Palestina. Colonialismo israeliano tra lavoro minorile e disastro ambientale

Francesca Merz

26 novembre Nena News

Nella Valle del Giordano bambini e adulti palestinesi lavorano per pochi dollari al giorno e senza contratto né sicurezza. Si infortunano e si ammalano, come i residenti vicino alle colonie israeliane che ospitano fabbriche chimiche, spiegano diversi rapporti internazionali

Abbiamo avuto modo in un precedente articolo di raccontare l’insostenibilità ambientale dello sviluppo delle colonie israeliane. Occorre fare un ulteriore passo per meglio comprendere che cosa sono le colonie e quale impatto abbiano sul territorio e sull’economia.

E’ necessario, oltre all’analisi molto problematica degli impatti ambientali delle colonie, sottolineare quali sono i motivi per i quali le monocolture delle colonie israeliane nella Valle del Giordano prosperino, spesso indipendentemente dall’utilizzo di tecnologie all’avanguardia per cui Israele è noto in tutto il mondo: come sottolinea un recente rapporto di Human Rights Watch, la nota organizzazione internazionale impegnata per i diritti umani, le colonie prosperano grazie al lavoro sottopagato dei palestinesi e al lavoro minorile.

A questo si sommano ulteriori illegalità: le colonie israeliane sono costruite in Cisgiordania, occupata in violazione del diritto internazionale. In merito invece alla consuetudine di utilizzare lavoro minorile riportiamo un breve passaggio tratto dalle interviste di Hrw: la maggior parte dei bambini intervistati afferma di lavorare con i pesticidi. “Non sanno molto delle sostanze chimiche che trattano, ma degli effetti sì. Soffrono di giramenti di testa, nausea, irritazioni agli occhi ed eruzioni cutanee”.

I ragazzi che lavorano nei vigneti dove si usa il pesticida Alzodef, vietato in Europa dal 2008, si riconoscono dalle desquamazioni dell’epidermide. I bambini palestinesi lavorano 6-7 giorni alla settimana, per 8 ore al giorno, anche nelle serre a temperature che si avvicinano ai 50 gradi. Portano carichi pesanti e usano macchine pericolose. Secondo uno studio del 2014 sugli infortuni tra i minori palestinesi che lavorano il 79% aveva subito un infortunio sul lavoro nei precedenti 12 mesi. E tutto questo per una paga di meno della metà di quella minima garantita dalla legge israeliana e senza assicurazione sanitaria e altri benefit, assicurando così maggiori guadagni alle aziende agricole delle colonie.

E’ esattamente da queste colonie e da questi metodi produttivi che deriva la più ampia percentuale di avocado presenti sulle nostre tavole, a scanso di equivoci sull’eticità dell’utilizzo nelle nostre diete di questo tipo di prodotto. Il rapporto di Hrw si incentra sulla Valle del Giordano, noto come il granaio della Palestina, dove le grandi estensioni di piantagioni e coltivazioni delle colonie contrastano con i campi aridi dei palestinesi, evidenziando l’iniqua distribuzione delle risorse idriche.

I palestinesi che ci vivono, scesi da circa 300mila nel 1967 agli 80mila di oggi, hanno accesso solo al 6% dell’area, il restante 94% è riservato ai 9.500 coloni e alle loro piantagioni, oppure chiuso in zone militari. I palestinesi che ci vivono devono ottenere permessi dalle autorità militari israeliane per qualsiasi costruzione che siano case, stalle, strade, pozzi o cisterne, ma anche per coltivare la terra o pascolare il bestiame.

I permessi approvati sono una rarità. Guadagnarsi da vivere dall’agricoltura, senza terra e senza acqua e con una serie di check-point tra i campi e i mercati, diventa impossibile, i minori sono costretti a lavorare per aiutare le famiglie e non hanno altra scelta che l’agricoltura delle colonie. In alcuni casi, i bambini finiscono addirittura per lavorare le terre che sono state confiscate alle proprie famiglie.

Nell’ong israeliana Kav LaOved Hanna Zohar è incaricata della tutela di questi lavoratori. Questo quanto dichiara: “Il diritto del lavoro israeliano prevede tutele sociali per questi palestinesi, ma tali misure vengono poco applicate. Gli abusi attecchiscono sulla debolezza dei lavoratori che, ricordiamolo, vivono sotto occupazione: taluni temono di perdere il posto di lavoro se avanzano lamentele, altri hanno finito per convincersi che non meritano di ricevere più soldi”.

Fondata in Cisgiordania nel 1968 Argaman, secondo il diritto internazionale, è un insediamento illegale che nel 2017 contava 128 coloni. Per la fondazione della colonia le autorità israeliane confiscarono 120 ettari di terra dai villaggi palestinesi circostanti. Qui si coltivano datteri e altri prodotti, lo stipendio giornaliero dato ai palestinesi che lavorano in queste terre è di 60 shekel (17 dollari), infinitamente inferiore al salario minimo israeliano.

La frutta e la verdura raccolte da vengono esportati principalmente in Europa. Rashid Khardiri, project manager dell’ong Jordan Valley Solidarity, ha spiegato che il più grande settore economico della Valle del Giordano, l’agricoltura, impiega molti bambini. Le prospettive economiche e le infrastrutture di quest’area sono fortemente limitate, la costruzione di scuole o di strutture di base richiede un permesso da parte delle autorità israeliane; nel settembre 2018 furono richiesti 102 permessi di costruzione da parte dei palestinesi, di cui solo cinque furono approvati, rendendo le possibilità di ricevere un permesso di costruzione incredibilmente basse.

Queste limitazioni sull’economia dei villaggi creano una sostanziale dipendenza economica degli abitanti verso gli insediamenti di coloni, circa il 30 per cento della popolazione palestinese nella Valle del Giordano lavora nelle fattorie dei coloni. Lati Swafta ha trascorso cinque anni a raccogliere pomodori e cetrioli nell’insediamento di Mehola, nel nord della valle del Giordano. Questo palestinese dagli occhi chiari, oggi ha 23 anni e allora non cercava neppure di cambiare lavoro. “Sapevo che non ne avrei trovato un altro”, osserva. Poi un incontro casuale ha cambiato le carte in tavola: Rashid, un attivista dell’associazione Jordan Valley Solidarity, voleva mettere in scena un lavoro teatrale; vi si raccontava la vita nella Valle del Giordano: l’istruzione, la salute e, certamente, il lavoro nelle colonie.

Lafi è stato interpellato per partecipare a questo progetto e ha accettato. Ora recita il ruolo di un palestinese che procura lavoro ai suoi connazionali nelle colonie. “È un personaggio che conosco nella vita reale – sorride Lafi -, quindi è stato facile interpretarlo”. Da un anno a questa parte, la rappresentazione teatrale va in scena nella Valle del Giordano, ma anche nelle principali città di Palestina e Giordania. Lafi dedica otto ore al mese a questo progetto, per un compenso di 100 shekel (circa 23 euro) al giorno. Il resto del tempo, lavora nei campi di suo padre.

Gli insediamenti israeliani così costituiti, incombono sulla valle dei colli, un flusso di liquami scorre costantemente sotto. Il terrificante impatto delle colonie sull’ambiente è visibile ovunque. Nelle valli Matwa e al-Atrash – situate nel distretto di Salfit della Cisgiordania occupata tra le città palestinesi di Ramallah e Nablus si raccolgono le acque reflue mal gestite da residenti palestinesi a Salfit e soprattutto da residenti israeliani nei vicini insediamenti illegali di Ariel e Barkan.

Secondo un rapporto del 2009 dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, i palestinesi che vivono in queste valli sono esposti a “acque reflue non trattate [che] contengono virus, batteri, parassiti e metalli pesanti e tossici [che] sono pericolosi per la salute umana e per gli animali”. Le acque reflue non trattate hanno un grave impatto sulla salute pubblica ma le sostanze chimiche riversate dalle fabbriche vicine rappresentano se possibile una minaccia ben peggiore.

Secondo un report di B’Tselem del 2017, lo Stato di Israele stava sfruttando la terra palestinese per il trattamento di vari rifiuti creati non solo negli insediamenti illegali ma dall’interno della linea verde. Nel rapporto, si dice che le zone industriali dell’insediamento di Ariel e Barkan contengono due dei 14 impianti di trattamento dei rifiuti gestiti da Israele nella Cisgiordania occupata e nella Gerusalemme est.

Le zone industriali di Ariel e Barkan trattano il petrolio usato e i rifiuti elettronici pericolosi, rifiuti ritenuti troppo pericolosi per essere trattati all’interno di Israele ai sensi delle sue leggi sulla protezione ambientale e quindi trasferiti nel territorio palestinese occupato dove tali regolamenti israeliani non vengono applicati. Molte persone dei villaggi circostanti hanno accusato malori, e soprattutto sono state colpite da cancro, per Abdulrahman Tamimi, medico dell’unico ospedale di Salfit, la correlazione è chiara. “Le persone di questi villaggi particolari [vicino agli insediamenti industriali] hanno le stesse caratteristiche, le stesse malattie”, ha spiegato.

“Puoi concludere che c’è qualche problema laggiù. Vediamo che molte persone arrivano di recente con il cancro che è davvero raro in giovane età, tra i 20 ei 25 anni”, ha continuato Tamimi. I casi che vede variano da cancro ai polmoni a quelli alle ossa, ma ogni caso è aggressivo. Per una varietà di fattori sociali ed economici, Tamimi vede spesso i suoi pazienti quando è troppo tardi. “Temiamo che la raccolta delle olive quest’anno non sarà commestibile perché anche le acque reflue contengono sostanze chimiche provenienti dagli insediamenti”, ha dichiarato Abdulrahman a Middle East Eye.

In una dichiarazione ufficiale a Meeil comune di Ariel ha negato che l’insediamento israeliano avesse alcuna responsabilità per la crisi ecologica e sanitaria nell’area di Salfit. “Tutte le acque reflue della città di Ariel passano attraverso un impianto di depurazione e tutto il deflusso che proviene da Ariel è acqua che è già stata trattata”, si legge nella nota. B’Tselem, tuttavia, ha dichiarato che l’impianto di trattamento delle acque reflue nell’insediamento di Ariel “ha smesso di funzionare del tutto nel 2008”.

Anche due progetti separati sostenuti da finanziamenti europei nel 2000 e nel 2009, atti al ripristino dell’impianto di depurazione, sono falliti perché le autorità israeliane hanno rifiutato di rilasciare permessi di costruzione per costruire la struttura sulla terra di Matwa, trovandosi nell’Area C della Cisgiordania sotto il completo controllo militare israeliano.

Il dottor Mazin Qumsiyeh, professore di genetica e biologia molecolare e cellulare all’Università di Betlemme e noto attivista, ha aperto la strada alla ricerca sugli effetti intergenerazionali a lungo termine dell’esposizione ai rifiuti tossici. Lo studio ha rilevato un numero significativo di rotture cromosomiche nelle cellule dei residenti vicino alle zone delle colonie israeliane industriali rispetto al gruppo di controllo. Le rotture cromosomiche o il danno al Dna aumentano la possibilità di infertilità, difetti congeniti alla nascita e cancro. Nena News