Calano gli interventi delle FDI [esercito israeliano, ndt] sui media, ma rimane in vigore una notevole autocensura

Haggai Matar

18 settembre 2023 – +972 Magazine

Anche se è scesa al minimo in 12 anni, la censura militare israeliana viola ancora la libertà di stampa e impedisce a informazioni fondamentali di raggiungere il pubblico.

L’anno scorso la censura militare israeliana ha bloccato la pubblicazione di 159 articoli sui mezzi di comunicazione israeliani e ne ha censurati parzialmente altri 990. In totale l’esercito ha impedito all’informazione di arrivare al pubblico con una media di tre volte al giorno, oltre all’effetto dissuasivo che la sola esistenza della censura impone sul giornalismo indipendente che cerca di svelare gli errori del governo. I dati sulla censura sono stati forniti dal censore militare in risposta a una richiesta presentata da +972 Magazine e dal Movimento per la Libertà di Informazione in Israele sulla base della legge sulla libertà di informazione.

Nel 2022, per il quarto anno di fila, la percentuale di interventi del censore militare israeliano è scesa al livello più basso dal 2011, quando +972 ha cominciato a raccogliere dati sulle attività del censore. Nell’ultimo decennio ci sono un minimo di 2.358 interventi l’anno nei rapporti sui media del censore, ma normalmente sono molto di più: le cifre del 2022 sono “solo” di 1.149 articoli censurati, un calo del 20% dal 2021.

Secondo Or Sadan, un giurista del Movimento per la Libertà di Informazione in Israele, la sola esistenza di questa censura ha un effetto dissuasivo, una delle principali ragioni del calo di quest’anno. Un altro possibile fattore è stato il cambio al vertice dell’unità di censura: Ariella Ben Avraham, la direttrice della censura durante i suoi anni di picco e che ora lavora presso il NSO Group, ha lasciato il suo posto nel 2022 e la carica è ora coperta da Kobi Mandelblit.

C’è anche stato un notevole calo del numero di articoli che i vari media hanno presentato all’esame del censore. Negli ultimi dieci anni sono stati presentati 11–14.000 articoli all’anno, mentre l’anno scorso sono stati 5.916. Questa diminuzione può forse essere spiegata con un minore interesse in delicate questioni legate alla sicurezza o come risposta al ridotto intervento del censore e al calo delle proibizioni di pubblicazione di articoli. 

La legge israeliana che obbliga i giornalisti a sottomettere al censore militare tutti gli articoli se parlano di temi legati alla sicurezza comprende sei pagine fitte di sotto-argomenti ed è quindi molto ampia. I media dibattono ogni giorno su cosa mandare al censore, una decisione che alla fine spetta al direttore.

Il censore può anche prendere l’iniziativa di rimuovere informazioni che sono già uscite sui vari media o sui social e Ben Avraham ha persino tentato di costringere noti blogger e autori in rete che non sono giornalisti a mandarle i testi prima della pubblicazione. Comunque, a differenza degli anni precedenti, quest’anno il censore militare ha respinto la nostra richiesta di classificare in categorie le sue statistiche per chiarire se ha censurato testi che erano stati presentati o se è intervenuto per rimuovere informazioni già pubblicate.

Il censore non ha fornito altre statistiche che avevamo richiesto, tra cui i dettagli delle sue attività mese per mese, i motivi dell’intervento o i mezzi di comunicazione coinvolti. Non abbiamo neanche ricevuto dati su quanti articoli negli archivi nazionali israeliani che non erano originalmente nell’ambito del censore sono stati rimossi dall’accesso pubblico o secretati. Il censore ha solo confermato che l’anno scorso gli sono stati sottoposti per il controllo 2.670 documenti presenti negli archivi e che “la stragrande maggioranza” sono stati resi pubblici senza tagli, il che svela poco sulle attività del censore negli archivi.

Nonostante il calo riportato dalle statistiche che il censore ha condiviso, la sola esistenza di un censore militare resta un enorme scostamento dalle norme democratiche basilari. Israele è il solo Paese che si vanta della sua appartenenza al circolo delle democrazie occidentali che esercita una censura così aggressiva contro giornalisti, scoraggiando nei fatti i redattori dall’affrontare tematiche fondamentali per le vite dei cittadini.

L’opinione pubblica deve sapere che ci sono parti delle informazioni che i giornalisti vorrebbero divulgare ma che sono bloccate dal censore,” dice Sadan. Per arrivare a tale scopo Sadan, il Movimento per la Libertà di Informazione in Israele, e +972 hanno collaborato per “sensibilizzare l’opinione pubblica sul numero di casi in cui è stato violato il diritto del dell’opinione pubblica a sapere,” continua Sadan. Così facendo, aggiunge, le richieste di informazioni sulle attività del censore “permette controlli a lungo termine che riducono il timore di abusi da parte di questa autorità.”

Anche se il censore militare continua a violare la libertà di stampa, le sue attività sono diventate sempre di più superflue, persino assurde, in un’era in cui chiunque può postare informazioni online e ottenere una vasta circolazione o accedere a informazioni pubblicate altrove per bypassare la censura. Per esempio, quando ai mezzi di informazione israeliani era stato inizialmente impedito di rivelare che un ex agente del Mossad, Erez Shimoni, era uno dei morti in un incidente in barca in Italia lo scorso maggio, la notizia aveva fatto il giro del mondo. Alla fine, come avvenuto in altri casi simili, la realtà ha scavalcato gli apparati di sicurezza costringendoli a cedere e permettere alla stampa israeliana di parlare di quello che era già diventata universalmente noto. 

Quest’anno Israele è sceso di 11 posti nell’indice mondiale sulla libertà di stampa compilato da Reporter Senza Frontiere (RSF) dalll’86esimo (su 180) nel 2022 al 97esimo posto nel 2023. Le attività militari del censore sono citate nel documento di RSF su Israele, e le politiche e proposte del nuovo governo sono presentate come la ragione del peggioramento della sua posizione quest’anno. 

In una recente audizione presso il comitato della Knesset sulla censura militare Anat Saragusti, il direttore della Libertà di stampa del sindacato dei giornalisti in Israele, ha segnalato la posizione di Israele nell’indice [stilato da RSF] e, citando i continui reportage di +972, ha evidenziando la crescita dell’uso di ordinanze restrittive in Israele, emanate unilateralmente da giudici su impulso delle istituzioni della sicurezza senza che i giornalisti vi vengano rappresentati. Tale tendenza, ha aggiunto Saragusti, sta causando un significativo incremento nel numero di argomenti che la stampa non può affrontare.

Tuttavia, anche se il lavoro del censore militare continua, esso non interviene nella pubblicazione di articoli sulle attività dell’esercito e dei coloni nei territori occupati, sulla creazione e mantenimento da parte del governo di due sistemi giudiziari separati per ebrei e palestinesi in Cisgiordania, sulla repressione di legittime proteste palestinesi, sui casi penali sorti a causa delle uccisioni di palestinesi da parte dell’esercito su cui normalmente non si fanno indagini, sull’incarcerazione e uccisione di giornalisti palestinesi, nostri colleghi, e così via. La maggior parte dei principali media non parla di questi temi o li tratta in modo fazioso e distorto, non per le restrizioni governative, ma a causa dell’autocensura. 

Haggai Matar è un pluripremiato giornalista israeliano e un attivista politico, oltre ad essere direttore esecutivo di +972 Magazine

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele-Palestina: come le reti sociali sono state utilizzate e manipolate

Rayhan Uddin

Domenica 23 maggio 2021 – Middle East Eye

I giganti della tecnologia sono accusati di aver censurato alcuni contenuti palestinesi, di non aver messo a tacere la disinformazione e di aver consentito incitamenti alla violenza.

Durante la recente recrudescenza di violenze in Israele e nei territori palestinesi occupati le reti sociali si sono dimostrate una spada a doppio taglio.

Questo venerdì [21 maggio] alle 2 del mattino è entrato in vigore un cessate il fuoco, ma non prima di una devastante escalation durante la quale i bombardamenti aerei israeliani su Gaza hanno ucciso 248 palestinesi, di cui 66 minori, e i razzi lanciati dall’enclave palestinese assediata hanno provocato 12 morti in Israele.

Nel corso delle ultime due settimane il mondo digitale si è trovato al centro dell’attenzione. Ha offerto uno spazio per documentare direttamente e senza filtro la situazione sul terreno, un mezzo per far circolare l’informazione sotto diversi formati e forme, oltre che una piattaforma che consentiva di amplificare i messaggi e i gesti di solidarietà.

Tuttavia, anche se c’è stato un uso positivo, si sono anche evidenziati degli abusi.

I giganti della tecnologia sono accusati di aver censurato alcuni contenuti palestinesi, di non aver stroncato la disinformazione e di aver permesso degli incitamenti alla violenza. Le piattaforme sono state anche manipolate e utilizzate come vettori di propaganda dello Stato.

Middle East Eye si sofferma su cinque modi in cui le piattaforme di comunicazione informatica sono state sfruttate mentre la tensione era in aumento in Israele, a Gaza, nella Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

1. Censura a danno dei palestinesi

La violenza e la brutalità degli ultimi giorni sono state accompagnate da ripetuti esempi di limitazione e cancellazione di contenuti sulle reti sociali.

Tutto è iniziato con la campagna di resistenza contro l’imminente espulsione di sei famiglie nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est occupata – che ha catalizzato la repressione dei manifestanti da parte delle forze israeliane – che si è ritrovata al centro delle accuse di censura.

Il 7 maggio Middle East Eye ha informato che erano state sollevate preoccupazioni riguardo a contenuti eliminati e alla sopressione di account sulle reti sociali legate al quartiere. Mona al-Kurd, giornalista e abitante di Sheikh Jarrah minacciata di essere cacciata dalla casa della sua famiglia, ha visto il suo account Instagram temporaneamente sospeso mentre stava documentando i soprusi quotidiani. Anche suo fratello Mohammed al-Kurd ha visto il suo contenuto eliminato a causa dei “discorsi d’odio”, sebbene secondo lui si fosse limitato a filmare le violenze della polizia senza alcun commento.

Gli abitanti di Sheikh Jarrah si sono lamentati del fatto che le loro storie su Instagram ottenevano meno approvazioni e meno visualizzazioni per ragioni inspiegabili. Durante quel periodo su Facebook – società madre di Instagram – il gruppo “Salvare Sheikh Jarrah”, che contava più di 130.000 membri, è stato temporaneamente disattivato perché “violava gli standard della comunità”.

Ci sono state anche domande riguardo a Twitter quando l’account della giornalista palestinese Mariam Barghouti è stato sospeso mentre stava informando su una manifestazione di solidarietà con Sheikh Jarrah nella Cisgiordania occupata. In seguito Twitter ha dichiarato a VICE [società di media digitali statunitense-canadese, ndtr.] che la decisione era stata presa per sbaglio, omettendo di precisare quali disposizioni delle sue condizioni Barghouti fosse sospettata di aver infranto.

“Le limitazioni e la censura hanno un grande impatto sulla possibilità delle persone di comunicare, di organizzarsi e di condividere informazioni,” ha dichiarato a MEE Marwa Fatafta, responsabile delle politiche per il Medio Oriente e il Nord Africa di Access Now, Ong per la difesa dei diritti digitali.

“Quando non potete accedere al vostro account o un vostro contenuto è eliminato ciò viola la possibilità di esercitare il vostro diritto alla libertà d’espressione su internet.”

Queste restrizioni non riguardano unicamente l’attivismo relativo a Sheikh Jarrah. Quando la polizia israeliana ha fatto irruzione nella moschea di al-Aqsa per reprimere brutalmente i fedeli in preghiera durante gli ultimi giorni del Ramadan, sono comparse denunce di censura.

Su Istagram l’hashtag “al-Aqsa” è stato temporáneamente nascosto a causa di indicazioni in base alle quali secondo una notifica ricevuta dagli utenti certi contenuti erano “suscettibili di non soddisfare le regole della comunità di Instagram”.

Facebook, che possiede Instagram, ha attribuito le soppressioni di contenuti a un “problema tecnico su scala mondiale che non era legato a un argomento specifico.”

Tuttavia, secondo alcuni documenti di comunicazione interna consultati da BuzzFeed [società statunitense di notizie specializzata in media digitali, ndtr.], pare che gli hashtag siano stati bloccati perché il sistema di controllo dei contenuti della piattaforma aveva associato per errore al-Aqsa (terzo sito più sacro per l’islam) con un’organizzazinoe terroristica.

Numerose organizzazioni ritengono che ogni censura da parte dei giganti delle reti sociali potrebbe essere paragonata alla distruzione di prove nella documentazione dei crimini di guerra, cosa su cui attualmente indaga la Corte Penale Internazionale in rapporto con le recenti violenze.

Oltre all’“errore”, un altro motivo possibile per il ritiro di certi contenuti sarebbe l’uso del termine “sionista”.

Secondo un articolo di “The Intercept” [sito fondato da Edward Snowden, ex tecnico della CIA che ha denunciato l’uso di dati riservati dei propri cittadini da parte di USA e GB, ndtr.], la politica di Facebook consistente nel sopprimere ogni contenuto che utilizzi il termine “sionista” come sinonimo di “ebreo” o di “ebraismo” si è rivelato difficile da mettere in pratica. Secondo uno dei moderatori della piattaforma le direttive lasciano “poco spazio alla critica del sionismo”.

Malgrado le preoccupazioni degli attivisti palestinesi, sono i responsabili del governo israeliano che la settimana scorsa hanno incontrato i funzionari di Facebook e TikTok. Il ministro della Giustizia Benny Gantz ha esortato le reti sociali a sopprimere i contenuti violenti e a rispondere rapidamente alle richieste dell’ufficio per l’informatica di Israele.

L’unità israeliana per l’informatica, che opera all’interno del ministero della Giustizia, sorveglia sistematicamente i contenuti palestinesi e li segnala ai giganti del digitale. Secondo un rapporto pubblicato dall’organizzazione di difesa dei diritti informatici palestinesi 7amleh Facebook accoglie l’81% delle richieste di soppressione dei contenuti da parte di questa unità informatica.

“Ciò conferma che la discriminazione digitale a cui sono esposti i palestinesi nello spazio informatico non è un errore tecnico,” ha dichiarato Mona Shtya di 7amleh a MEE. “Al contrario si tratta delle conseguenze dei tentativi sistematici delle autorità israeliane per far tacere gli attivisti per i diritti umani e per influenzare le politiche delle imprese tecnologiche in materia di controllo dei contenuti.”

Una coalizione di organizzazioni per i diritti informatici ha invitato Twitter e Facebook a fornire dati dettagliati relativi alle richieste presentate dall’unità informatica israeliana e ad essere trasparenti sul processo decisionale riguardante il ritiro di contenuti.

Inoltre un’organizzazione palestinese per la protezione dei dati, due agenzie di stampa e un traduttore hanno denunciato Facebook, accusandolo di censurare le loro pubblicazioni e in qualche caso di aver chiuso il loro account in violazione delle stesse politiche dell’impresa.

Il documento di 14 pagine inviato al relatore speciale dell’ONU incaricato della promozione e della protezione del diritto alla libertà d’opinione e d’espressione, consultato da Middle East Eye, concede alla società 21 giorni per dare spiegazioni. In caso contrario seguiranno delle azioni legali.

2. Disinformazione e notizie false

Milioni di persone in tutto il mondo si basano sulle reti sociali per informarsi sulle violenze in Israele e Palestina. Tuttavia non tutti i contenuti, compresi quelli ufficiali, sono corretti.

La disinformazione relativa a quanto avviene a Gaza si trova ai livelli più alti dello Stato: il portavoce arabofono ufficiale del primo ministro israeliano, Ofir Gendelman, ha condiviso un video che secondo lui mostra che Hamas lanciava dei razzi contro Israele. Queste immagini risalivano in realtà al 2018 e mostravano missili lanciati nel governatorato di Deraa, in Siria.

Questo tweet era stato originariamente etichettato da Twitter come un “media manipolato”, prima di essere cancellato da Gendelman.

Anche l’account Twitter ufficiale dell’esercito israeliano ha fatto circolare false informazioni. L’account @IDF (Forze di Difesa Israeliane) ha condiviso un video che sosteneva mostrasse Hamas mentre nascondeva dei lanciatori di missili in quartieri civili. Tuttavia nelle immagini si vede di fatto un finto mezzo militare utilizzato da Israele durante le esercitazioni di addestramento nel nord ovest del Paese.

Questo video è stato retwittato dall’account Twitter verificato “Stop Antisemitismo”, che in seguito si è scusato per l’errore. Nelle sue scuse ha insistito in modo provocatorio a etichettare le immagini come provenienti da un “quartiere in maggioranza musulmano”, cosa che sembra un chiaro tentativo di mettere in rapporto un’arma israeliana con i palestinesi.

“La disinformazione e le notizie false fanno parte integrante della propaganda delle autorità israeliane,” dichiara Mona Shtya. “Questo tipo di informazioni colpisce la coscienza della gente e i movimenti politici palestinesi.”

Secondo 7amleh, il 54% dei partecipanti a un sondaggio pubblicato nel suo rapporto “Notizie false in Palestina” ha indicato le autorità israeliane come la principale fonte di informazioni false. Il rapporto conclude anche che le notizie false aumentano del 58% durante gli attacchi israeliani contro i palestinesi.

Tra gli altri esempi di disinformazione che circolano su internet figurano le false informazioni in base alle quali a Gaza alcuni palestinesi hanno organizzato falsi funerali per suscitare la compassione della comunità internazionale.

Questo video falso, pubblicato dal consigliere del ministero degli Affari Esteri israeliano Dan Poraz, mostra un gruppo di adolescenti che apparentemente stanno portando una “salma”. Improvvisamente risuonano delle sirene e gli adolescenti, compresa la “salma”, si disperdono e fuggono. In realtà queste immagini sono state girate l’anno scorso in Giordania da un gruppo di giovani che cercavano di sfuggire alle restrizioni relative al COVID-19 fingendo di organizzare dei funerali.

Poraz ha condiviso questo video con l’hashtag “Pallywood” (combinazione delle parole Hollywood e Palestina), un concetto molto dannoso sostenuto dalla destra filo-israeliana che intende cínicamente accusare i palestinesi di drammatizzare la loro sofferenza per attirare i favori della comunità internazionale.

Un altro esempio di internauti che spacciano notizie false per associare i gazawi a “Pallywood”: la condivisione di un video che dovrebbe mostrare dei palestinesi mentre disegnano false ferite provocate dagli attacchi israeliani con l’aiuto di cosmetici. Queste immagini condivise la settimana scorsa sono state in effetti rintracciate nel 2018 e sono state girate nel quadro di un reportage su artisti palestinesi del trucco.

Nelle ultime settimane sono emerse anche due notizie filopalestinesi false. Il New York Times ha informato che alcuni media arabi hanno erroneamente associato immagini che mostravano ebrei che a Gerusalemme si stracciavano le vesti in segno di devozione con affermazioni secondo le quali simulavano delle ferite. Il Times ha scoperto che quel video era circolato varie volte in precedenza quest’anno.

Nel contempo una pubblicazione Facebook molto condivisa e che dovrebbe mostrare un giornalista che piange filmando degli avvenimenti all’interno di al-Aqsa [moschea di Gerusalemme, ndtr.], di fatto mostrava un fotografo irakeno durante una partita di calcio nel 2019.

3. Propaganda israeliana

Nel corso delle ultime due settimane gli account israeliani ufficiali sulle reti sociali, soprattutto quelli relativi all’esercito, sono stati utilizzati per condividere messaggi di propaganda altamente provocatori, spesso incendiari.

Mercoledì 12 maggio l’account Instagram in ebraico dell’esercito ha festeggiato la distruzione di un edificio civile a Gaza con uno meme prima e dopo.

Anche l’account Twitter @IDF ha condiviso in varie occasioni immagini di edifici bombardati dall’esercito israeliano a Gaza, in particolare un immobile che ospitava giornalisti di Al Jazeera, dell’Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.] e di Middle East Eye. Queste immagini sono quasi sempre accompagnate da affermazioni secondo le quali gli edifici ospitavano attività di intelligence militare di Hamas, senza alcuna prova a suffragarle.

Il 13 maggio l’esercito israeliano ha annunciato su Twitter che, nel quadro di una più vasta campagna nel corso della quale ha informato i media internazionali che era in corso una invasione di terra, le sue forze terrestri avevano iniziato “attacchi nella Striscia di Gaza”. Tuttavia in seguito i media israeliani hanno informato che il tweet e la condivisione di informazioni avevano l’obiettivo deliberato di far credere ai combattenti di Hamas che fosse in corso un’invasione e di esporne al pericolo il maggior numero.

A causa di questo ricorso all’inganno sulle reti sociali molti hanno accusato l’esercito israeliano di fare cattivo uso delle sue piattaforme ufficiali e di “twittare dal vivo crimini di guerra.”

“Trovo inaccettabile che l’esercito israeliano utilizzi reti sociali per minacciare la gente e diffondere disinformazione quando è attivamente impegnato in azioni che si configurano come crimini di guerra,” lamenta Marwa Fatafta.

Gli attivisti dei diritti digitali hanno fatto un confronto tra il modo in cui vengono trattati dalle imprese delle reti sociali gli account ufficiali israeliani e la loro gestione degli account palestinesi.

“Ciò testimonia l’applicazione discriminatoria delle condizioni di utilizzo delle piattaforme ai loro utenti: censurano gli attivisti permettendo nel contempo alle pagine gestite dagli Stati di utilizzarle ed abusarne in funzione dei propri obiettivi politici e militari.”

Allo stesso modo numerosi osservatori hanno sottolineato le differenze tra gli account in ebraico e in inglese dell’esercito israeliano. Sull’account Instagram in ebraico dell’esercito le storie hanno la tendenza a essere aggressive e militariste e spesso includono immagini di edifici bombardati a Gaza, con l’ora e il luogo. Nel contempo sull’account in inglese il contenuto è spesso più difensivo e presenta Israele come vittima delle recenti violenze con l’aiuto di infografiche e presentazioni colorate.

In un post pubblicato sul suo account Instagram in inglese l’esercito israeliano ha ripreso un metodo di condivisione d’informazione popolare presso la generazione Y [i nati tra gli anni ’80 e ’90, noti anche come “millenians”, ndtr.] creando una serie di vignette e di fumetti per semplificare una serie di avvenimenti. A dispetto di fatti accertati, le immagini indicavano che Hamas era il solo responsabile di tutte le morti civili avvenute recentemente in Israele e a Gaza.

Nel contempo funzionari dell’esercito israeliano hanno sfruttato l’applicazione cinese per la condivisione di video TikTok riprendendo coreografie in voga per attirare il pubblico più giovane.

In particolare vari militari hanno partecipato al “Jalebi Baby Challenge “, nel corso del quale gli utenti indicano le proprie preferenze tra due emoticon. Praticamente sempre i soldati finiscono il video scegliendo una bandiera israeliana invece di una palestinese. Su un video militari israeliani scelgono l’emoticon escremento invece della bandiera palestinese e il dito medio alzato rivolto alla Palestina. In un altro esempio, che è stato oggetto di scherno, una soldatessa oppone per errore Israele alla bandiera del Sudan.

Oltre all’esercito, i messaggi di propaganda sono molto presenti anche su altri account ufficiali israeliani.

Martedì l’account Twittter ufficiale di Israele in arabo ha provocato indignazione pubblicando dei versetti del Corano accompagnati da una foto di Gaza sotto le bombe. Questo post è stato definito da alcuni critici “sadico e ignobile”.

Nel contempo l’account in inglese ha falsamente accusato la modella di origine palestinese Bella Hadid di voler “buttare in mare gli ebrei” quando si è unita allo slogan popolare filo-palestinese “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera.”

“Non è un fatto inedito che i governi cerchino di infangare quanti prendono posizione o li accusino di fare l’apologia del terrorismo o, in questo caso, dell’antisemitismo. Ciò esisteva già prima dell’era delle reti sociali,” rileva Marwa Fatafta.

Secondo la sostenitrice dei diritti digitali Israele, come altri Stati, cerca di “trollare” e perseguitare le persone per ridurle al silenzio. Tuttavia, spiega, le ultime due settimane hanno dimostrato il potere dei media digitali di “trasmettere la verità”, quando non vengono censurati.

4. “Linciaggio” programmato sulle applicazioni di messaggistica

Oltre alle applicazioni per la condivisione di contenuti, le piattaforme di messaggistica istantanea sono state criticate per aver   presumibilmente contribuito a facilitare la violenza dei civili israeliani.

La scorsa settimana messaggi postati su Signal e WhatsApp che MEE ha potuto consultare mostravano che gruppi israeliani di estrema destra avevano discusso nel dettaglio la pianificazione di attacchi violenti contro cittadini palestinesi di Israele.

“Portate di tutto, coltelli, benzina,” indicava un messaggio in un gruppo di discussione battezzato “The Underground Unit” [L’unità clandestina], formata da parecchie centinaia di membri. “Non abbiate paura, noi siamo gli eletti.”

“Quando vedete un arabo accoltellatelo,” ordinava un messaggio pubblicato su WhatsApp in un gruppo denominato “Israel People Alive Haifa” [Israele popolo vivo Haifa]. “Venite con bandiere, mazze, coltelli, armi, tirapugni, assi di legno, spray urticanti, tutto quello che li può ferire. Ristabiliremo l’onore del popolo ebraico.”

In un altro gruppo di discussione, sempre su WhatsApp, un membro ha scritto: “Abbiamo bisogno di bottiglie molotov. Alla moschea. Per farli tremare. Bruceremo le loro case, le loro auto, tutto.”

Messaggi che incitavano alla violenza contro i palestinesi sono stati lanciati anche su Telegram, e di conseguenza vari utenti di Twitter hanno chiesto alle applicazioni di messaggistica di intervenire per proteggere delle vite.

“Se Telegram non reagisce rapidamente i messaggi pubblicati nello spazio digitale per incitare alla violenza contro i palestinesi continueranno a propagarsi per le strade,” sostiene Mona Shtaya.

L’azione della folla è stata esacerbata dalla diffusione di false informazioni: secondo il New York Times messaggi pubblicati su Telegram e WhatsApp indicavano che folle di palestinesi stessero preparando aggressioni contro cittadini israeliani. Nonostante questi avvertimenti nessuna violenza è stata segnalata nella zona citata nei messaggi.

Un giornalista ha paragonato questi sviluppi agli avvenimenti osservati in India nel 2018, quando la diffusione di false voci riguardanti il rapimento di bambini e l’espianto di organi avevano scatentato un’ondata di linciaggi collettivi durante i quali alcuni stranieri erano stati aggrediti ed uccisi.

Fino a domenica [23 maggio] i 116 incriminati imputati in seguito alle violenze della settimana precedente erano tutti palestinesi.

La settimana scorsa Fake Reporter, un organismo israeliano di sorveglianza della disinformazione, ha dichiarato di aver trasmesso alla polizia e ai media israeliani un rapporto dettagliato contenente informazioni su gruppi di estrema destra che utilizzano WhatsApp e Telegram per pianificare attacchi contro negozi e civili palestinesi.

La consegna di questo dossier non ha dato luogo ad alcuna misura, mentre alcuni media hanno persino risposto che non valeva la pena di parlarne in quanto non erano stati commessi delitti.

“L’incitamento alla violenza contro gli arabi e i palestinesi sulle reti social è aumentata in modo clamoroso,” afferma Mona Shtaya.

“Nel 2020 abbiamo constatato un incremento del 16% delle affermazioni violente contro gli arabi rispetto all’anno precedente (2019); inoltre un messaggio su dieci riguardante i palestinesi e gli arabi conteneva affermazioni violente,” aggiunge in riferimento all’indice annuale del razzismo e dell’incitamento all’odio creato da 7amleh.

“Telegram e le altre applicazioni non devono appoggiare la violenza contro i palestinesi o devono prendere misure per impedire la trasmissione di messaggi che incitano alla violenza, di discorsi d’odio e di razzismo dalla loro piattaforma al mondo reale.”

5. Esercito di troll appoggiato dallo Stato

Le reti sociali sono spesso utilizzate per rilevare l’opinione pubblica sulle questioni mondiali attraverso gli hashtag più condivisi e i livelli di impegno che servono da indicatori informali delle opinioni popolari.

Tuttavia queste piattaforme sono spesso utilizzate in modo più cinico per manipolare sistematicamente le conversazioni in rete.

La piattaforma israeliana in rete Act.IL è stata sviluppata nel giugno 2017 per reclutare e organizzare un’esercito di migliaia di troll incaricati di intrufolarsi nelle conversazioni in rete relative alla questione israelo-palestinese e in particolare al movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

I troll ricevono dalla piattaforma istruzioni sui contenuti filo-israeliani e anti-palestinesi da ritwittare e da “approvare”, come sulle petizioni da firmare. Ricevono anche dei modelli di commenti che sono incoraggiati a copiare e incollare nelle discussioni al riguardo.

Act.IL è stato lanciato in collaborazione col ministero israeliano degli Affari Strategici, il cui ministro ha definito il dispositivo “Iron Dome [cupola di ferro] della verità”, in riferimento al sistema antimissilistico israeliano. La piattaforma riceve finanziamenti e direttive dallo Stato israeliano. L’applicazione è descritta come un dispositivo di “astroturfing”, una strategia di relazioni pubbliche sostenuta da un governo con l’intento di indurre in errore e dare la falsa impressione di una campagna popolare spontanea.

Michael Bueckert, ricercatore e vicepresidente di “Canadesi per la giustizia e la pace in Medio Oriente”, gestisce un account Twitter che tiene sotto controllo l’applicazione Act.IL. e riferisce delle sue attività. “Uno dei principali obiettivi dell’applicazione è tenere distinte le attività dei suoi utenti dallo Stato israeliano o dalle lobby e fare in modo che l’attività filo-israeliana sulle reti sociali che mette in scena sembri spontanea e organica,” spiega a MEE.

Secondo Michael Beuckert il ministero degli Affari Strategici ha come politica lavorare con organizzazioni di facciata “per dissimulare il ruolo dello Stato israeliano”. Ritiene d’altronde che sia ragionevole credere che il governo giochi “un ruolo più importante di quanto viene presentato in pubblico nel finanziamento continuo e nelle operazioni dell’applicazione.”

Domenica scorsa l’applicazione ha organizzato una tempesta su Twitter con gli hashtag #RightToSelfDefence (Diritto all’autodifesa) e #IsraelUnderFire (Israele sotto attacco).

Nel corso delle ultime due settimane Act.IL ha anche utilizzato il suo canale Telegram per inviare delle “missioni” ai propri utenti per diffondere un discorso anti-palestinese.

All’inizio del mese, durante la violenta repressione delle forze israeliane contro i fedeli ad al-Aqsa, l’applicazione ha spinto gli utenti a commentare degli aggiornamenti in tempo reale della Reuter, dell’AFP [agenzie di stampa, rispettivamente inglese e francese, ndtr.] e del Washington Examiner [sito di notizie conservatore statunitense, ndtr.] dando la colpa ai gruppi palestinesi.

“È inaccettabile che dei fedeli innocenti, dei civili e dei poliziotti siano vittime di violenti disordini fomentati da Hamas e da Fatah. Il terrorismo non ha posto nei luoghi santi e nelle loro vicinanze,” si può leggere sotto un aggiornamento dell’AFP, dove i troll sono stati incoraggiati a diffondere opinioni simili.

Nonostante i tentativi coordinati intesi a interferire nelle conversazioni in rete, Michael Bueckert ha dei dubbi riguardo all’impatto delle ultime attività dell’esercito israeliano di troll.

“Certo, possono contribuire a diffondere argomenti di discussione importanti dell’hasbara (diplomazia pubblica israeliana) sulle reti sociali e a diffondere ampiamente la disinformazione. Tuttavia ho l’impressione che molta gente non creda più a questi vecchi argomenti,” afferma. “Le persone non tollerano più tanto un atteggiamento che in genere continua a incolpare le vittime.

Le persone iniziano ad aprire gli occhi di fronte agli orrori dell’apartheid israeliano e non vogliono avere niente a che fare con esso; nessuna applicazione potrà cambiare ciò.”

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Nel 2020 Israele ha censurato circa quattro articoli al giorno – la media più bassa nell’arco di un decennio.

Haggai Matar

7 aprile 2021 +972 magazine

Secondo stime ufficiali, il 2020 ha visto la censura militare israeliana vietare la pubblicazione integrale di 116 articoli e censurarne in parte altri 1403.

Il 2020 è stato un anno tranquillo per la censura militare israeliana. Di fatto, con una media di un solo articolo totalmente censurato ogni tre giorni, è stato per la censura l’anno più fiacco nell’arco di un decennio. Nel corso dell’anno la censura dell’esercito ha impedito che venissero pubblicati 116 articoli e ne ha censurati parzialmente altri 1403, secondo le cifre fornite dalla censura su richiesta di +972 Magazine [rivista on line indipendente gestita da giornalisti israeliani e palestinesi contrari all’Occupazione, ndtr.] e del Movimento per la Libertà di Informazione [Movement for the Freedom of Information], ONG israeliana che opera per ottenere trasparenza da parte del governo.

Questo calo di attività censoria nell’arco dell’ultimo decennio si riflette anche nel numero di servizi inviati al vaglio della censura da parte degli organi di stampa (6.421) e nella percentuale di pezzi totalmente esclusi dalla pubblicazione (1,81%). Per fare un confronto, nel 2014 – l’anno dell’ultima campagna militare su larga scala lanciata da Israele – gli organi di stampa israeliani avevano sottoposto alla censura un totale di 14.274 articoli. Quell’anno ci furono 3.122 servizi parzialmente censurati e 597 non videro la stampa (oltre il 4% di tutti gli articoli esaminati).

Tutti gli organi di stampa in Israele, così come gli autori e gli editori, sono tenuti a inoltrare gli articoli che hanno a che fare con la sicurezza e gli affari esteri alla censura militare, la quale li esamina prima della pubblicazione. La censura deriva la propria autorità dal “regime di emergenza” varato alla fondazione di Israele, che rimane in vigore ancora oggi.

Queste norme permettono al censore di respingere o censurare parzialmente un articolo sottoposto al suo vaglio – o anche uno già pubblicato senza la sua revisione, vietando al contempo agli organi di stampa di segnalare in alcun modo se il pezzo in questione è stato censurato. Tuttavia, mentre i criteri legali che definiscono la sfera di autorità della censura militare sono al tempo stesso stringenti e ampi, la decisione su quali servizi siano da sottoporre al vaglio della censura rimane nelle mani dei direttori degli organi di stampa.

Poiché la censura militare non fornisce né informazioni sulla natura dei servizi che decide di censurare, né una ripartizione mensile per organo di stampa, è difficile dedurre da che cosa dipenda il calo del numero di articoli censurati. Si può presumere che si siano verificati meno casi legati alla difesa o giudicati particolarmente sensibili durante un anno colpito dalla pandemia globale, oppure che i giornalisti abbiano riservato un’attenzione decisamente minore a ciò che non era legato al COVID. In alcuni casi i corrispondenti per la sicurezza sono stati riassegnati a seguire la pandemia, con un conseguente calo delle critiche all’apparato della sicurezza.

Persino in un anno di fiacca, un numero di intromissioni militari sui mezzi di informazione in ragione di quattro al giorno è estremamente alto, specialmente considerando che Israele è l’unico Paese al mondo che, pur definendosi una democrazia liberale occidentale, obbliga per legge i giornalisti a sottoporre al vaglio della censura gli articoli che hanno a che fare con le forze armate prima di pubblicarli.

Un’altra parte del lavoro della censura riguarda la gestione degli archivi nazionali di Israele, Siccome gli archivi sono totalmente on line e non hanno una biblioteca cartacea aperta al pubblico, il censore sta rivedendo tutto il materiale desecretato, e in alcuni casi documenti già resi pubblici sono stati nuovamente secretati.

Nel 2016, quando è iniziata la digitalizzazione, i responsabili degli archivi hanno sottoposto al vaglio della censura circa 7.800 documenti. Nel 2020 il numero è sceso a 2.940. A differenza degli articoli, il censore si è rifiutato di fornire le cifre relative al materiale di archivio censurato, rispondendo solo che “la grande maggioranza dei documenti ha ottenuto il visto alla pubblicazione senza modifiche.” Questo indicherebbe che alcuni documenti sono stati invece censurati, nonostante avessero già superato la censura interna agli archivi.

Il censore è totalmente esonerato dall’adempiere all’Israel’s Freedom of Information Act [Legge sulla Libertà di Informazione, che garantisce il diritto di cittadini e di gruppi ad ottenere informazioni detenute da pubbliche autorità, ndtr], e sebbene in anni recenti abbia volontariamente acconsentito a rispondere alle domande di +972, le sue risposte si sono progressivamente ridotte. “Esaminare l’attività della censura rendendo pubblici questi dati è estremamente importante per la tutela della libertà di stampa,” afferma Atty Or Sadan del Movimento per la Libertà di Informazione.

Nel 2006, nelle prime risposte alle nostre richieste, il censore ha dichiarato il numero dei documenti di archivio censurati, nonché quello dei casi in cui aveva richiesto agli organi di stampa di eliminare informazioni pubblicate senza previa autorizzazione (una media di 250 casi l’anno). Nonostante le nostre ripetute richieste, in questi anni non ci sono più stati forniti numeri. (Si possono trovare maggiori informazioni sulla politica di +972 nei confronti della censura a questo link).

“Le informazioni comunicate dal censore ci consentono di esaminare le tendenze delle sue operazioni e perlomeno a far sì che le sue interferenze non crescano eccessivamente. Riteniamo che la semplice pubblicazione di questa rassegna annuale crei un effetto dissuasivo [sul censore militare] e contribuisca a garantire che la decisione di censurare un articolo venga presa con cautela, senza mai dimenticare che la censura sottrae al pubblico informazioni ritenute rilevanti dal giornalista,” continua Sadan.

Il censore è totalmente esonerato dall’adempiere all’Israel’s Freedom of Information Act, e sebbene in anni recenti abbia volontariamente acconsentito a rispondere alle domande di +972, le sue risposte si sono progressivamente ridotte. Col passare del tempo, +972 non ha più ricevuto dati sul numero dei libri inviati al vaglio della censura, né dei documenti di archivio censurati, né dei casi in cui il censore ha chiesto ad organi di stampa e ad individui sui social di eliminare pezzi già pubblicati.

“Come mai le informazioni censurate rimangono nascoste al pubblico talvolta anche dopo avere cessato di essere potenzialmente pericolose?” chiede Sadan. “Il censore dovrebbe consentire la pubblicazione retroattiva di servizi censurati una volta che vengano ritenuti sicuri, per permettere al pubblico di esaminare quali siano i suoi [del censore] metodi ed il livello di restrizioni frapposti alla libertà di stampa.” Non dare risposta a queste questioni permette al censore militare di avvolgere in un alone di mistero le sue attività antidemocratiche, sottraendole al controllo del pubblico.

Nel corso dell’ultimo anno la dirigenza dell’IDF [Israel Defence Forces, le forze armate di Israele, ndtr] ha visto notevoli cambiamenti. Il generale di brigata Ariella Ben Avraham, a capo della censura dal 2015, ha lasciato il posto nel 2020 per entrare, pare, nel gruppo NSO, l’estremamente controversa compagnia israeliana specializzata in sicurezza informatica che vende programmi di hacking ai governi di mezzo mondo ed è stata più volte accusata di complicità in intercettazioni abusive. Ben Avraham è stato sostituito dal colonnello (riservista) Eyal Samuelov come capo agli interim per sei mesi, e a questi è poi subentrato Doron Ben Barak, l’attuale censore capo delle Forze Armate. Purtroppo sembra che Ben Barak abbia scelto di perseguire la stessa politica di chi lo ha preceduto: limitare la diffusione al pubblico di informazioni sulla censura militare.

Haggai Matar, attivista politico e giornalista pluripremiato, è stato anche direttore generale di “972 – Advancement of Citizen Journalism,” la onlus che pubblica +972 Magazine.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Una delle migliori musiciste di Israele canta della guerra per liberare la Palestina

Ben Shalev

27 dicembre 2020 – Haaretz

La musica di Amal Murkus viene trasmessa di rado nelle radio israeliane. ‘Pago il prezzo di essere una persona libera’, dice a Haaretz prima dell’uscita di un nuovo album

È stata una giornata molto produttiva per Amal Murkus. Nel pomeriggio la cantante ha fatto un video di sé stessa mentre legge un libro per bambini nella sua casa a Kafr Yasif e lo ha inviato ad un’organizzazione tunisina che incoraggia i bambini alla lettura. Alla sera è andata in uno studio al Moshav [comunità agricola cooperativa sionista, ndtr.] Even Menahem per essere ripresa mentre canta la canzone popolare palestinese “Bahalilak”, che ha inviato in Cile per una serata in occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese del 29 novembre.

Murkus ha approfittato della sessione di registrazione per fare un’altra cosa: registrare nuovamente la traccia vocale di un singolo che ha prodotto, non a caso, quella stessa domenica 29 novembre.

Non ero soddisfatta della mia prestazione”, ha detto. “Sfumature: volevo migliorarla. Volevo che l’inizio fosse energico e al tempo stesso lento.”

Sembra una sfida quasi impossibile, ma Murkus è una cantante straordinaria, una delle migliori in Israele. Due dei suoi album, “Nana ya Nana”, (2007) e “Baghanni” (2011), secondo me sono tra i più belli usciti qui negli ultimi 15 anni.

La nuova canzone di Murkus, intitolata “Dola”, si basa su una poesia scritta da Samih al-Qasim all’ inizio anni ’70. La maggior parte delle sue poesie sono state scritte in arabo letterario. Murkus ne ha interpretata una nel suo album precedente, “Fattah al Ward”. “Dola” è stata scritta in dialetto.

C’è un motivo per questo. La poesia si basa su un gioco di parole con il termine “dola”, che significa Paese – e nel dialetto egiziano significa “quelli”, nel senso di “quella gente”. Quindi Murkus canta così: “Dola – mi hanno confusa/Dola – mi hanno fatta impazzire/Mi hanno privata della mia terra – Dola/Hanno calpestato la mia dignità – Dola/Mi hanno detto di stare zitta, di non fiatare/ in nome della sicurezza dello Stato.”

Dola” nel senso di “quelli” e “Dawla” nel senso di “Stato” in arabo sono scritti in modo differente. Quasi tutti i “dola” nella poesia di al-Qasim sono scritti nel primo significato: “Quella gente mi ha privato della mia terra/Quella gente ha calpestato la mia dignità.” Ma poiché i “dola” hanno lo stesso suono, gli ascoltatori di lingua araba percepiscono anche l’altro significato – lo Stato mi ha denegato, lo Stato ha calpestato la mia dignità. “Dawla”, scritto nel modo che significa “Stato”, compare solo una volta nella poesia – nelle frasi “Mi hanno detto di stare zitta, di non fiatare/In nome della sicurezza dello Stato.”

Murkus, nata nel 1968, è la figlia di Nimr Murkus, che per molti anni è stato capo del consiglio locale di Kafr Yasif ed era amico del poeta al-Qasim. Lei era una bambina quando al-Qasim scrisse la poesia. “Ricordo la poesia da allora”, dice. “Ho visto Samih recitarla durante una manifestazione per il primo maggio a Kafr Yasif. Era sul palco e leggeva la poesia, e la gente si entusiasmava, agitando le mani, caspita!”

Secondo Murkus “Dola” non è rimasta confinata all’ambito politico, bensì è diventata anche una canzone per i matrimoni. “Per via della melodia”, spiega. “Ha un timbro molto ritmico, in stile egiziano.” La musica fu composta (sotto la direzione di al-Qasim) da Rajab al-Suluh che, oltre ad essere un suonatore di oud, era il padrone del ristorante ad Haifa dove scrittori e editori del giornale Al-Ittihad [il primo giornale israeliano in lingua araba e di proprietà del Partito Comunista, ndtr.] solevano passare il tempo: tra questi c’era il padre di Murkus. “Il ristorante era in via Hahar”, ricorda. “Ora si chiama viale HaTzionut (Sionismo).” (In realtà il nome di viale Hahar inizialmente fu modificato in via Nazioni Unite, per riconoscenza all’appoggio dell’ONU alla creazione dello Stato di Israele. Nel 1975, per reazione alla risoluzione che equiparava il sionismo al razzismo, fu cambiato in viale HaTzionut).

Al-Qasim voleva che la musica di “Dola” fosse “folk, semplice, ballabile e divertente, in modo che la gente potesse ridere un po’ della situazione, e forse questo l’avrebbe resa più sopportabile. Mentre lavoravo alla canzone ho intervistato persone che l’avevano cantata allora ad una rappresentazione studentesca. Samih ha detto loro durante le prove: ‘Voglio che il contenuto sia politico, ma che una danzatrice del ventre possa ballarla.’”

Il figlio di Murkus, Firas, compositore e suonatore di qanun che vive negli Stati Uniti, è l’autore del nuovo arrangiamento e della nuova produzione di “Dola”. “Ho la sensazione che questa canzone sarà molto amata”, dice Murkus. “È molto orecchiabile. Mentre realizzavamo il video c’erano persone e bambini del villaggio accanto a noi. Ho notato che dopo un po’ tutti la stavano cantando, la conoscevano già a memoria. Il ritornello si basa su un’unica parola che si ripete – dola-dola-dola. Forse gli israeliani penseranno che sto cantando qualcosa che riguarda una levatrice (doula)”, dice ridendo.

Non è che gli israeliani di lingua ebraica avranno molte opportunità di ascoltare “Dola”. Le canzoni di Murkus, sia politiche che non, sono trasmesse raramente, per non dire mai, dalle stazioni radio ebraiche.

Sei stupida’

Alla fine degli anni ’90, mentre lavorava al suo primo album, “Amal”, il produttore Alon Olearchik le suggerì di registrare una cover in arabo di una canzone popolare ebraica. “Ho detto ‘Non voglio farlo. Voglio fare una registrazione che sia la mia carta d’identità’. Lui disse ‘Sei stupida’”, dice Murkus ridendo. “Non lo rimpiango. Non ho trasformato la mia arte in un prodotto. Non sono un’esca per le regole del mercato. Quando penso a cosa devo cantare non faccio nessun calcolo. Sono una persona libera ed ho pagato un prezzo per questo, sia nella società araba che in quella israeliana.”

Poco dopo la sua uscita, “Dola” è stata trasmessa qualche volta su Makan, la stazione radio di lingua araba dell’emittente pubblica Kan. Makan ha trasmesso anche una canzone politica esplosiva da lei prodotta, “Shiye Fil Harav”, ma in versione depurata. È una canzone contro la guerra scritta da Tawfik Zayyad, che termina con queste parole: “Dedico la mia voce ad una sola guerra – la guerra di liberazione.”

Si riferiva alla liberazione della Palestina, la liberazione dei territori occupati”, dice Murkus. Dice che Kan ha messo in dissolvenza la canzone prima del verso esplosivo. Lei non ha protestato contro la censura. “Non ho alzato la voce”, ricorda. “A volte dico che è meglio di niente. Va bene, l’hanno trasmessa. Capisco.”

Dola”, nonostante la sua connotazione politica, è meno dura e molto meno esplicita.

Non viene citato Israele. Non viene citata la Palestina”, dice. “Ognuno dovrebbe chiedersi ‘qual è il Paese che ha espropriato terre? Quale Paese ha calpestato la dignità umana? È forse la Turchia? O il Mandato britannico? Quali altri Stati sono occupanti? Forse gli Stati Uniti? La canzone non lo dice. È una canzone divertente, gradevole, allegra, leggera, ma con un messaggio. È una canzone da cabaret, come quelle di Brecht. Una canzone satirica. Chi più del popolo ebraico può capire l’importanza della satira?”

Il video si apre con Murkus e sua madre, l’attivista Nabiha Murkus, che si aggirano tra vecchi quadri nello studio di suo padre, morto otto anni fa. C’è appeso un ritratto di Lenin. “Questo è pericoloso, vero?”, dice Murkus.

Non credo. Però sembra anacronistico.

Okay. Questo è ciò che c’è in casa. È così che sono cresciuta. La nostra casa era piena di simboli marxisti. Lo studio di mio padre è rimasto quasi così com’era. Ci sono ancora persino le sue ultime sigarette.”

Sua madre ha 81 anni e non è più in grado di partecipare alle manifestazioni come ha fatto per tutta la sua vita. Continua ad essere attiva su Facebook.

Nel video si vedono Murkus e sua madre con in mano una vecchia foto di Samih al-Qasim che parla in piazza. Poi Murkus esce con un gruppo di uomini, donne e bambini nelle strade di Kafr Yasif, dove distribuisce volantini dal titolo “Libertà per le nazioni”.

È un scorcio della storia della mia vita”, dice Murkus. “Sono cresciuta in una casa di attivisti. La mia arte è sgorgata dalla combinazione di due fattori: la musica e l’arte per puro amore, ma anche il portato di ciò che sta avvenendo al mio popolo, di ciò che desidero in quanto donna araba-palestinese ed anche di ciò che avviene nel mondo.

Da ragazza distribuivo volantini, andavo all’associazione per la pace a Kafr Yasif, impaginavo il giornale “Al-Ittihad” e lo distribuivo, andavo nel villaggio arabo Arab al-Aramshe con la rivista culturale “Al-Rad”. Israele non ci prestava attenzione. A scuola non insegnavano la nostra storia. Noi, come minoranza, abbiamo creato letteratura, giornalismo, cultura.”

La narrazione che Murkus esprime nella sua arte è sempre in contrasto con quella israeliana, ma questa non è la sola lotta che lei conduce. Per anni ha combattuto le forze islamiche nella società araba ed in anni recenti si è anche scontrata con il movimento palestinese di boicottaggio.

Successe cinque anni fa, quando il gruppo musicale “Not Standards”, che interpreta in jazz canzoni di musicisti israeliani di primo piano, contattò Murkus offrendole di fare uno spettacolo incentrato sulle sue canzoni. Lei era gratificata dal riconoscimento del suo lavoro da parte dei giovani musicisti jazz ebrei. Ma poche settimane prima dello spettacolo un rappresentante del movimento di boicottaggio la contattò dicendo che se non avesse annullato l’esibizione il movimento l’avrebbe denunciata.

Gli dissi che avrei deciso da sola se cantare o no”, dice. “Gli ho anche detto ‘Non mi avete mai chiamata per congratularvi con me. Perché mi chiamate adesso?’ Capisco questa trappola. Il movimento di boicottaggio dice agli artisti occidentali ‘Non venite in Israele’ e io lo giustifico. È uno Stato di apartheid, uno Stato di occupazione. Ma l’artista palestinese è in difficoltà. Vuole esibirsi, vuole guadagnarsi da vivere. Arriva questo grande gruppo musicale e dice ‘Prendiamo le tue canzoni, con le loro strofe di protesta, comprese le canzoni che parlano del ritorno dei rifugiati.’ Come potrei rifiutare una cosa del genere?” E ha fatto lo spettacolo.

A causa delle circostanze, l’ultima esibizione di Murkus è stata a febbraio.

Da luglio non ho più guadagnato un soldo”, dice. “Sono preoccupata perché non ho la pensione. Ora questo mi addolora”, dice. Dopo pochi istanti si riprende ed aggiunge: “C’è disperazione, ma penso che disperarsi sia un privilegio. Ci sono donne assassinate per strada, persone che vivono in villaggi non riconosciuti, rifugiati che combattono per la sopravvivenza. Ovviamente capisco perché la gente si deprime, ma non vi ci si può crogiolare.”

Quest’estate ha organizzato un gruppo di artisti palestinesi di Israele specificamente per aiutare gli artisti durante la crisi del coronavirus, e più in generale per ‘svegliare’ i loro simili, unirli e promuovere la consapevolezza pubblica delle difficoltà che attraversano, indipendentemente dalla pandemia. Poiché le canzoni dei musicisti palestinesi non sono trasmesse dalle radio israeliane, dice Murkus, bravissimi cantanti sono costretti ad esibirsi durante i matrimoni. Non è questo il modo di creare una cultura musicale.

Una notte in cui ero a casa e in preda alla frustrazione per la situazione della cultura e delle arti ho iniziato a scrivere slogan. Uno dopo l’altro”, dice. “Ho scritto: ‘L’arte è anche un cesto di cibo’. Ho scritto: ‘L’arte rafforza il sistema immunitario’. Ho scritto: ‘L’arte non è una pandemia’. Ho lanciato un gruppo WhatsApp. In due giorni avevo 300 persone nel gruppo. Ho lanciato un altro gruppo e l’ho chiamato Movimento di protesta delle arti.”

Non è la mia protesta

Quando degli artisti ebrei hanno protestato contro il piano del governo di cancellare i sussidi alla cultura, Murkus si è unita alla protesta davanti alla casa del ministro della Cultura. “Ma poi hanno cantato (l’inno israeliano) ‘Hatikva’ e prima di ciò uno dei direttori culturali si è messo a parlare di suo figlio che fa il militare nella Brigata Golani. Me ne sono andata. Sentivo che non era la mia protesta”, dice.

Lei ed altri hanno programmato una manifestazione ad Haifa, ma quattro giorni prima della manifestazione c’è stata l’esplosione al porto di Beirut che ha ucciso più di 200 persone. “Ho cominciato a fare telefonate: ‘Annullate la manifestazione, fate invece una commemorazione’, ricorda Murkus. Si è rifiutata di partecipare ed ha aggiunto uno slogan: ‘Da Haifa a Beirut – Amore’.

Abbiamo aperto la serata con un minuto di silenzio ed una canzone di Fairuz. Poi ci sono stati interventi ed alla fine la gente si è lanciata in una debka (danza popolare). Quando le persone hanno incominciato a tenersi per mano un poliziotto ha detto: ‘Questo non va bene’. Gli ho detto: ‘Lasciateli fare, è da febbraio che non cantano’.”

Murkus dice che la protesta è stata “un momento importante”, ma quando ha cercato di farlo durare ha riscontrato indifferenza tra i suoi colleghi artisti. “Non erano disponibili, improvvisamente tutti erano concentrati su se stessi”, dice amaramente.

Dal punto di vista creativo, Murkus dice che sta evolvendo e si sente molto ispirata. “Ringrazio dio”, dice e poi ride. “Sono atea. Ringrazio la vita”. Ha otto nuove canzoni già pronte e farà presto uscire un nuovo album. “Invece di cucinare faccio canzoni. Sono pazza. La mia cucina è un disastro.”

Dola” è il secondo singolo del suo album in uscita. Il primo, “Nas” (Popolo), scritto e composto da suo figlio Firas, ha uno spirito vicino al jazz. È una canzone complessa, coontorta, contemplativa. “A volte sento come se dentro di me ci fosse una cantante rock che non è ancora emersa. A volte una cantante jazz. Un milione di cose”, dice. Sostiene che un documentario su di lei adesso la fa sentire vecchia. Così si è sentita anche quando Firas ha composto “Nas” su note basse. “Gli ho detto: ‘Che cosa stai insinuando, che sono diventata vecchia? Posso cantare con lo stesso timbro con cui cantavo nel 1995.’ Ma la verità è che a volte mi sembra che la mia voce non abbia la stessa brillantezza. E allora? È come avere qualche capello grigio o qualche chilo in più. Non c’è problema.”

Nas” non ha una valenza politica. È una canzone sull’osservare la gente. “L’ha scritta Firas, non io, ma quando canto immagino qualcuno seduto in un bar ad Haifa, che guarda i bambini che giocano e si accorge che qualcosa non va. È così che mi sento in questo periodo. C’è una disunione tra la gente. Le coppie non vogliono impegnarsi. Tutto è precario. La gente investe nel farsi i muscoli della pancia, gli addominali, nel Botox, nelle camminate, nell’alimentazione, nell’arte culinaria. Non investe nei rapporti. Ed io penso che dobbiamo investire nei rapporti. Parlare, abbracciare: ciò produce resilienza.”

E pensi che sia diverso da come era in passato?

Sì. Questa non è un’epoca di amore”.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




In Austria censura contro film sul calcio palestinese

Un cinema di Vienna censura un film palestinese sul calcio

 

Ali Abunimah

5 settembre 2019 – Electronic Intifada

 

 

Gli attivisti manifestano la loro indignazione perché un cinema a Vienna ha cancellato la prima visione austriaca di un film sul calcio palestinese.

Intanto, in Canada, gli attivisti protestano contro la decisione del partito liberale al governo di escludere un candidato al parlamento sulla base di false accuse di antisemitismo.

BDS Austria, gruppo che sostiene la campagna per boicottare Israele a causa delle sue violazioni dei diritti dei palestinesi, afferma che la cancellazione della proiezione di ¡Yallah! ¡Yallah! rappresenta un caso di censura.

Diretto da Cristian Pirovano e Fernando Romanazzo, il film del 2017 è una coproduzione argentino-palestinese e racconta la storia di sette palestinesi attraverso il loro legame con il calcio.

La proiezione avrebbe dovuto avvenire martedì al cinema Artis International, seguita da una discussione con Pirovano, che è in tournée in Europa. Il film è già stato proiettato in dozzine di città in tutto il mondo.

Il co-direttore Pirovano ha condannato la censura.

BDS Austria ha dichiarato: “La cancellazione all’ultimo minuto della proiezione del film al cinema Artis, che appartiene al più grande operatore cinematografico austriaco, Cineplexx Ltd., è illegale e inaccettabile.”

Secondo il gruppo [BDS], il cinema avrebbe dichiarato: “Negli ultimi giorni abbiamo ricevuto sempre più informazioni e messaggi che sottolineavano la posizione politicamente controversa non tanto del film in quanto tale, quanto del movimento sostenuto dal BDS”.

BDS è acronimo di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, una campagna avviata dai palestinesi sul modello del movimento di solidarietà globale che ha contribuito a mettere fine all’apartheid in Sudafrica.

L’obiettivo del BDS è di fare pressione su Israele affinché rispetti il diritto internazionale ponendo fine all’occupazione militare in terra palestinese, abolendo ogni forma di discriminazione nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele e rispettando il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare in patria.

Ma nel 2018 il consiglio comunale di Vienna ha adottato una risoluzione di non collaborazione con il movimento BDS accusandolo ingiustamente di essere antisemita.

BDS Austria afferma che Artis ha citato questa risoluzione come pretesto per vietare la proiezione.

Il BDS accusa il Comune di mettere in atto “restrizioni irragionevoli e sproporzionate alle libertà di espressione e di riunione pacifica” e di “razzismo organizzato e istituzionalizzato”.

Gli attivisti hanno protestato fuori dal cinema Artis per la cancellazione di ¡Yallah! ¡Yallah !.

 

Censura draconiana

Questo incidente conferma il timore che l’adozione delle definizioni altamente politicizzate di antisemitismo volute da Israele e dalla sua lobby incoraggino una censura draconiana.

Israele e i suoi alleati stanno premendo per l’adozione istituzionale della cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, organizzazione intergovernativa per la conservazione della memoria dell’Olocausto, ndtr.], che equipara le critiche alle politiche e alle pratiche razziste di Israele al fanatismo antiebraico.

L’Austria, membro di un’Unione Europea che pretende di difendere la libertà di parola come diritto fondamentale, è un posto sempre più ostile alla libera espressione.

A marzo a Vienna persino la Conferenza Rosa Luxemburg, di sinistra, ha condannato il BDS Austria.

Lo stesso mese, il Volkskundemuseum [Museo del Folklore, ndtr.] di Vienna, su pressione dei gruppi della lobby israeliana, ha annullato un evento sui diritti dei palestinesi in cui era previsto un intervento di Ronnie Kasrils.

Kasrils è un veterano anti-apartheid ed ex ministro del governo di Nelson Mandela.

L’anno scorso, l’Università di Vienna si è piegata alle pressioni della lobby israeliana in Austria e ha vietato una conferenza pubblica di un autorevole attivista nero americano.

E nel 2017 a Vienna un hotel ha annullato la conferenza di un avvocato che si occupa  di diritti umani dopo le intimidazioni di attivisti anti-palestinesi.

 

Candidato canadese diffamato come antisemita

La scorsa settimana, il partito liberale canadese ha tolto Hassan Guillet dalla lista dei candidati alle elezioni politiche di ottobre in un collegio elettorale del Quebec.

Questo dopo che il gruppo della lobby filo-israeliana B’nai Brith Canada ha accusato Guillet di aver postato in rete dichiarazioni antisemite e anti-israeliane.

Ma Independent Jewish Voices [Voci Ebraiche Indipendenti, gruppo di ebrei contrari alle politiche israeliane, ndtr.] Canada si è indignato per la decisione.

“Dopo aver esaminato i fatti, per noi è evidente che Guillet è tutt’altro che un antisemita”, ha detto Corey Balsam, coordinatore nazionale di IJV.  “Ciò che è assolutamente chiaro è che Guillet è stato preso di mira a causa delle sue esplicite critiche a Israele e alle sue politiche”.

B’nai Brith Canada ha accusato Guillet di essersi congratulato con Raed Salah [palestinese con cittadinanza israeliana leader del Movimento Islamico in Israele, ndtr.] per la sua liberazione da una “prigione della Palestina occupata” e di aver auspicato la liberazione di “tutta la Palestina”.

Salah è un leader di spicco tra i cittadini palestinesi di Israele. Ha subito ripetutamente la prigione in Israele per la sua attività politica.

Nel 2011, le autorità del Regno Unito hanno ordinato la deportazione di Salah sulla base di false accuse di antisemitismo da parte di un gruppo britannico della lobby israeliana.

Dopo 10 mesi di battaglia legale, Salah è stato completamente scagionato da un tribunale che ha accettato “da ogni punto di vista” il suo appello contro la deportazione.

Nel maggio 2018, il giorno dopo il massacro da parte di Israele di dozzine di manifestanti disarmati a Gaza, B’nai Brith Canada ha diffuso una calunnia razzista secondo cui i palestinesi manderebbero deliberatamente i propri figli a morire per il solo scopo di scattare foto propagandistiche che mettano in imbarazzo Israele.  Eppure il gruppo pretende di combattere il fanatismo.

In Canada Independent Jewish Voices ha fortemente criticato B’nai Brith per aver citato la definizione IHRA di antisemitismo recentemente adottata dal governo liberale del Primo Ministro Justin Trudeau.  “Ovviamente la preoccupazione globale per i diritti umani dei palestinesi sta provocando serie preoccupazioni a Israele e ai suoi sostenitori”, ha detto Balsam.  “Quindi, invece di cercare di difendere le azioni di Israele – il che è praticamente impossibile – hanno optato semplicemente per etichettare chi le critica come antisemita. Come società dobbiamo andare oltre l’apparenza.”

Grazie agli sforzi di Independent Jewish Voices Canada, che ha lavorato a fianco di gruppi per i diritti dei palestinesi e di attivisti per le libertà civili, a luglio il consiglio comunale di Vancouver ha deciso di non adottare la definizione IHRA.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




Un’impennata della censura: nel 2018 Israele ha censurato in media un articolo al giorno

Haggai Matar

15 marzo 2019, +972

Lo scorso anno la censura dell’esercito israeliano ha vietato la pubblicazione di più notizie che in quasi ogni altro anno in questo decennio. Mentre meno articoli che negli anni precedenti sono stati sottoposti alla verifica, la percentuale di articoli che sono stati parzialmente o totalmente censurati è stata notevolmente più alta.

Nel 2018 la censura militare israeliana ha vietato la pubblicazione di 363 articoli, più di 6 alla settimana, mentre ha parzialmente o totalmente cancellato un totale di 2.712 notizie che le sono state sottoposte a controllo preventivo. Secondo i dati, forniti in risposta a una richiesta relativa alla libertà di informazione presentata da +972 Magazine [sito web israeliano di sinistra in inglese, ndt.], da “Local Call” [versione in ebraico di +972, ndt.] e dal “Movimento per la libertà d’informazione” [associazione israeliana per la trasparenza nell’informazione, ndt.], nel 2018 il censore ha vietato la pubblicazione di notizie più che in qualunque altro anno del decennio.

È aumentato anche il numero di notizie pubblicate con l’intervento della censura, in quanto la percentuale di informazioni censurate nel 2018 è stata più alta che in qualunque anno dal 2011. Solo il 2014 – l’anno dell’ultima guerra israeliana contro Gaza – ha visto una censura altrettanto significativa sulla stampa, quando il censore dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] ha parzialmente o totalmente cancellato 3.122 notizie e ha completamente bloccato la pubblicazione di altri 597 articoli.

Rispetto al 2017 il picco di interventi censori è significativo: nell’ultimo anno il censore dell’IDF ha impedito la pubblicazione di 92 articoli in più rispetto all’anno precedente, mentre ha parzialmente o totalmente cancellato altre 625 notizie. Negli ultimi otto anni il censore ha impedito che venisse stampato un totale di 2.661 informazioni.

In Israele viene chiesto a tutti i mezzi di comunicazione di sottoporre al controllo della censura dell’IDF gli articoli riguardanti la sicurezza e le relazioni internazionali prima della loro pubblicazione. Il censore ricava la propria autorità dalle “disposizioni d’emergenza” messe in atto dopo la fondazione di Israele e che sono rimaste in vigore fino ad oggi. Queste disposizioni consentono al censore di cancellare totalmente o parzialmente un articolo, vietando ai mezzi di comunicazione di segnalare in qualche modo se un articolo è stato modificato. Negli ultimi anni, tuttavia, sempre più giornalisti in Israele hanno utilizzato il termine “approvato dalla censura” nei loro articoli.

Negli ultimi anni il censore ha anche cercato di estendere il raggio del proprio potere per controllare informazioni prima della pubblicazione in rete, anche notificando a blogs indipendenti e a pubblicazioni digitali, come +972 Magazine, che devono sottoporre a controllo certi articoli.

Mentre i criteri giuridici che definiscono il mandato della censura militare sono sia stringenti che decisamente ampi, la decisione su quali articoli sottoporre al controllo rimane a discrezione dei direttori dei mezzi di informazione israeliani. Nel 2018 i giornalisti hanno sottoposto a controllo 10.938 articoli, meno che nell’anno precedente (11.035). La diminuzione degli articoli presentati, insieme all’aumento degli interventi censori, potrebbe indicare che i redattori hanno imparato cosa sia o non sia di reale importanza per il censore, diventando più selettivi riguardo a quello che presentano [alla censura]. Oppure la riduzione può essere il risultato del fatto che i mezzi di comunicazione pubblicano meno articoli su problemi riguardanti la sicurezza.

Mentre il censore dell’esercito israeliano non rivela quali articoli ha revisionato con maggiore frequenza, è probabile che il significativo aumento della censura lo scorso anno sia legato alle attività dell’esercito israeliano, sia palesi che occulte, contro l’Iran in Siria e in Libano, o ad articoli sulle unità israeliane in incognito nella Striscia di Gaza denunciate da Hamas lo scorso novembre.

Israele è l’unico Paese del mondo democratico in cui ai giornalisti e alle pubblicazioni è legalmente richiesto di sottoporre a controllo i propri articoli prima della pubblicazione e l’unico in cui questa censura può essere imposta penalmente. Oltretutto i poteri della censura militare israeliana si estendono al di là dei mezzi di informazione e includono l’autorità di controllare prima della loro pubblicazione e censurare libri e documenti negli archivi di Stato.

Nel 2018 gli editori israeliani hanno sottoposto 83 libri alla censura militare israeliana, di cui solo 34 sono stati approvati senza nessun intervento. Nel contempo lo scorso anno il censore ha parzialmente o totalmente censurato 49 libri. Nel 2017 sono stati presentati alla censura dell’IDF 84 libri, 53 dei quali sono stati censurati e 31 approvati.

Negli ultimi anni il censore dell’IDF ha anche controllato documenti negli archivi di Stato, presumibilmente come parte di un tentativo di rendere disponibili questi documenti al pubblico. Il personale degli archivi di Stato ha sempre usato la propria discrezionalità riguardo a quali documenti rendere pubblici e quali potessero eventualmente rappresentare una minaccia per il prestigio internazionale o per la sicurezza nazionale. Nel 2018 gli archivi di Stato hanno sottoposto a controllo solo 2.908 documenti, rispetto ai 7.770 del 2016 e ai 5.213 del 2017. La censura dell’IDF, tuttavia, ha rifiutato di comunicare il numero di documenti su cui è intervenuta.

Il censore dell’IDF è escluso dalla legge sulla libertà di informazione e quindi non è affatto obbligato a pubblicare i propri dati. Nel corso degli anni si è anche modificata l’ampiezza delle informazioni condivise. Prima che nel 2015 il generale di brigata Ariella Ben Avraham assumesse l’incarico di capo censore, eravamo abituati a ricevere risposte su quanto materiale di archivio fosse stato censurato, così come su quanto spesso i censori avessero chiesto di eliminare o modificare le informazioni che erano già state pubblicate senza essere sottoposte a controllo.

In una lettera del 2018 il generale di brigata Ben Avraham ha scritto che questi dati non sono più raccolti e di conseguenza non possono più essere divulgati al pubblico. In merito Racheli Edri, direttrice esecutiva del “Movimento per la Libertà di Informazione” ha chiesto che il censore tenga nota di questi dati e li renda pubblici in futuro, ma non ha ricevuto risposta.

Questi dettagli non sono stati inclusi nell’ultima serie di dati diffusi dal censore nel 2019.

Tutti sanno che, di questi tempi, tutta l’istituzione della censura militare deve essere in qualche modo rivista,” dice Edri. “Poiché cerchiamo di capire l’ampiezza del lavoro di revisione dei censori, ci rivolgiamo a loro con l’intesa non scritta che rispondano davvero. Tuttavia, quando non condividono le informazioni con noi, i nostri strumenti per impugnare la loro decisione sono molto scarsi, quasi inesistenti.”

Edri spiega che in un certo senso ciò crea una specie di censura doppia: “Prima loro censurano, poi non forniscono le informazioni sull’ampiezza della censura.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




La censura dell’IDF ha cancellato 1 ogni 5 articoli che controlla per la pubblicazione

di Haggai Matar – 26 settembre 2016

+972 Magazine

La censura militare israeliana ha cancellato, del tutto o in parte, oltre 17.000 articoli dal 2011. Mentre pochi articoli sono stati censurati nel 2015 e nel 2016, la nuova censura dell’IDF (esercito israeliano) sta tentando di censurare con allarmante frequenza informazioni già pubblicate.

La censura militare israeliana ha totalmente proibito la pubblicazione di 1.936 articoli e ha cancellato alcune informazioni da 14.196 articoli negli ultimi 5 anni. Ciò significa che 1.936 articoli che giornalisti professionisti e persone che hanno pubblicato notizie ritenute di pubblico interesse su internet non hanno mai visto la luce.

In effetti la censura dell’IDF ha eliminato almeno qualche informazione da uno su cinque degli articoli che le sono stati presentati dal 2011, secondo dati forniti dall’esercito israeliano su richiesta di “+972 Magazine”, del suo omologo in ebraico “Local Call” e del “Movimento per la Libertà di Informazione”.

Sotto il nuovo capo della censura dell’IDF, entrato in carica lo scorso anno, c’è stato un notevole incremento nel numero di casi in cui l’ufficio della censura ha contattato persone che hanno pubblicato notizie con richieste di modificare o eliminare articoli che erano già stati pubblicati – circa il doppio del numero di tentativi di interventi censori dopo la pubblicazione rispetto agli scorsi anni. Allo stesso tempo, la nuova censura dell’IDF sta intervenendo leggermente meno su articoli sottoposti al suo ufficio per essere controllati prima della pubblicazione.

Dall’inizio del 2011, gli anni che hanno visto la maggior presenza di interventi censori sono stati quelli in cui Israele era impegnato nella guerra contro la Striscia di Gaza. I più alti tassi e frequenze di censura hanno avuto luogo nel 2014, l’anno dell’operazione “Margine Protettivo”, e il secondo livello più alto è stato nel 2012, l’anno dell’operazione “Pilastro di Nuvola”.

Inoltre i dati confermano che l’ufficio della censura dell’IDF proibisce la pubblicazione di documenti e materiali dell’Archivio di Stato, che sono già stati approvati per la pubblicazione, e alcuni dei quali sono già stati divulgati.

La censura militare israeliana nel territorio di Israele trae la propria autorità da regolamenti d’emergenza istituiti durante il periodo del Mandato Britannico, molti dei quali sono rimasti nei codici israeliani per oltre 70 anni.

Mentre altri Paesi hanno meccanismi formali per chiedere che i giornalisti si astengano dal pubblicare certe informazioni relative alla sicurezza nazionale, Israele è l’unico tra gli Stati democratici occidentali che abbia una censura statale giuridicamente vincolante. Da nessun’altra parte dei materiali acquisiti devono essere sottoposti ad un controllo preventivo.

In Israele ai mezzi di comunicazione, recentemente estesi per includere blog e siti web indipendenti (come +972 Magazine), è richiesto di sottoporre al controllo della censura dell’IDF ogni articolo che rientri nell’ampia lista riguardante argomenti legati alla sicurezza nazionale ed alle relazioni internazionali. La censura può proibire in parte o del tutto un articolo. Ciò detto, la decisione di quali articoli e notizie sono sottoposte alla censura per un controllo è presa di volta in volta dalle organizzazioni dell’informazione e dagli stessi redattori. Tuttavia, una volta che un articolo è stato censurato dall’esercito, al giornalista viene vietato di rivelare quale informazione è stata eliminata, o persino di indicare che un’informazione è stata censurata.

Ad incrementare la mancanza di trasparenza è il fatto che la censura dell’IDF è tecnicamente parte del settore dell’intelligence. A causa di questa posizione istituzionale, “non è sottoposta alle leggi sulla libertà di informazione”, spiega l’avvocato Nirit Blayer, direttore esecutivo del Movimento per la Libertà di Informazione. “Ciononostante la persona incaricata della libertà di informazione nell’IDF ha la tendenza a rendere pubblico tutto ciò che può essere pubblicato.” Pertanto abbiamo ottenuto l’informazione richiesta rapidamente e senza molte difficoltà.

Questi sono i dati:

Tra il 2011 e l’agosto 2016 da 13.000 a 14.000 articoli sono stati sottoposti ogni anno alla censura dell’IDF per un controllo preventivo. Durante il 2011 e il 2013, dal 20 al 22% degli articoli sottoposti a controllo da parte della censura dell’IDF sono stati in parte o del tutto cancellati, anche se nella stragrande maggioranza dei casi solo una o più parti dell’articolo sono state bloccate per la pubblicazione.

Nel 2014 c’è stato un aumento significativo nella frequenza della censura, spiegabile per lo più con la guerra a Gaza di quell’anno. Degli articoli sottoposti al controllo previo dal censore in quell’anno, il 26% (3.719 articoli) è stato parzialmente o totalmente bloccato (il 22% è stato parzialmente cancellato, il 4% totalmente censurato).

Nei ultimi due anni, tuttavia, c’è stata una lieve riduzione della percentuale di articoli che sono stati modificati o censurati. L’ufficio dell’IDF ha parzialmente o totalmente censurato il 19% degli articoli sottoposti a controllo previo per la pubblicazione. Dall’inizio del 2016 ad agosto questo numero è sceso ulteriormente al 17% – il livello più basso di interventi censori negli ultimi cinque anni e mezzo.

Tuttavia, fin dall’inizio della sua nomina come attuale censore dell’IDF nello scorso anno, il colonnello Ariella Ben-Avraham ha esteso il raggio di competenza della censura dell’IDF, con una particolare attenzione alle pagine Facebook e ai blog che si qualificano come pagine di notizie o media. Alla fine del 2015 ha contattato decine di queste pagine Facebook ( compresa quella di +972 Magazine) ed ha inviato loro un ordine militare di censura chiedendo di presentare i materiali importanti prima della pubblicazione.

Ora è evidente che la politica aggressiva di Ben-Avraham non si limita a chiedere di sottoporle i materiali. L’attuale ufficio censura dell’IDF si è anche attivato per cercare di rimuovere, in parte o totalmente (i dati che abbiamo ricevuto non fanno distinzione) materiali che sono già stati pubblicati.

Tra il 2011 e il 2013 la censura dell’IDF ha chiesto la cancellazione di materiali già pubblicati, mediamente 9, 19 e 16 volte al mese, e 37 volte al mese nel 2014 (durante la guerra). Nel 2015, un anno in cui non ci sono state guerre, la censura dell’IDF ha contattato gli editori mediamente 23 volte al mese con richieste di eliminazione di contenuti già resi pubblici. Finora nel 2016 (fino ad agosto) questo numero è salito a una media di 37 volte al mese, lo stesso numero che durante la guerra, o, in altre parole, con una frequenza di circa 2 volte superiore rispetto al 2012.

Il censore ha anche rivelato che tra il 2014 e il 2016 circa 9.500 files degli Archivi di Stato riguardanti la sicurezza nazionale sono stati sottoposti a controllo. Secondo il censore, circa lo 0,5% di questi documenti sono stati parzialmente o totalmente censurati. Non è chiaro quanti singoli documenti fossero contenuti nei 9.500 files.

L’ufficio della censura dell’IDF, in risposta alle nostre domande, ha affermato di non avere mai interpellato servizi di notizie on line o media di parti terze (come fornitori di servizi internet o piattaforme di social media) per cercare di far eliminare informazioni pubblicate nonostante i tentativi di censura. Tuttavia le autorità di Israele utilizzano altri metodi di controllo del flusso di informazioni e di censura online, anche quando queste informazioni non sono state pubblicate da una persona sotto giurisdizione israeliana, come è stato riportato su +972 all’inizio di quest’estate.

In quel caso, come in molti altri, lo Stato ha utilizzato un altro sistema per bloccare la pubblicazione di informazioni che intendeva rimanessero segrete – ordini giudiziari riservati. Gli ordini riservati sono emessi da giudici, spesso senza molte discussioni e quasi sempre senza tenere alcun conto dell’interesse dell’opinione pubblica a saperlo. Il numero e la frequenza degli ordini giudiziari riservati in Israele sono aumentati notevolmente negli ultimi anni.

Il numero di questi ordini emessi dai tribunali israeliani è più che triplicato negli ultimi 15 anni, secondo una ricerca che verrà presto pubblicata condotta da Noa Landau, giornalista dell’edizione inglese di Haaretz, durante una borsa di studio presso il “Reuter Institute” di Oxford lo scorso anno. Raccogliendo dati della polizia israeliana, del sistema giudiziario, dell’esercito israeliano e di Haaretz, Landau ha scoperto che, solo negli ultimi 5 anni, il numero di richieste in base ad ordini riservati è aumentato del 20% circa.

Così, mentre il censore dell’IDF – con l’eccezione del periodo di guerra – sta mantenendo l’uso dei propri poteri a livelli che rimangono relativamente costanti, e in una certa misura persino riducendoli, le autorità israeliane hanno trovato una scappatoia negli ordini giudiziari riservati.

Tuttavia la parte di informazioni che manca in questo quadro è l’autocensura. Quanto spesso giornalisti e redattori decidono da soli di non indagare, verificare o scrivere in merito ad argomenti sensibili perché ritengono che la censura militare o un giudice impediranno la pubblicazione del loro articolo? Quante vicende scompaiono semplicemente in questo modo ogni anno? Non lo sapremo mai.

Michael Schaeffer Omer-Man ha contribuito a questo articolo. Una versione in ebraico di questo articolo è comparasa anche su “Local Call”.

(traduzione di Amedeo Rossi)