Il New York Times e il Dipartimento di Stato collaborano sfacciatamente con l’insabbiamento dell’assassinio di Abu Akleh da parte di Israele

JAMES NORTH

5 luglio 2022 Mondoweiss

Ieri il Dipartimento di Stato USA ha seguito l’antica tradizione di divulgare notizie che il governo vuole insabbiare durante una vacanza, e il New York Times lo ha assecondato. Gli Stati Uniti hanno ammesso – quasi 2 mesi dopo che la giornalista palestinese americana Shireen Abu Akleh è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco – che l’esercito israeliano è stato “probabilmente responsabile”, ma poi hanno aggiunto che i funzionari americani “non hanno trovato motivo di credere che ciò sia stato intenzionale, ma piuttosto il risultato di tragiche circostanze durante un’operazione militare guidata dall’IDF.”

L’operazione di copertura [delle responsabilità israeliane, ndt.] da parte degli Stati Uniti è sfacciata. Non sorprende che il Dipartimento di Stato sperasse che gli americani fossero troppo distratti dai fuochi d’artificio del 4 luglio per prestare attenzione.

Non c’è nulla di nuovo nel “rapporto” del Dipartimento di Stato. Indagini precedenti, inclusa una tardiva dello stesso New York Times, avevano già confutato il tentativo israeliano di incolpare “miliziani palestinesi” per l’omicidio. A quel punto Israele, e i suoi complici statunitensi nell’inganno, hanno cercato di concentrarsi sul proiettile che ha ucciso la rispettata giornalista. L’inchiesta americana ha rilevato che la pallottola è troppo “danneggiata” per arrivare a una “chiara conclusione” su da dove essa sia partita.

I giornalisti del New York Times hanno agito come stenografi dell’insabbiamento USA/Israele fino al 20° paragrafo, quando hanno permesso alla famiglia di Abu Akleh di interromperlo brevemente dicendo: “L’attenzione sul proiettile è sempre stata fuori luogo ed è stato un tentativo da parte israeliana di volgere la narrazione a proprio favore, come se si trattasse di una specie di poliziesco che potrebbe essere risolto con un test forense di tipo CSI [Crime Scene Investigation, indagine della polizia scientifica, nonché nome di una fortunata serie televisiva statunitense, ndt.].”

Ma l’elemento più sorprendente nell’operazione di copertura degli Stati Uniti è l’assoluta convinzione che non sia stata uccisa intenzionalmente. Diamo un’occhiata ai fatti. Le truppe israeliane che hanno sparato erano a diverse centinaia di metri di distanza. Un primo proiettile ha colpito Shireen Abu Akleh alla testa. Un secondo ha colpito alla schiena un altro giornalista che le stava accanto, Ali al-Samoudi. Almeno altri due proiettili hanno colpito l’albero vicino a cui si trovava. Chi può credere che un tiratore scelto israeliano addestrato, sparando all’impazzata, avrebbe potuto colpire accidentalmente due persone da una tale distanza?

Il Times non ha fatto alcun tentativo di intervistare i testimoni oculari che erano con Abu Akleh quando è morta. Il resoconto del Washington Post ha citato la rispettata organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem la quale ha sostenuto che “le probabilità che i responsabili dell’uccisione di Shireen Abu Akleh saranno ritenuti responsabili sono quasi inesistenti”, ma il Times ha avuto molte difficoltà a trovare Il numero di telefono di B’Tselem.

Le uniche domande senza risposta sull’uccisione di Abu Akleh sono:

Il soldato israeliano che le ha sparato ha agito da solo? O stava seguendo degli ordini? E quanto in alto nella catena di comando arriva l’insabbiamento?

A meno che i funzionari statunitensi non abbiano effettivamente interrogato i soldati israeliani, non c’è modo di dire che l’omicidio non sia stato “intenzionale”.

Ancora una volta bisogna rivolgersi all’autorevole quotidiano israeliano Haaretz per un resoconto accurato. Il giornalista per le questioni riguardanti la sicurezza, Amos Harel, non ha paura di dire la verità: “per quanto riguarda Israele, è molto improbabile che venga aperta un’indagine penale da parte della polizia militare”.

Harel riassume così la situazione:

Il primo ministro Yair Lapid e il capo di stato maggiore dell’IDF [Forze di Difesa Israeliane] Aviv Kochavi vivono tra la loro stessa gente. L’ultima cosa di cui hanno bisogno ora è un’indagine penale contro un soldato…

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele sta di nuovo usando i palestinesi come scudi umani

Robert Inlakesh

31 maggio 2022 – MiddleEastEye

Comune strategia militare israeliana in passato, nel 2005 la pratica è stata resa illegale alla luce del diritto internazionale. Eppure sempre più testimonianze dimostrano come Israele stia di nuovo facendo impunemente uso di scudi umani

Il 13 maggio una ragazza palestinese di 16 anni di nome Ahed Mohammad Rida Mereb è rimasta traumatizzata per essere stata usata dai soldati israeliani come scudo umano, secondo il rapporto di Defense for Children International Palestine (DCIP).

Mereb ha detto che durante l’incidente – avvenuto durante un raid israeliano nel quartiere al-Hadaf di Jenin – “Uno di loro [i soldati israeliani] mi ha ordinato in arabo attraverso un finestrino del mezzo militare: ‘Resta dove sei e non muoverti. Sei una terrorista. Stai ferma finché non dirai addio a tuo fratello'”.

Ha aggiunto: “Tremavo e piangevo e gridavo ai soldati di spostarrmi perché i proiettili mi passavano sopra la testa”.

Una settimana dopo le forze israeliane sono state nuovamente accusate di applicare la stessa tattica quando è comparsa una fotografia di soldati che usano un palestinese come scudo umano.

Per quanto scioccanti siano questi rapporti, non costituiscono una gran sorpresa per la maggior parte dei palestinesi i quali sanno, insieme a coloro che vi prestano attenzione da tempo, che usare scudi umani palestinesi è sempre stata normale pratica dell’esercito israeliano.

Secondo B’Tselem, la principale organizzazione israeliana per i diritti umani, l’esercito israeliano ha usato la tattica degli scudi umani sin da quando nel 1967 ha occupato la Cisgiordania, Gerusalemme est e la Striscia di Gaza.

“Procedura del vicino”

Nonostante frequenti affermazioni israeliane su combattenti palestinesi che userebbero i propri civili come scudi umani – segnatamente durante i conflitti tra Gaza e Israele – non ci sono prove che questo accada davvero.

Invece, sono i soldati israeliani ad aver impiegato tale strategia sui campi di battaglia in quella che è nota in Israele come la famigerata “procedura del vicino”, un modo gentile per definire la prassi dell’esercito israeliano di usare scudi umani.

Fino al 2005, l’uso di palestinesi come scudi umani da parte dei soldati israeliani era una pratica militare normale per l’esercito israeliano, legittima secondo la legge israeliana.

L’Alta Corte israeliana ha vietato la pratica solo dopo una battaglia legale durata tre anni promossa da sette gruppi israeliani e palestinesi per i diritti umani, che l’hanno contestata come violazione alle Convenzioni di Ginevra.

Pochi mesi dopo l’avvio del contenzioso legale, nel maggio 2002 il diciannovenne palestinese Nidal Abu Mukhsan è stato ucciso mentre veniva usato come scudo umano. La morte di Mukhsan, responsabilità di Israele secondo i gruppi per i diritti umani, ha dato alla causa contro la politica israeliana degli scudi umani la spinta che mancava.

Quando Israele alla fine ha messo fuori legge la pratica, l’esercito israeliano ha protestato, e l’allora ministro della Difesa israeliano, Shaul Mofaz, è comparso in tribunale portando argomenti per abrogare il divieto.

Il Ministero della Difesa israeliano ha specificamente sostenuto l’eventualità di esercitare questo metodo all’interno della Cisgiordania occupata, nonostante sia stata giudicata una violazione del diritto internazionale.

Da quando l’uso di scudi umani è stato bandito, l’esercito israeliano ha tentato più volte di appellarsi alla sentenza, sostenendo che esso fornisce una protezione essenziale ai soldati.

L’esercito israeliano accusa sistematicamente Hamas di usare scudi umani a Gaza, ma allo stesso tempo usa la stessa tattica e sostiene persino che dovrebbe tornare ad essere legale. Ex soldati israeliani, parlando all’associazione israeliana Breaking the Silence [ONG israeliana che dal 2004 permette ai militari israeliani di raccontare le loro esperienze nei Territori Occupati, ndtr.], hanno testimoniato di aver usato scudi umani anche dopo che la pratica era stata bandita.

Innumerevoli testimonianze

Nonostante le abbondanti prove che le forze israeliane abbiano continuato a usare i palestinesi come scudi umani anche dopo che la pratica è stata bandita, pochissimi soldati israeliani sono finiti in tribunale per le loro azioni.

L’ultima volta che dei soldati israeliani sono stati puniti per aver usato un palestinese come scudo umano è stato nel 2010, per un atto commesso durante l’incursione israeliana a Gaza del 2008-2009.

B’Tselem ha riassunto così l’accusa: “I due soldati in questione avevano ordinato a un bambino di nove anni, sotto la minaccia di una pistola, di aprire una borsa che sospettavano nascondesse dell’esplosivo. Nonostante la gravità della loro condotta – mettere a rischio un bambino – i due sono stati condannati a tre mesi con la condizionale e retrocessi da sergente maggiore a soldato semplice circa due anni dopo l’incidente. Nessuno dei loro ufficiali in comando è stato processato”.

Il numero di casi di uso israeliano di scudi umani registrato dai gruppi per i diritti umani, sia internazionali che nazionali, è in continua crescita.

Che questa pratica riemerga, soprattutto dopo l’uccisione della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, dovrebbe rappresentare un punto di svolta e far capire al mondo intero chi sta veramente usando gli scudi umani.

Nessun organismo o organizzazione internazionale attendibile ha mai segnalato una consuetudine secondo cui i palestinesi usino la propria gente come scudi umani.

Invece l’esercito israeliano per decenni ha letteralmente inserito la tattica nei propri manuali – e i soldati israeliani continuano tutt’ora a impiegare tali metodi anche dopo che sono stati ufficialmente messi fuori legge.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Robert Inlakesh è un analista politico, giornalista e documentarista. Ha lavorato e vissuto nei territori palestinesi occupati e pubblicato su The New Arab, RT, Mint Press, MEMO, Quds News, TRT e l’edizione inglese di Al-Mayadeen.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un palestinese di 14 anni colpito e ucciso dalle forze israeliane, afferma il Ministero della Salute palestinese

Abeer Salman, Atika Shubert

30 maggio 2022 – CNN

Betlemme, Cisgiordania – Secondo il Ministero della Salute palestinese un ragazzo palestinese di 14 anni è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dalle forze israeliane nella città di Betlemme, in Cisgiordania, venerdì scorso.

La famiglia della vittima, Zaid Saeed Ghuneim, ha detto che l’adolescente aveva appena finito di cenare e stava andando a casa dei nonni quando gli hanno sparato. Il fratello, Yazan Ghuneim, ha detto alla CNN che suo fratello si stava nascondendo in un garage quando i soldati israeliani lo hanno intrappolato.

“Gli hanno sparato due proiettili nelle gambe, due nella schiena e uno nel collo. Lo hanno assassinato”, ha detto Ghuneim alla CNN a casa della famiglia. “Era il mio migliore amico. Un ragazzo adorabile e pacifico che voleva aiutare tutti.”

Una testimone oculare della sparatoria, Um Muhammad Al Wahsh, ha mostrato alla CNN un video che ha girato subito dopo l’incidente. Nel filmato si vede il sangue versato sul pavimento di un parcheggio sotterraneo e sparso su un’auto. Um Muhammad sostiene di aver visto Zaid Saeed Ghuneim correre nel garage e di averlo sentito implorare per la sua vita.

“Urlava e continuava a dire: ‘Non ho fatto niente! Non spararmi!'”, ha detto alla CNN.

Secondo il Ministero della Salute palestinese, Ghuneim è stato portato d’urgenza in ospedale con ferite da proiettile al collo e alla schiena. I medici non sono riusciti a tenerlo in vita.

In una dichiarazione rilasciata alla CNN l’esercito israeliano ha affermato che diversi soldati nella zona di Al-Khader a Betlemme stavano conducendo “attività di sicurezza di routine” nell’area quando “sospetti hanno lanciato pietre e bottiglie molotov contro i soldati mettendo in pericolo le loro vite”.

Secondo l’esercito israeliano nell’inseguire gli assalitori i soldati hanno risposto con le armi da fuoco ferendo uno dei sospetti. La dichiarazione aggiunge che i soldati hanno fornito cure mediche iniziali sulla scena prima di trasferire i feriti alla Mezzaluna Rossa palestinese. L’incidente è oggetto di indagine. La dichiarazione non nomina Zaid Saeed Ghuneim.

Questa è la seconda uccisione di un minore da parte delle forze israeliane in meno di una settimana dopo una serie di raid in Cisgiordania. Mentre copriva uno di quei raid, la giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh è stata colpita e uccisa da quello che il procuratore generale palestinese ha descritto come un attacco mirato da parte di soldati israeliani.

Le tensioni sono aumentate costantemente in Israele e nei territori palestinesi. A marzo una serie di attacchi da parte di palestinesi ha ucciso 19 israeliani. In risposta, l’esercito israeliano ha lanciato l’operazione “Breakwater ” con incursioni quasi quotidiane in tutta la Cisgiordania per arrestare i sospetti. Da allora i soldati hanno arrestato decine di residenti in Cisgiordania e hanno incontrato una violenta resistenza. Il Ministero della Salute palestinese afferma che almeno 55 palestinesi sono morti a causa dell’operazione Breakwater.

Secondo l’organizzazione (israeliana) per i diritti umani B’Tselem le forze israeliane applicano anche una “politica di aprire il fuoco” in tutta la Cisgiordania con l’uso di munizioni vere per rispondere anche a incidenti minori come il lancio isolato di sassi. B’Tselem afferma che questa politica ha provocato diverse morti tra cui due adolescenti palestinesi uccisi a colpi di arma da fuoco a Betlemme nel febbraio di quest’anno.

Corrispondenze di Abeer Salman da Betlemme e Atika Shubert da Gerusalemme per la CNN.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’iconica “Voce della Palestina” di Al Jazeera uccisa durante un raid israeliano

Ali Abunimah – 11 maggio 2022

ElectronicIntifada

Mercoledì mattina Shireen Abu Akleh , corrispondente di Al Jazeera, è stata colpita a morte da uno sparo durante un raid israeliano nella Cisgiordania occupata, provocando shock e rabbia in Palestina e in tutta la regione.

“Un crimine tragico e deliberato che viola tutte le leggi e le norme internazionali, le forze di occupazione israeliane hanno assassinato a sangue freddo la nostra corrispondente Shireen Abu Akleh”, ha affermato la rete con sede in Qatar.

Israele inizialmente ha incolpato i palestinesi della morte di Abu Akleh, ma in seguito ha ritrattato l’affermazione.

La sua morte è stata annunciata dal Ministero della Salute palestinese poco dopo la diffusione di video online che mostravano il suo corpo inerte mentre veniva caricato su un’auto e portato via.

Il sito web in lingua inglese della rete ha riferito che la corrispondente veterana “è stata colpita mercoledì da un proiettile mentre seguiva in diretta i raid israeliani nella città di Jenin ed è stata portata d’urgenza in ospedale in condizioni critiche, secondo il Ministero e i giornalisti di Al Jazeera”.

Quando è stata uccisa Abu Akleh, palestinese con cittadinanza statunitense, indossava il giubbotto della stampa e un casco. Aveva 51 anni.

Un altro giornalista, Ali Samoudi, è stato colpito alla schiena durante lo stesso scontro ed è stato riferito che si trova in condizioni stabili.

Nelle interviste rilasciate dal suo letto d’ospedale, Samoudi ha insistito sul fatto che i giornalisti fossero stati deliberatamente presi di mira dalle forze israeliane e che al momento non c’era nessuna azione di fuoco da parte dei palestinesi contro i soldati israeliani.

Samoudi ha detto che i giornalisti si trovavano in uno spazio aperto e dunque erano chiaramente visibili ai soldati. Ha detto che non c’era alcun palestinese combattente o civile nella zona, solo soldati israeliani.

“Stavamo per filmare l’operazione dell’esercito israeliano e all’improvviso ci hanno sparato senza chiederci di andarcene o interrompere le riprese”, ha detto Samoudi. “Il primo proiettile ha colpito me e il secondo proiettile ha colpito Shireen… non c’era alcuna resistenza militare palestinese sul posto”.

Anche Shatha Hanaysha, un’altra giornalista che si trovava proprio accanto ad Abu Akleh, ha affermato che non erano in corso scontri tra combattenti palestinesi ed esercito israeliano e ha affermato che i giornalisti sono stati intenzionalmente presi di mira.

“Eravamo quattro giornalisti, tutti indossavamo giubbotti, tutti indossavamo caschi”, ha detto Hanaysha ad Al Jazeera. “L’esercito di occupazione [israeliano] non ha smesso di sparare neanche quando si è accasciata. Non potevo nemmeno allungare il braccio per tirarla via a causa degli spari. Era evidente che l’esercito sparava per uccidere”.

Al Jazeera ha trasmesso il video di una persona con indosso un giubbotto antiproiettile con la scritta “Press” e un elmetto che giaceva immobile a terra, affermando che si tratta della scena finale dell’omicidio di Abu Akleh.

Si può vedere un’altra persona con indosso lo stesso abbigliamento accovacciata nelle vicinanze, mentre i palestinesi si avvicinano per prestare assistenza.

Israele si rimangia il tentativo di incolpare i palestinesi

Israele ha ammesso che i suoi soldati erano entrati nel campo profughi di Jenin alla ricerca di quelli che definisce “sospetti terroristi”.

I raid quasi quotidiani delle forze di occupazione israeliane in tutta la Cisgiordania provocano regolarmente feriti e morti tra i palestinesi.

Ma Tel Aviv è subito passata all’offensiva, negando la responsabilità per la morte di Abu Akleh.

Il primo ministro Naftali Bennett ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: “Sembra probabile che dei palestinesi armati – che al momento stavano sparando indiscriminatamente – siano i responsabili della sfortunata morte della giornalista”.

Secondo il giornalista israeliano Barak Ravid, Bennett ha basato la sua affermazione su un video girato da palestinesi e condiviso sui social media.

Nel video si sente una voce che dice in arabo: “Hanno colpito un soldato, è sdraiato a terra”.

Il Ministero degli Esteri israeliano ha condiviso un’altra clip che mostra un uomo in uno stretto vicolo che spara con un’arma automatica. Il Ministero ha ribadito l’affermazione secondo cui i palestinesi “sparando indiscriminatamente avrebbero probabilmente colpito” Abu Akleh.

I sottotitoli nel video del Ministero degli Esteri non corrispondono al suo audio, e sembrano presi dal video condiviso da Ravid.

L’esercito israeliano ha condiviso lo stesso video.

Niente nei due video sembra collegato alla morte di Abu Akleh. L’obiettivo immediato di Israele sembra essere stato quello di sollevare abbastanza polvere da evitare titoli compromettenti e seminare dubbi su ciò che era realmente successo.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha detto che il suo operatore sul campo a Jenin “ha documentato il luogo esatto in cui ha sparato il palestinese armato ripreso nel video diffuso dall’esercito israeliano, così come il luogo esatto in cui è stata uccisa la giornalista Shireen Abu Akleh. “

In base a questa indagine, il gruppo ha concluso che il video degli “spari palestinesi diffuso dall’esercito israeliano non può essere quello dello sparo che ha ucciso la giornalista Shireen Abu Akleh”.

Israele ha una lunga storia di utilizzo di video e immagini false o dati fuori contesto per eludere la responsabilità delle proprie azioni.

Israele in seguito ha ritirato le accuse contro i palestinesi, e il capo dell’esercito Aviv Kohavi ha affermato: “Al momento non è possibile determinare da quali proiettili sia stata uccisa Abu Akleh”.

Kohavi ha detto che l’esercito israeliano aprirà un’indagine interna per “chiarire i fatti e presentarli in toto il prima possibile”.

Nel frattempo Itamar Ben-Gvir, un deputato israeliano di estrema destra noto per aver elogiato la violenza contro i palestinesi, ha giustificato l’omicidio di Abu Akleh.

“Quando a Jenin i terroristi sparano sui nostri soldati, loro devono rispondere al fuoco con la massima forza, anche se nella zona ci sono ‘giornalisti’ di Al Jazeera che spesso stanno deliberatamente in mezzo alla battaglia e disturbano i soldati”, ha twittato Ben-Gvir.

“Secondo quanto riferito, è finita nel fuoco dei terroristi”, ha anche affermato Ben-Gvir, “E comunque pieno appoggio agli eroici soldati dell’esercito israeliano”.

Gli Stati Uniti chiedono un’indagine

L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele Thomas Nides si è detto “molto triste nell’apprendere della morte della giornalista americana e palestinese” Abu Akleh.

“Incoraggio un’indagine approfondita sulle circostanze della sua morte e del ferimento di almeno un altro giornalista oggi a Jenin”, ha aggiunto Nides.

Il tono gentile contrasta con la reazione dei funzionari statunitensi quando a marzo in Ucraina è stato ucciso il regista americano Brent Renaud.

Sebbene le circostanze dell’omicidio di Renaud non fossero chiare, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price aveva immediatamente denunciato quello che definiva un “raccapricciante esempio delle azioni indiscriminate del Cremlino”.

A febbraio, il Dipartimento di Stato aveva chiesto a Israele di condurre una “approfondita indagine penale” dopo che il mese precedente i soldati israeliani avevano attaccato Omar Assad, un anziano palestinese americano, lasciandolo senza vita.

Alla richiesta degli Stati Uniti di indagare sull’omicidio di Assad ha fatto seguito una rapida indagine interna israeliana che si era conclusa con un lieve rimprovero ai tre soldati coinvolti.

Washington, che fornisce a Israele miliardi di dollari di armi ogni anno, non ha mai dato seguito alle sue richieste con sanzioni che sanciscano la responsabilità di Israele.

Sistema di insabbiamento

“Non credo che l’abbiamo uccisa noi”, ha detto Ran Kochav, portavoce dell’esercito israeliano, all’emittente pubblica Kan.

Abbiamo proposto ai palestinesi di aprire una rapida indagine congiunta. Se l’abbiamo davvero uccisa, ci assumeremo la responsabilità, ma non sembra sia così”.

Va detto che le indagini interne di Israele nascondono sistematicamente i crimini dei soldati dell’occupazione contro i palestinesi.

Nel 2016, B’Tselem ha annunciato che avrebbe smesso di collaborare alle indagini militari israeliane, che ha definito un “sistema di insabbiamento”.

L’autorevole associazione israeliana per i diritti umani ha aggiunto che 25 anni di denunce infruttuose a nome dei palestinesi “ci hanno portato alla consapevolezza che non ha più senso perseguire la giustizia e difendere i diritti umani lavorando con un sistema la cui vera funzione consiste nella capacità di continuare a coprire con successo atti illegali e proteggere i colpevoli”.

Continui attacchi ai giornalisti

Alla notizia della sua morte molti utenti dei social media hanno pianto l’omicidio di Abu Akleh come il mettere a tacere la “Voce della Palestina”.

Abu Akleh lavorava ad Al Jazeera dal 1997. I suoi reportage sono noti a decine di milioni di persone in tutto il mondo arabo. Era molto rispettata tra i colleghi palestinesi e internazionali.

Nonostante ora neghi la propria responsabilità, Israele ha una lunga storia di ferimenti e uccisioni di giornalisti e operatori dei media.

Le forze israeliane hanno attaccato i giornalisti che seguivano la Grande Marcia del Ritorno, le proteste di massa disarmate a Gaza iniziate nel 2018.

Due giornalisti, Yaser Murtaja e Ahmad Abu Hussein, sono stati uccisi e altre decine sono stati feriti.

Durante la campagna di bombardamenti su Gaza l’anno scorso, Israele ha deliberatamente preso di mira gli edifici che ospitavano quasi tutti gli uffici dei media locali e internazionali.

Israele, che si vanta dell’abilità della sua intelligence, ha in seguito assurdamente affermato di non avere idea che nell’edificio fossero ospitate le principali organizzazioni dei media mondiali.

Quasi un anno fa, gli aerei da guerra israeliani hanno raso al suolo un edificio che ospitava gli uffici dell’Associated Press e di Al Jazeera.

Israele ha affermato che l’edificio era in uso all’intelligence militare di Hamas, ma non ha mai offerto alcuna prova.

Un raid aereo israeliano ha ucciso anche il giornalista Yousif Abu Hussein, 32 anni, nel suo appartamento a Gaza City. Era un popolare giornalista della radio Voice of Al-Aqsa.

Reporter senza frontiere lo scorso maggio ha dichiarato di “condannare l’uso sproporzionato della forza da parte di Israele contro i giornalisti, che in nessun caso dovrebbero essere trattati come parti del conflitto armato”.

E il mese scorso la Corte penale internazionale ha ricevuto una denuncia per presunti crimini di guerra contro giornalisti commessi dalle forze di occupazione israeliane.

Per la Federazione internazionale dei giornalisti la denuncia riguarda l’aver preso ” sistematicamente di mira” quattro operatori dei media palestinesi “uccisi o mutilati dai cecchini israeliani mentre seguivano le manifestazioni a Gaza”,.

Ali Abunimah è co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [La battaglia per la giustizia in Palestina], appena uscito da Haymarket Books e di  One Country: A Bold-Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse [Un solo paese: una proposta coraggiosa per por fine all’impasse israelo-palestinese].

Tamara Nassar ha contribuito alla ricerca.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Secondo un ministero palestinese vari palestinesi sono stati uccisi da forze israeliane

1 Marzo 2022 – Al Jazeera

Il ministero palestinese della Sanità ha affermato che una persona è stata uccisa a Beit Fajar e altre due a Jenin, nella Cisgiordania occupata.

Il ministero palestinese della Sanità ha affermato che tre palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due differenti incidenti nella Cisgiordania occupata.

Martedì il ministero ha affermato che Ammar Shafiq Abu Afifa è stato ucciso dalle “forze israeliane di occupazione che gli hanno sparato vicino alla città di Beit Fajar”.

Quando l’agenzia di notizie AFP ne ha chiesto conto, sul momento l’esercito israeliano non ha commentato.

Wafa, l’agenzia di notizie palestinese ufficiale, ha riferito che Afifa era un abitante del campo per rifugiati Al-Aroub a nord di Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Secondo la polizia di frontiera israeliana e le autorità sanitarie palestinesi, martedì prima dell’alba in un’altra circostanza, dopo essere finite sotto il fuoco durante un arresto nel nord della Cisgiordania, le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi.

La polizia di frontiera israeliana ha affermato che agenti e polizia sotto copertura sono entrati nel campo profughi di Jenin per arrestare un sospetto “ricercato per attività terroristica”.

La polizia ha affermato che “dopo l’arresto del sospetto, non appena le forze hanno lasciato la casa, è stato aperto un intenso fuoco da molteplici direzioni e le forze sotto copertura operanti sulla scena hanno risposto con una fitta sparatoria”.

La polizia ha affermato che, quando gli agenti hanno raggiunto i loro veicoli, un altro assalitore ha sparato alle forze dell’ordine “che hanno risposto con fuoco preciso”.

Il ministero palestinese della Sanità ha affermato che due uomini sono stati uccisi nel combattimento. Wafa li ha identificati come Abdullah al-Hosari, di 22 anni e 3, di 18.

Wafa ha riferito che le truppe hanno arrestato Imad Jamal Abu al-Heija, un prigioniero che era stato liberato.

L’agenzia di notizie ha affermato che l’uccisione dei due palestinesi ha provocato a Jenin una “manifestazione imponente ed irata”.

Forza eccessiva

Le uccisioni sono avvenute a poco più di una settimana di distanza da quando un ragazzo quattordicenne, Mohammed Shehadeh, è stato ucciso dalle forze di sicurezza israeliane nella città di Al-Khader in Cisgiordania.

Organizzazioni per i diritti umani palestinesi e internazionali hanno a lungo condannato ciò che sostengono sia un uso eccessivo della forza da parte delle forze israeliane.

B’Tselem, una organizzazione israeliana per i diritti umani, ha affermato che lo scorso anno ha registrato 77 morti palestinesi per mano delle forze israeliane. Più della metà degli uccisi non erano implicati in nessun attacco, ha aggiunto.

Il mese scorso, Amnesty International in un nuovo rapporto ha sostenuto che Israele sta mettendo in atto “il crimine di apartheid contro i palestinesi” e che deve essere ritenuto responsabile perché li tratta come un “gruppo razziale inferiore”.

Israele ha occupato la Cisgiordania e Gerusalemme Est dopo la guerra del 1967 in Medioriente.

Le colonie israeliane costruite nel terrritorio palestinese sono considerate illegali dal diritto internazionale. Oggi tra 600.000 e 750.000 coloni israeliani vivono in almeno 250 colonie nella Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Nove mesi di proteste contro un nuovo avamposto coloniale: sette morti e decine di feriti nella cittadina di Beita

28 febbraio 2022 – B’TSELEM

Nel maggio 2021 Israele ha realizzato una nuova colonia, conosciuta come avamposto di Evyatar, su terreni appartenenti alle città di Beita e Qabalan e al villaggio di Yatma in cima al monte (Jabal) Sabih. L’operazione è stata realizzata dal movimento di coloni Nachala [organizzazione internazionale che finanzia l’espansione coloniale nella Cisgiordania, ndtr.], con l’assistenza del Consiglio regionale della Samaria e il consenso dei militari. In precedenza, nel 2013, 2016 e 2018, dei coloni avevano tentato di impossessarsi della terra con la realizzazione di un avamposto ma ogni volta l’Amministrazione Civile aveva prontamente demolito le strutture. Questa volta Israele ha lasciato l’avamposto coloniale intatto.

Secondo un calcolo commissionato da B’Tselem [ONLUS israeliana che promuove i diritti umani nei territori occupati, ndtr.] a Kerem Navot [organizzazione che monitora e documenta la politica di espansione coloniale di Israele nella Cisgiordania, ndtr.] l’avamposto coloniale controlla un’area di 36 dunam [1 dunam = 1.000 metri quadrati]. Copre in parte dei terreni privati palestinesi e in parte un territorio che Israele considera “terreno sotto indagine”. La colonia comprende circa 50 strutture permanenti, un parco giochi, una sinagoga, un’aula per gli studi religiosi, un negozio di alimentari, una rete elettrica e strade completamente asfaltate. Secondo la sua pagina Facebook l’avamposto coloniale è stato istituito per creare un cuneo tra la città di Qabalan e il villaggio di Yatma, a sud della strada 505, e la città di Beita a nord.

All’inizio di luglio 2021 l’avamposto coloniale è stato evacuato dopo un accordo firmato fra i coloni e il governo. In base all’accordo tutte le strutture dell’insediamento sarebbero rimaste al loro posto e i coloni che vi abitavano se ne sarebbero andati, mentre il governo avrebbe esaminato lo stato del terreno. Se fosse emerso che l’avamposto avrebbe potuto essere “legalizzato” alcuni dei coloni sarebbero stati in grado di tornare e lì sarebbe stato istituito un programma di yeshiva militare (hesder) [yeshiva è un’istituzione educativa ebraica che si basa sullo studio dei testi religiosi tradizionali, hesder è un programma di yeshiva che combina studi talmudici avanzati con il servizio militare, ndtr.] Come parte dell’accordo, i militari avrebbero mantenuto una presenza permanente nell’avamposto.

Anche prima di una decisione relativa all’approvazione “legale” dell’avamposto coloniale, e da quando è stato installato, i militari hanno impedito agli agricoltori palestinesi di accedere a centinaia di dunam della loro terra adiacente. Questa restrizione riguarda circa 80 famiglie di agricoltori di Beita e Yatma.

Nell’agosto 2021 l’Alta Corte di giustizia israeliana ha respinto una petizione presentata dai proprietari terrieri palestinesi contro l’istituzione dell’avamposto, sulla base del fatto che la proprietà terriera nell’area era ancora sotto esame. L’indagine è stata completata, secondo i media, nell’ottobre 2021. Nelle ultime settimane gli organi di informazione hanno riferito che lo Stato sta valutando un “compromesso” secondo il quale la yeshiva smantellata nell’avamposto di Homesh [una delle colonie nella striscia di Gaza distrutte e abbandonate dopo il disimpegno di Israele da Gaza nel 2005, ndtr.] verrebbe ricostruita a Evyatar. Poco prima della fine del suo mandato il procuratore generale uscente ha approvato i risultati della “ricerca fondiaria” e ha accelerato le procedure di pianificazione del sito. Il governo ora può, secondo la sua logica, andare avanti con la legalizzazionedell’avamposto e fondare lì la yeshiva.

La città di Beita, sulla cui terra è stato edificato l’avamposto coloniale, si trova a sud della città di Nablus e ospita circa 9.000 palestinesi. Da quando è stato realizzato l’avamposto gli abitanti della città hanno protestato contro la sottrazione della loro terra. Tengono manifestazioni notturne alla periferia della città, nonché proteste di massa il venerdì, che includono una marcia verso l’avamposto coloniale con centinaia, e talvolta migliaia, di partecipanti. All’inizio di ogni protesta si tengono delle preghiere, di solito seguite da scontri nel corso dei quali giovani palestinesi incendiano pneumatici e lanciano pietre contro le forze di sicurezza israeliane. Queste ultime reprimono violentemente le proteste con massicce quantità di lacrimogeni scagliati intorno anche da droni e lanciabombe montati su jeep e sparano proiettili di metallo ricoperti di gomma, granate a spugna [armi antisommossa non letali, ndtr.], proiettili veri, inclusi proiettili calibro 22 sparati da cecchini.

Ad oggi, sette abitanti di Beita sono stati uccisi nel corso delle manifestazioni o nelle loro immediate vicinanze. Inoltre, secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 180 persone sono state ferite da proiettili veri, altre 1.000 circa da proiettili di “gomma” e granate a spugna, e più di 4.200 hanno avuto problemi a causa dell’inalazione di gas lacrimogeni. Un altro abitante di Beita è stato ucciso vicino alla condotta idrica della città. Un abitante di Yatma è stato ucciso durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale nel suo villaggio.

Dall’inizio delle proteste, oltre ad attuare una politica di uso letale delle armi da fuoco, le forze di sicurezza israeliane hanno arrestato decine di abitanti della città. Per fiaccare i manifestanti i militari hanno chiuso per un mese e mezzo l’ingresso principale della città e le ruspe militari hanno bloccato e scavato le strade agricole che portavano ai punti chiave della manifestazione, danneggiando circa un chilometro di terrazzamenti agricoli e circa 2.000 alberi a un chilometro dall’avamposto coloniale. Il vice capo del consiglio comunale di Beita ha detto a B’Tselem che Israele ha revocato i permessi di lavoro a circa 150 residenti. I soldati hanno anche esercitato gravi violenze contro i manifestanti israeliani che sono accorsi alle manifestazioni per mostrare solidarietà ai manifestanti palestinesi e li hanno arrestati con falsi pretesti.

Evyatar è stata fondata in terra palestinese non su iniziativa privata di diversi coloni, ma come parte della politica di insediamento coloniale di Israele in Cisgiordania, con la piena collaborazione di tutte le autorità israeliane competenti. Tuttavia, lo Stato non si accontenta di appropriarsi della terra e di costruirvi una colonia. Insiste anche nel proibire agli abitanti palestinesi di protestare contro questi atti e impedisce con la forza, anche letale, qualsiasi tentativo di resistenza. Ribadiamo: la creazione di insediamenti coloniali è illegale ai sensi del diritto internazionale e la Corte Penale Internazionale dell’Aia sta attualmente indagando sulla politica di Israele in materia. La scelta di Israele di impedire agli abitanti dell’area di protestare contro la realizzazione di Evyatar, di attuare una politica di uso letale delle armi da fuoco in circostanze che non mettano in pericolo la vita dei soldati e di sostenere questa politica anche dopo che i suoi esiti fatali sono evidenti aggiunge la beffa al danno.

* Database sulla protezione dei civili dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA).

La ricercatrice sul campo Salma a-Deb’i di B’Tselem ha raccolto le seguenti testimonianze di persone che hanno assistito all’uccisione o al ferimento di abitanti della città durante le proteste:

10 dicembre 2021: L’uccisione di Jamil Abu ‘Ayash, 32 anni

Venerdì 10 dicembre 2021, verso mezzogiorno, Jamil Abu ‘Ayash (32 anni), abitante a Beita, è arrivato nell’area in cui si stava svolgendo la manifestazione quella settimana. Il sito è noto come al-Hutah e si trova a circa 700 metri dall’avamposto coloniale di Evyatar. Intorno alle 14:30 Abu ‘Ayash è stato colpito da un colpo di pistola da una distanza di 200 metri, mentre teneva in mano una fionda.

Con una testimonianza resa il 12 dicembre 2021 A.S. (33 anni), un abitante di Beita presente sul posto, ha raccontato:

Verso le 14:20 ero in piedi a parlare con alcuni ragazzi. C’erano molti soldati e agenti di polizia di frontiera sulla collina di fronte a noi, che sparavano lacrimogeni e proiettili “di gomma”. A circa 200 metri da noi c’erano una decina di soldati. I ragazzi che tiravano dei sassi erano molto lontani da loro, e i sassi non li raggiungevano nemmeno.

Ho visto che due soldati si sono uniti a loro. Sono avanzati e uno di loro si è sdraiato a terra in posizione di cecchino. Poi si è alzato, sono tornati indietro e si è ripetuta la stessa cosa. Dopo 10 minuti ho visto Jamil Abu ‘Ayash passarci accanto e fermarsi circa 50 metri oltre. Aveva in mano una fionda. Sono trascorsi solo pochi minuti, poi uno dei due soldati, che era davanti e sdraiato a terra, ha aperto il fuoco. Ho sentito diversi spari, uno dopo l’altro. Ci siamo tutti chinati o sdraiati a terra. Non appena ho alzato la testa, ho visto Jamil sdraiato a terra e ho sentito i ragazzi urlare. Alcuni di loro lo hanno prelevato e, allo stesso tempo, i soldati hanno sparato nell’area molti lacrimogeni. La testa e il viso di Jamil erano coperti di sangue.

È stato portato in ambulanza e poi in ospedale a Nablus. Sono andato in ospedale e i dottori mi hanno detto che aveva perso parte del cervello. In quel tipo di situazione, quando un ragazzo viene gravemente ferito, l’80% dei manifestanti lascia la manifestazione e va in ospedale, ed è così che i soldati riescono a fermare la manifestazione.

SH. (29 anni), abitante a Beita, è arrivato verso mezzogiorno alla preghiera, da cui è partita mezz’ora dopo la manifestazione settimanale.

In una testimonianza resa il 15 dicembre 2021 descrive quanto accaduto:

Quando siamo arrivati ​​nella zona chiamata al-Hutah, abbiamo visto molti soldati sparsi sulla collina. Di fronte a noi, a circa 150 metri di distanza, c’erano sette o otto soldati. Stavano sparando molti lacrimogeni e alcuni proiettili “di gomma”. Accanto a loro c’erano due jeep militari da cui dei soldati stavano sparando lacrimogeni con i lanciatori. I giovani hanno iniziato a scagliare pietre contro i soldati.

Verso le 14:30 ho visto due soldati a circa 200 o 250 metri da noi. Uno di loro era sdraiato a terra e l’altro gli stava mostrando dove mirare. Ci siamo nascosti dietro un muro di pietra. Dopo pochi minuti il soldato ha ripreso la posizione di cecchino. Ci siamo seduti per terra. Ho visto arrivare Jamil Abu ‘Ayash. Non l’avevo visto fino a quel momento alla manifestazione. Gli ho detto di sedersi e stare attento, poi ho sentito uno sparo ed è caduto. Era a un metro da me.

Quando mi sono avvicinato a lui, il soldato ha sparato di nuovo e ha colpito le pietre sul terrazzamento. Ho continuato ad andare verso Jamil. Aveva una ferita d’ingresso sulla fronte e una ferita d’uscita nella parte posteriore della testa.

Lo abbiamo preso e lo abbiamo portato a circa 500 metri a un’ambulanza lì in attesa. Gli agenti della polizia di frontiera ci sono corsi dietro e hanno sparato decine di lacrimogeni nella nostra direzione. Poiché i militari hanno riempito di buche le strade che portano alla collina, il punto più vicino in cui l’ambulanza poteva raggiungerci era a 500 metri. In seguito ho scoperto che era stato ucciso. Fu sepolto quel giorno nel cimitero del villaggio.

24 settembre 2021: L’uccisione di Muhammad Khabisah, 28 anni

Venerdì 24 settembre 2021, verso mezzogiorno, diverse centinaia di abitanti di Beita e dei villaggi vicini sono partiti per la preghiera e la manifestazione settimanali. Dopo le preghiere, alcuni abitanti sono avanzati per circa 800 metri verso l’avamposto, dove hanno incendiato pneumatici e lanciato pietre contro membri delle forze di sicurezza, che hanno sparato lacrimogeni e proiettili “di gomma”. Muhammad Khabisah (28 anni), un abitante di Beita, si è unito ai lanciatori di pietre.

Intorno alle 15:00 Khabisah e diversi giovani erano seduti sotto un ulivo vicino al luogo della manifestazione. A diverse decine di metri di distanza un gruppo di giovani stava lanciando pietre contro le forze di sicurezza, che si stavano riparando dietro un muro di pietra e di tanto in tanto si alzavano per sparare lacrimogeni e proiettili “di gomma” contro i giovani. Circa mezz’ora dopo un membro delle forze di sicurezza si è sdraiato davanti al muro e ha sparato diversi colpi con proiettili veri, colpendo Khabisah alla testa. È stato portato in ospedale, dove i medici non sono riusciti a rianimarlo.

In una testimonianza data al telefono a B’Tselem l’11 ottobre 2021 l’amico di Khabisah ‘A. (21 anni) riferisce ciò che è capitato quel giorno:

Venerdì 24 settembre 2021 siamo andati alla preghiera che precede la manifestazione. Dopodiché ci siamo incamminati verso l’avamposto, che dista circa 800 metri. I soldati erano sparsi in gruppi da tre a cinque. Ci siamo avvicinati a loro. Ero con Muhammad Khabisah e altri ragazzi che stavano lanciando pietre contro i soldati. I soldati hanno sparato dei lacrimogeni e si sono mossi verso di noi, allora ci siamo tirati indietro, poi di nuovo avanti, e così via. I soldati hanno sparato anche proiettili “di gomma” e alcuni giovani che non conoscevo sono stati colpiti.

Più tardi, verso le 15:30, Muhammad ed io stavamo riposando con altri sei giovani sotto un ulivo. Circa 20 o 30 giovani stavano lanciando pietre contro tre o quattro soldati che si trovavano dietro un muretto agricolo. I soldati hanno sparato proiettili veri ma non hanno colpito nessuno di noi. Eravamo tranquilli, perché i ragazzi che tiravano sassi si trovavano a diverse decine di metri da noi e i soldati erano a circa 150 metri da noi, oltre i giovani.

Poi uno dei soldati si è sdraiato a terra davanti al muretto. Uno dei giovani ci ha avvertito di stare attenti al soldato dicendo che poteva stare per uccidere qualcuno. Pochi minuti dopo ho sentito quattro o cinque spari. Mi sono abbassato e dopo che gli spari sono cessati, ho tirato su la testa. Ho visto Muhammad Khabisah sdraiato su un fianco. Gli ho sollevato la testa e ho sentito qualcosa muoversi nel suo cranio e il suo sangue coprirmi la mano. Ho gridato: “Muhammad!” Io e i ragazzi lo abbiamo preso, ma dopo pochi metri non potevo andare avanti. Non potevo credere a quello che era successo.

YH (22 anni), un abitante di Beita, è arrivato alla manifestazione verso mezzogiorno. In una testimonianza resa l’11 ottobre 2021 racconta:

Verso le 15:00 mi sono seduto con alcuni ragazzi sotto un ulivo, a circa 50 metri dai ragazzi che stavano lanciando pietre, e a circa 150 metri da tre soldati che si nascondevano dietro un muro di pietra. Quando uno dei soldati decideva di sparare lacrimogeni o proiettili “di gomma” contro i lanciatori di pietre si sporgeva dal muretto, sparava e si abbassava di nuovo. Uno dei ragazzi ha detto che aveva sete e che non c’era acqua. Muhammad Khabisah, che era appoggiato al tronco dell’albero, ha chiamato suo cugino chiedendogli di portare dell’acqua, ma alla fine non è arrivato.

Dopo circa mezz’ora, ho visto un soldato sdraiato a terra. Ho detto ai ragazzi che stava per uccidere qualcuno. Muhammad ha detto che eravamo lontani da lui. Sono passati solo pochi minuti quando ho sentito quattro o cinque spari di proiettili veri. Mi sono abbassato perché sembravano vicini. Quando ho alzato la testa, ho visto Muhammad sdraiato a terra sul fianco sinistro. Ho gridato: “Qualcuno è stato colpito, qualcuno è stato colpito”. Siamo andati da lui e abbiamo cercato di tirarlo su, e alcuni ragazzi sono venuti di corsa e ci hanno aiutato. Lo hanno portato via. Sanguinava molto dalla nuca e non si muoveva. Lo hanno portato su un’ambulanza che si trovava, che lo ha trasportato in ospedale.

6 agosto 2021: L’uccisione di ‘Imad Dweikat, 38 anni

Venerdì 6 agosto 2021, verso mezzogiorno, circa 700 abitanti di Beita e dei villaggi vicini si sono mobilitati per la manifestazione settimanale contro l’avamposto. Intorno alle 15:00 le forze di sicurezza hanno sparato contro i manifestanti da circa 300 metri di distanza, colpendo al petto ‘Imad Dweikat (38 anni) residente a Beita mentre stava bevendo una tazza d’acqua. Dweikat è stato portato in ospedale, dove poco dopo è stato dichiarato morto.

J.D. (45 anni), abitante di Beita, si è recato alla preghiera e alla successiva dimostrazione con suo fratello (49 anni). In una testimonianza resa il 12 agosto 2021, ricorda:

Quando siamo arrivati c’erano già sul posto da 600 a 700 abitanti. Alcuni di loro avevano con sè dei documenti riguardanti i terreni di cui i coloni si sono appropriati. Alcuni abitanti si sono spinti fino a 700 metri dall’avamposto coloniale. I soldati erano sparsi in gruppi di cinque o sei ai piedi della collina e stavano effettuando dei lanci massicci di lacrimogeni e granate assordanti. Successivamente hanno anche sparato proiettili “di gomma”. Diversi residenti sono rimasti feriti, incluso mio fratello, che è stato colpito alla gamba da un proiettile “di gomma” mentre cercava di prestare i primi soccorsi a un altro abitante che era stato colpito da un proiettile “di gomma” al ginocchio. Per quanto ferito, mio ​​fratello non è andato via per farsi curare. Ho visto più abitanti colpiti da proiettili “di gomma” e soffocati dal gas.

Intorno alle 15:15 le cose si sono calmate un po’. Mio fratello ed io ci siamo spostati a diverse decine di metri dagli scontri insieme ad altri ragazzi. Ci siamo seduti sotto un ulivo e abbiamo preparato il caffè. Due ambulanze erano parcheggiate a 20 metri e i soldati a circa 300 metri da noi. La situazione era tranquilla.

Improvvisamente ho sentito uno sparo. Ho guardato i ragazzi che stavano lanciando pietre e ho visto uno degli abitanti che diceva: “Non può essere” e correva nella direzione opposta rispetto agli scontri. Ho visto qualcuno sdraiato a terra e sanguinante dal naso e dalla bocca. Alcuni ragazzi lo hanno preso tra le braccia mentre gridavano il suo nome, ‘Imad Dweikat. Ho capito che era un mio parente.

Poco dopo ho saputo che era morto. La notizia mi ha devastato. Era molto lontano dagli scontri. Era padre di quattro ragazze. La più grande ha 10 anni e la più giovane un mese e mezzo. Ha lavorato duramente per mantenere le sue bambine piccole e ha dedicato tutta la sua vita alla famiglia. Sono rimasto molto addolorato per la sua morte.

KB (31 anni), un abitante di Beita, verso mezzogiorno si è recato anche lui alla preghiera e alla manifestazione. In una testimonianza resa il 22 agosto 2021 riferisce:

Verso le 15:15 ero lontano dai ragazzi che lanciavano pietre. Due ambulanze erano ferme a pochi metri da me, in attesa di evacuare i feriti. Ho parlato con ‘Imad, e poi un ragazzo è passato portando piccole tazze d’acqua con un coperchio. ‘Imad ha preso una tazza, l’ha aperta e ha iniziato a bere, e poi è caduto a terra a faccia in giù. Era a due metri da me. Pensavo fosse svenuto per un colpo di sole. L’ho girato sulla schiena e ho visto che sanguinava dal naso e dalla bocca e aveva sangue sulla maglietta. Ho urlato più forte che potevo: “C’è un uomo ferito qui, ragazzi!” e poi diversi ragazzi sono corsi verso di me e mi hanno aiutato a portare ‘Imad su una delle ambulanze.

Sono rimasto scioccato da quello che è successo. Non ho sentito nessuno sparo. «Imad non ha fatto niente. Stava solo bevendo dell’acqua ed era molto lontano dai ragazzi in testa alla manifestazione, alcuni dei quali stavano lanciando pietre. I soldati erano a una distanza di circa 200-300 metri da noi, e noi eravamo a 70-80 metri di distanza dai ragazzi che lanciavano pietre. Pensavo di essere un ragazzo forte, che non si innervosisce facilmente, ma quello che è successo mi ha scioccato. Un uomo in piedi accanto a me, che mi parlava, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco mentre non faceva altro che bere dell’acqua.

16 giugno 2021: L’uccisione di Ahmad Bani Shamsah, 15 anni

Mercoledì 16 giugno 2021, intorno alle 17:30, diversi giovani, tra cui Ahmad Bani Shamsah (15 anni), si sono recati nella zona di Jabal Sabih per preparare i pneumatici da incendiare durante la manifestazione notturna che si doveva tenere sul posto. I giovani si sono portati a varie centinaia di metri dall’avamposto e a circa 150 metri da diversi coloni e un soldato che si trovavano nella zona. Bani Shamsah ha appeso una bandiera palestinese a uno degli ulivi e ha iniziato a scappare. A quel punto un soldato gli ha sparato colpendolo alla nuca. Bani Shamsah è morto il giorno successivo per le ferite riportate.

Un suo amico, M.H. (16 anni), racconta in una testimonianza da lui resa:

Io e gli altri ragazzi abbiamo deciso di andare un po’ più in là per vedere dove fossero i soldati. Volevamo sventolare la bandiera palestinese il più vicino possibile a loro, per provocarli. Abbiamo camminato fino a circa 500 metri dall’avamposto. Abbiamo visto circa 10 coloni e un soldato a circa 150 metri da noi.

Il mio amico, Ahmad Bani Shamsah, ha appeso una bandiera palestinese a un ulivo e abbiamo iniziato a gridare “Allahu Akbar”. È quello che facciamo sempre quando i soldati ci vedono, anche per far sapere a tutti che ci sono soldati in zona. Il soldato ha sparato diversi colpi nella nostra direzione e siamo scappati tutti. Ho sentito Ahmad dire che era stato colpito. Mi sono fermato e mi sono guardato intorno, e l’ho visto sdraiato a terra a 10 metri di distanza. Sono andato ad aiutarlo, ma poi il soldato mi ha sparato. Mi sono allontanato e mi sono nascosto dietro un masso.

Nel frattempo è arrivato un altro ragazzo e abbiamo deciso di andare insieme a prendere Ahmad. Quando lo abbiamo raggiunto sanguinava abbondantemente dalla testa. Altri ragazzi sono venuti e ci hanno aiutato a portarlo su un’auto vicina, e da lì un’ambulanza lo ha trasportato in ospedale. Sono salito su una macchina per andare in ospedale, ma sono rimasto così scioccato che ho chiesto all’autista di portarmi a casa. A casa ho aspettato notizie di Ahmad, anche se sapevo che era morto.

Ci sono voluti alcuni giorni perché recuperassi l’appetito. Ho perso due amici in meno di una settimana: Ahmad e Muhammad Hamayel. È difficile e incredibilmente crudele.

14 maggio 2021: L’uccisione di ‘Issa Barham, 40 anni

La prima manifestazione degli abitanti di Beita contro la costruzione dell’avamposto di Evyatar si è tenuta venerdì 14 maggio 2021. I soldati disposti sulla collina hanno sparato lacrimogeni e proiettili “di gomma”, e successivamente proiettili veri, contro i manifestanti, alcuni dei quali lanciavano pietre contro i soldati da centinaia di metri di distanza. Diversi residenti sono stati feriti da proiettili veri. ‘Issa Barham (40), un abitante di Beita, è arrivato per aiutare a evacuare i feriti. È stato colpito al petto da una distanza di circa 70 metri mentre era in piedi vicino alla sua auto.

Nella sua testimonianza un parente di ‘Issa A.B. (41 anni) descrive gli avvenimenti:

Venerdì 14 maggio 2021, verso le 13:30, sono andato alla manifestazione a Jabal Sabih, a sud del villaggio, contro l’istituzione dell’avamposto di Evyatar. Ho visto circa 10 soldati e sette o otto coloni in piedi lontano da loro. I soldati stavano osservando da lontano, sparando lacrimogeni e lanciando granate assordanti anche prima che ci avvicinassimo a loro. Eravamo a circa 300 metri dai soldati e le pietre che stavano lanciando i ragazzi nemmeno li raggiungevano.

I soldati hanno sparato verso di noi proiettili veri ferendo diversi abitanti, tutti nella parte superiore del corpo. Le ambulanze hanno prelevato due dei feriti, ma quando altre persone sono rimaste ferite, abbiamo chiesto agli abitanti di portarle via con auto private. Ho visto un mio parente, ‘Issa Barham, arrivare con la sua macchina dalla direzione del villaggio. Gli ho chiesto: “Perché sei qui?” e lui mi ha risposto: “Dove sono i feriti?”. Ha subito voltato la macchina in modo da poter partire velocemente. Gli ho detto: “I feriti sono stati portati sul Mashtubah (veicolo senza patente) di uno dei residenti, perché è ciò che avevamo a disposizione qui”.

«Issa ha parcheggiato l’auto, è sceso e si è fermato accanto. Poi ho visto uno dei soldati accovacciarsi in posizione di cecchino e spararci addosso. A quel punto, le cose si erano già calmate ed erano tranquille. Tutti erano impegnati con i feriti o in attesa di notizie su un abitante gravemente ferito. Non mi è assolutamente venuto in mente che il soldato avrebbe sparato. Improvvisamente, ho sentito uno sparo e ho visto ‘Issa cadere all’indietro. Gli sono corso incontro e quando gli ho tolto i vestiti ho visto del sangue al centro dell’addome. Io e i ragazzi abbiamo chiamato un’ambulanza, l’abbiamo preso, lo abbiamo trasportato per un breve tratto e lo abbiamo messo su un’auto senza targa che era lì in modo che potesse essere trasportato in ospedale. Poco dopo l’auto è partita andando incontro ad un’ambulanza che ha portato via ‘Issa. Sono salito subito in macchina e sono andato alla clinica del villaggio, perché pensavo che l’ambulanza avesse portato ‘Issa lì, ma non l’ho trovato. Mi è stato detto che era stato trasferito in ospedale a Nablus.

Quando sono arrivato in ospedale, mi è stato detto che ‘Issa era stato ucciso. È stato uno shock terribile. Un uomo che è venuto ad aiutare i feriti è stato ucciso a colpi di arma da fuoco. Era un pubblico ministero presso l’ufficio del procuratore distrettuale e padre di quattro figli di età compresa tra 1,5 e otto anni. Era un uomo meraviglioso. L’intera città lo amava. Aiutava tutti ed era una persona gentile.

R. (36 anni) è andato alla preghiera e alla successiva dimostrazione. In una testimonianza resa telefonicamente il 9 giugno 2021, riferisce:

Diversi abitanti sono stati gravemente feriti dagli spari dei soldati, uno dopo l’altro, tutti nella parte superiore del corpo. Abbiamo avuto difficoltà a evacuare i numerosi feriti e alcuni sono stati portati via con auto private. Le persone sono state chiamate dagli altoparlanti della moschea e attraverso i social media per venire ad aiutare a portare i feriti in ospedale con auto private.

Ho visto ‘Issa Barham in piedi con le mani in tasca. I suoi vestiti puliti e ordinati dimostravano chiaramente che non era un uomo che stava prendendo parte agli scontri. Era in piedi e osservava i giovani da lontano. Ero a circa 15 metri di distanza da lui e i soldati erano a 70-80 metri di distanza. Improvvisamente l’ho visto cadere.

I giovani gli sono corsi incontro, lo hanno preso e portato su una delle auto. Sono salito in macchina con lui, insieme ad altri ragazzi. L’ho schiaffeggiato per svegliarlo, ma non si è svegliato. Gli ho sfilato i vestiti da sopra la pancia e ho visto che sanguinava. Abbiamo incontrato un’ambulanza dopo circa 50 metri e lui vi è stato trasferito all’interno. Poco dopo, è stato dato l’annuncio che era stato ucciso e la maggior parte degli abitanti è tornata al villaggio per partecipare al funerale e sostenere la sua famiglia.

25 giugno 2021: Il ferimento di Samer Khabisah, 18 anni

Venerdì 25 giugno 2021, verso mezzogiorno, Samer Khabisah (18 anni) di Beita si è recato alla preghiera prima della manifestazione settimanale.

In una testimonianza rilasciata il 25 ottobre 2021 Khabisah riferisce che durante le preghiere i soldati stavano già sparando lacrimogeni contro i residenti con un drone. Continua con la descrizione di ciò che è successo durante la dimostrazione:

I soldati si sono divisi in gruppi di otto o giù di lì e hanno continuato a lanciare granate assordanti e lacrimogeni contro di noi. I giovani gli hanno rilanciato contro le granate stordenti scagliando anche delle pietre. Diversi residenti sono rimasti feriti a causa delle inalazioni del gas. Ad un certo punto mi sono unito ai ragazzi e mi sono coperto il viso con una maglietta a causa di tutto quel gas. Ho visto una jeep militare arrivare dalla direzione dell’avamposto coloniale e fermarsi e i giovani hanno iniziato a tirare pietre. Ho anche visto quattro soldati a 30-40 metri di distanza dalla jeep, che sparavano contro i giovani proiettili veri. Poi sono svenuto.

Mi sono svegliato all’ospedale al-Istishari di Ramallah, dopo 12 giorni in terapia intensiva. Non potevo muovermi o parlare. Non capivo cosa stesse succedendo o perché fossi lì. In seguito ho scoperto di essere stato colpito in faccia da un proiettili veri e che avevo molte schegge conficcate in testa. Neanche dopo cinque operazioni i medici non sono riusciti a tirar fuori tutto. Sono stato in ospedale per 35 giorni, 22 dei quali in terapia intensiva. Per tutto il tempo non riuscivo a respirare e mi hanno fatto un foro nel collo. Non potevo nemmeno mangiare o parlare. Mi hanno messo un dispositivo nella mascella per fissarla e parte della mia lingua è stata amputata.

Dopo essere stato dimesso ho mangiato solo cibo frullato attraverso una cannuccia. Mi sono rimasti solo otto denti e anche questi devono essere fissati. Ho avuto tre operazioni e dovrò subirne altre. Il mio medico dice che ci vorranno almeno due anni per completare il trattamento. Ho bisogno di un innesto osseo nella mascella inferiore e superiore e di un impianto dentale. Faccio logopedia da tre mesi, perché dopo essere stato ferito non riuscivo a pronunciare parole e nemmeno sillabe. Le persone non capivano ciò che dicevo e dovevo ripetere le cose più volte per farmi comprendere.

Il mio progetto era di andare in America e lavorare per mio zio. Volevo conoscere altri posti. Non ho mai viaggiato o lasciato la Cisgiordania. Ora, non sono più sicuro di poter viaggiare. Tutta la mia vita è stata sconvolta.

5 novembre 2021: F.M. (19 anni), ferito a un occhio da un proiettile “di gomma”.

Venerdì 5 novembre 2021, intorno alle 13:30, F.M. (19 anni) di Beita è giunto ​​alla manifestazione settimanale, alla quale partecipavano diverse centinaia di persone.

In una testimonianza rilasciata il 25 novembre 2021 ha descritto la perdita di un occhio a causa di un proiettile “di gomma”:

Quando i manifestanti si sono trovati a una distanza compresa tra 150 e 200 metri i soldati hanno iniziato a sparare lacrimogeni. Hanno sparato 15 o 20 candelotti e la maggior parte delle persone si è dispersa. Alcuni di loro hanno afferrato i lacrimogeni e li hanno scagliati contro i soldati. E’ andata avanti così per circa mezz’ora. I soldati hanno sparato anche proiettili “di gomma”, ma nessuno è rimasto ferito.

Gli altri ragazzi ed io siamo andati verso i soldati, arrivando fino a circa 100 metri da loro. Uno dei soldati continuava a dirigersi verso di noi e poi indietreggiava. Temevo che ci sparasse, così mi sono nascosto con alcuni altri ragazzi dietro un cumulo di terra che i soldati avevano sistemato lì per impedire ai manifestanti di avanzare verso la collina e l’avamposto. Ogni volta tiravo pietre e poi tornavo a nascondermi dietro il cumulo. Stavo osservando i soldati mentre sparavano candelotti lacrimogeni che atterravano lontano da me quando all’improvviso sono stato colpito all’occhio sinistro e ho iniziato a sanguinare. Ero sicuro di aver perso l’occhio.

I ragazzi sono venuti a prendermi e hanno camminato molto fino a un’area che le ambulanze potevano raggiungere, perché i militari avevano scavato il terreno con una ruspa e i veicoli non potevano arrivarci.

Sono stato trasportato in ambulanza all’ospedale a-Najah di Nablus, dove sono stato curato e sottoposto a raggi X. Il dottore ha detto che il proiettile “di gomma” mi era penetrato nell’occhio. Dopo tre ore, mi hanno operato e hanno estratto il proiettile insieme all’occhio. Sono stato dimesso il pomeriggio successivo. Ora ho bisogno di un intervento chirurgico in un ospedale di Gerusalemme per farmi inserire una protesi oculare.

Mia madre sta ancora piangendo. Non riesce a credere che ho perso l’occhio. In questo momento sono a casa e amici e parenti vengono a trovarmi. Non so ancora come sarà la mia vita dopo l’infortunio, senza un occhio.

* * *

Da quando nei territori di Beita, Qabalan e Yatma è stato edificato l’avamposto coloniale di Evyatar le forze israeliane hanno ucciso nove palestinesi:

Issa Suliman Barham Barham

Un abitante di Beita di 40 anni. Ucciso il 14 maggio 2021. I soldati lo ferito all’addome con un colpo di arma da fuoco mentre era in piedi vicino alla sua auto, durante una manifestazione contro la costruzione dell’avamposto coloniale su territorio comunale. E’ morto poco dopo per le ferite riportate.

Tareq Omar Ahmad Snobar

Tareq ‘Omar Ahmad Snobar, un abitante di Yatma di 27 anni. Ferito il 14 maggio 2021 e morto il 16 maggio 2021. I soldati gli hanno sparato al torace mentre i palestinesi stavano lanciando pietre contro di loro all’ingresso del villaggio di Yatma, per protestare contro la costruzione dell’avamposto coloniale e l’operazione di Israele nella Striscia di Gaza.

Zakaria Maher ‘Abd al-Hamid Fallah

Zakaria Maher ‘Abd al-Hamid Fallah, un abitante di Beita di 25 anni. Ucciso il 28 maggio 2021. I soldati gli hanno sparato al torace durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Muhammad Sa’id Muhammad Hamayel

Muhammad Sa’id Muhammad Hamayel. Un abitante di Beita di 16 anni. Ucciso l’11 giugno 2021. Ucciso dai soldati durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Ahmad Zahi Ibrahim Bani Shamsah

Ahmad Zahi Ibrahim Bani Shamsah. Un abitante di Beita di 15 anni. Ferito il 16 giugno 2021 e morto il 17 giugno 2021. I soldati gli hanno sparato alla nuca dopo che aveva appeso una bandiera palestinese a un albero, in un’area in cui i palestinesi manifestano contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Shadi ‘Omar Lutfi Salim

Shadi ‘Omar Lutfi Salim. Un abitante di Beita di 41 anni. Ucciso il 27 luglio 2021. I soldati gli hanno sparato vicino alla condotta idrica della città. Il giorno successivo, sul posto sono stati trovati strumenti idraulici di metallo. Salim, che faceva l’idraulico, vi era già andato diverse volte per aggiustare la rete. E’ morto poco dopo per le ferite riportate. Israele ha trattenuto il suo corpo fino al 10 agosto 2021.

Imad Ali Muhammad Dweikat

Imad Ali Muhammad Dweikat. Un abitante di Beita di 38 anni. Ucciso il 6 agosto 2021. Le forze di sicurezza israeliane gli hanno sparato al torace da diverse centinaia di metri di distanza, durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Muhammad ‘Ali Muhammad Khabisah

Muhammad ‘Ali Muhammad Khabisah. Un abitante di Beita di 28 anni. Ucciso il 24 settembre 2021. Le forze di sicurezza israeliane gli hanno sparato alla testa durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Jamil Jamal Ahmad Abu ‘Ayash

Jamil Jamal Ahmad Abu ‘Ayash. Un abitante di Beita di 32 anni. Ucciso il 10 dicembre 2021. I soldati gli hanno sparato alla testa da 200 metri di distanza durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale. E’ morto poco dopo per le ferite riportate.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




A Nablus soldati israeliani aprono il fuoco contro un’auto uccidendo dei palestinesi

Al-Jazeera

8 febbraio 2022 – Al Jazeera

L’Autorità Nazionale Palestinese condanna l’assassinio di tre palestinesi nella Cisgiordania occupata, definendolo un “crimine efferato”.

Il Ministero della Salute palestinese ha affermato che l’esercito israeliano ha ucciso tre palestinesi a Nablus, nella Cisgiordania occupata, suscitando la condanna dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Martedì il ministero ha affermato che “tre cittadini sono stati martirizzati nella città di Nablus in seguito ad una sparatoria mirata dell’esercito israeliano”. Secondo l’agenzia stampa palestinese Wafa [il ministero, ndtr.] ha identificato le vittime come Ashraf Mubaslat, Adham Mabrouka e Mohammad Dakhil.

Secondo un rapporto da Nablus di Rania Zabaneh di Al Jazeera Un testimone oculare con cui abbiamo parlato ha detto che l’esercito [israeliano] ha sparato contro l’auto su cui si trovavano i tre palestinesi. Ha affermato di aver continuato a sentire degli spari per più di un minuto”.

Quando siamo arrivati ​​sul posto l’auto, interamente crivellata di proiettili, stava per essere portata via. All’ospedale dove sono stati portati i corpi i medici hanno detto che hanno avuto difficoltà a riconoscere le vittime a causa delle ferite provocate dagli spari.

L’inviata di Al Jazeera ha affermato che “Il ministro della difesa israeliano ha elogiato l’esercito per l’operazione portata a termine”.

Dei testimoni hanno riferito all’agenzia Anadolu che l’incidente ha coinvolto un membro delle forze speciali israeliane che, a bordo di un veicolo civile, ha preso d’assalto il quartiere cittadino di al-Makhfieh e ha aperto il fuoco contro l’auto.

Il Ministero degli Affari Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto un’indagine internazionale sugli omicidi mentre il consiglio dell’ANP ha descritto il fatto come un “crimine efferato”.

Il ministero degli esteri ha ritenuto il governo israeliano e il primo ministro Neftali Bennett pienamente e direttamente responsabili di questo crimine”.

“Il silenzio della comunità internazionale nei confronti delle violazioni e dei crimini israeliani fornisce una copertura a questi atti criminali e incoraggia l’occupante israeliano a continuare la sua guerra aperta contro i palestinesi”, si legge in una nota.

Israele, da parte sua, ha affermato che i tre uomini erano “militanti” palestinesi responsabili di recenti attentati.

L’agenzia di sicurezza per gli affari interni Shin Bet ha detto che i tre erano a bordo di un veicolo e sono stati uccisi in uno scontro con le forze di sicurezza. Nessun israeliano è stato ucciso o ferito nella sparatoria, ha aggiunto.

Organizzazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno condannato da tempo quella che descrivono come una politica caratterizzata dallo sparare per uccidere e da un uso eccessivo della forza.

B’Tselem, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, ha affermato di aver registrato lo scorso anno in Cisgiordania 77 morti palestinesi per mano dell’esercito israeliano. Più della metà delle persone uccise non era implicata in alcun attacco, ha aggiunto.

Attacchi dei coloni

Alla fine dell’anno scorso i soldati israeliani hanno ucciso un palestinese durante un’incursione nel quartiere di Ras al-Ain a Nablus.

Nel dicembre 2021 militari israeliani hanno ucciso un palestinese nel villaggio di Beita, in Cisgiordania, durante una protesta contro gli insediamenti coloniali illegali. Le forze israeliane hanno ucciso un minore palestinese dopo un presunto speronamento d’auto ad un posto di blocco militare nel nord della Cisgiordania.

Nello stesso periodo un ebreo ultraortodosso sarebbe rimasto ferito da coltellate inferte da un palestinese fuori dalle mura della Città Vecchia di Gerusalemme.

Una settimana prima un membro di Hamas avrebbe aperto il fuoco nella Città Vecchia uccidendo un israeliano. Entrambi i sospetti sono stati uccisi dai soldati israeliani.

Nel frattempo, all’inizio di questo mese, Amnesty International ha affermato in un nuovo rapporto che Israele sta commettendo “il crimine di apartheid contro i palestinesi” e deve essere ritenuto responsabile per il trattamento degli stessi come “un gruppo razziale inferiore”.

I palestinesi sono stati anche colpiti da una recrudescenza dei violenti attacchi da parte dei coloni israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Israele occupò Gerusalemme Est e la Cisgiordania nella guerra mediorientale del 1967. I territori ora ospitano più di 700.000 coloni ebrei che vivono in 164 insediamenti e 116 avamposti, che i palestinesi individuano come parte del loro futuro Stato indipendente.

Sulla base del diritto internazionale tutte le colonie ebraiche nei territori occupati sono considerate illegali.

I palestinesi, insieme alla maggior parte della comunità internazionale, considerano le colonie uno dei principali ostacoli alla pace.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Sconfiggere la caccia alle streghe dell’IHRA: un’intervista all’attivista e docente palestinese Shahd Abusalama

Ramona Wadi

7 febbraio 2022 – Mondoweiss

Shahd Abusalama riflette sulla sua ingiusta sospensione dall’università Hallam di Sheffield dovuta a false accuse di antisemitismo e sulla mobilitazione popolare che ha contribuito alla sua riammissione.

L’università Hallam di Sheffield aveva sospeso Shahd Abusalama dal suo incarico di lettrice associata dopo che il mese scorso erano state lanciate contro di lei accuse anonime. L’iniziativa ha provocato un’ondata di appoggi all’accademica palestinese e ha acceso una discussione sul modo in cui governi ed istituzioni sono complici di Israele nell’adottare la definizione di antisemitismo [che negli esempi assimila antisionismo e critiche a Israele all’antisemitismo, ndtr.] dell’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto [ente intergovernativo cui aderiscono 34 Stati, ndtr.] (IHRA) allo scopo di reprimere le critiche a Israele e silenziare la narrazione palestinese.

Abusalama è stata sospesa in seguito ad una serie di tweet in cui esprimeva la propria opinione sull’uso da parte di uno studente del primo anno delle parole “Stop all’olocausto palestinese” in un manifesto del dicembre 2021. ‘Jewish News – UK’ [Il quotidiano gratuito filoisraeliano che si rivolge alla comunità ebraica della zona di Londra, ndtr.] ha riferito che l’università stava indagando sui tweet. Il 21 gennaio, mentre si preparava a tenere una lezione, ad Abusalama è stata notificata la sospensione e la sua lezione è stata annullata. La natura dell’accusa e l’identità di chi stava dietro la denuncia non sono trapelati.

Non è la prima volta che Abusalama, dottoranda ed attivista di Gaza trasferitasi nel Regno Unito nel 2014, è stata presa di mira dai propagandisti sionisti per le sue attività. Parlando a Mondoweiss, Abusalama sottolinea che il suo caso è stato paragonato a quelli di Jeremy Corbyn e David Miller, entrambi bersagli dei sionisti. “Ma occorre fare una distinzione. Sì, si è vittime della stessa caccia alle streghe, ma le conseguenze sono diverse perché viviamo in una società ineguale in cui alcune persone hanno maggiori privilegi di altre. Loro due sono bianchi, anziani ed hanno cittadinanza europea. Io non ho nessuna di queste caratteristiche, sapete. Io sono vulnerabile in così tanti modi che il fatto che la definizione dell’IHRA sia stata usata dall’università per la prima volta contro una palestinese dimostra come noi siamo i più vulnerabili a questa nefasta e subdola definizione.”

Abusalama descrive la campagna contro di lei come malvagia. “Ma mostra anche un modo di agire storicamente ricorrente di come i palestinesi vengono trattati come eccezione alla regola.” I palestinesi, dice, sono trattati come un’eccezione quando si tratta di diritti umani e autodeterminazione, e le azioni dell’università nei suoi confronti hanno ribadito la radicata politica israeliana di razzismo e colonialismo, che fondamentalmente assoggetta i palestinesi, le loro storie e le loro esperienze per mantenere i privilegi concessi ai colonizzatori.

Abusalama ha detto che durante un precedente incontro con il responsabile delle risorse umane dell’università le è stato espresso rammarico per la cattiva gestione della situazione e l’insensibilità verso il benessere degli studenti, le cui lezioni sono state bruscamente annullate. “Infatti non dimentichiamo che la mia sospensione ha implicato che le lezioni sarebbero state annullate fino a nuova comunicazione e quindi anche i miei studenti sono stati colpiti dal comportamento scorretto e dalla risposta da parte dell’università. Il fatto che riconoscano tutti gli errori commessi è un passo nella giusta direzione, ma l’indagine è ancora in corso, perciò tutto questo non è ancora finito. Essa si basa sulla definizione dell’IHRA e l’università ha parlato alla stampa sionista senza prima consultarmi. Si sono letteralmente arresi alla campagna di diffamazione condotta dai media sionisti, comunicando con loro riguardo al mio lavoro senza parlarmene prima e dicendo loro che la mia università stava indagando su di me, senza che io lo sapessi.”

L’immagine che Israele ha costruito nei decenni contando sull’appoggio colonialista si sta lentamente incrinando, grazie alla maggioranza, come Abusalama definisce i palestinesi e gli oppressi. “La pressione popolare funziona e se noi contrattacchiamo possiamo vincere”, sostiene Abusalama, “grazie a tutta questa ondata di sostegno arrivata da ogni parte del mondo – sostenitori di tutte le nazioni, di tutte le fedi, di tutte le razze in tutto il mondo – e questo sostegno è una carta fondamentale nella lotta per la Palestina. Dobbiamo ricordare che siamo la maggioranza e che abbiamo dalla nostra parte la giustizia, le risoluzioni dell’ONU, il diritto internazionale e tutte le convenzioni internazionali – anche la Corte Internazionale di Giustizia è dalla nostra parte. E lo sono persino le organizzazioni israeliane per i diritti umani.”

Certo, l’ondata di sostegno ad Abusalama sulle piattaforme social contrasta con l’attività della lobby sionista, che conta sulle campagne per intimidire e mettere a tacere. Usare come arma la definizione dell’IHRA, che è abbastanza ambigua da rispondere alla strategia politica suprematista israeliana, è una tattica che dovrebbe essere accuratamente analizzata.

Ci sono stati molti timori che la definizione dell’IHRA potesse essere usata per soffocare le critiche a Israele, in particolare prendendo di mira sia persone di nazionalità che sono direttamente coinvolte con le politiche israeliane, come ad esempio la popolazione palestinese o libanese, sia accademici i cui percorsi di ricerca includono analisi delle politiche israeliane. Altri, al di fuori dell’ambito universitario, si sono preoccupati che l’eliminazione delle critiche ad Israele possa condurre alla “censura e cancellazione dell’opposizione palestinese alla violenza che continua a espropriarli.” A questo punto risulta chiaro che, quando le università adottano la definizione dell’IHRA, ciò comporta una partecipazione diretta all’ostilità sionista nei confronti dei palestinesi e delle voci filopalestinesi. Inoltre essa disprezza la memoria collettiva dei palestinesi e l’esperienza vissuta della perdurante Nakba di Israele.

Se chiedete a qualcuno come me se Israele ha un comportamento razzista, è superfluo dire che lo è. Io sono una vittima della loro pulizia etnica. La mia famiglia è una vittima della loro pulizia etnica – 531 villaggi e città palestinesi completamente spopolati dalle loro popolazioni native e distrutti, cosa che è un atto di memoricidio che è denunciato da molte persone, persino da storici israeliani”, dice Abusalama. “Israele cerca disperatamente di arrogarsi il ruolo di vittima, ma solo per distogliere l’attenzione dalla reale vittima del suo crimine e questo è stato denunciato prima della creazione dello Stato.”

Abusalama sottolinea che all’interno del consiglio per le colonie del governo britannico vi erano degli ebrei che si sono schierati contro la costruzione del giudaismo come identità nazionale. “È stata una grande ingiustizia anche solo pensare di costruire uno Stato sionista in cui i palestinesi sarebbero stati del tutto trascurati e questo avvenne contemporaneamente alle promesse britanniche agli arabi sull’autodeterminazione della Palestina. Cosa che era l’orientamento della potenza mandataria in quell’epoca seguente alla prima guerra mondiale: sosteneva di voler condurre quella popolazione occupata all’indipendenza e all’autonomia. Ma, mentre la maggioranza delle comunità colonizzate nel mondo andava verso la decolonizzazione, i palestinesi rimasero bloccati sotto il colonialismo ed il potere coloniale passò dai britannici ad Israele. La Gran Bretagna lasciò la Palestina il 14 maggio 1948, dopo 30 anni di distruzione e colonialismo di insediamento. Trascorsero poche ore tra il ritiro britannico dalla Palestina e la dichiarazione dello Stato di Israele il 15 maggio 1948. Ciò avvenne sullo sfondo della pulizia etnica che schiacciò e distrusse la terra di Palestina ed il suo popolo. E questo processo continua tuttora a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme, nella maggior parte dei quartieri di Gerusalemme, a Beita, Hebron e dovunque, anche nel nord della Palestina. Questo è chiarissimo nei rapporti di B’Tselem che condannano l’apartheid israeliano. Un regime di apartheid che si estende dal fiume Giordano al mar Mediterraneo.”

In un contesto di prove storiche della pulizia etnica di Israele e delle perduranti ripercussioni dell’ espansione delle sue colonie di insediamento, ora si criminalizza l’attivismo invece di richiamare Israele alle sue responsabilità in base al diritto internazionale.

Dice Abusalama: “Quando noi diciamo ‘Palestina libera dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo]’ vogliamo dire che queste prassi oppressive dal fiume al mare e anche oltre, come evidenzia il mio caso, devono finire. Devono finire. Ma persino questo bello slogan di liberazione viene tacciato di antisemitismo. Persino ‘la solidarietà è un verbo’ [altro slogan del movimento filo-palestinese, ndtr.] in questa atmosfera è antisemitismo. È preoccupante e deve preoccupare le persone a cui importa qualcosa dell’umanità e dei diritti umani. Nessuno è al sicuro. Nessuno è al sicuro finché continua l’ingiustizia in tutto il mondo. Basta vedere come Israele usa il suo modello di oppressione contro i palestinesi e lo vende ad altri Stati oppressivi perché lo usino contro i diversi che non vogliono avere sul loro territorio.”

Abusalama è stata categorica nel non accettare alcuna inchiesta basata sulla definizione dell’IHRA. “Non accetterò di essere valutata sulla base di falsi presupposti e credo che questa indagine dovrebbe essere lasciata cadere. Si tratta di una motivazione intrinsecamente razzista e fuorviante, che viene imposta alle università da politici al governo qui nel regno Unito, tagliando loro i fondi se non adottano la definizione dell’IHRA. Gavin Williamson, Ministro dell’Istruzione del Regno Unito, ha imposto alle università la definizione dell’IHRA ed ha addirittura fissato una scadenza entro la quale la mancata adozione della definizione dell’IHRA comporterà la cancellazione dei finanziamenti. Questo è un vulnus all’autonomia universitaria che non può essere accettato, che tu sia palestinese o no. L’ingerenza del governo nelle attività universitarie dimostra quanto sia politico questo strumento della definizione dell’IHRA e quanto sia utile praticamente solo agli interessi britannici, israeliani ed imperialisti.”

Dopo la nostra conversazione Abusalama è stata reintegrata. Il 2 febbraio il sindacato dell’università e del college Hallam di Sheffield ha approvato una mozione che chiede all’università di chiedere pubblicamente scusa, di interrompere ogni indagine contro di lei che sia basata sulla definizione dell’IHRA e di stabilire una sospensione dell’utilizzo della definizione nelle azioni disciplinari dell’università.

Il giorno seguente Abusalama è stata informata dall’università che non verrà condotta alcuna ulteriore indagine. Ora è completamente scagionata dalle false accuse di antisemitismo sollevate contro di lei in base alla definizione dell’IHRA e le è stato offerto un contratto più stabile con l’università.

Ramona Wadi

Ramona Wadi è ricercatrice indipendente, giornalista freelance, critica letteraria e blogger. I suoi lavori si occupano di una serie di tematiche relative a Palestina, Cile e America Latina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Una tiratina d’orecchi ai soldati che hanno ucciso un palestinese-americano: l’amministrazione Biden ‘non è soddisfatta’

Yumna Patel

7 febbraio 2022 – Mondoweiss

L’amministrazione Biden ha richiesto una ” approfondita indagine penale e (l’assunzione della) piena responsabilità” dopo l’inchiesta dell’esercito israeliano sulla morte di Omar Asaad, palestinese con cittadinanza americana. 

La scorsa settimana l’esercito israeliano ha concluso la propria indagine sulla morte di Omar Asaad, un ottantenne con doppia cittadinanza palestinese-americano che è stato ucciso a gennaio nel corso di un violento raid israeliano contro la sua città natale nella Cisgiordania occupata. 

Il 12 febbraio Asaad ha avuto un infarto dopo esser stato trascinato fuori dalla sua auto nel cuore della notte da soldati israeliani che l’hanno poi legato, imbavagliato e lasciato per ore al freddo in un magazzino abbandonato. 

Nella sua indagine interna, arrivata dopo crescenti pressioni da parte di funzionari USA, l’esercito ha concluso che la morte di Asaad è stata un “evento serio e grave risultante da fallimento morale e decisioni errate da parte dei soldati.”

Nel riepilogo dell’inchiesta l’esercito afferma che Asaad è stato fermato nel “quadro” di “attività di controterrorismo” ad Jiljilya, sua città natale nella Cisgiordania settentrionale. 

Sostenendo che Asaad non avesse con sé un documento di identità e si “fosse rifiutato di cooperare con i controlli di sicurezza,” l’esercito dice che i soldati hanno “risposto” ammanettandolo e imbavagliandolo per “un breve lasso di tempo.” L’esercito afferma che dopo mezz’ora è stato “rilasciato e liberato da manette e bavaglio”.

Però alcuni testimoni, tra cui quelli che erano stati ammanettati accanto a lui, al momento avevano detto che Asaad era stato trascinato e picchiato dai soldati, cosa di cui non c’è traccia nella relazione dell’esercito. Alcune persone del posto sostengono che quando Asaad è stato trovato giaceva sul pavimento ancora bendato e legato. 

L’indagine ha determinato che al suo rilascio i soldati non avevano notato segni di sofferenza o altri indicatori sospetti riguardo alle condizioni di salute di Assad. I soldati hanno ritenuto che Assad fosse addormentato e non volevano svegliarlo,” dice la relazione dell’esercito. 

I due palestinesi fermati con lui hanno detto al Washington Post che Asaad era “privo di sensi e non respirava più quando i soldati se ne sono andati.”

Nella dichiarazione dell’esercito si dice che la morte di Asaad viola “uno dei valori fondamentali dell’IDF [Forze di Difesa israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.]: proteggere la vita umana.”

Nel 2021 l’esercito israeliano ha ucciso 341 palestinesi, inclusi 86 minori, e nel 2022 fino ad oggi ha ucciso sei palestinesi. 

Parole vuote’

Nelle conclusioni dell’inchiesta l’esercito israeliano dice di “rammaricarsi profondamente per la morte” di Asaad che definisce “un chiaro errore di giudizio morale.” 

L’esercito afferma che il comandante responsabile dell’unità sarà “redarguito,” e che il plotone coinvolto e ai comandanti della compagnia “non verranno assegnati incarichi di comando per due anni.”

Tuttavia il Dipartimento di Stato USA ha detto di non essere soddisfatto delle conclusioni dell’esercito né dei provvedimenti disciplinari presi contro alcuni soldati e che si aspetta che gli ufficiali israeliani svolgano una “esaustiva indagine penale.” 

Gli Stati Uniti si aspettano un’accurata indagine penale e una piena assunzione di responsabilità in questo caso e gradirebbero ricevere ulteriori informazioni relative a queste iniziative il prima possibile,” dice in una dichiarazione il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price.

E mentre l’esercito sostiene che l’uccisione di Asaad vada “contro i valori dell’IDF,” B’Tselem, gruppo israeliano per i diritti umani, fa notare che l’esercito israeliano raramente ritiene i propri soldati responsabili delle violazioni dei diritti umani contro palestinesi nei territori occupati. 

Persino quando i militari sono ripresi in filmati mentre compiono gravi violazioni dei diritti umani è molto raro che vengano condannati a pene detentive. B’Tselem condanna l’inchiesta dell’esercito dicendo che: “‘fallimento morale’ è solo un’espressione vuota quando accompagnata, come prevedibile, con il più flebile dei rimproveri.”

In realtà il fallimento morale di base è che le alte sfere israeliane guidano un regime di supremazia ebraica in cui la vita dei palestinesi non ha alcun valore,” conclude l’associazione.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Diritto Internazionale: Amnesty International analizza a fondo l’apartheid di Israele

Jean Stern

1 febbraio 2022 – Orient XXI

L’organizzazione per la difesa dei diritti umani Amnesty International attacca il crudele sistema di dominazione sulla popolazione palestinese che sia in Israele, nei territori occupati, a Gaza o rifugiata. Questo importante punto di svolta di Amnesty, che invoca il deferimento alla Corte Penale Internazionale, è un duro colpo per il governo israeliano. Orient XXI ha letto il rapporto in anteprima.

Il primo scossone è avvenuto nel 2020, quando l’organizzazione israeliana di giuristi Yesh Din ha utilizzato il termine “apartheid” per definire un sistema che si auto-proclama democratico e che, fino ad ora, è riuscito ad evitare un’analisi politica oggettiva. Dato che la vicinanza rende lucidi, un’altra ong israeliana, B’Tselem, nel 2021 è andata oltre, sostenendo che è tempo di dire “no all’apartheid dalle rive del Giordano al Mediterraneo”. Le due Ong sono state seguite dall’aprile 2021 da Human Rights Watch (HRW). Tuttavia l’organizzazione parla di apartheid solo per i territori occupati e Gaza, facendo un distinguo riguardo alle discriminazioni specifiche dei palestinesi israeliani. Il rapporto pubblicato da Amnesty International martedì 1 febbraio 2022, e di cui Orient XXI ha avuto l’anteprima, va molto oltre e utilizza il termine “apartheid” per tutti i palestinesi qualunque sia il loro luogo di residenza e il loro status.

Per la prima volta Amnesty International (AI), una delle più importanti organizzazioni mondiali in difesa dei diritti umani e anche una delle più caute nella scelta delle parole per definire le situazioni, in un rapporto pubblicato martedì primo febbraio 2022 e che dovrebbe provocare accese discussioni ritiene che “l’apartheid israeliano contro la popolazione palestinese è un sistema crudele di dominazione e un crimine contro l’umanità.” Il documento inoltre farà epoca, poiché tratta senza distinzione la situazione delle e dei palestinesi “che vivono in Israele e nei territori palestinesi occupati (TPO) così come rifugiate/i e profughe/i in altri Paesi.

Questo rifiuto di dividere i palestinesi in frammenti, di ritenere che i loro interessi avrebbero finito con il differenziarsi in base al loro luogo di residenza, è una rivoluzione notevole nel linguaggio della comunità umanitario-diplomatica internazionale. Si ispira agli argomenti di lunga data dei numerosi palestinesi (e di molti altri) sull’unità di un popolo frammentato dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948.

Riportare indietro l’orologio

Questo corposo materiale descrive l’oppressione israeliana e i meccanismi di dominazione dei palestinesi. Decine di interviste, centinaia di documenti analizzati soprattutto relativamente al periodo 2017-2021, mesi di elaborazione in totale segreto: il rapporto di Amnesty porta con sé un importante cambiamento politico. Offre anche una quantità considerevole di informazioni sulla situazione che vivono i palestinesi, che siano a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme, ad Haifa… e risale spesso alle origini dello Stato di Israele per comprendere meglio le radici di una politica la cui continuità era già stata messa in luce negli ultimi anni da molti storici di ogni origine. Anche lì Amnesty riporta indietro l’orologio. “Sta succedendo l’esatto contrario di quello che immaginavano,” mi disse in modo premonitore nella primavera del 2016 Yuli Novak, direttrice generale di Breaking The Silence, un’organizzazione israeliana di veterani dell’esercito israeliano che raccoglie le testimonianze sulle vessazioni commesse nei territori occupati dai soldati.

I rapporti di Breaking The Silence, così come quelli di altre Ong israeliane e palestinesi, hanno d‘altra parte alimentato il lavoro dei ricercatori di Amnesty International, ottenendo finalmente l’eco che meritavano.

Ciò che sta succedendo è semplicemente che il potere di persuasione di Israele (e dei suoi numerosi alleati di ogni latitudine e di ogni continente, da Los Angeles a Dubai) non è riuscito a soffocare le voci dissidenti, in primo luogo in Palestina, ma anche in Israele, tra gli ebrei come tra gli arabi. Al contrario, riprendono la parola. Con questo nuovo impegno molto convinto di AI l’uso del termine apartheid a proposito di Israele non sarà più soggetto a un fuoco di bombardamento, anche se forse è meglio non farsi illusioni, soprattutto in Francia. In ogni caso Amnesty propone un notevole salto in avanti sulla scena mondiale.

Un crimine contro l’umanità

Il suo rapporto di 211 pagine fitte analizza le detenzioni amministrative, l’esproprio di proprietà fondiarie e immobiliari, gli omicidi illegali, i trasferimenti forzati, le restrizioni agli spostamenti, gli ostacoli all’educazione. Si fonda su numerosi esempi documentati, in varie parti del Paese, nella Valle del Giordano, a Gaza. Raccoglie molte informazioni, il che ha permesso all’organizzazione di dedicarsi a un minuzioso inventario del sistema messo in atto da Israele. Si tratta di identificare altrettanti “fattori costitutivi” di un sistema di apartheid ai sensi del diritto internazionale. Per Amnesty “questo sistema viene perpetuato dalle violazioni che costituiscono il crimine contro l’umanità di apartheid come definito nello Statuto di Roma e nella Convenzione sull’apartheid.” Agnès Callamard, dal 2021 nuova segretaria generale dell’organizzazione di difesa dei diritti umani, chiarisce la questione:

“Il nostro rapporto svela la vera dimensione del regime di apartheid di Israele. Che sia nella Striscia di Gaza, a Gerusalemme est, a Hebron o in Israele, la popolazione palestinese è trattata come un gruppo razziale inferiore ed è sistematicamente privata dei suoi diritti.”

Amnesty International “invita la Corte Penale Internazionale (CPI) a prendere in considerazione la definizione di crimine di apartheid nel quadro della sua attuale inchiesta nei TPO e chiede a tutti gli Stati di esercitare la competenza universale per portare davanti alla giustizia i responsabili dei crimini di apartheid.

Un sistema in vigore dal 1948

Il rapporto specifica ciò che Amnesty intende per “sistema di apartheid” e su questo punto specifico vale la pena citarlo per esteso:

“Il sistema di apartheid è nato con la creazione di Israele nel maggio 1948 ed è stato costruito e mantenuto per decenni dai governi israeliani che si sono succeduti su tutto il territorio da loro controllato, indipendentemente dal partito politico al potere all’epoca. Israele ha sottoposto diversi gruppi di palestinesi a differenti insiemi di leggi, di politiche e di pratiche discriminatorie e di esclusione in momenti diversi, in seguito alle conquiste territoriali realizzate prima nel 1948, poi nel 1967, quando annetté Gerusalemme est e occupato il resto della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Nel corso dei decenni le preoccupazioni demografiche e geopolitiche israeliane hanno plasmato le politiche nei confronti dei palestinesi in ognuno di questi contesti territoriali.

Anche se il sistema di apartheid di Israele si manifesta in modi diversi nelle differenti zone sotto il suo controllo effettivo, esso ha sempre lo stesso obiettivo di opprimere e dominare i palestinesi a favore degli ebrei israeliani, che sono privilegiati dal diritto civile israeliano qualunque sia il loro luogo di residenza. È concepito per conservare una schiacciante maggioranza ebraica che abbia accesso e abbia a disposizione il massimo di territorio e di terre acquisite o controllate, limitando nel contempo il diritto dei palestinesi a contestare la spoliazione delle proprie terre e dei propri beni. Questo sistema è stato applicato ovunque Israele abbia esercitato un controllo effettivo su territori e terre o sull’esercizio dei diritti dei palestinesi. Si concretizza nel diritto, in politica e nella prassi e si riflette nei discorsi dello Stato dalla sua creazione fino ad oggi.”

Discriminazione razziale e cittadinanza di serie B

Il rapporto insiste ovviamente sulle discriminazioni globali di un sistema la cui geometria variabile non è in fondo che un fattore di adeguamento.

Le guerre del 1947-49 e del 1967, l’attuale regime militare di Israele nei TPO e la creazione dei regimi giuridici e amministrativi differenti sul territorio hanno isolato le comunità palestinesi e le hanno separate dalla popolazione ebraica israeliana. Il popolo palestinese è stato frammentato geograficamente e politicamente e vive diversi livelli di discriminazione in base al suo status e al suo luogo di residenza.

Attualmente i cittadini palestinesi di Israele hanno più diritti e libertà dei loro omologhi dei TPO, e del resto la vita quotidiana dei palestinesi non si è dimostrata molto diversa che vivano nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania. Le ricerche di Amnesty International mostrano tuttavia che l’insieme della popolazione palestinese è soggetta a un solo e identico sistema. Il trattamento dei palestinesi da parte di Israele in tutti i territori risponde allo stesso obiettivo: privilegiare gli ebrei israeliani nella distribuzione delle terre e delle risorse e ridurre al minimo la presenza della popolazione palestinese e il suo accesso alle terre.

Un solo e unico sistema, fondato secondo AI sulla discriminazione razziale e su status di cittadini di serie B. Questa svalutazione si accompagna ovviamente alla spoliazione, e il rapporto torna sulla “messa in atto di crudeli espropriazioni fondiarie su vasta scala contro la popolazione palestinese,” e sulla demolizione “dal 1948” di centinaia di case ed edifici palestinesi. Evoca anche le famiglie dei quartieri palestinesi di Gerusalemme est vessate dai coloni che si appropriano delle loro abitazioni “con il totale sostegno del governo israeliano.

Amnesty chiede a tutti i Paesi che intrattengono buoni rapporti con Israele “tra cui alcuni Paesi arabi e africani” di non sostenere più un sistema di apartheid. Per uscire da questo “sistema”, ormai documentato da Amnesty, “la reazione internazionale di fronte all’apartheid non deve più limitarsi a condanne generiche e a scappatoie. È necessario aggredire le radici del sistema, altrimenti le popolazioni palestinesi e israeliane resteranno imprigionate nel ciclo senza fine di violenze che ha annientato tante vite,” conclude Agnès Callamard.

La mia identificazione con questa storia è finita”

Con un’altra storia e attraverso altre vie Yuli Novak è arrivata alla stessa conclusione di Agnès Callamard. Oggi quarantenne, nel 2017 ha lasciato il suo incarico a Breaking The Silence per fare un viaggio con varie destinazioni, dall’Islanda al Sudafrica. Lì ha incontrato gente che aveva lottato contro l’apartheid, cercato di comprendere “le paure” degli uni e degli altri. Ma ha capito soprattutto l’apartheid nel suo stesso Paese. “La sua struttura politica era destinata fin dall’inizio a preservare una maggioranza ebraica, e in questo senso è stata antidemocratica. La mia identificazione con questa storia è finita,” continua Yuli Novak in un lungo ritratto pubblicato il 28 gennaio 2022 dal quotidiano progressista [israeliano] Haaretz.

In un libro che ha da poco pubblicato, Yuli Novak descrive parecchi anni infernali, di vessazioni quotidiane, la delusione di scoprire che un impiegato di Breaking The Silence era un agente dello Shin Bet, il servizio di spionaggio interno [israeliano, ndtr.]. Prima ha pensato che “quel tipo un po’ strano, un po’ solitario, commovente” sapeva tutto di lei, dei suoi piccoli “pettegolezzi”, prima di capire che la democrazia si dissolveva davanti ai suoi occhi. Allora ha compreso che il contratto con il suo Paese era per così dire “condizionato: finché obbedivo. Nel momento in cui qualcosa non gli andava bene, il sistema si rivoltava contro di me. Mi dicevano: ‘Se tu sei contro l’occupazione e pensi che si debba manifestare riguardo alla situazione a Gaza, allora non sei una di noi.

Prende atto del fatto che parlare di apartheid riguardo a Israele non è che un dato di fatto. E se ciò diventa psicologicamente e politicamente doloroso da sopportare per molti israeliani, lo è ancora di più e da molto più tempo per milioni di palestinesi. Per gli uni come per gli altri il sostegno internazionale, se fa il suo ritorno in forze senza insensatezze, sarà il benvenuto.

Jean Stern

Ex-giornalista di Libération, La Tribune e La Chronique d’Amnesty International. Nel 2012 ha pubblicato Les Patrons de la presse nationale, tous mauvais [I proprietari della stampa nazionale, tutti cattivi], La Fabrique; per le edizioni Libertalia nel 2017 Mirage gay à Tel Aviv [Miraggio gay a Tel Aviv] e nel 2020 Canicule [Canicola].

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)