrab, è arrivato con il fegato ingrossato. Giallo per l’itterizia, soffriva di convulsioni.

Secondo suo padre, che parlava da Gaza, lo avrebbe accompagnato la nonna. “L’equipe ospedaliera le ha insegnato come mandare a me e a mia moglie foto del bambino con WhatsApp,” dice Jihad Shurrab, 29 anni.

Sua moglie, Amal, afferma di aver smesso di dormire dopo che suo figlio è partito: “Speravo di poter andare con lui a Gerusalemme. Ho implorato chiunque, ma mi hanno detto che sono giovane e che gli israeliani non avrebbero accettato.”

Con sollievo della famiglia, il Makassed alla fine ha dimesso Khalil dopo un mese, e il bambino ha potuto ritornare a Gaza. Ma quando lo ha fatto, hanno scoperto che lì i farmaci erano introvabili. “Il gonfiore stava aumentando,” dice suo padre. Ha deciso di cercare di andarsene da Gaza verso il sud passando dall’Egitto, che ha imposto anch’esso un blocco ma in alcuni casi consente di viaggiare. “Il giorno in cui avremmo dovuto partire è morto.”

Israele afferma che il blocco terrestre, aereo e marittimo contro Gaza intende impedire ad Hamas e ad altri gruppi di miliziani di lanciare attacchi. L’Onu lo definisce una “punizione collettiva” per 2 milioni di persone che vi sono intrappolate. Gli abitanti lo chiamano assedio.

Il COGAT, l’ente del ministero della Difesa [israeliano] responsabile del coordinamento delle attività governative israeliane nei territori palestinesi, afferma in una risposta scritta di non imporre limiti d’età per i permessi e che ogni richiesta viene esaminata in modo individuale.

Riguardo al caso dei tre gemelli, sostiene che “un errore umano nei moduli per la domanda”, intendendo una richiesta presentata dalla madre in aprile, ha fatto sì che fosse respinto.

Imputa la crisi sanitaria a Gaza ad Hamas e all’ANP, che afferma “riduce drasticamente il bilancio degli aiuti medici per gli abitanti della Striscia di Gaza.” Afferma che Hamas ha utilizzato pazienti come corrieri per far entrare clandestinamente in Israele esplosivi e “finanziamenti per i terroristi”.

Il COGAT è “attivo nel rilascio di decine di migliaia di permessi a pazienti, così come a medici palestinesi, che ricevono formazione negli ospedali in Israele,” aggiunge.

Mentre è più difficile per la gente di Gaza, uscire, il Makassed presta servizio anche per la Cisgiordania, e anche lì i genitori palestinesi trovano difficoltà, e a volte l’impossibilità, di andare all’ospedale.

Israele sostiene di avere la sovranità su tutta Gerusalemme ed ha persino isolato dal resto dei territori palestinesi i suoi quartieri a maggioranza araba. Alcuni pazienti, molti bambini più grandi malati di cancro, hanno famiglie che vivono a pochi minuti di distanza ma non possono andarli a trovare.

La separazione di bambini dalle loro famiglie è talmente comune che gli ospedali palestinesi a Gerusalemme forniscono loro tablet per fare chiamate con Skype.

Un’organizzazione per la salute con sede in Gran Bretagna, “Medical Aid for Palestinians” [Aiuto Medico per la Palestina], ha organizzato visite guidate per parlamentari britannici all’ospedale Makassed per mostrare loro i risultati del fatto di separare i bambini dalle proprie famiglie. Una parlamentare laburista che l’ha visitato ha affermato di aver sollecitato il governo britannico ad intervenire. Rosena Allin-Khan, che lavorava come medico al pronto soccorso, ha affermato: “Nessun bambino, in nessuna parte del mondo, dovrebbe stare da solo in un momento di grande necessità. Il governo britannico dovrebbe fare pressione sulle autorità israeliane perché rivedano questo sistema inumano.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




La riduzione della zona di pesca di Gaza è “una punizione collettiva illegale”

Maram Humaid

30 aprile 2019,  Al Jazeera

La mossa arriva pochi giorni dopo che Israele ha esteso la zona di pesca a 15 miglia nautiche come parte di un accordo di cessate il fuoco

Per i 4.000 pescatori dell’enclave la decisione da parte dell’esercito israeliano di ridurre la zona di pesca accessibile nella Striscia di Gaza assediata non è “una sorpresa”.

Non è arrivata inaspettata. L’occupazione viola sempre gli accordi che riguardano i pescatori della Striscia,” ha detto ad Al Jazeera Zakaria Bakr, capo dell’Unione dei pescatori di Gaza.

Citando un presunto attacco con i razzi, martedì l’esercito israeliano ha detto che fino a nuovo avviso la pesca a Gaza sarà consentita solo fino a 6 miglia nautiche (11 km).

L’iniziativa arriva dopo che il 1 aprile Israele ha esteso la zona fino a un massimo di 15 miglia nautiche, come parte di un cessate il fuoco mediato dall’Egitto tra Israele e Hamas, il gruppo che governa la Striscia di Gaza.

Martedì in un comunicato l’esercito israeliano ha detto che la decisione è stata la risposta a un razzo lanciato dal gruppo Jihad Islamica lunedì sera, un’affermazione che il gruppo palestinese nega. “Le accuse di Israele sono parte della campagna di menzogne contro il movimento della Jihad Islamica,” ha detto ad Al Jazeera il portavoce della Jihad Islamica Mosaab al-Breim.

Fa anche parte della guerra psicologica che ha condotto a lungo contro il popolo palestinese…Il braccio armato della Jihad Islamica non ha confermato il lancio di un razzo verso l’occupazione (israeliana),” ha detto.

Bakr, dell’Unione dei pescatori, ha affermato che la decisione di Israele arriva in un momento critico e che l’accordo di cessate il fuoco non è riuscito ad alleviare l’opprimente blocco di Israele contro la Striscia.

Lo scopo dell’estensione era di migliorare l’economia di Gaza, che si basa molto sul settore ittico.

Molti pescatori hanno manifestato la propria soddisfazione per il gesto insolito, soprattutto in quanto il mese santo del Ramadan è imminente. Ma oggi, dicono, è una situazione “molto triste e difficile”.

Israele inventa sempre dei pretesti (per ridurre la zona di pesca consentita), soprattutto quando si avvicina la stagione della pesca,” dice Bakr.

Le barche nella Striscia di Gaza sono “più attive” durante la primavera che in qualunque altro periodo dell’anno, afferma, sottolineando che la mossa è una continuazione della “sistematica oppressione” di Israele contro i pescatori di Gaza, così come contro i quasi due milioni di abitanti.

Barche disperse

Oltre ai 4.000 pescatori che dipendono dal settore in quanto rappresenta una delle poche opportunità a disposizione per lavorare a Gaza, ci sono almeno altre 1.500 persone che beneficiano della vendita e dell’esportazione del pesce pescato là.

Ma le esportazioni si sono ridotte nel corso degli anni e il declino del settore della pesca a Gaza è tra le molte conseguenze della politica israeliana.

Nel 2007, in seguito alla vittoria di Hamas nelle elezioni che le hanno dato il controllo del territorio assediato, Israele ha imposto un rigido blocco terrestre, aereo e navale.

L’iniziativa ha anche ridotto l’ingresso di materie prime, lasciando la maggior parte delle barche senza le necessarie riparazioni per operare al massimo delle loro potenzialità.

Il limite sempre modificato da Israele riguardante fin dove i pescatori hanno il permesso di navigare nel Mediterraneo ha posto molte barche – e vite – in pericolo.

La barca di Omar Mounir è stata tra le 50 imbarcazioni salpate dalla costa di Gaza martedì mattina.

Questa mattina eravamo in mare, cercando di pescare come al solito,” dice a Al Jazeera il cinquantunenne.

Afferma che le barche erano arrivate al segnale delle 11 miglia nautiche quando hanno visto imbarcazioni della marina militare israeliana arrivare nella loro direzione.

Hanno sparato con cannoni ad acqua per disperdere le barche – alcune si sono rotte e altre più piccole sono affondate,” dice Mounir.

Ci hanno obbligati a girare e a tornare verso la riva, affermando che il limite era stato riportato indietro a sei miglia nautiche…Non abbiamo avuto il tempo di ritirare le nostre reti che avevamo sistemato nell’acqua.”

In base agli accordi di Oslo firmati nel 1993 Israele è obbligato a consentire di pescare fino a 20 miglia marine, ma ciò non è mai stato messo in pratica.

Israele nell’ultimo decennio ha lanciato tre grandi attacchi contro Gaza, che hanno pesantemente danneggiato la maggior parte delle infrastrutture della città. Durante questi attacchi la pesca è stata totalmente vietata.

I pescatori con cui Al Jazeera ha parlato hanno affermato che fare una spedizione di pesca al largo delle coste di Gaza potrebbe arrivare a costare 400 dollari.

Benché la zona consentita fosse stata estesa a 15 miglia nautiche, molti dei pescatori non hanno l’equipaggiamento adeguato o il combustibile per fare tutto il percorso.

Miriam Marmur di “Gisha”, un’organizzazione israeliana per i diritti, ha detto a Al Jazeera che l’ultima mossa israeliana costituisce “una punizione collettiva illegale”.

Israele restringe ed estende regolarmente la zona di pesca di Gaza, spesso come misura punitiva, provocando una grande incertezza e insicurezza,” dice Marmur.

Secondo lei le restrizioni israeliane contro Gaza sono state messe in atto come parte di una politica ufficiale di “guerra economica” contro la Striscia e hanno “poco” a che vedere con la sicurezza.

Dal 30 marzo 2018 i palestinesi della Striscia di Gaza hanno chiesto una fine del blocco e anche il diritto al ritorno nelle terre da cui le loro famiglie sono state espulse durante la fondazione di Israele nel 1948.

Secondo il ministero della Salute di Gaza almeno 6.500 manifestanti sono stati colpiti da cecchini israeliani, che hanno ucciso più di 250 persone tra cui minorenni, giornalisti e medici.

(traduzione di Amedeo Rossi)