Ufficiale israeliano in carcere per nove mesi per aver ucciso un adolescente palestinese

Chloé Benoist

mercoledì 25 aprile 2018,Middle East Eye

La famiglia di Nadim Nuwara dice che ricorrerà in appello contro Ben Deri, che ha sparato alla schiena al figlio di 17 anni durante la marcia del 2014 per commemorare la Nakba.

Un poliziotto di frontiera israeliano sarebbe stato condannato a nove mesi di prigione e multato con il corrispettivo di 13.955 dollari per aver ucciso nel 2014 il ragazzo palestinese Nadim Nuwara durante una manifestazione in commemorazione della Nakba.

Il giornale israeliano Haaretz ha riportato che mercoledì un giudice della corte distrettuale di Gerusalemme ha condannato Ben Deri, riscontrando un “significativo livello di negligenza” e ne ha chiesto l’incarcerazione, pur specificando che Deri è “un eccellente ufficiale di polizia rispettoso degli ordini.”

Siyam Nuwara, padre di Nadim, ha detto a Middle East Eye che la famiglia stava pensando di presentare appello contro il verdetto e ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire sul caso.

Non c’è giustizia in Israele,” ha detto. “Abbiamo raccolto tutte le prove, ma non c’è giustizia.”

Nuwara aveva 17 anni quando venne colpito alla schiena fuori dalla prigione di Ofer, l’unica prigione israeliana situata all’interno della Cisgiordania occupata, durante una protesta per ricordare il 66° anniversario della Nakba, l’espulsione di 750.000 palestinesi durante la creazione di Israele.

Telecamere di sicurezza e troupe televisive ripresero il momento in cui Nadim fu ucciso.

Quel giorno anche un altro giovane palestinese, Mohammed Odeh Abu al-Thahir, venne colpito ed ucciso, tuttavia le autorità israeliane non hanno aperto nessuna inchiesta giudiziaria sulla sua morte.

Alcuni gruppi per i diritti umani, compreso Human Rights Watch, hanno affermato che il ragazzo non costituiva una minaccia imminente quando è stato ucciso, e HRW ha definito il caso “un evidente crimine di guerra”.

Inizialmente le forze israeliane negarono che quel giorno fossero stati sparati proiettili veri, mentre alcune fonti ufficiali israeliane, tra cui l’allora ambasciatore negli Stati Uniti, Michael Oren, sostennero che le morti di Nuwara e al-Thahir erano una messa in scena.

L’esame autoptico dimostrò che Nuwara era stato colpito al torace. Deri venne arrestato sei mesi dopo e in un primo tempo accusato di omicidio.

La difesa di Deri si è imperniata sulla versione secondo cui un proiettile vero era caduto “accidentalmente” nel caricatore dell’arma dell’ufficiale, mentre lo stava caricando con pallottole di acciaio ricoperto di gomma.

All’inizio del 2017 Deri ha accettato un patteggiamento che ha derubricato l’imputazione contro di lui a omicidio colposo per negligenza.

La famiglia di Nuwara ha contestato il patteggiamento di fronte al tribunale, sostenendo che era stato raggiunto senza che loro ne fossero a conoscenza e che quel giorno Deri aveva usato consapevolmente proiettili veri.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’tselem ha affermato in un comunicato: “Il processo a Ben Deri esemplifica come il sistema investigativo e legale di Israele insabbi le continue uccisioni di palestinesi.”

Persino in questo caso, inusuale in quanto le accuse sono state formulate e si è persino arrivati al processo, l’insabbiamento continua. Il giudizio è finito con una sentenza vergognosamente mite, che serve solo a sottolineare il solito messaggio: le vite dei palestinesi sono a perdere.

Israele sicuramente si vanterà di questo processo come un chiaro esempio della sua capacità di fare giustizia. Al diavolo i fatti, quello che conta è la propaganda.”

L’udienza di mercoledì si è tenuta mentre Israele affronta le critiche per la politica di fuoco indiscriminato nella Striscia di Gaza assediata, dove dal 30 marzo l’esercito israeliano ha ucciso 39 palestinesi e ferito altre migliaia di manifestanti che partecipavano alla “Grande Marcia del Ritorno.”

Le autorità israeliane raramente incriminano soldati che hanno ucciso palestinesi. Quando membri delle forze israeliane sono imputati per queste morti, le condanne sono spesso brevi – creando quello che l’ong israeliana per i diritti umani Yesh Din ha chiamato un contesto di “quasi impunità”.

Hanan Ashrawi, membro direttivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha denunciato il doppio standard del sistema giudiziario israeliano.

È ridicolo che la ragazzina palestinese Ahed Tamimi, che ha affrontato un soldato israeliano che stava invadendo casa sua nella Cisgiordania occupata, sia stata obbligata a scontare otto mesi in una cella di un carcere israeliano,” ha detto.

Nel contempo il poliziotto di frontiera israeliano Ben Deri…ha avuto una sentenza di soli nove mesi.”

Finché la comunità internazionale rimarrà in silenzio, l’ingiustizia e l’oppressione del popolo palestinese continueranno senza sosta. Israele deve essere chiamato a rendere conto della sua violenza incontenibile e delle gravi violazioni contro il popolo palestinese.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Parlamentari USA esortano i soldati israeliani a sfidare l’ordine di sparare ai manifestanti palestinesi

Ali Abunimah

13 Aprile 2018, Electronic Intifada


Giovedì alcuni attivisti hanno contestato Nikki Haley, ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, perché il suo governo ha bloccato ogni inchiesta internazionale sulle uccisioni israeliane a Gaza.

Haley non ha trovato modo di rispondere, mentre i membri del gruppo contro la Guerra “CODEPINK” hanno affermato che “Israele merita di essere considerato responsabile esattamente come qualunque altro Paese” per “l’uccisione di manifestanti pacifici.”

Nel contempo cinque membri del Congresso USA hanno rotto quello che è stato un silenzio quasi totale.

Appoggiano l’appello di B’Tselem [organizzazione israeliana per i diritti umani, ndt.] ai soldati israeliani perché sfidino l’ordine illegale di aprire il fuoco contro palestinesi disarmati che partecipano alle proteste nella Striscia di Gaza occupata.

Elogiamo i gruppi israeliani per i diritti umani che stanno chiedendo ai soldati israeliani di resistere a questi ordini illegali dei loro superiori e stanno chiedendo alle forze dell’esercito israeliano di rispettare integralmente le leggi internazionali e di esercitare la massima moderazione nell’uso di una forza letale,” dicono i parlamentari alla vigilia del terzo venerdì dei raduni per la “Grande Marcia del Ritorno”.

Questi mezzi devono essere utilizzati solo come ultima risorsa per impedire un’imminente minaccia mortale.”

Profondamente turbati”

Durante gli ultimi due venerdì – 30 marzo e 6 aprile – le forze israeliane hanno perpetrato un massacro premeditato e calcolato di decine di manifestanti palestinesi che non rappresentavano nessuna minaccia di alcun genere, provocando un avvertimento senza precedenti da parte del pubblico ministero della Corte Penale Internazionale (CPI), secondo cui i dirigenti israeliani potrebbero essere incriminati.

Fino al pomeriggio di questo venerdì un palestinese è stato ucciso e centinaia sono stati feriti quando le forze israeliane hanno di nuovo aperto il fuoco oltre la frontiera contro migliaia di dimostranti riuniti per chiedere la fine del blocco israeliano di Gaza e il diritto dei rifugiati a tornare alle terre da cui Israele li ha espulsi e da cui li esclude in quanto non ebrei.

I cinque democratici del Congresso – Mark Pocan del Wisconsin, Pramila Jayapal di Washington, Keith Ellison del Minnesota, Barbara Lee della California e Henry “Hank” Johnson della Georgia – dichiarano: “Siamo profondamente turbati dalle tragiche morti delle ultime due settimane di proteste portate avanti all’interno del territorio di Gaza, con più di dieci palestinesi uccisi da cecchini – compreso un adolescente disarmato e uno stimato fotogiornalista – e molte altre centinaia feriti da proiettili letali.”

Infatti tre minori palestinesi – di 13, 15 e 17 anni – sono stati tra le decine di persone ferite dalle forze israeliane a Gaza nelle ultime due settimane.

I deputati affermano anche di “respingere fermamente la pericolosa affermazione” del ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman “secondo cui ‘non ci sono persone innocenti nella Striscia di Gaza’,” così come gli ordini dati dai comandanti israeliani “in violazione delle leggi internazionali” di impiegare “il fuoco di cecchini contro abitanti di Gaza che siano arrivati a 300 metri dalla barriera di confine o siano coinvolti in altre azioni che non mettono a rischio la vita [dei soldati].”

Difendere i minori

Betty McCollum, una democratica del Minnesota che ha presentato una storica legge per proteggere i bambini palestinesi dall’arresto e dai maltrattamenti da parte dell’esercito israeliano, non ha firmato la dichiarazione.

Ma McCollum è stata una dei pochissimi deputati che hanno condannato il massacro di civili palestinesi dopo la prima manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno”, il 30 marzo.

Ha dimostrato la propria volontà di continuare a pronunciarsi a favore dei diritti dei palestinesi tweettando la foto di un incontro che ha tenuto giovedì con il direttore di “B’Tselem” Hagai El-Ad.

Stiamo lavorando insieme per porre fine agli arresti, ai maltrattamenti e alle torture dei minori palestinesi da parte dell’esercito israeliano,” ha scritto McCollum.

Chi usa “scudi umani”?

E’ molto raro che membri del Congresso critichino apertamente Israele ed appoggino i diritti dei palestinesi.

Ma ciò che è altrettanto significativo è la quasi totale mancanza di parlamentari, repubblicani o democratici, che intendano difendere le uccisioni israeliane a Gaza.

L’AIPAC, il potente gruppo della lobby israeliana, è tuttavia riuscito a trovarne una manciata e li ha ritweettati sul suo tweetter ufficiale.

Il repubblicano dell’Indiana Jim Banks ha ripetuto l’argomento del governo israeliano secondo cui le manifestazioni a Gaza sono uno stratagemma di Hamas “che utilizza civili innocenti come scudi umani.”

Anche il repubblicano della Carolina del Sud Joe Wilson ha affermato che “Hamas ha usato deliberatamente una protesta di civili per fomentare la violenza e mettere a rischio vite innocenti.”

Entrambi i parlamentari sollecitano il Senato ad approvare la “Legge per la Prevenzione degli Scudi Umani di Hamas”, una legge promossa da Wilson.

La legge, approvata dalla Camera in febbraio, in apparenza chiede sanzioni contro i dirigenti di Hamas che avrebbero utilizzato questa prassi.

Da molto tempo Hamas è definita come organizzazione “terroristica” dagli Stati Uniti ed è già soggetta a dure sanzioni. La legge pertanto sembra essere poco più di un modo di mettersi in mostra per promuovere una sconclusionata narrazione israeliana che intende incolpare i palestinesi per i loro morti e feriti.

Un’inchiesta di Human Rights Watch sulle uccisioni del 30 marzo da parte di Israele non ha trovato “prove che i manifestanti abbiano usato armi da fuoco o che qualche soldato dell’IDF (l’esercito israeliano) affermi che ci sia stato l’uso di colpi di avvertimento con armi da fuoco nei confronti dei manifestanti.”

Benché, come ha riconosciuto Human Rights Watch, alcuni dimostranti – delle decine di migliaia che hanno partecipato alle manifestazioni – abbiano bruciato copertoni e lanciato pietre contro postazioni israeliane pesantemente protette, neppure un israeliano risulta essere stato ferito durante settimane di proteste in cui migliaia di palestinesi sono stati uccisi o feriti da proiettili mortali e gas lacrimogeni.

Mentre membri del Congresso come Banks e Wilson promuovono le false accuse israeliane secondo cui i palestinesi utilizzano “scudi umani”, essi ignorano le prove inconfutabili che le forze israeliane hanno fatto esattamente questo per anni, sia a Gaza che nella Cisgiordania occupata.

Gente di speranza”

Anche in Canada gli attivisti stanno denunciando il silenzio del loro governo sui massacri israeliani a Gaza.

Durante la lotta contro l’apartheid in Sud Africa è stata la società civile, compresi chiese, sindacati, iniziative di amministrazioni locali e attivisti studenteschi che hanno fatto pressione sugli USA e su altri governi perché ponessero fine alla loro complicità con il regime razzista bianco.

La lotta per la giustizia in Palestina sta seguendo un cammino simile: questa settimana il consiglio comunale di Dublino ne ha fatto la prima capitale europea che appoggia il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

E in seguito all’ultimo bagno di sangue a Gaza, 15 confessioni cristiane e gruppi religiosi degli USA hanno emesso quello che per molti di loro è forse il più duro comunicato in appoggio ai diritti dei palestinesi.

Le organizzazioni religiose sostengono l’avvertimento del pubblico ministero della CPI ai dirigenti israeliani, inoltre invitano i soldati israeliani a sfidare gli ordini illegali, esprimono pieno appoggio ai diritti dei rifugiati palestinesi, chiedono che gli USA considerino Israele responsabile per come utilizza i miliardi di dollari in aiuto militare e fanno appello perché venga tolto il blocco di Gaza.

Con le manifestazioni i palestinesi hanno cercato di portare l’attenzione del mondo sui propri diritti e di rivendicarli– in quanto rifugiati, di manifestare e di vivere in modo dignitoso,” affermano i gruppi cristiani. “Hanno incontrato un rifiuto immediato e terribile di questi diritti, ma, come persone di speranza e nel periodo di Pasqua, crediamo che questi diritti alla fine prevarranno.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




B’Tselem esorta i soldati a rifiutarsi di sparare sui manifestanti a Gaza: sparare a manifestanti disarmati è illegale, e l’ordine di farlo è totalmente illegale

4 aprile 2018, B’Tselem

Domani (giovedì 5) B’Tselem lancerà una campagna dal titolo “Mi spiace, comandante, non posso sparare”. La campagna prevede annunci sui giornali che spiegano ai soldati che devono rifiutarsi di aprire il fuoco su dimostranti disarmati. L’organizzazione intraprende questo insolito passo dopo gli eventi di venerdì scorso, quando i soldati hanno sparato vere pallottole contro manifestanti disarmati. Su 17 palestinesi uccisi quel giorno, almeno 12 sono stati uccisi durante le proteste. Altre centinaia sono stati feriti da colpi di arma da fuoco.

Le forze armate si stanno preparando alle manifestazioni, ma invece di tentare di ridurre il numero di morti o feriti, fonti ufficiali hanno annunciato in anticipo che i soldati faranno fuoco contro i manifestanti anche se si trovano a centinaia di metri dal confine. B’Tselem ha messo in guardia dal verosimile risultato di questa politica e ora, in vista delle manifestazioni previste questo venerdì, sta nuovamente specificando che sparare a manifestanti disarmati è illegale e che gli ordini di sparare in tal modo sono manifestamente illegali.

La responsabilità di diramare questi ordini illegali e le loro conseguenze letali ricadono sui responsabili politici e, soprattutto, sul primo ministro israeliano, sul ministro della difesa e sul capo di stato maggiore. Sono sempre loro che hanno anche l’obbligo di modificare queste regole immediatamente, prima delle proteste pianificate per questo venerdì, al fine di evitare ulteriori vittime. Detto questo, è comunque un reato osservare degli ordini palesemente illegali. Pertanto, fino a quando i soldati sul campo continueranno a ricevere l’ordine di fare fuoco contro civili disarmati, hanno il dovere di rifiutarsi di obbedire.

B’Tselem vuole sottolineare che l’illegalità di tali ordini “non è una questione di forma, né trascurabile, né parzialmente opinabile”. Al contrario, si tratta di “un’illegalità inconfondibile palesemente evidente nell’ordine stesso, è un comando di natura chiaramente criminale o tale che le azioni che ordina sono chiaramente di natura criminale. È un’illegalità che offende l’occhio e oltraggia il cuore, se l’occhio non è cieco e il cuore non è insensibile o corrotto “.

Contrariamente all’impressione che danno gli alti ufficiali militari e i ministri del governo, all’esercito non è permesso agire come meglio crede, né Israele può determinare da solo ciò che è lecito e ciò che non lo è quando si tratta di manifestanti. Come per tutti i paesi, le azioni di Israele sono soggette alle disposizioni del diritto internazionale e alle restrizioni imposte sull’uso delle armi, e in particolare sull’uso dei proiettili. Le disposizioni ne limitano l’uso a casi che comportino un pericolo mortale tangibile e immediato e solo in assenza di altre alternative. Israele non può semplicemente decidere di svincolarsi da queste regole.

L’uso di munizioni vere è palesemente illegale nel caso di soldati che sparino da una grande distanza contro manifestanti situati dall’altra parte della recinzione che separa Israele dalla Striscia di Gaza. Inoltre, non è consentito ordinare ai soldati di sparare munizioni vere a persone che si avvicinano alla recinzione, la danneggiano o tentano di attraversarla. Ovviamente, l’esercito è autorizzato a prevenire tali azioni, e persino ad arrestare persone che tentino di eseguirle, ma gli è assolutamente proibito sparare vere munizioni solo per questi motivi.

(traduzione. di Luciana Galliano)




B’Tselem: Gaza non è “zona di guerra”, sparare ai manifestanti è un crimine

29 marzo 2018, B’Tselem

Il Centro di informazione israeliano sui diritti umani nei Territori Occupati:

Prima delle manifestazioni palestinesi programmate per l’inizio di domani (venerdì) a Gaza, gli ufficiali israeliani hanno ripetutamente minacciato di rispondere con l’eliminazione fisica.

Ignorando completamente il disastro umanitario a Gaza di cui Israele è responsabile, stanno interpretando la protesta in termini di rischio per la sicurezza, rappresentando i manifestanti come terroristi e riferendosi a Gaza come a una “zona di guerra”.

Informazioni frammentarie riferite dai media indicano che: i soldati avranno l’ordine di sparare a chiunque si muova entro i 300 metri dalla recinzione; cecchini spareranno a chiunque la tocchi; si sparerà anche in circostanze che non siano una minaccia mortale [per i soldati]. In altre parole sparare per uccidere i palestinesi che partecipano alle dimostrazioni.

Le forze israeliane da tempo hanno già sparato per uccidere contro manifestanti palestinesi a Gaza. Solo nel dicembre 2017- il mese con il più alto numero di morti dello scorso anno- a Gaza le forze israeliane hanno sparato e ucciso otto manifestanti palestinesi disarmati.

Indubbiamente l’ incremento dell’uso illegale delle armi da fuoco innalzerà il numero dei morti. Ma questo prevedibile esito appare non avere scosso gli israeliani responsabili delle decisioni riguardo alla risposta da dare alle manifestazioni a Gaza, sia in generale che in particolare nell’ impartire gli ordini che consentono di aprire il fuoco.

Inoltre, la presunzione israeliana di poter decidere le azioni dei palestinesi all’interno della Striscia di Gaza è assurda. La decisione di dove, se e come manifestare a Gaza non è Israele che la deve prendere, nè rispetto alla manifestazione di domani né in generale rispetto alla vita quotidiana.

I comunicati ufficiali israeliani non fanno alcun riferimento alle concrete motivazioni della protesta, alla situazione disastrosa di Gaza o al diritto di manifestare liberamente. Israele ha il potere di cambiare in meglio [le condizioni] di vita a Gaza, ma ha scelto di non farlo. Ha fatto di Gaza un enorme prigione, ma impedisce ai prigionieri persino di protestare contro di ciò, pena la morte.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Un nuovo rapporto fornisce dettagli sul “vasto e sistematico abuso” da parte di Israele su minori a Gerusalemme est

Sheren Khalel

25 ottobre 2017, MondoWeiss

Un nuovo rapporto stilato dalle associazioni israeliane per i diritti umani ‘HaMoked:Centro per la difesa delle persone’ e B’Tselem, con l’appoggio dell’Unione Europea, ha rivelato “un vasto, sistematico abuso da parte delle autorità israeliane” nei confronti di centinaia di ragazzi detenuti a Gerusalemme est occupata.

Il rapporto, intitolato ‘Senza protezione: la detenzione degli adolescenti palestinesi a Gerusalemme est’, è stato diffuso mercoledì e riporta in dettaglio una ricerca su 60 dichiarazioni giurate raccolte tra maggio 2015 e ottobre 2016.

Le associazioni hanno riscontrato diversi casi di abuso su minori in custodia della polizia israeliana.

I ragazzi palestinesi di Gerusalemme est vengono tirati giù dal letto nel mezzo della notte, ammanettati senza che ve ne fosse la necessità, interrogati senza aver avuto la possibilità di parlare con un avvocato o con i loro familiari prima dell’inizio dell’interrogatorio e senza essere informati del loro diritto a rimanere in silenzio”, hanno riscontrato le associazioni. “Vengono poi tenuti in condizioni durissime, trattenuti ripetutamente in custodia cautelare per ulteriori periodi di giorni e persino di settimane, anche dopo che il loro interrogatorio è terminato. In alcuni casi, a tutto ciò si accompagnano insulti o minacce verbali e violenze fisiche.”

Mentre il rapporto raccoglie casi di un anno fa, questi arresti di ragazzi continuano. Per esempio, il 23 ottobre le forze israeliane hanno fatto irruzione nel villaggio di Issawiya a Gerusalemme est durante incursioni notturne, provocando scontri tra i giovani del luogo e le forze israeliane armate di tutto punto.

Gli scontri non sono una novità per il conflittuale villaggio, situato vicino all’università ebraica di Israele e all’ospedale Hadassah, ma quel che in genere finisce magari con qualche arresto e ferimento, ha invece provocato fino a 51 palestinesi arrestati e portati via dalle forze israeliane – 27 dei quali tra i 15 e i 18 anni di età, secondo le informazioni del Comitato palestinese per le questioni dei prigionieri.

Il rapporto diffuso mercoledì dà un’idea di ciò che quei ragazzi potrebbero stare affrontando adesso.

I ragazzi si trovano soli in una situazione minacciosa e sconcertante, senza che nessuno spieghi loro di che cosa sono sospettati, quali siano i loro diritti, con chi possano comunicare, quanto durerà il processo e quando potranno tornare alle loro case e famiglie,” afferma il rapporto. “Fino a quando non vengono rilasciati, non hanno accanto nessun adulto di cui si possano fidare e i loro genitori sono tenuti lontani. Queste prassi di arresto ed interrogatorio lasciano libere le autorità di far pressione sui minori detenuti perché confessino le accuse.”

Andare contro il protocollo

Analizzando la legislazione ed il protocollo israeliani, le associazioni hanno scoperto che in questi casi le forze israeliane hanno spesso violato le loro stesse regole.

Per esempio, mentre la legge israeliana prevede che le forze di polizia arrestino i giovani solo in casi estremi, le testimonianze raccolte da B’Tselem e HaMoked dimostrano che solo nel 13% dei casi “la polizia non ha proceduto all’arresto”, per cui le associazioni hanno potuto stabilire che gli arresti sono “la prassi di azione prevalente” della polizia israeliana, quando ha a che fare con minori palestinesi nella Gerusalemme est occupata.

Inoltre, in base alla procedura israeliana, la contenzione fisica dei giovani “può essere utilizzata sui minori solo in casi eccezionali”; tuttavia, nei 60 casi esaminati dal rapporto, almeno l’81% dei minori è stato ammanettato prima di essere caricato su un veicolo della polizia, mentre il 70% è rimasto in manette durante gli interrogatori.

La legge israeliana vieta anche che, tranne che in circostanze eccezionali, i minori siano interrogati di notte, ma il 25% dei minori ha riferito di interrogatori notturni e il 91% è stato arrestato nel proprio letto nel mezzo della notte.

Il rapporto ha documentato che “anche se, almeno in alcuni casi, i poliziotti hanno aspettato fino al mattino per iniziare l’interrogatorio, i ragazzi vi sono giunti stanchi e spaventati dopo una notte insonne.”

I minori, arrestati nel loro letto nel mezzo della notte, hanno potuto contattare le loro famiglie solo “in rari casi”. Consentire la presenza dei genitori non è previsto dalla legge israeliana dopo un arresto ufficiale e, pur se la polizia ha la discrezionalità di concederla, al 95% dei minori presi in considerazione nel rapporto non è stata consentita la presenza di un genitore dopo l’arresto.

Il rapporto ha scoperto che solo il 70% dei minori ha compreso di avere il diritto di rimanere in silenzio, perché temevano che gli venisse fatto del male se non avessero risposto alle domande dei poliziotti.

Mentre il 70% di loro ha potuto parlare con un avvocato durante o prima degli interrogatori, B’Tselem e HaMoked hanno rilevato che in molti casi ai ragazzi è stato dato il telefono privato di chi li stava interrogando per parlare con l’avvocato e le conversazioni erano “inadeguate ed inutili perché i minori capissero i propri diritti e ciò a cui andavano incontro.”

Sarebbe ovvio che il sistema di applicazione della legge trattasse questi ragazzi in un modo consono alla loro età, che tenga conto della loro maturità fisica e psichica, riconoscendo che ogni atto potrebbe avere ripercussioni a lungo termine sugli stessi adolescenti e sulle loro famiglie”, spiega il rapporto. “Sarebbe ovvio che il sistema trattasse i ragazzi umanamente e correttamente e fornisse loro le protezioni fondamentali. Ma non è così.”

Secondo il rapporto, il 25% dei minori interrogati ha detto che è stata usata violenza su di loro, benché il rapporto non fornisca dettagli specifici su quale tipo di lesioni siano state provocate.

Inoltre, più della metà dei ragazzi ha detto che quelli che li interrogavano gli urlavano minacce e offese verbali. A quasi un quarto di loro non è stato permesso di andare in bagno e non è stato fornito cibo quando lo chiedevano.

Negare ai ragazzi cibo ed acqua è stato uno dei metodi principali per farli confessare, in quanto l’83% dei minori ha detto che una delle principali ragioni per cui ha firmato le confessioni è stato che aveva fame – l’80% delle dichiarazioni di confessione era in ebraico, per cui i ragazzi non potevano leggere ciò che stavano firmando.

Dietro gli arresti

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, vi sono diverse importanti ragioni per cui le forze israeliane fanno la scelta di arrestare minori nella Gerusalemme est occupata, oltre al mantenimento della legge e dell’ordine.

Addameer ritiene che i soldati e i poliziotti israeliani prendano di mira i giovani per esercitare pressione sulle famiglie e le comunità, spingendole a “interrompere la mobilitazione sociale” contro l’occupazione. Inoltre Addameer ha rilevato che l’arresto dei ragazzi quando sono giovani potrebbe dissuaderli dal partecipare a scontri e lanci di pietre – l’accusa più comune sollevata contro i giovani. Infine, Addameer riferisce di aver raccolto testimonianze che suggeriscono che i minori vengono “sistematicamente” arrestati e sollecitati a “divenire informatori” e a “fornire informazioni sia su importanti personalità coinvolte nelle attività militanti, sia su altri ragazzi partecipanti alle manifestazioni.”

Il rapporto di B’Tselem e HaMoked conclude che la politica israeliana nei confronti dei minori di Gerusalemme est è una politica appositamente creata e utilizzata dallo Stato per far pressione sui palestinesi della città perché se ne vadano, trattando la popolazione come se fosse esclusa dal sistema.

Il regime israeliano di applicazione della legge tratta i palestinesi di Gerusalemme est come membri di una popolazione ostile, che sono tutti, minori ed adulti, presunti colpevoli fino a che non si provi la loro innocenza, e mette in atto contro di loro misure estreme che non oserebbe mai impiegare contro altri settori della popolazione”, continua il rapporto. “Il sistema della giustizia di Israele sta, per definizione, da un lato della barricata e i palestinesi dall’altro: i poliziotti, gli agenti carcerari, i procuratori e i giudici sono sempre cittadini israeliani che arrestano, interrogano, giudicano e imprigionano ragazzi palestinesi che vengono considerati come nemici pronti a nuocere agli interessi della società israeliana.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele pianifica crimini di guerra contro le famiglie di Khan al-Ahmar

Tamara Nassar

26 settembre  2017,Electronic Intifada

Gruppi per i diritti umani avvertono che l’espulsione pianificata da Israele degli abitanti di Khan al-Ahmar e la distruzione del loro villaggio nella Cisgiordania occupata è un crimine di guerra. All’inizio di questo mese le autorità israeliane dell’occupazione hanno informato membri della comunità che sarebbero stati spostati in un altro luogo, benché siano in corso procedimenti giudiziari nei tribunali israeliani.

Ciò ha sollevato tra i funzionari ONU timori che l’espulsione possa avvenire a giorni. B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndt.] ha messo in guardia il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ed altre personalità politiche israeliane che potrebbero essere considerati personalmente responsabili di crimini di guerra se continuassero con la demolizione di Khan al-Ahmar e di Susiya, un secondo villaggio, per fare spazio a colonie israeliane.

La demolizione di intere comunità nei territori occupati è praticamente senza precedenti dal 1967 [data d’inizio dell’occupazione israeliana, ndt.],” ha aggiunto il gruppo israeliano per i diritti umani.

Espandere le colonie

Khan al-Ahmar si trova tra le colonie israeliane di Maaleh Adumim e Kfar Adumim, nella cosiddetta area E1 della Cisgiordania occupata.

Su questa terra a est di Gerusalemme Israele prevede di estendere la sua grande colonia di Maaleh Adumim, per completare la separazione della parte nord da quella sud della Cisgiordania.

Tutte le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata sono illegali in base al diritto internazionale.

A Khan al-Ahmar vivono i membri della tribù Jahalin, che comprende 32 famiglie beduine, e conta approssimativamente 173 persone.

E’ una delle 12 comunità palestinesi, per un totale di circa 1.400 abitanti, che devono far fronte all’espulsione da parte israeliana nella zona ad est di Gerusalemme.

Gli abitanti palestinesi di Khan al-Ahmar hanno in precedenza presentato un ricorso all’alta corte israeliana per bloccare gli ordini di demolizione che riguardano tutte le strutture del villaggio.

L’alta corte ha anche ricevuto un ricorso della colonia di Kfar Adumim, che chiede che l’unica scuola di Khan al-Ahmar venga demolita, insieme a più di 250 altri edifici palestinesi nella zona.

Le autorità israeliane hanno anche chiesto l’approvazione per completare la deportazione entro l’aprile 2018.

La corte ha annullato un’udienza che era stata fissata per lunedì per la discussione del caso, in attesa di ulteriore documentazione.

Deportazione

Israele vuole obbligare gli abitanti di Khan al-Ahmar a spostarsi in un’area chiamata “al-Jabal ovest,” situata nei pressi della discarica del villaggio palestinese di Abu Dis. E’ una zona in cui Israele ha già deportato famiglie Jahalin negli anni ’90 per far posto a Maaleh Adumim.

Se l’espulsione pianificata verrà messa in atto, sarebbe la seconda volta che la comunità di Khan al-Ahmar viene deportata. Negli anni ’50 le famiglie furono inizialmente cacciate dalla regione del Naqab [Negev in arabo, ndt.] dall’esercito israeliano.

Questa settimana B’Tselem ha affermato che, se Israele demolisce la scuola di Khan al-Ahmar o caccia a forza gli abitanti, anche rendendo le loro condizioni di vita insopportabili, “ciò violerebbe il divieto di trasferimento forzato stabilito dalle leggi umanitarie internazionali.”

B’Tselem ha aggiunto: “Una simile violazione costituisce un crimine di guerra, e ogni persona coinvolta nella sua messa in pratica ne dovrà rendere conto personalmente – compresi il primo ministro, i principali membri del governo, il capo di stato maggiore e il capo dell’Amministrazione Civile [governo militare nei territori palestinesi occupati, ndt.] – il sistema amministrativo dell’occupazione israeliana.

Israele ha cercato di distrarre l’attenzione dalla deportazione sostenendo che lo spostamento avvantaggerà gli abitanti di Khan al-Ahmar.

Ma i gruppi per i diritti umani, compreso Bimkom [Ong di architetti e urbanisti che sostiene una pianificazione condivisa con le comunità locali, ndt.] israeliano, sottolineano che la deportazione è vietata indipendentemente dalle sue ragioni. Danneggerebbe anche lo stile di vita rurale e la sopravvivenza delle comunità già impoverite.

Gli abitanti del villaggio dipendono per il loro modo di vita dai pascoli e dalla vicinanza ad altre tribù di beduini. Israele ha in precedenza tentato di spostare le famiglie in terre confiscate ad altre comunità palestinesi, una proposta rifiutata da tutti quelli che sarebbero stati coinvolti.

Continui soprusi

Khan al-Ahmar e Susiya, un villaggio sulle colline meridionali della zona di Hebron in Cisgiordania, si trovano entrambi nell’area C.

Si tratta di circa il 60% della Cisgiordania che rimane sotto completo controllo militare israeliano in base agli accordi di Oslo firmati tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina all’inizio degli anni ’90.

Israele rifiuta di consentire praticamente ogni costruzione palestinese nell’area C, obbligando i palestinesi a costruire senza permesso e a vivere con il timore costante che le loro case siano demolite.

La scuola di Khan al-Ahmar è stata edificata nel 2009 usando copertoni e fango, nel tentativo di superare le restrizioni israeliane sull’uso di cemento da parte dei palestinesi per scopi edilizi.

Ma Israele ha trovato un’altra scusa per ordinare la demolizione della scuola, sostenendo che era troppo vicina alla strada principale.

La scuola era stata costruita con i finanziamenti dell’Unione europea e di altri donatori europei, che non hanno fatto niente per rendere Israele responsabile della demolizione di progetti che hanno appoggiato per decine di milioni di dollari.

Lo scorso mese Israele ha distrutto due scuole finanziate dagli europei in Cisgiordania.

Qui per rimanere per sempre”

Oltre alle demolizioni, Israele cerca di cacciare i palestinesi dalle loro case rendendo le loro condizioni di vita insopportabili.

Israele ha smantellato e confiscato pannelli solari di Khan al-Ahmar, bloccato l’accesso diretto tra il villaggio e la strada principale e l’ha privato di servizi essenziali come l’acqua, le fognature, l’elettricità e la disponibilità di mezzi di trasporto.

Il rinnovato impegno di Israele per la demolizione di Khan al-Ahmar arriva solo poche settimane dopo che Netanyahu ha partecipato nel nord della Cisgiordania ad una cerimonia per i 50 anni della colonizzazione israeliana.

Siamo qui per rimanere per sempre,” ha detto Netanyahu alla folla. “Non ci saranno più smantellamenti di colonie nella terra di Israele.”

Questa settimana i media israeliani hanno informato che il governo israeliano sta portando avanti progetti per altre 2.000 unità immobiliari delle colonie nella Cisgiordania occupata.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Presentate alla corte dell’Aja prove di apartheid, saccheggio ed assassinio da parte di Israele

Ali Abunimah

21 settembre 2017,Electronic Intifada

Mercoledì [20 sett.] quattro organizzazioni palestinesi per i diritti umani hanno presentato alla procura della Corte Penale Internazionale 700 pagine di prove di crimini di guerra e contro l’umanità da parte di Israele.

Ciò avviene mentre due comunità palestinesi in Cisgiordania devono affrontare un’imminente e totale distruzione da parte di Israele.

I crimini dettagliati nel dossier includono la persecuzione, l’apartheid, il furto esteso, la distruzione ed il saccheggio delle proprietà palestinesi e prove degli “omicidi ed assassinii deliberati” di centinaia di palestinesi dal 2014.

Shawan Jabarin, direttore del gruppo per i diritti umani Al-Haq, ha affermato che il dossier “fornisce una base convincente e ragionevole” perché la procura apra un’indagine in merito a possibili crimini di guerra e contro l’umanità da parte di Israele nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est.

Questo è il quarto dossier che i gruppi per i diritti umani hanno presentato alla corte. Mentre questo si concentra sulla Cisgiordania, quelli precedenti riguardavano crimini commessi da importanti personalità civili e militari israeliane durante l’attacco del 2014 contro Gaza.

Minacce di morte e vessazioni

Jabarin ha presentato il documento alla corte dell’Aja insieme alla sua collega Nada Kiswanson. Kiswanson ed altri ricercatori per i diritti umani affiliati a Al-Haq sono stati bersaglio di una lunga campagna di vessazioni e di minacce di morte che un esperto analista israeliano ha collegato a “operazioni segrete” del governo israeliano.

Al-Haq ritiene che le minacce siano legate al lavoro di Kiswanson per preparare il dossier per la corte internazionale. Il governo dell’Olanda, dove si trova la corte, ha affermato che è stata aperta un’inchiesta penale in merito alle minacce.

Dominio degli ebrei israeliani”

In base alle affermazioni di Al-Haq, l’ultimo documento “prende in considerazione il tentativo di Israele di ampliare il proprio territorio e di garantirvi il dominio degli ebrei israeliani modificando la composizione demografica dei territori palestinesi occupati.”

Raji Sourani, direttore del “Palestinian Center for Human Rights” [“Centro Palestinese per i Diritti Umani”, ndt.], ha affermato che il trasferimento di coloni nelle terre palestinesi occupate da parte di Israele “costituisce un unico crimine di guerra in quanto accompagnato dalla confisca di parti consistenti di terra palestinese, dalla distruzione massiccia di proprietà palestinesi e dalla frammentazione del tessuto sociale e del modo di vita palestinesi.”

Benché le violazioni israeliane nella Cisgiordania occupata possano essere viste separatamente da quelle a Gaza, Issam Younis, direttore del “Al Mezan Center for Human Rights” [“Centro Al Mezan per i Diritti Umani”, ndt] ha spiegato come essi siano legati: “In ultima analisi l’isolamento di Gaza, oltre ai periodici attacchi militari su vasta scala, consente a Israele di consolidare il proprio controllo su tutti i territori palestinesi occupati e nega ai palestinesi il loro diritto, internazionalmente riconosciuto, all’autodeterminazione.”

Pressione

Il comportamento di Israele durante la guerra del 2014 contro Gaza, così come denunce di numerosi crimini in Cisgiordania, è attualmente oggetto di un esame preliminare da parte della procura dell’Aja. Deve decidere se aprire un’indagine accurata, che potrebbe portare a un’incriminazione formale di dirigenti e personale militare israeliani.

Non ci sono limiti di tempo per un esame preliminare, e la procura si trova sotto costante pressione da parte di Israele e degli Stati Uniti per lasciare che Israele se la cavi. Sono incentivati in ogni modo a starsene con le mani in mano.

Indagini farsa su se stesso

Lo scorso mese due gruppi per i diritti umani hanno concluso che il sistema israeliano di inchiesta su se stesso in merito a possibili crimini contro palestinesi da parte delle proprie forze è una farsa.

Centinaia di casi, compresa la nota uccisione di quattro ragazzini che giocavano a pallone su una spiaggia nel luglio 2014 [a Gaza, ndt.], non hanno portato a nessuna sanzione nei confronti dei responsabili.

Nel maggio 2016 B’Tselem ha annunciato che non avrebbe più collaborato con le inchieste per omicidio dell’esercito israeliano né per altri attacchi contro palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Non aiuteremo più un sistema che copre le inchieste e serve come foglia di fico per l’occupazione,” ha spiegato il direttore del gruppo israeliano per i diritti umani.

Quando si tratta di crimini come l’apartheid e la colonizzazione, Israele ovviamente non fa niente per condurre indagini e punire se stesso – dato che questi crimini sono pianificati ed eseguiti dallo Stato stesso.

Ma persino in situazioni in cui Israele ha riconosciuto – almeno sulla carta – che una determinata azione era un crimine, nessuno ne ha pagato le conseguenze.

Ciò dovrebbe essere un importante fattore nelle decisioni della procura, perché, in base al suo statuto fondativo, la Corte Penale Internazionale interviene solo quando le autorità giudiziarie nazionali non sono disposte o non possono condurre procedimenti imparziali.

Villaggi che devono far fronte alla distruzione

Né le azioni della corte sono solo una questione di responsabilizzazione per il passato, ma per porre fine a crimini in corso.

Questo mese B’Tselem ha messo in guardia importanti dirigenti israeliani, compresi il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman e il capo di stato maggiore militare, che potrebbero essere personalmente imputabili per crimini di guerra se procedessero all’apparentemente imminente distruzione di Khan al-Ahmar e Susiya, due comunità della Cisgiordania.

La demolizione di intere comunità nei territori occupati è pressoché senza precedenti dal 1967,” ha affermato B’Tselem.

Robert Piper, direttore dell’aiuto umanitario ONU in Palestina, ha twittato: “Tener d’occhio la comunità beduina di Khan al-Ahmar a rischio di deportazione da parte delle autorità israeliane nei prossimi giorni.”

Egli ha involontariamente identificato un problema in cui l’ONU gioca un ruolo fondamentale: la cosiddetta comunità internazionale se ne sta in disparte e si limita a guardare come Israele commette quotidianamente crimini.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




Demolite: le scuole palestinesi distrutte da Israele all’inizio del nuovo anno scolastico

Chloé Benoist

Giovedì 24 agosto 2017,Middle East Eye

Il ritorno a scuola per molti significa un nuovo inizio, ma per alcuni bambini palestinesi ciò ha significato un ritorno alla distruzione ed alla violenza

Decine di bambini di Jubbet al-Dhib e dei villaggi circostanti nel distretto meridionale di Betlemme nella Cisgiordania occupata si aspettavano che mercoledì fosse il primo giorno di scuola in un nuovissimo istituto elementare, finanziato dall’Unione Europea (UE).

Tuttavia martedì sera le forze israeliane hanno demolito sei aule prefabbricate e confiscato tutto il materiale da costruzione, lasciando dietro di sé sul nudo cemento solo pile di sedie per i bambini.

Gli abitanti di Jubbet al-Dhib erano scioccati: “Quelli che demoliscono una scuola non sono persone, non sono esseri umani,” ha detto mercoledì ai giornalisti Manal Zawahra, un’abitante di Jubbet al-Dhib.

Non abbiamo fatto niente di male ai loro bambini, perché hanno fatto questo ai nostri? Vogliamo vivere in pace, ma non ce lo consentono,” ha aggiunto questa madre di sei figli.

Quella di Jubbet al-Dhib è la terza scuola palestinese ad essere demolita o a vedersi confiscare le infrastrutture dalle forze israeliane dall’inizio del mese. Ciò include l’unico asilo infantile della comunità beduina di al-Baba e lo smantellamento di pannelli solari – l’unica fonte di energia – di una scuola ad Abu Nuwar.

Giovedì le missioni UE a Gerusalemme e Ramallah in un comunicato hanno espresso “forte preoccupazione” in seguito alla confisca di strutture delle scuole palestinesi nelle comunità beduine.

Ogni bambino ha il diritto ad un accesso sicuro all’educazione e gli Stati hanno l’obbligo di proteggere, rispettare e soddisfare questo diritto garantendo che le scuole siano luoghi inviolabili e sicuri per i bambini,” dice la dichiarazione, chiedendo ad Israele “di porre fine alle demolizioni ed alle confische delle case e proprietà palestinesi in conformità con i suoi obblighi in quanto potere occupante in base alle leggi umanitarie internazionali.”

Atto di sfida

Nonostante la demolizione, mercoledì mattina presto i bambini delle elementari si sono presentati dove si trova il basamento della scuola ed hanno aiutato a sistemare le sedie gettate via, mentre attivisti hanno sistemato una tenda rifugio sulle fondamenta distrutte delle aule prefabbricate.

Circa 60 bambini si sono stipati all’interno della tenda ed hanno cantato l’inno nazionale palestinese, mentre gli insegnanti hanno tenuto le lezioni sul posto come dimostrazione simbolica di sfida contro le politiche discriminatorie di Israele contro i palestinesi.

Questo luogo non rappresenta un pericolo per nessuno. Non è un pericolo per i carri armati o gli aerei (israeliani),” ha detto a MEE Sami Mroueh, il direttore educativo del distretto di Betlemme dell’Autorità Nazionale Palestinese. “L’aggressione contro questo luogo è un attacco ai diritti umani in generale ed ai diritti dei bambini in particolare.”

Mentre Mroueh ha insistito sul fatto che “rimarremo qui e continueremo ad insegnare (agli studenti) qui,” gli operatori dell’Ong che si sono occupati della scuola hanno detto che l’incombente minaccia di un’ulteriore azione israeliana, insieme alla difficoltà di insegnare in una tenda troppo affollata con un clima inclemente, rende questa possibilità improbabile nell’immediato futuro.

Violenza psicologica

L’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem in un comunicato rilasciato mercoledì ha affermato che 80 bambini hanno subito le conseguenze della demolizione della scuola. Sostiene che l’iniziativa israeliana “incarna la crudeltà burocratica e la sistematica vessazione da parte di autorità la cui funzione è espellere i palestinesi dalla loro terra.”

Un coordinatore dell’Ong francese coinvolta nella costruzione della scuola, che chiede di rimanere anonimo, ha detto a Middle East Eye che la demolizione ha rappresentato una “violenza psicologica” contro i giovani studenti.

Per bambini di quest’età, una cosa del genere gli fa capire improvvisamente qual è il loro posto nel mondo,” ha detto.

Il Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (COGAT), l’ente militare incaricato di mettere in atto le politiche israeliane nei territori palestinesi occupati, ha giustificato la demolizione affermando che mancavano le licenze edilizie rilasciate da Israele.

L’edificio a Jib al-Dib (sic) è stato costruito illegalmente la scorsa settimana, in palese violazione degli ordini di interruzione dei lavori e senza aver ottenuto i permessi richiesti,” ha detto a Middle East Eye un portavoce del COGAT.

Mentre gli abitanti hanno detto che i servizi igienici, che mercoledì sono rimasti la sola struttura ancora in piedi, sono stati l’unica parte della scuola ad aver ricevuto un ordine di sospensione dei lavori, il COGAT afferma che anche le aule nelle case mobili l’avevano ricevuto.

In luglio l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie (OCHA) ha affermato che le limitazioni israeliane nell’Area C – i due terzi della Cisgiordania sotto totale controllo militare israeliano [in base agli accordi di Oslo e per un periodo massimo di 5 anni dal 1993, ndt.]– hanno reso “praticamente impossibile” per i palestinesi ottenere licenze edilizie, a differenza dei coloni israeliani, a cui spesso vengono concesse.

Secondo l’OCHA, in conseguenza di simili politiche israeliane, più di un terzo delle comunità palestinesi nell’Area C non ha scuole elementari, obbligando i bambini a viaggiare per lunghe distanze per ottenere un’istruzione.

In giugno le autorità israeliane hanno anche confiscato circa 60 pannelli solari – donati dal governo olandese – che fornivano a Jebbet al-Dhib l’elettricità indispensabile.

B’Tselem ha registrato nel 2016 un numero “record” di demolizioni di case palestinesi in Cisgiordania.

Dall’inizio del 2017 le autorità israeliane hanno portato avanti progetti per migliaia di unità abitative nelle colonie della Cisgiordania e nella Gerusalemme est annessa, in palese violazione delle leggi internazionali.

Accesso all’educazione

I bambini di Jubbet al-Dhib, che vivono sulle polverose colline a sudest della città di Betlemme, devono camminare per almeno cinque chilometri per andare a lezione, attraverso terreni ripidi e difficili da percorrere, a rischio di incontrare cani inselvatichiti, soldati israeliani o abitanti della vicina colonia israeliana illegale di Nokdim – dove vive il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman.

Il difficile percorso di andata e ritorno, insieme alle aule sovraffollate ed allo stigma sociale contro gli impoveriti bambini di Jubbet al-Dhib nelle scuole della zona, per anni hanno influito negativamente sul loro accesso all’educazione.

L’istituto più vicino a Jubbet al-Dhib, la scuola elementare di Hatin, situato nel villaggio di Beit Ta’mir, consiste in una casa parzialmente affittata dall’Autorità Nazionale Palestinese, che è stata ristrutturata in modo approssimativo per ospitare decine di studenti in ex-garage, così come nel piano interrato senza finestre.

Benché gli abitanti abbiano a lungo chiesto la creazione di una scuola a Jebbet al-Dhib, è stato solo durante l’estate del 2016 che le organizzazioni internazionali hanno iniziato a lavorare per edificare sulle terre del villaggio una scuola, la cui costruzione è terminata solo di recente, con finanziamenti dell’UE.

Hanno sottovalutato le distanze che i miei figli devono percorrere a piedi ogni giorno? Sono chilometri sotto il sole o la pioggia e non ci sono mezzi di trasporto,” ha detto Zawahra.

Quali sono i principi etici, umani o persino giuridici che possono giustificare il fatto di prendere costantemente di mira una comunità negandole l’accesso all’elettricità, all’acqua corrente ed ora alla scuola?” si chiede il coordinatore dell’Ong francese. “Quali giustificazioni possibili, se non per razionalizzare l’espansione della vicina colonia, che, essa sì, è veramente illegale?”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




Espellere e sfruttare: la pratica israeliana di impossessarsi dei terreni agricoli palestinesi

La sintesi del Rapporto di B’Tselem,

B’Tselem

Dic 2016

Questo rapporto racconta la storia del processo di frammentazione imposto ai terreni agricoli palestinesi in Cisgiordania attraverso lo studio del caso di tre villaggi nel distretto di Nablus – ‘Azmut, Deir al-Hatab e Salem.

Quello che queste comunità hanno subito dal 1980, quando Israele ha fondato nelle vicinanze Elon Moreh [colonia israeliana di circa 1700 abitanti. Ndtr.], non è altro che uno degli esempi di dinamiche più estese che hanno avuto luogo in tutta la Cisgiordania. La loro storia è simile a quella di centinaia di comunità palestinesi sulle cui terre sono stati costruiti insediamenti israeliani.

Come molti altri villaggi palestinesi, Azmut, Deir al-Hatab e Salem si sono sviluppati in sintonia con le caratteristiche geografiche della zona. Terreni coltivati, pascoli e fonti idriche naturali sono serviti come fondamento dell’economia locale e come base per la formazione di un’intera cultura che lega profondamente gli abitanti al loro ambiente. I contadini utilizzavano per lo più coltivazioni tradizionali delle zone aride, coltivando ulivi e alberi da frutto, legumi e cereali. Allevavano anche bestiame, basandosi su pascoli naturali che si estendono lungo le distese collinose del al-Jabal al-Kbir (letteralmente: la Grande Montagna) e le vallate circostanti. Per centinaia di anni i contadini hanno vissuto di agricoltura e pastorizia.

Dall’occupazione del 1967 Israele ha utilizzato varie misure – ufficiali e non – per tagliare fuori i contadini dalla loro terra e assegnarla ai coloni. Il primo passo fu la fondazione nel 1980 della colonia di Elon Moreh su 127,8 ettari (1.278 dunam) delle terre del villaggio già registrate come proprietà statale sotto il governo giordano precedente il 1967. Solo due anni dopo il Comando della Giudea e Samaria stabilì una riserva naturale su una parte delle terre rimanenti a ovest della colonia. Ciò determinò la creazione di una zona, molto più ampia della giurisdizione dell’insediamento, in cui i palestinesi devono ottenere un permesso israeliano per intraprendere qualunque tipo di attività, costruzione, nuove coltivazioni o allevamento di bestiame. Nel 1987 170 ettari della riserva naturale furono dichiarati “terra dello Stato” e nel 1998 vi venne costruito un avamposto illegale dei coloni.

“Circa cinque coloni vivono nella fattoria Skali, ed hanno più pecore di tutti quanti gli abitanti del nostro villaggio messi insieme. Hanno grandi greggi – da 500 a 1.000 pecore a testa – mentre noi, gli abitanti di Salem che siamo i proprietari della terra, non abbiamo il permesso di attraversare la strada e allontanarci dalle nostre case, e le nostre pecore rimangono tutto il tempo nei recinti. Non escono mai a pascolare e non abbiamo nessun posto in cui portarle.”

La fase successiva del processo di espropriazione ebbe luogo alla fine di settembre 1995, dopo che Israele e i palestinesi firmarono gli accordi di Oslo II. Le terre di Azmut, Deir al-Hatab e Salem furono divise tra le aree B e C: la maggior parte dei terreni su cui si era costruito all’epoca fu definita area B, mentre la maggior parte delle riserve di terra, coltivazioni e pascoli dei villaggi furono attribuiti all’area C, sotto totale controllo israeliano. Da allora l’uso delle terre definite come area C, praticamente per ogni uso – soprattutto per la costruzione e lo sviluppo – è soggetto all’approvazione israeliana, che quasi sempre è negata ai contadini. Così facendo Israele ha messo le basi amministrative per separare i centri abitati dei villaggi dalla maggior parte dei loro terreni coltivati e pascoli.

Nel 1996 Israele costruì una strada per unire le colonie di Elon Moreh e Itamar, in modo che gli israeliani non dovessero più attraversare la zona abitata di Salem. Così, seguendo le basi amministrative stabilite un anno prima, Israele mise in piedi l’infrastruttura concreta per separare fisicamente le zone abitate dei tre villaggi dalle loro coltivazioni e pascoli. Nel 2000, quattro anni dopo che la strada era stata asfaltata, è scoppiata la seconda Intifada. Da allora, Israele ha vietato ai palestinesi di utilizzare la strada e persino di attraversarla. Benché questa proibizione sia priva di base legale, la tangenziale di Elon Moreh ha costituito la misura più radicale e significativa per bloccare l’accesso dei contadini alle terre coltivate, ai pascoli e alle fonti idriche naturali.

In pratica ogni restrizione che Israele ha imposto agli abitanti di Azmut, Deir al-Hatab e Salem ha permesso ai coloni di invadere quelle terre ed estendere il territorio sotto il loro controllo. La separazione determinata da Israele tra gli abitanti palestinesi e le loro terre coltivate ed i loro pascoli consente ai coloni di costruire case, stabilire avamposti, tracciare sentieri, piantare coltivazioni e uliveti, allevare greggi e appropriarsi di sorgenti di acqua di quella terra. Nel contempo i contadini sono anche regolarmente sottoposti a violenti attacchi.

Israele ha sempre tentato di dare una sorta di legalità alle sue azioni in Cisgiordania, sostenendo che queste azioni sono legali (in base alle leggi internazionali o a quelle applicabili alla Cisgiordania) oppure che sono iniziative private intraprese dai coloni. Tuttavia tutte queste attività rappresentano violazioni delle leggi internazionali e sono basate su un’interpretazione distorta e manipolatoria delle leggi che Israele stesso applica in Cisgiordania.

La separazione forzata dei contadini palestinesi dalle loro terre, pascoli e risorse idriche naturali ha violato gravemente i loro diritti, devastato l’economia locale e li ha proiettati nella povertà e nella dipendenza da istituzioni esterne. I contadini sono stati lasciati in uno stato di insicurezza a più livelli: finanziario, alimentare e sociale.

Questa è la storia di tre villaggi, una sola area rurale. Ma è una storia che si ripete spesso. Questo rapporto illustra una radicale politica di lungo periodo che Israele ha messo in atto in Cisgiordania per quasi cinquant’anni. Sotto l’apparenza di un’ “occupazione militare temporanea”, Israele tratta i territori occupati a suo piacere: portando via la terra, sfruttando le risorse naturali e creando colonie permanenti. Gli abitanti palestinesi sono stati progressivamente spogliati delle loro terre, delle loro radici e dei mezzi di sussistenza, per essere sostituiti dal controllo israeliano attraverso azioni ufficiali dirette o da attività dei coloni come suoi rappresentanti.

Nel corso degli anni Israele ha spogliato i palestinesi di circa duecentomila ettari di terra, compresi coltivazioni e pascoli, che poi ha destinato generosamente alle colonie. Alcune aree sono state dichiarate “aree militari chiuse” ed ai palestinesi è stato vietato di entrarvi senza un permesso; altri appezzamenti sono stati occupati creando fatti sul terreno e con l’uso della forza. Circa 580.000 israeliani attualmente vivono in Cisgiordania (compresa Gerusalemme est) in oltre 200 colonie, e godono di quasi tutti i diritti e privilegi attribuiti ai cittadini israeliani che vivono in Israele, all’interno della Linea Verde.

L’impatto che le colonie della Cisgiordania hanno sulla vita degli abitanti palestinesi è molto più ampio rispetto alle terre destinate alla semplice costruzione delle colonie: altre terre sono state espropriate per creare centinaia di chilometri di strade di collegamento asfaltate; posti di blocco e altre misure che limitano i movimenti solo per i palestinesi sono stati messi in atto in base alla collocazione degli insediamenti; l’accesso dei proprietari palestinesi a molte delle loro terre agricole – all’interno o all’esterno delle aree delle colonie – è stato nei fatti bloccato; il tortuoso tracciato della Barriera di Separazione – che viola gravemente i diritti dei palestinesi che vivono nei dintorni – è stato situato in profondità all’interno della Cisgiordania, soprattutto per inserire quante più colonie possibile sul suo lato occidentale (israeliano), insieme ad estesi appezzamenti che Israele ha destinato alla futura espansione di quelle comunità.

Intanto Israele ignora totalmente le necessità di milioni di palestinesi che vivono sotto il rigido regime militare della Cisgiordania, che nega a questi abitanti la possibilità di partecipare alla definizione del loro futuro, li priva dei loro diritti e delle loro risorse e impedisce loro qualunque possibilità di assicurarsi una vita quotidiana normale.

La politica di Israele dimostra chiaramente che lo Stato non vede l’occupazione, che si sta rapidamente avvicinando al mezzo secolo, come temporanea. Nel corso degli anni, gli insediamenti sono effettivamente diventati parte del territorio sovrano di Israele. Benché Israele abbia finora evitato un’annessione formale (tranne che a Gerusalemme est), ha lavorato in molti modi per eliminare la Linea Verde per i suoi cittadini, mentre ha concentrato la popolazione palestinese in 165 “isole” (le aree A e B) – enclaves non contigue che non possono prosperare. Questo movimento parallelo, dei coloni israeliani che si trasferiscono e occupano sempre più terra della Cisgiordania e i palestinesi che vengono espulsi, è stato una costante della politica israeliana in Cisgiordania fin dal giugno del 1967, con gli organi legislativo, giuridico, della pianificazione, finanziari e della difesa israeliani che hanno lavorato per questo obiettivo.

( Traduzione di Amedeo Rossi)




Abusi e torture nel centro per gli interrogatori di Shikma

Rapporto congiunto di HaMoked e B’Tselem, dicembre 2015

Privazione del sonno, a volte per più giorni di seguito; rimanere legati mani e piedi ad una sedia con limitazione dei movimenti per ore ed ore; essere sottoposti a grida, insulti, minacce, sputi e umiliazioni; esposizione a freddo o caldo estremi; cibo scarso e di cattiva qualità; negazione della possibilità di farsi una doccia o cambiarsi i vestiti per giorni e persino per settimane; detenzione in celle piccole e puzzolenti, di solito in isolamento, per molti giorni.

Ho passato 20 giorni in isolamento totale. Psicologicamente essere solo è come vivere in un gabinetto. Se ti succede qualcosa non lo saprà nessuno. Potresti morire e lo scoprirebbero dopo qualche giorno. Potresti morire in un gabinetto e nessuno lo saprebbe. Sei gettato in un angolo e dimenticato, puoi picchiare alla porta e per quanto baccano tu possa fare non riceverai nessun aiuto. Nessuno ti parla e nessuno ti vede, salvo quando ti portano il cibo. E anche allora non ti parlano. Mettono giù il cibo e se ne vanno. A volte una guardia nerboruta arriva e picchia forte con un bastone, forse per verificare se sei ancora vivo, senza dire niente. […] Perdi persino la voglia di stare in piedi. Al lavoro ero abituato a muovermi, mi risulta difficile stare fermo. Là dentro non hai spazio per muoverti e ti passa la voglia di fare qualunque cosa.

Brano tratto dalla testimonianza di Mazen Abu ‘Arish, un geometra ventiduenne di Beit Ula.

Queste sono alcune delle caratteristiche standard degli interrogatori nel centro per gli interrogatori gestito dall’Agenzia Israeliana per la Sicurezza (ISA) presso la prigione Shikma di Ashkelon, nel sud di Israele. Questo rapporto, basato su deposizioni scritte e testimonianze fornite da 116 palestinesi arrestati per ragioni di sicurezza e interrogati a Shikma dall’agosto 2013 al marzo 2014, descrive le condizioni in cui i detenuti sono tenuti ed interrogati. Praticamente ogni detenuto è stato sottoposto a qualcuna o a tutte queste misure; circa un terzo di loro è stato picchiato o maltrattato da soldati o poliziotti nel corso dell’arresto; almeno 14 di loro sono stati torturati durante l’interrogatorio dall’Autorità Nazionale Palestinese poco prima di essere arrestati dalle forze di sicurezza israeliane.

Le condizioni nella struttura di Shikma sono parte integrante degli interrogatori che vi si svolgono: servono ad indebolire la mente ed il corpo, accompagnando l’effettivo interrogatorio nella stanza degli interrogatori. La combinazione delle condizioni sia dentro che fuori questa stanza costituiscono abusi e trattamenti inumani e degradanti, a volte rappresentano persino delle torture. Sono stati utilizzati sistematicamente contro i palestinesi interrogati a Shikma, una pratica che viola le leggi internazionali, le sentenze dell’Alta Corte di Giustizia Israeliana (HCJ) e i basilari standard morali.

La sedia è piccola e bassa, con una spalliera corta. Tre gambe sono alte uguali e la quarta è più corta. E’ difficile, perché se tu ti addormenti o ti stanchi e cadi sul lato corto, le manette che ti legano alla sedia dietro la schiena ti tirano e fanno terribilmente male alle braccia e alle mani. C’era un’altra sedia, della stessa misura ed altezza ma con le due gambe posteriori più corte. Quando ci stai seduto ti fa stare all’indietro ma chi ti interroga ti grida di stare dritto. Per farlo devi piegarti in avanti. Ti fanno male le mani e la schiena. Il dolore delle braccia e delle mani, e soprattutto del braccio sinistro, è diventato insopportabile.

Brano tratto dalla testimonianza di L.H., fiorista di vent’anni di Hebron, interrogato giorno e notte per 22 giorni.

Nel 1999 l’HCJ israeliana ha proibito l’uso della tortura, di abusi o pratiche degradanti da parte dell’ISA. Nei sedici anni da quella sentenza migliaia di palestinesi sono stati interrogati, molti dei quali con metodi assolutamente proibiti. Questo rapporto prende in esame la situazione in uno specifico centro di interrogatorio durante un ridotto periodo di tempo. Mostra che i sistemi di interrogatori violenti da parte dell’ISA persistono – appoggiati dalle autorità statali, dall’HCJ all’ufficio della Procura Generale a quella militare e al Servizio Penitenziario israeliano (IPS). Il contenuto di ogni memoria scritta, una dopo l’altra e di ogni testimonianza, una dopo l’altra dipingono un quadro estremamente sinistro di quanto succede lungo il percorso verso il centro Shikma e nel braccio destinato agli interrogatori.

Mi sono sentito completamente e assolutamente umiliato. Mi gridavano che sono un asino, una bestia. Dicevano: “Sei spazzatura, un tipo da poco, non vali niente.” Dicevano parolacce riferite alla mia sorellina, che ha una paresi cerebrale, ed hanno ferito il suo onore. Sapevano che mia sorella è paralizzata. L’hanno insultata. Dicevano che fa schifo. Questo è durato per tutti i nove giorni di interrogatorio.

Brano tratto dalla testimonianza di Imad Abu Khalaf, 21 anni, commesso in una panetteria di Hebron.

I detenuti intervistati descrivono ripetutamente il comportamento illecito delle autorità. Le descrizioni assomigliano in modo impressionante a testimonianze rese in precedenza da detenuti in altri centri per gli interrogatori. Prese insieme, sembra che questo comportamento costituisca una prassi ufficiale per gli interrogatori. Messa in atto in modo sistematico, questa politica include violenze e umiliazioni durante l’arresto e l’interrogatorio; condizioni inumane di detenzione che obbligano i detenuti a sopportare sovraffollamento e sporcizia; l’isolamento dei detenuti, sottoposti a deprivazioni sensoriali, motorie e sociali estreme; cibo scarso e di cattiva qualità; esposizione a caldo e freddo estremi; rimanere a lungo legati ad una sedia durante l’interrogatorio, a volte in posizioni eccessivamente penose; prolungate privazioni del sonno; minacce, insulti, grida e derisioni – e in qualche caso persino violenza diretta da parte di chi interrogava.

Sono stato interrogato senza sosta per tre o quattro giorni incessantemente e senza neanche essere messo in una cella. Per tutto il tempo le mie mani erano legate dietro la schiena salvo quando mangiavo o andavo al bagno. La cosa peggiore era che non potevo dormire. Appena mi assopivo, chi mi interrogava gridava forte nelle mie orecchie e mi svegliava. Quelli che mi interrogavano si davano i turni. Questo è durato a lungo. Dopo quattro giorni mi hanno lasciato riposare per due ore al giorno e mi interrogavano il resto del tempo. E’ continuato per dieci giorni. Ricordo di essere rimasto quasi incosciente durante i lunghi interrogatori. E’ stato terribile. Ero praticamente svenuto per la mancanza di sonno e loro continuavano ad interrogarmi.

Brano tratto dalla testimonianza di Husni Najar, ventiquattrenne di Hebron.

Ognuna di queste misure è crudele, inumana e degradante, un effetto aggravato quando viene messo in atto congiuntamente o per prolungati periodi di tempo. In qualche caso l’uso di questi metodi rappresenta una forma di tortura – in violazione delle leggi internazionali, delle sentenze dell’HCJ e delle leggi israeliane.

Oltre ad utilizzare direttamente metodi crudeli, inumani e degradanti, le autorità investigative israeliane partecipano indirettamente alle torture utilizzando consciamente informazioni ottenute attraverso l’uso della tortura – di solito molto grave – da parte di coloro che conducono gli interrogatori per l’Autorità Nazionale Palestinese a danno degli stessi detenuti.

Il sistema degli interrogatori basato su questi metodi, sia per l’interrogatorio in sé che per le condizioni in cui le persone arrestate sono tenute in custodia, è deciso dallo Stato e non si tratta del risultato dell’iniziativa di un singolo investigatore o guardia carceraria. Queste azioni non sono messe in atto da cosiddette “mele marce”, né si tratta di eccezioni che devono essere portate davanti alla giustizia. Il trattamento crudele, inumano e degradante dei detenuti palestinesi è insito nelle prassi di interrogatorio messe in atto dall’ISA, che sono imposte dall’alto e non da chi interroga in concreto.

Mentre il sistema è gestito dall’ISA, una vasta rete di partner collabora per facilitarlo. L’IPS crea le condizioni carcerarie adeguate al piano di interrogatorio destinato a piegare lo spirito del detenuto; i professionisti della salute fisica e psichica dell’IPS approvano l’interrogatorio dei palestinesi che arrivano alla struttura – anche nei casi di problemi di salute – e riconsegnano persino i detenuti a chi li deve interrogare dopo che li hanno curati per i danni fisici e psicologici che hanno subito durante gli interrogatori; soldati e poliziotti commettono abusi sui detenuti mentre li trasportano all’ISA, con i loro comandanti che fanno finta di niente e il procuratore generale militare o civile che non li processa né li rende responsabili delle loro azioni; i giudici militari, in modo praticamente automatico, firmano le istanze di detenzione provvisoria e di fatto avvallano i continui abusi e le condizioni inumane; l’ufficio della procura e il procuratore generale hanno quindi fornito agli interrogatori dell’ISA un’immunità totale; i giudici dell’HCJ respingono sistematicamente le richieste che intendono contrastare la negazione dei diritti dei detenuti ad incontrarsi con i loro difensori. Sono tutti parte, in un modo o nell’altro, sotto vari aspetti del trattamento crudele, inumano, degradante e violento a cui sono sottoposti i detenuti palestinesi nel centro Shikma ed altrove. Le autorità superiori israeliane che permettono l’esistenza di questo sistema illegale di interrogatori sono responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani delle persone che vengono interrogate e dei danni fisici e mentali inflitti a questi individui.

Dobbiamo ancora una volta ripetere la richiesta di quello che dovrebbe essere scontato: Israele deve immediatamente interrompere l’uso di trattamenti crudeli, inumani e degradanti, così come gli abusi e le torture ai detenuti, sia durante gli interrogatori che a causa delle condizioni in cui sono tenuti in custodia. Inoltre Israele deve attenersi al divieto di tortura e abusi anche nell’ambito della sua collaborazione in materia di sicurezza con l’Autorità Nazionale Palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)