Un viaggio diventato un calvario

Dima Ghanim

26 aprile 2021 WeAreNotNumbers

È difficile viaggiare nel deserto del Sinai in agosto, zanzare e particelle finissime di sabbia trasportate da folate di vento bollente caldo entrano nella macchina. Il sole allunga le sue braccia ardenti che si infilano dentro la gabbia metallica e opprimono i nostri corpi sudati.

Il taxi guadagna velocità, ma appena le gomme stridono per l’entusiasmo, i freni rispondono con un altro stridio e la velocità si riduce rapidamente: un altro checkpoint. Il motore dell’auto ottiene un riposo sgradito ogni cinque minuti, quando ci imbattiamo in un posto di blocco dopo l’altro.

Guardo fuori dal finestrino posteriore e seguo la nostra lenta avanzata. Punti di domanda volteggiano nell’aria torrida. Quanto ci vorrà prima che le gomme della macchina fondano? Abbiamo percorso abbastanza chilometri così il viaggio non si prolungherà durante la notte?

Le peculiari abilità degli autisti di confine

Gli autisti di confine non sono come quelli di taxi. Sono sempre in lotta con il tempo, passano giornate o settimane lontano dalle loro famiglie, in una corsa per portare e prendere passeggeri. Sanno a memoria i livelli di difficoltà di ogni checkpoint. Li vedo afferrare i loro cellulari e comunicarsi l’un l’altro i nuovi ordini sulle strade. Hanno i loro trucchi per trattare con i soldati dei checkpoint.

Il piano B può essere un’alternativa se sei disposto a correre il rischio di deviare dalla strada principale. Qualche volta si suggerisce di prendere un’altra via, cosa che può essere facilmente rifiutata se ci va troppo tempo e se nel viaggio di ritorno non ci sono passeggeri paganti. Funziona così per tentare di sfruttare ogni istante.

Mi dispiace per voi,” dice l’autista egiziano, interrompendo il silenzio. “Che dio vi assista in quello che state subendo. Tempo fa di solito portavamo i passeggeri dal valico di confine di Rafah al Cairo in cinque ore.” [valico tra Gaza e l’Egitto, aperto sporadicamente dalle autorità egiziane, ndtr.]

Le scene folli al confine

Sei ore prima al confine egiziano, le persone sembravano uno stormo di uccelli che sbattevano le ali. Si affollavano nello stanzone dell’attraversamento di Rafah, attenendosi al protocollo in maniera concertata, cercando di conservare la risorsa principale del loro viaggio, il tempo.

I miei familiari avevano ognuno un compito: compilare i nostri documenti di viaggio, fare la fila, ottenere i timbri e stare attenti ai bagagli. Dopo aver consegnato i passaporti, c’era solo da aspettare. L’attesa diventava sempre più insopportabile con i nuovi arrivati che si ammassavano nella sala e la torre sempre più alta di passaporti impilati davanti agli ufficiali. 

Finalmente uno si è alzato per chiamare i nomi di quelli i cui passaporti erano stati timbrati, la gente è saltata su dalle sedie o si è bloccata sorpresa mentre si aggirava nell’ufficio (non si erano mai allontanati per paura di non sentire quando il proprio nome sarebbe stato chiamato). Per quelli non ancora chiamati è cominciata un’altra condanna all’attesa, mentre quelli che avevano sentito la chiamata della salvezza erano liberati dalla gabbia. Ma non erano completamente liberi, anche se avevano provato la gioia di avanzare fino alla gabbia successiva.

Comunque la gioia poteva rapidamente essere strappata via. Una signora, la cui famiglia era stata costretta nel 1948 a fuggire da Giaffa, la propria patria, per andare in Siria, per poi scappare dalla guerra in Siria per subirne un’altra a Gaza, aveva optato per un altro scenario per il futuro dei figli. Dopo una lunga notte di attesa e speranza, lei, i suoi quattro figli (incluso quello che stava scalciando nella sua pancia, impaziente di vedere la luce) e l’anziana mamma avevano avuto autorizzazione di incamminarsi sul loro incerto futuro. Ma era destinata a portare questa responsabilità da sola, perché al marito era stato vietato di unirsi a loro.

No! Non me ne andrò senza di lui!” gridava a squarciagola. 

 “Dovete andare,” ha detto tranquillamente il padre alla sua famiglia. “Non preoccupatevi. Io vi seguirò fra poco.” Controllava la propria disperazione, i bambini si aggrappavano al loro papà con calde lacrime salate che scorrevano sulle loro guance rosate.

I palestinesi hanno provato ogni tipo di perdita al punto che non sono più in grado di esprimerla a parole. Ironicamente, ai loro occhi, determinazione e paura della perdita racchiudono tutto. L’ho visto negli occhi della nonna. Erano come un rubinetto non completamente chiuso con gocce pesanti che si accumulavano sull’orlo e poi cadevano. Uno dei bambini le si era avvicinato e le picchiettava la mano che sembrava una pergamena, fissandola negli occhi senza dire una parola. Il piccolo affetto da autismo aveva dei problemi a comunicare, ma aveva provato empatia verso le sofferenze e l’infelicità di un altro essere umano e stava manifestando compassione con il linguaggio più semplice ed espressivo.

Confini e checkpoint sono una parte integrale di ciò che siamo come palestinesi. Possono aprire le porte all‘opportunità di far parte del mondo e di testimoniarne la diversità. O possono buttare la chiave della porta in acque profonde, rimandandoci indietro con cuori pesanti di delusione. In entrambi i casi, confini e posti di blocco restano un modo sicuro e crudele di ricordare occupazione e blocco.  

Sulla nostra lunga, lunga strada

Dopo dodici ore di attesa al confine, avevamo i nostri passaporti timbrati e ci siamo avviati in taxi per Il Cairo, sapendo di avere davanti a noi altre sfide e molte altre ore. “Non pensare. Ignora tutto quello di cui sei stata testimone, come se questa giornata non fosse mai esistita,” dice mio padre, assurdamente.  Essere un palestinese significa adattarsi a ogni difficoltà in cui ci imbattiamo. Impariamo ad acclimatarci al cambiamento del labirinto di sentieri e programmi: se davanti a te c’è un muro, scava e riappari dall’altro lato come un mago. Noi affrontiamo con cuore risoluto ogni difficoltà che ci si presenta.

Ora, dopo quattro ore di fermate e ripartenze, di viaggi da checkpoint a checkpoint, abbiamo raggiunto quello più difficile che dovevamo attraversare prima di mezzanotte per non dormire in macchina fino alla mattina dopo. Una fila di auto era ferma in attesa del proprio turno di un’ispezione dettagliata il che significava che sì, avremmo passato la notte qui.

La mattina dopo quando siamo ripartiti, ho deciso di liberarmi di tutti i pensieri negativi guardando un film che avevo scaricato: “Schindler’s List”. Ho accettato il consiglio di mio padre e mi sono distratta dalIa corsa piena di interruzioni guardando questo film e pensando alla tragedia vissuta dagli ebrei tedeschi. Il protagonista, Oscar Schindler, piange per non aver venduto tutti i suoi beni e aver riscattato una vita in più perché sfuggisse a una morte inevitabile. L’Olocausto è considerato il più noto esempio di pulizia etnica fomentata da nazionalismo estremista nella storia. Ma, come palestinesi, noi siamo esposti quotidianamente a successive ripetizioni di pulizia etnica. Il più recente di tali progetti è il trasferimento degli abitanti di Sheikh Jarrah [quartiere arabo della città occupata, ndtr.] a Gerusalemme, per ordine del tribunale israeliano in favore dei coloni. Quello che sta succedendo a Sheikh Jarrah è un frammento di una visione più ampia per cancellare i palestinesi dalla terra tramite l’occupazione. L’occupazione sfrutta l’Olocausto per i propri scopi politici di oggi e maschera i feroci atti odierni compiuti contro il popolo nativo.

Io non so da quanto tempo questi pensieri mi girano per la testa. Tuttavia, il rumore del motore dell’auto mi riporta alla realtà. Fa ritornare la gioia di essere in viaggio. Ma altrettanto improvvisamente, il rumore cessa. Dopo due giorni di strada per andare da Gaza al Cairo, sono finalmente all’aeroporto proprio come qualsiasi altro viaggiatore, sto godendo della libertà di tenere in una mano il biglietto dell’aereo e nell’altra l’euforia.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I pericoli della guida sotto l’apartheid israeliano

Izzy Mustafa

26 giugno 2020 – +972 Magazine

“Non mandare su di giri il motore. Tieni le mani sul volante. Non guardare bruscamente negli occhi i soldati di fronte a te. Abbassa la musica. Tieni pronto il tuo documento d’identità per il controllo. Tieni il piede sul pedale del freno. Assicurati, quando il soldato ti fa un cenno con le braccia, di non premere per sbaglio il pedale dell’acceleratore.”

Questo fa parte della lista delle cose da fare che mi viene in mente ogni volta che attraverso un posto di blocco militare israeliano in Palestina. È la routine che mio padre mi ha insegnato a 17 anni, quando ho guidato per la prima volta con lui attraverso il famigerato checkpoint di Za’atara [teatro di numerose uccisioni e ferimenti di palestinesi, n.d.tr.], vicino al villaggio della mia famiglia di Jamma’in, nella Cisgiordania occupata.

Per più di 10 anni, da allora, ho familiarizzato con le strade che collegano tutte le principali città palestinesi in Cisgiordania, dalle dolci colline di Hebron a sud, al maestoso paesaggio agricolo della Valle del Giordano, agli infiniti uliveti di Jenin a nord. Ricordo di aver schivato le buche e la gente per le strade di Kufr Aqab nei miei viaggi avanti e indietro tra Ramallah e Gerusalemme. È durante i miei viaggi da un villaggio di famiglia a un altro che ho assistito alla vorace espansione degli insediamenti ebraici nel corso degli anni.

Tuttavia ogni chilometro di queste strade comporta per i palestinesi dei rischi eccezionali.

Dobbiamo condividere le nostre strade con soldati israeliani e coloni armati. Ogni volta che percorriamo la strada, non siamo solo preoccupati di incorrere in un incidente – le corsie sono strette e non ci sono barriere sparti-traffico – ma siamo anche profondamente consapevoli che la minima mossa sbagliata da parte nostra potrebbe farci uccidere dai nostri colonizzatori.

Il regime israeliano di apartheid impone ai palestinesi nei territori occupati di guidare auto con targhe bianche o verdi, in modo da consentire agli israeliani di monitorare e controllare il movimento dei palestinesi prima ancora di rilevarne l’identità.

I cittadini israeliani, al contrario, guidano auto con targa gialla, il che permette loro di vagare liberamente in Cisgiordania e all’interno di Israele, sulla terra che lo Stato ha rubato ai palestinesi nel 1948. Anche i cittadini palestinesi di Israele e quelli che risiedono a Gerusalemme guidano auto con la targa gialla, ma sono comunque schedati sul versante razziale e sottoposti a maltrattamenti ai posti di blocco.

In un’auto con targa bianca o verde devi prendere ulteriori precauzioni e rimanere vigile in questo ambiente sottoposto a controllo razziale. Non esiste una guida piacevole nella tua terra militarizzata e occupata. Non puoi lasciare che la tua mente vaghi nella leggerezza della vita quotidiana. Non puoi fare una svolta sbagliata o finirai all’ingresso pattugliato di un insediamento coloniale israeliano. Non puoi lasciare che la tua mente ceda al torpore o potresti accidentalmente premere l’acceleratore invece del pedale del freno mentre ti trovi ad un posto di blocco.

I ricordi dei miei viaggi in Palestina si sono riaccesi quando ho saputo che Ahmed Erakat, un palestinese di 27 anni, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco dai soldati israeliani dopo che la sua auto ha sterzato finendo contro una guardiola in un posto di blocco a Gerusalemme est.

Non è ancora chiaro cosa sia successo esattamente, ma sappiamo che Ahmed stava andando a prendere i suoi familiari presso il salone di un parrucchiere a Betlemme nel giorno del matrimonio di sua sorella.

Posso solo immaginare l’ansia e la tensione che Ahmed deve aver provato. Aveva il compito di assicurarsi che tutti arrivassero agli appuntamenti in tempo, e per di più nel giorno delle nozze, quando lo stress tra i familiari non può non essere particolarmente intenso. Questi compiti diventano ancora più stressanti quando si deve avere a che fare con i posti di controllo che è necessario attraversare prima di assicurarsi che tutto vada per il meglio.

So quanto può essere intensa questa esperienza, perché è successa a me.

Il giorno del matrimonio di mio fratello, due anni fa, io, come Ahmed, ero incaricato delle commissioni. Usando un’auto a noleggio con targa verde che mi aveva prestato mio padre, quel giorno dovevo guidare tra Nablus e Ramallah più volte – un tragitto per cui si impiegano almeno 40 minuti per ciascuna direzione – per trasportare i familiari nei luoghi dei loro vari impegni. Durante tutto quel tempo il mio telefono non smetteva di squillare: o venivo sgridato per essere in ritardo o incaricato di un altro compito. L’ ansia e lo stress avevano raggiunto il massimo, divorando la mia mente.

Giunto al posto di controllo di Za’atara, invece di rallentare, ho accidentalmente premuto l’acceleratore e ho quasi invaso la fermata dell’autobus dove si trovavano alcuni coloni israeliani. Fortunatamente, sono stato in grado di azionare rapidamente i freni prima che fosse troppo tardi. So che quell’errore avrebbe potuto costarmi la vita attraverso la canna di una pistola. Sarei potuto finire come un altro “terrorista”, accusato della mia morte, dipinto come un palestinese che avesse intenzionalmente spinto la sua auto contro degli ebrei israeliani.

Agli occhi dei nostri colonizzatori e dei loro sostenitori, ai palestinesi non è mai permesso compiere un errore umano. Non possiamo permetterci il lusso di sbagliare. Per loro, cerchiamo solo la morte e la distruzione; non siamo esseri umani che hanno la stessa gamma di emozioni, stress, ansie, preoccupazioni e difetti che potrebbero causare tali incidenti. In questo sistema di apartheid, i colonizzatori devono sempre giustificare la loro occupazione militare e il furto di terra demonizzando i colonizzati.

Ogni volta che sto per mettermi in viaggio dopo aver visitato mia nonna, lei mi chiede e supplica di guidare con attenzione. So che le sue parole sono più una preghiera che una raccomandazione. Una preghiera che io non finisca coll’essere un’altra vittima come Ahmed Erakat e innumerevoli altri condannati a morte per la guida in quanto palestinesi.

Izzy Mustafa è un organizzatore [di campagne a favore dei diritti umani in Palestina n.d.tr.] palestinese che vive a Brooklyn, New York.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

 




Le forze israeliane uccidono un giovane palestinese mentre va al matrimonio di sua sorella

Akram Al-Waara

Abu Dis, Cisgiordania occupata

23 giugno 2020 – Middle East Eye

Ahmad Erekat stava andando a prendere sua madre, sua sorella e dei fiori quando gli hanno sparato a morte, dice la famiglia.

Era appena prima del suo matrimonio, e Eman Erekat stava ricevendo gli ultimi ritocchi ai capelli e al trucco nel salone di bellezza di Betlemme, quando il telefono di sua madre è squillato.

Sua madre ha risposto pensando di sentire suo figlio che diceva di essere là fuori pronto a portarle a casa. Invece ha sentito una voce dall’altra parte che le comunicava la tremenda notizia: suo figlio era stato ucciso.

Mentre stava andando a prendere sua madre e sua sorella, Ahmad, di 27 anni, era stato colpito e ucciso dalle forze israeliane al checkpoint militare ‘Container’, tra Betlemme e la casa della famiglia Erekat nella città di Abu Dis, fuori Gerusalemme est.

In una dichiarazione la polizia israeliana ha sostenuto che, quando è stato colpito, Ahmad aveva tentato di investire dei poliziotti israeliani che presidiavano il checkpoint. Sembra che una soldatessa sia rimasta lievemente ferita e sia stata trasferita in un ospedale di Gerusalemme.

Ma la sua famiglia ha detto di non poter assolutamente immaginare che Ahmad possa aver compiuto un simile attacco, ancor meno nel giorno delle nozze di sua sorella.

Quando abbiamo saputo la notizia non ci potevamo credere. Siamo ancora sotto shock”, ha detto a Middle East Eye Emad Erekat, cugina di Ahmad. “Ahmad non avrebbe mai potuto progettare di attaccare i soldati, come loro sostengono.”

La spiegazione più logica dello sbandamento fuori strada dell’auto di Ahmad, ha detto la famiglia, è che Ahmad aveva sicuramente fretta, e potrebbe aver avuto un lieve guasto o aver perso il controllo dell’auto, cosa che i soldati hanno scambiato per un attacco.

Aveva tempi stretti per prendere sua sorella, i fiori e tante altre cose da Betlemme”, ha detto Emad, aggiungendo che Ahmad guidava un’auto a noleggio con targa palestinese, che ha affittato apposta per fare acquisti nel giorno del matrimonio.

Siamo certi al cento per cento che non avrebbe mai fatto ciò. Perché avrebbe dovuto farlo nel giorno delle nozze di sua sorella?”, si chiede Emad.

Gli hanno sparato senza nemmeno pensarci’

Ad Abu Dis centinaia di familiari ed amici si sono radunati presso la casa degli Erekat per piangere la morte di Ahmad che, secondo la sua famiglia, era fidanzato e aveva programmato di sposarsi proprio il mese prossimo.

Nessuno qui riesce a crederci, la gente è sconvolta”, dice Emad. “Sua sorella Eman è svenuta quando ha saputo la notizia. Non riesce nemmeno a parlare, è in totale stato di shock”.

Doveva essere il giorno più felice della sua vita, ma ora è diventato il giorno del funerale di suo fratello”, afferma.

La cugina di Ahmad Noura Erekat, avvocatessa per i diritti umani e docente associata presso la Rutgers University del New Jersey, nel tardo pomeriggio di martedì ha condiviso i suoi pensieri con una serie di commossi post su Twitter.

Mentite. Uccidete. Mentite. Questo è il mio cuginetto”, ha detto.

Gli unici terroristi sono i vigliacchi che hanno sparato per uccidere un bellissimo giovane e lo hanno accusato di questo”.

E’ stato riferito che testimoni oculari della scena hanno detto all’agenzia [palestinese] M’an News che “ciò che è accaduto al [posto di controllo] ‘Container’ non è stato un tentativo di investire (i soldati), bensì l’auto ha sbattuto sul bordo dello spartitraffico dove si trovavano i soldati, facendo sì che le forze d’occupazione israeliane sparassero all’automobile.

Noi non abbiamo visto l’accaduto, ma pensiamo che Ahmad abbia perso il controllo dell’auto per un secondo, e quindi i soldati gli hanno subito sparato senza pensarci due volte”, ha detto Emad.

Organi di informazione locali palestinesi hanno riferito che Ahmad è stato lasciato steso in terra per molto tempo e non ha ricevuto cure mediche dai soldati. Quando le ambulanze israeliane sono arrivate, riportano le notizie, Ahmad era già morto.

Lo hanno lasciato morire’

Un video diffuso sui social media, presumibilmente ripreso da un testimone oculare dell’incidente, mostra Ahmad ferito che giace a terra, curvo in posizione fetale, con una scia di sangue che gli esce dal corpo.

Si vede una soldatessa che cammina avanti e indietro dinanzi a Ahmad con il fucile puntato, mentre dietro la sua auto si forma una fila di auto palestinesi in attesa di attraversare il checkpoint.

Si sente l’uomo che sta filmando dire: “Sono le 15,50 al ‘Container’, un giovane uomo è stato appena fatto diventare un martire. Gli hanno sparato proprio qui davanti a noi. Che riposi in pace.”

L’uomo continua dicendo: “lo hanno lasciato steso in terra finché è morto”.

L’uccisione di Ahmad non è certo la prima di questo genere. Negli scorsi anni in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est centinaia di palestinesi sono stati uccisi nel corso di presunti attacchi col coltello e con le auto ai checkpoint.

In parecchi casi le famiglie delle vittime palestinesi e i testimoni hanno sostenuto che i presunti “aggressori” sono stati colpiti dopo che incidenti stradali di poco conto sono stati scambiati per attacchi a soldati e coloni israeliani.

Tante persone sono state uccise a questo checkpoint”, dice a MEE Khuthifa Jamus, un’amica di Erekat. “Se sei palestinese, qualunque movimento sbagliato ad un checkpoint può farti uccidere”.

Ci ammazzano a sangue freddo e poi dicono che stavano solo difendendosi”, ha aggiunto Jamus.

Uccisi a sangue freddo’

Da molto tempo i soldati israeliani sono accusati da attivisti e associazioni per i diritti di uso eccessivo della forza contro palestinesi che nel momento in cui sono stati uccisi non costituivano un’immediata minaccia alla vita dei soldati.

Recentemente a Gerusalemme est la polizia israeliana ha sparato e ucciso Eyad al-Halak, un uomo palestinese autistico, mentre stava scappando dai poliziotti. Al-Halak era disarmato e la sua uccisione ha sollevato una diffusa indignazione in tutta la Palestina e all’estero, molti hanno paragonato la sua morte all’uccisione da parte della polizia di George Floyd negli Stati Uniti.

Quest’uomo è stato ucciso a sangue freddo. Stasera c’era il matrimonio di sua sorella”, ha detto martedì il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in una dichiarazione.

Quel che sostiene l’esercito di occupazione (l’esercito israeliano), cioè che tentava di investire qualcuno, è falso”, ha detto Erekat, un parente di Ahmad.

L’uccisione di Ahmad avviene in un contesto di accresciuta presenza dei soldati israeliani nei territori occupati in quanto Israele si prepara all’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr].

Mentre i generali dell’esercito israeliano prevedono una fiammata di violenza a causa delle politiche israeliane, molti soldati hanno elevato il livello di allerta per presunti attacchi da parte di palestinesi.

Anche se Ahmad avesse compiuto un attacco, cosa che non era, il problema è che i soldati e questi checkpoint prima di tutto non dovrebbero essere qui”, ha detto una commossa Jamus. “Questa è la colpa dell’occupazione, stare qui e ucciderci senza ragione, continuamente.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Coronavirus: ai lavoratori palestinesi viene ordinato di lasciare Israele a causa del cattivo trattamento

 

Akram Al-Waara – Betlemme, Cisgiordania occupata

giovedì 26 marzo 2020 – Middle East Eye 

L’Autorità Nazionale Palestinese chiede a tutti i suoi cittadini di rientrare a casa in quanto Israele è accusato di “mettere a rischio la loro salute”

I lavoratori palestinesi lasciano Israele dopo l’indignazione suscitata da diversi casi di operai malati cacciati dai loro datori di lavoro israeliani.

Effettivamente negli ultimi giorni parecchi operai palestinesi che lavoravano in Israele sono stati scaricati ai checkpoint tra Israele e il nord della Cisgiordania dopo aver presentato sintomi di COVID-19.

All’inizio di questa settimana le immagini video di un lavoratore malato e indebolito, steso a terra per ore davanti a un checkpoint della regione di Ramallah dopo esservi stato abbandonato dalle autorità israeliane, sono diventate virali, mettendo in discussione il trattamento riservato da Israele ai lavoratori palestinesi.

Oggi l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ordina a tutti i suoi cittadini che lavorano in Israele di tornare in Cisgiordania e di entrare in quarantena obbligatoria di 14 giorni, a pena di sanzioni non precisate da parte del governo.

Tenuto conto degli sviluppi gravi e continuati in Israele e delle restrizioni previste in materia di spostamenti, chiediamo a tutti i lavoratori palestinesi di rientrare a casa allo scopo di proteggerli e preservare la loro sicurezza”, ha dichiarato martedì il Primo Ministro dell’ANP Mohammad Shtayyeh in un comunicato.

Giovedì scorso Shtayyeh aveva annunciato che i palestinesi erano ormai sottoposti anche al divieto di lavorare nelle colonie israeliane illegali nel territorio occupato.

Questa decisione è intervenuta solo qualche giorno dopo che migliaia di lavoratori si erano precipitati in Israele in seguito alla promessa che si sarebbe dato loro un adeguato alloggio da parte dei loro datori di lavoro israeliani e sarebbero stati autorizzati a rimanere anche di notte in Israele, in modo da evitare la propagazione del virus in Cisgiordania – un’opportunità per innumerevoli lavoratori di provvedere alle necessità della propria famiglia in un contesto di incremento della disoccupazione durante la pandemia.

Sistema inquietante

Negli ultimi giorni sono stati registrati almeno quattro incidenti che hanno coinvolto operai palestinesi abbandonati ai posti di controllo dalle forze israeliane.

Lunedì Ibrahim Abu Safiya, del villaggio di Beit Sira, nella regione di Ramallah, ha raccontato a Middle East Eye di aver visto un operaio palestinese, in seguito identificato come Malek Jayousi, steso a terra davanti al locale checkpoint con febbre alta e difficoltà respiratorie.

Abu Safiya ha detto che la sera prima anche un altro operaio, del campo profughi di Jalazone nel governatorato di Ramallah, si era presentato al posto di controllo di Beit Sira con febbre alta, dopo che il suo datore di lavoro gli aveva tolto il lavoro in Israele.

L’uomo, che si sarebbe visto rifiutare le cure mediche in Israele, è arrivato da solo al checkpoint in taxi, prima di essere trasferito a Ramallah in ambulanza.

Martedì sera i media palestinesi hanno riferito che tre operai erano stati abbandonati dalle autorità israeliane ad un posto di controllo vicino a Tulkarem ed un altro davanti al posto di controllo di Jbara, vicino a Hizma, nella Cisgiordania centrale.

Le informazioni precisano che parecchi degli operai erano sintomatici, con febbre alta, a volte più di 40 gradi. Tutti i lavoratori sarebbero stati sottoposti a test per coronavirus da parte di medici locali e posti in isolamento.

Il portavoce dell’ANP, Ibrahim Melhem, ha condannato il trattamento israeliano “razzista e disumano” dei lavoratori palestinesi.

Se dovete lavorare per guadagnarvi da vivere, allora che sia con dignità e non in questo modo degradante”, ha affermato in un comunicato rivolto alle migliaia di operai palestinesi che lavorano in Israele.

Ribal Kurdi, un attivista di Betlemme di 29 anni, ha dichiarato a MEE di essere rimasto sconvolto e indignato vedendo come i lavoratori che presentavano sintomi della malattia venivano trattati dalle autorità e dai datori di lavoro israeliani.

Israele voleva che i lavoratori venissero nel Paese a lavorare”, ricorda Kurdi. “Ma (gli israeliani) non vogliono più farsene carico quando i lavoratori si ammalano”.

L’occupazione israeliana dovrebbe essere responsabile della vita dei lavoratori palestinesi”, sostiene.

I datori di lavoro non ci hanno dato niente” 

Secondo le associazioni di difesa dei diritti umani, la decisione presa la scorsa settimana di autorizzare i lavoratori a rimanere in Israele anche di notte – contrariamente alla usuale politica di Israele in materia di permessi di lavoro – per un periodo prolungato, allo scopo di evitare una nuova diffusione del COVID-19, era viziata fin dall’inizio.

Kav LaOved, un’associazione israeliana di difesa dei diritti dei lavoratori, ha dichiarato in un comunicato pubblicato su Facebook il 18 marzo che “purtroppo la maggioranza degli interlocutori israeliani non ha rispettato gli impegni presi riguardo all’offerta di una sistemazione adeguata e sicura ai lavoratori”.

Insieme a fotografie di centinaia di operai bloccati a un checkpoint non identificato, l’associazione ha anche affermato che non era stata presa alcuna misura per “assicurare una protezione sanitaria nel caso in cui un lavoratore fosse esposto” al coronavirus.

Secondo Kav LaOved circa 60.000 palestinesi lavorano in Israele, soprattutto nell’edilizia e in agricoltura. Si stima che altri 30.000 lavorino nelle colonie israeliane in Cisgiordania.

Kav LaOved, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI) e Medici per i Diritti Umani hanno preteso che il governo israeliano – in particolare il Ministro della Difesa Naftali Bennett, che aveva approvato l’ingresso dei lavoratori – tuteli i diritti dei lavoratori palestinesi durante la pandemia.

Abbiamo contattato i Ministeri del Lavoro, della Sicurezza e della Sanità per esigere che il governo verifichi il lavoro di questi lavoratori ed il loro soggiorno qui, e protegga i loro diritti. Abbiamo chiesto specificamente alloggi accettabili e assistenza sanitaria”, ha dichiarato un portavoce dell’ACRI a MEE.

Ma finora gli sforzi di queste ONG sono stati vani.

A., un lavoratore che ha trascorso parecchie notti in Israele, ha confidato a MEE in forma anonima che lui ed i suoi colleghi sono stati costretti a dormire su dei cartoni nel cantiere edile dove lavoravano e non hanno ricevuto nessuna protezione igienica come guanti, mascherine o disinfettante per le mani.

È molto diverso da quello che ci avevano detto”, lamenta. “I nostri datori di lavoro non ci hanno dato niente e se ti ammali ti mandano via senza la minima cura”.

Mercoledì il numero dei casi di coronavirus accertati in Palestina è arrivato a 62 – contro gli oltre 2.100 casi confermati in Israele.

Wafa, l’agenzia di stampa ufficiale dell’ANP, ha riferito che uno dei nuovi casi confermati, una donna sulla sessantina del villaggio di Biddu, vicino a Ramallah, “potrebbe aver contratto la malattia dai suoi figli che lavorano in Israele”.

Ribal Kurdi ha insistito sul fatto che non è stata colpa degli operai che andavano a lavorare in Israele. “Hanno dovuto scegliere tra mantenere la propria famiglia o ammalarsi. È una situazione spaventosa”, ha dichiarato l’attivista. In fin dei conti, secondo lui, “è l’occupazione israeliana ad essere responsabile di mettere a rischio la salute di tutta la Cisgiordania”.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




‘Una scelta crudele’: perché Israele prende di mira le scuole palestinesi

Ramzy Baroud

23 ottobre 2018,Ma’an News

Il 15 ottobre diversi studenti palestinesi, insieme a insegnanti e dirigenti, sono stati feriti nell’attacco dell’esercito israeliano ad una scuola a sud di Nablus in Cisgiordania. Gli studenti della scuola mista al-Sawiya al-Lubban stavano sfidando un ordine militare israeliano di chiudere la loro scuola, sulla base dell’accusa onnipresente che la scuola fosse un “sito di terrorismo e rivolta popolare.”

Terrorismo popolare” è un’espressione in codice dell’esercito israeliano che sta per proteste. Ovviamente gli studenti hanno tutto il diritto di protestare, non solo contro l’occupazione militare israeliana, ma anche contro l’aggressiva colonizzazione degli insediamenti di Alje e Ma’ale Levona. Questi due insediamenti ebrei illegali hanno illecitamente confiscato migliaia di dunum [unità di misura terriera in Medio Oriente: 10 dumun corrispondono a 1 ettaro, ndtr.] di terra appartenente ai villaggi di al-Sawiya e al-Lubban.

I cittadini israeliani” che l’esercito di occupazione intende proteggere attraverso la chiusura della scuola sono, di fatto, proprio i coloni ebrei armati che hanno terrorizzato per anni questa regione della Cisgiordania.

Secondo uno studio del 2016 commissionato dalle Nazioni Unite, ogni giorno almeno 2.500 studenti palestinesi di 35 comunità della Cisgiordania devono attraversare i checkpoint militari israeliani per raggiungere le loro scuole. Circa la metà di questi studenti ha subito aggressioni e violenze da parte dell’esercito solo per aver cercato di arrivare a lezione o di tornare a casa.

Però questa è solo metà della storia, perché i violenti coloni ebrei sono sempre alla ricerca di bambini palestinesi. Anche questi coloni, che “creano anche loro checkpoint”, compiono regolarmente atti di violenza, “tirando pietre” contro i bambini (palestinesi) oppure “maltrattandoli fisicamente”.

ONU, “i gruppi di protezione dell’UNICEF hanno riferito che i propri volontari hanno subito attacchi fisici, aggressioni, arresti e detenzione e minacce di morte”.

In altri termini, addirittura i “protettori” stessi cadono spesso vittime delle tattiche terroristiche dell’esercito e dei coloni ebrei.

Aggiungete a questo il fatto che l’area C – la maggior parte della Cisgiordania, sotto pieno controllo militare israeliano – rappresenta l’apice della sofferenza palestinese. Qualcosa come 50.000 bambini affrontano moltissimi ostacoli, compresa la mancanza di servizi, aggressioni, violenza, chiusura e ingiustificati ordini di demolizione.

La scuola di al-Sawiya al-Lubban, situata in area C, è quindi alla totale mercé dell’esercito israeliano, che non tollera alcuna forma di resistenza, comprese le proteste non violente degli alunni della scuola.

Ciò che è davvero confortante però è che, nonostante l’occupazione militare israeliana e le continue restrizioni alla libertà dei palestinesi, la popolazione palestinese resta una delle più istruite in Medio Oriente.

Secondo il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), il tasso di alfabetizzazione in Palestina (stimato del 96,3%) è uno dei più alti in Medio Oriente ed il tasso di analfabetismo (3,7% tra le persone sopra i 15 anni), è uno dei più bassi al mondo.

Se queste statistiche non sono abbastanza incoraggianti, tenendo conto della costante guerra di Israele contro la scuola e i programmi scolastici, considerate questo: la Striscia di Gaza, assediata e devastata dalla guerra, ha un tasso di alfabetizzazione persino più alto della Cisgiordania, in quanto [queste zone] registrano rispettivamente il 96,6% e il 96%.

In realtà questo non dovrebbe stupire del tutto. I rifugiati palestinesi della prima ondata che subì la pulizia etnica dalla Palestina storica erano talmente desiderosi di assicurare che i loro figli fossero in condizioni di proseguire la loro educazione che già nel 1948 crearono delle tende adibite a scuola, gestite da insegnanti volontari.

I palestinesi sanno bene che l’educazione è l’arma più forte per ottenere la libertà a lungo negata. Anche Israele è consapevole di questa dicotomia, sapendo che una popolazione palestinese competente è in grado di sfidare il dominio israeliano molto più di una con scarsi mezzi culturali, di qui il fatto che Israele prenda di mira incessantemente e sistematicamente il sistema educativo palestinese.

La strategia israeliana nel distruggere l’infrastruttura del sistema scolastico palestinese si incentra sull’accusa di “terrorismo”: cioè, i palestinesi insegnano “terrorismo” nelle scuole; i libri scolastici palestinesi celebrano i “terroristi”; le scuole sono covi del “terrorismo popolare”, e varie altre accuse, che, nella logica israeliana, costringono l’esercito a chiudere scuole, distruggere servizi, arrestare gli studenti e sparargli.

Prendiamo ad esempio i recenti commenti fatti dal sindaco israeliano di Gerusalemme, Nir Barkat, che ora sta conducendo una campagna governativa con lo scopo di chiudere le attività dell’organizzazione dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, l’UNRWA.

È tempo di rimuovere l’UNRWA da Gerusalemme”, ha annunciato Barkat all’inizio di ottobre.

Senza alcuna prova, Barkat ha denunciato che “l’UNRWA sta rafforzando il terrorismo” e che “ai bambini di Gerusalemme viene insegnato, sotto la sua egida, il terrorismo, e ciò deve essere fermato.”

Ovviamente Barkat è disonesto. L’attacco all’UNRWA a Gerusalemme fa parte di una più vasta campagna israelo-americana finalizzata a chiudere un’organizzazione che si è dimostrata fondamentale per lo status e il benessere dei rifugiati palestinesi.

Secondo questo pensiero distorto, senza l’UNRWA I rifugiati palestinesi non avrebbero un riconoscimento giuridico, quindi chiudere l’UNRWA significa chiudere una volta per tutte il capitolo dei rifugiati palestinesi e del loro diritto al ritorno.

La chiusura della scuola al-Sawiya al-Lubban, l’attacco all’UNRWA da parte di Israele e Stati Uniti, i tanti checkpoint che separano gli studenti dalle loro scuole in Cisgiordania ed altro ancora, sono molto più in rapporto tra loro della falsa accusa israeliana di “terrorismo”.

La scrittrice israeliana Orly Noy ha sintetizzato la logica israeliana in una frase: “Distruggendo le scuole nei villaggi palestinesi dell’area C e altrove, Israele costringe i palestinesi a fare una scelta crudele – tra la loro terra e il futuro dei propri figli”, ha scritto all’inizio di quest’anno.

E’ questa logica brutale che ha guidato la strategia del governo israeliano riguardo all’educazione dei palestinesi per 70 anni. È una guerra di cui non si può discutere o che non può essere compresa al di fuori della più complessiva guerra all’identità e alla libertà dei palestinesi e, di fatto, alla stessa esistenza del popolo palestinese.

La lotta degli studenti per il proprio diritto all’educazione alla scuola mista al-Sawiya al-Lubban non è assolutamente una scaramuccia isolata che riguarda alunni palestinesi e soldati israeliani dal grilletto facile. È invece al centro della lotta del popolo palestinese per la sua libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è “The last earth: a palestinian story” [L’ultima terra: una storia palestinese].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’obbedienza è la massima forma di patriottismo

Amira Hass

1 maggio 2018, Haaretz

Migliaia di richieste di permessi di uscita da Gaza rimangono ad ammuffire negli uffici israeliani, poiché la norma è che la Striscia di Gaza sia un campo di prigionia a vita.

I testi sono scritti con inchiostro invisibile e al prezzo di uno ne ricevi due: credi che si tratti di una certa cosa e poi – guardando in trasparenza il giornale, l’articolo nascosto appare tra le righe: riguarda la “full immersion” di Israele negli ordini militari.

Il reportage in chiaro racconta la storia di una farmacista laureata che lavora in ospedale dal 2000. Ha 41 anni e quattro figli. Dal 2015 ha studiato per l’esame in farmacologia clinica dell’Associazione Farmacisti Americani. Questo certificato ufficiale le consentirà di impegnarsi molto di più nel fornire il corretto trattamento ai pazienti, e di essere in grado di suggerire soluzioni alternative in caso di mancanza di medicinali. L’esame si terrà mercoledì a Ramat Gan [città nella periferia di Tel Aviv, ndtr.]. Lo scorso ottobre per cause di forza maggiore non ha potuto sostenere l’esame.

Avete indovinato: la farmacista è palestinese e proprio di Gaza: Samaher Amira. La causa di forza maggiore è il soldato impiegato nell’ufficio di Coordinamento Distrettuale israeliano al posto di controllo di Erez. Non hanno neppure risposto alla sua prima richiesta di un permesso di uscita per andare in Israele a sostenere l’esame. È un fenomeno ben noto: migliaia di richieste di permessi di uscita rimangono ad ammuffire negli uffici israeliani.

Amira non si è arresa. Ha inoltrato la sua seconda richiesta il 12 febbraio di quest’anno, per l’esame di mercoledì. Quando il soldato impiegato non ha risposto nemmeno a questa richiesta, il 22 aprile la Ong Gisha ha scritto al comandante del DCO [Ufficio di Coordinamento Distrettuale, che in base agli accordi di Oslo coordina i rapporti tra Israele e l’Autorità nazionale Palestinese per alcune questioni comuni, ndtr.], colonnello Iyad Sarhan. La lettera di Gisha fa presente che ogni iscrizione all’esame di farmacologia costa 700 dollari e non è rimborsabile. Questa volta in realtà una risposta è arrivata, due giorni dopo, firmata dal primo luogotenente Roni Vaknin, un funzionario delle indagini pubbliche del DCO. “Gli organi competenti hanno deciso di respingere la richiesta in quanto non corrisponde ai criteri”, così ha risposto.

La stessa risposta è stata inoltrata da un soldato impiegato del DCO ad un’altra donna, di Gerusalemme, la sessantacinquenne Sa’ada Hasuna, che è malata di tumore e desidera incontrare la sua anziana madre e le sue sorelle a Gaza. “La richiesta non è approvata alla luce del fatto che non corrisponde ai criteri per l’ingresso di israeliani nella Striscia di Gaza. E questo in base al fatto che la richiesta non soddisfa nessuno dei criteri stabiliti.” Questa risposta tautologica non è firmata; solo una enorme bandiera israeliana campeggia sotto il verdetto, inviato per email.

Il testo nascosto ci dice qualcosa riguardo a chi scrive le risposte e ai decisori politici: tua figlia, tuo figlio o magari proprio tu o i tuoi genitori. Roni Vaknin è un sottoposto di Iyad Sarhan. A sua volta Sarhan è consulente legale del DCO a Gaza, avvocato Nadav Glass. Ma sopra di essi spunta il general maggiore Yoav Mordechai, il coordinatore delle attività nei territori dell’esercito israeliano. Israeliani in carne ed ossa. Il testo nascosto ci parla del tipo di caffè e di musica che gli piace, sulla conversazione telefonica molto preoccupata per un’anziana madre, del libro che leggono prima di andare a dormire.

L’articolo in codice parla della loro gioia nell’obbedire ai dieci comandamenti – pardon, al “Documento di Autorizzazione”. È un documento militare che riporta in dettaglio chi sono le eccezioni a cui è permesso di uscire o entrare a Gaza. Perché la regola è che la Striscia di Gaza è un campo di prigionia a vita. Quindi la forza dominante ci mette otto mesi di tempo per rispondere che non vi è un criterio che consenta alla farmacista di uscire per un importantissimo esame. Quindi vieta ad una donna malata di visitare la sua famiglia. L’obbedienza è la più alta forma di patriottismo.

Tornando al testo in chiaro: la Corte distrettuale di Be’er Sheva ha preso in considerazione il caso di Amira due giorni fa. I rappresentanti del governo, gli avvocati Zohar Barel e Orit Kartz, hanno difeso la posizione del DCO che afferma che dover sostenere un esame non soddisfa i criteri. Il giudice Yael Raz-Levi ha ingiunto a Gisha di fornire documentazione a sostegno dell’ affermazione riguardo all’importanza dell’esame per la farmacista, a cui verrà consentito di presentare una terza richiesta per un permesso di uscita ad ottobre. E mercoledì l’Alta Corte di giustizia vaglierà la questione se ad una donna malata si possa consentire di ricevere l’ultimo saluto dalla sua famiglia.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Israele condanna centinaia di palestinesi alla disoccupazione – a causa del loro cognome

Gideon Levy, Alex Levac |

23 marzo 2018, Haaretz

Le autorità israeliane hanno revocato i permessi di lavoro a più di mille palestinesi per il solo motivo che hanno lo stesso cognome dell’autore di un’aggressione col coltello.

Se questa non è una punizione collettiva, allora che cos’ è una punizione collettiva? Se questo non è arbitrio, allora che cos’ è un arbitrio? E se questa misura non innesca il fuoco nella relativamente tranquilla cittadina di Yatta, in Cisgiordania, allora a che cosa mira questo provvedimento? Yatta è sconvolta, la sua economia minaccia di collassare, e tutto per via di una persona che ha compiuto un reato, a causa del quale Israele sta punendo un’intera città.

Fino a pochi mesi fa più di 7000 residenti di questa cittadina a sud delle colline di Hebron avevano permessi di lavoro. Secondo l’ufficio palestinese di Coordinamento e Contatto [con gli occupanti israeliani] di Yatta, 915 di loro, con il cognome Abu Aram, lavoravano in Israele ed altre centinaia nelle colonie. Ma poi quei lavoratori hanno perso il lavoro in Israele e nelle colonie, solo a causa del loro cognome, in seguito ad un’ incredibile, draconiana decisione dell’Amministrazione Civile, l’ente israeliano che governa in Cisgiordania. Disperati, decine di loro hanno addirittura cambiato i loro cognomi sulle carte di identità, ma è stato inutile. Il loro ingresso per lavorare in Israele, dove per anni hanno avuto un impiego, è bloccato, benché non abbiano fatto niente di male. Ecco ciò che è successo.

Lo scorso 2 agosto un diciannovenne residente a Yatta, Ismail Abu Aram, accoltellò Niv Nehemia, vicedirettore di un supermercato nella città israeliana di Yavneh, ferendolo gravemente. L’aggressore fu arrestato. Il giorno seguente le autorità decisero – in base alla procedura standard dopo un attacco terroristico – di vietare alla famiglia dell’aggressore l’ingresso in Israele. Il divieto venne revocato 10 giorni dopo, i membri della famiglia tornarono ai loro impieghi in Israele e nelle colonie e Yatta riprese la sua vita normale.

Tuttavia, il 14 dicembre, senza ragioni apparenti, Israele improvvisamente si è ricordato dell’incidente e ha reintrodotto un divieto generalizzato nei confronti di migliaia di persone, senza preavviso né spiegazione.

Benché simili misure siano prassi consueta di Israele dopo gli attacchi, questa volta le dimensioni [del provvedimento] non hanno precedenti. Abu Aram è la più numerosa hamula (clan) di Yatta. Secondo gli attivisti, il lavoro in Israele e nelle colonie dà sostentamento a migliaia di residenti. I lavoratori e le loro famiglie sono ora condannati alla disoccupazione e agli stenti a causa dell’accoltellamento compiuto da Ismail, anche se la maggior parte di loro non lo conosce nemmeno.

Dal momento del divieto, la città è sconvolta e la sua economia in grave pericolo. Migliaia di lavoratori sono rimasti a casa inattivi per quattro mesi, si sono accumulati debiti e annullati matrimoni, gli assegni vengono respinti, i magazzini sono vuoti e i ragazzi hanno abbandonato la scuola. In base a caute stime, la cittadina, i cui residenti sono quasi interamente dipendenti dal lavoro in Israele, al momento ha una riduzione di centinaia di migliaia di shekel [100.000 ILS= 23.000 €, ndtr.] di entrate al mese.

Questa settimana gli abitanti di Yatta si sono riuniti per sfogare la loro angoscia e protestare. Più di 100 uomini si sono recati in un ristorante all’ingresso della città. In vista del nostro arrivo, qualcuno aveva preparato dei poster in un ebraico approssimativo per esprimere la loro protesta: “Lavoratori contro la punizione”, “No alla politica delle rappresaglie”. Dalla collina su cui è arroccata una moschea sono scesi sempre più uomini, in maggioranza di mezza età, i volti bruciati dal sole e non rasati, le mani da lavoratori, al polso orologi di plastica di poco valore – i muratori e gli asfaltatori, a cui ora si nega questa possibilità.

Sono gli uomini che si alzano alle tre del mattino per iniziare il lavoro alle sette, a Tel Aviv, Be’er Sheva, Gerusalemme, Beit Shemesh o Ashdod, e tornano a casa quando è buio. Ora languiscono a casa, arrabbiati e frustrati. Quasi tutti parlano ebraico. Mostrano i loro permessi di lavoro. I documenti rosa si accumulano sul tavolo; alcuni sono ancora validi, altri sono scaduti e non possono essere rinnovati e nessuno di essi ora consentirà loro di entrare in Israele a lavorare. Non sono colpiti solo i lavoratori manuali: commercianti e anche persone che hanno bisogno di cure mediche hanno il divieto di ingresso in Israele a causa del blocco “Abu Aram”.

Qui useremo solo il loro nome, perché hanno tutti lo stesso cognome, per loro disgrazia. Naim, di 52 anni, padre di otto figli, lavora per la Bardarian Brothers di Gerusalemme, impresa che si occupa di progettazione di infrastrutture e movimento terra. Di fatto, circa 300 membri della famiglia [allargata] lavorano per questa impresa. Naim vi ha lavorato per 13 anni. Il giorno dopo l’aggressione di Yavneh, si è alzato a notte fonda per andare a lavorare, ma al checkpoint 300 di Betlemme è stato rimandato a casa insieme ad altre centinaia di persone del clan. Gli è stato detto che il divieto sarebbe stato revocato dopo 10 giorni.

Ed è stato così. Dopo una settimana e mezza tutti sono tornati al lavoro, felici e sollevati. Poi è arrivato quel giorno nero di dicembre, quattro mesi dopo. Quella notte, ai checkpoint che attraversano andando al lavoro – Tarqumiya, Meitar e Checkpoint 300 – gli è stato detto: “ Tutti quelli della famiglia Abu Aram tornino a casa.” Almeno per sei mesi. Anche ai loro datori di lavoro israeliani è stato intimato: non assumete nessuno con il cognome proibito.

I lavoratori erano sconvolti, anche Naim. “Siamo andati a casa e vi siamo rimasti da allora”, dice, imbarazzato. Solo pochi di loro hanno nuovamente tentato la fortuna ai checkpoint negli ultimi mesi, e tutti sono stati mandati a casa. A quelli che hanno fatto molti tentativi sono stati anche confiscati i permessi – non che sarebbero serviti a qualcosa.

Abitualmente i permessi di lavoro devono essere rinnovati ogni sei mesi. Ecco il permesso di Sabar, valido fino al 10 marzo. Il permesso di Mohammed era valido fino al 14 febbraio. Gettano i documenti sul tavolo allo stesso modo in cui le carte da gioco vengono buttate sul tappeto verde di un tavolo di casinò; magari accadrà una magia e ritorneranno validi. “Permesso di uscita per lavoro in Israele. Il lavoro dura tutto il giorno. In Israele, tranne che a Eilat [città del sud di Israele, ndtr.]. Firmato Yitzhak Levy, ufficiale responsabile per l’impiego.”

Gli uomini sono andati negli uffici dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano dei territori palestinesi occupati, ndtr.] ed all’unità distrettuale di Coordinamento e Contatto [ente locale dell’ANP, ndtr.], a Hebron, ed alle principali sedi amministrative di Beit El. Nessuno li ha neppure ascoltati, tantomeno gli ha dato spiegazioni. Solo un impiegato si è preso la briga di dirgli che l’ordine era arrivato dall’alto. Quanto in alto? Non si può sapere. Hanno anche tentato la fortuna al municipio di Hebron, ma ovviamente nessuno là li ha potuti aiutare.

Nasser, un commerciante di rottami di ferro, è disoccupato. Ha 51 anni e nove figli. Con sei anni di lavoro nello stesso posto, dice: “È davvero brutto, fratello. Stiamo male.” Mahmoud, di 43 anni e cinque figli, ha lavorato come fattorino per la Levy Brothers negli ultimi 11 anni: “Uno abituato a stare in Israele per tutta la vita, può lavorare nei territori? Non c’è lavoro a Yatta. All’inizio ci alzavamo al mattino e andavamo al checkpoint. Adesso io mi alzo al mattino e litigo con mia moglie. Vogliamo che ciò che diciamo giunga (alle autorità israeliane).”

Anche Mohammed, 42 anni, passa le giornate in casa. Lavora per Y.D. Barzani, una ditta di costruzioni di Gerusalemme che ogni giorno faceva arrivare 10 lavoratori da Yatta per i suoi cantieri; adesso sono tutti qui, bloccati in casa. In base ai loro permessi, dovrebbero lavorare nelle costruzioni a Har Hotzvim, la zona di alta tecnologia industriale a Gerusalemme. Si avvicina suo figlio di 12 anni; ci avevano detto che ha lasciato la scuola perché i suoi genitori non hanno i soldi per comprargli i quaderni. “Non ci sono nemmeno 2 shekel ( 0,46 €) per comprare qualcosa per la ricreazione”, dice uno degli uomini. Altri dicono che alcuni residenti sono stati arrestati dalla polizia palestinese a causa di assegni a vuoto e debiti non pagati.

Alcuni disoccupati di Yatta più intraprendenti sono andati alla sede locale del ministero dell’Interno palestinese per modificare i propri nomi. Sabri Abu Aram è diventato Sabri Hassin, Mahmoud Abu Aram è diventato Mahmoud Mahmed, Radi Abu Aram si è trasformato in Radi Gabrin. I nomi sono stati modificati sulla loro carta d’identità – eccoli qui, per farceli controllare – ma al checkpoint israeliano non è cambiato niente: il numero di carta di identità era lo stesso.

Nasser, il commerciante di rottami di ferro, fa una domanda: “Metti che adesso andiamo sulla strada principale. Vogliamo fare una manifestazione pacifica. Vogliamo solo dire che vogliamo vivere. L’esercito è vicino. Sulla collina, a cinque minuti di distanza. C’è la possibilità che vengano qui e voi possiate parlare con loro?”

Ibrahim dice che se c’è un cespuglio spinoso nel giardino, tu sradichi il cespuglio, non l’intero giardino. Ibrahim, di 52 anni, si definisce un attivista per la pace, che probabilmente è il motivo per cui gli è stato negato l’ingresso in Israele negli ultimi 20 anni. Calcola che 30.000 persone siano colpite dal divieto, e di conseguenza tutta la città di Yatta, in quanto non vi è più entrato denaro. I negozi sono vuoti, dice.

“Ci vedono come nemici. Ma questa è una politica che accresce il livello di violenza. La vostra gente non lo capisce? Noi siamo a favore della vicinanza e della pace – ma questo agisce nel senso opposto”, dice Ibrahim. “Vorremmo che la sinistra israeliana sentisse la pressione, sollevasse la questione anche alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.]. Abbiamo già scritto lettere a tutte le organizzazioni per la pace.”

Interrogato sul tema, il portavoce del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori ha detto a Haaretz: “Il 2 agosto 2017 Ismail Abu Aram del villaggio di Yatta ha compiuto un’aggressione col coltello a Yavneh, durante la quale un civile è stato ferito gravemente. Come conseguenza, i permessi rilasciati ai membri del clan Abu Aram sono stati immediatamente sospesi.”

A Yatta dicono che prima del 1967 c’erano molti più cognomi in città. Dopo la conquista israeliana tutti i rami del grande clan vennero registrati col nome del mukhtar, il capo, Abu Aram. Ora vengono puniti.

Il lavoratore disoccupato Radi chiede se gli israeliani hanno trattato gli assassini (ebrei) della famiglia Dawabsheh a Duma [un bambino di 18 mesi, sua madre e suo padre sono morti arsi vivi in seguito all’attacco di coloni, ndtr.] nello stesso modo.

Io chiedo a Radi: “Almeno dormi fino tardi al mattino adesso?”

“Che cosa intendi con dormire, abbiamo ogni genere di pensieri e preoccupazioni.”

Raccolgono i loro permessi dal tavolo e li infilano in fondo alle tasche, il loro tesoro nascosto, e lentamente tornano a casa.

Ibrahim, quello che si definisce attivista, ha telefonato giovedì per dirci che il giorno prima quattro uomini del clan Abu Aram di Yatta hanno fatto un’escursione sui Monti della Giudea. Nel tardo pomeriggio, mentre scendevano in una gola che conduce al Mar Morto, hanno sentito grida di aiuto. Si sono imbattuti in una coppia di giovani escursionisti israeliani, di Be’er Sheva, che si erano persi ed erano sfiniti. Gli uomini se li sono caricati sulle spalle e li hanno portati dal letto del fiume fino alla loro macchina. Dopo aver raggiunto la strada principale, la coppia ha chiamato l’unità di sicurezza della vicina colonia di Carmel per chiedere aiuto.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Quindici anni di separazione: i palestinesi tagliati fuori da Gerusalemme dal muro

Netta Ahituv

10 marzo 2018,Haaretz

I palestinesi lo vedono come un tentativo di Israele di espellerli da Gerusalemme; gli israeliani come una difesa contro il terrorismo. Haaretz ha indagato l’impatto della barriera di separazione sulla città e sui suoi abitanti.

Nella capitale di Israele[ per Israele ma per la comunità internazionale salvo Trump la capitale è Tel Aviv,ndt] un muro serpeggia e gira per un totale di 202 kilometri. Da una parte questo serpente di cemento incarna l’occupazione; allo stesso tempo offre un senso di sicurezza. Tra questi due poli, a volte la situazione assume una dimensione assurda. Quest’anno segna il quindicesimo anniversario da quando la costruzione del muro è iniziata – un progetto concepito come necessità securitaria che si è ingrandito fino a diventare un strumento politico molto potente. I suoi molteplici aspetti si riflettono nei diversi nomi che gli sono stati attribuiti: “barriera di sicurezza”, “recinto di separazione”, il “muro” e, denominazione ufficiale, “l’involucro di Gerusalemme”.

I suoi sostenitori si concentrano su quello che descrivono come il suo principale pregio: la sicurezza. Come prova che il muro sta funzionando bene sottolineano il notevole decremento del numero di attacchi suicidi che sono avvenuti in Israele da quando l’idea è stata approvata la prima volta (43 di questi attacchi nel 2002, zero attacchi suicidi nel 2012).

Chi critica la barriera sostiene che il suo obiettivo sotteso sia demografico: l’annessione di fatto ad Israele della maggiore estensione possibile di territorio, includendo il minor numero possibile di abitanti palestinesi. L’esistenza del muro, affermano, renderà ancora più difficile alle due parti raggiungere mai un accordo. A supporto di questa considerazione, sottolineano che solo il 15% del percorso di 470 km dell’intera barriera (non solo il suo tracciato a Gerusalemme) corrisponde alla Linea Verde [che divideva Israele e la Cisgiordania prima della guerra del ’67 e dell’occupazione israeliana, ndt.], mentre il restante 85% passa all’interno di zone palestinesi.

Sostenitori e detrattori dei benefici del muro possono essere trovati tra israeliani sia di destra che di sinistra, così come nella comunità internazionale. Un suo ammiratore è il presidente Usa Donald Trump, che vuole replicare il suo “successo” lungo il confine del suo Paese con il Messico. Tuttavia la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia non riconosce la legittimità del muro e – in una sentenza del 2004 – chiede che venga smantellato, con indennizzi da pagare ai palestinesi che sono stati danneggiati dalla sua costruzione.

Qualunque sia l’opinione, non si può negare il fatto che la presenza del muro abbia provocato non pochi sconvolgimenti nelle vite sia degli israeliani che dei palestinesi. Ha alterato l’aspetto delle comunità, è diventato il fattore dominante nelle vite di molti, ha colpito l’economia dei due popoli e si è insinuato in modo molto naturale nelle abitudini culturali di questa terra in conflitto.

Descrivendo le diverse percezioni del muro all’interno delle due Nazioni, l’avvocatessa Nisreen Alyan, una palestinese con cittadinanza israeliana che lavora per l’”Associazione per i Diritti Civili in Israele”, osserva: “I palestinesi lo vedono come una ferita in mezzo alla popolazione. Sono anche informati del fatto che, in base alle leggi internazionali, non è legittimo. Dal loro punto di vista il muro è un ulteriore simbolo dell’occupazione israeliana. Al contrario gli israeliani vedono il muro come un mezzo di protezione, una necessità legata alla sicurezza, e di conseguenza pensano che la sua legittimità o illegittimità non sia pertinente alla discussione.”

Anche i tribunali israeliani si sono occupati del problema del muro in varie occasioni (negli anni sono stati presentati circa 150 ricorsi contro di esso e contro il suo percorso). Le sentenze non hanno mai assunto la forma di decisioni contro il muro in quanto tale, al massimo hanno dato debole espressione all’opinione che questa o quella parte del suo percorso fosse sproporzionata o irragionevole in termini di sconvolgimento della vita quotidiana dei palestinesi.

In realtà il tribunale non ha mai scavato in profondità alla radice dell’esistenza del muro, ne ha invariabilmente discusso in superficie,” dice Alyan.

Tutti questi ricorsi e contro-ricorsi hanno assunto una maggiore intensità riguardo al tratto di muro a Gerusalemme, che va dalla comunità di Har Adar a nord fino al blocco di colonie di Gush Etzion, a sud di Betlemme. In alcune parti assume la forma di una recinzione, con sotto dei fossati, in altre parti, soprattutto nelle aree urbane, è un muro di cemento alto nove metri sormontato da filo spinato, punteggiato di torri di controllo e telecamere.

Come molti capitoli della storia israeliana, la vicenda della nascita del muro è intrisa di sangue. Una serie di attacchi kamikaze scosse il Paese alla fine degli anni ’90 e nei primi anni del nuovo secolo. Il dicembre del 2001 fu un mese particolarmente duro, iniziato con due attacchi mortali. Nel primo vennero uccisi 11 israeliani da due kamikaze nella zona commerciale pedonale di via Ben Yehuda e da un’autobomba che esplose nei pressi. Il secondo incidente avvenne il giorno dopo ad Haifa, con 15 persone uccise in un autobus. La commissione ministeriale per la sicurezza nazionale si riunì in sessione speciale e decise di mettere in atto il progetto dell’“involucro di Gerusalemme”, con l’obiettivo di regolare l’ingresso dei palestinesi in Israele.

Nell’agosto del 2002 la prima fase del muro di Gerusalemme venne pianificata ed approvata – due sezioni di 10 km l’una. La parte settentrionale avrebbe separato Ramallah da Gerusalemme; quella meridionale avrebbe diviso Betlemme dalla capitale israeliana. Il resto del percorso venne aggiunto un po’ alla volta nel corso degli anni. Il tratto finale, al momento, viene costruito sulla dorsale meridionale di Gerusalemme, nel quartiere [in realtà una colonia, ndt.] di Gilo attraverso la Linea Verde, vicino al monastero “Cremisan” (che rimane all’interno dei confini municipali di Gerusalemme a causa delle pressioni da parte del Vaticano).

Nel loro libro del 2008 “The Wall of Folly” [“Il muro della follia”] (in ebraico) il geo-demografo Shaul Arieli e l’avvocato Michael Sfard, specializzato in leggi sui diritti umani, raccontano come il primo ministro Ariel Sharon e il suo governo del Likud [partito di destra israeliano, ndt.] “cercarono in ogni modo di evitare la costruzione di un muro a Gerusalemme.” Alla fine, aggiungono, la decisione di erigerlo “fu una risposta senza alternative di fronte agli avvenimenti terroristici di cui Gerusalemme soffrì più di qualunque altro luogo in Israele.”

In effetti il terrorismo si ridusse, ma molti analisti, compreso Arieli, sostengono che la diminuzione degli attacchi non sia stata dovuta solo alla costruzione del muro, ma a un insieme di vari fattori: il colpo sferrato alle organizzazioni terroristiche nell’operazione “Scudo difensivo” dell’esercito israeliano nel 2002; una più stretta collaborazione con l’Autorità Nazionale Palestinese in questioni relative alla sicurezza; una maggiore attività di intelligence da parte di Israele.

Inizialmente la barriera di Gerusalemme avrebbe dovuto circondare la cittadina [in realtà una colonia, ndt.] di Ma’aleh Adumim a est della città sulla strada verso il Mar Morto e annettere quella regione, nota come E-1, ad Israele. Tuttavia, in seguito a pressioni internazionali, il progetto di rendere Ma’aleh Adumim parte della conurbazione di Gerusalemme non è ancora stato messo in pratica. Per evitare un varco nella barriera di Gerusalemme, ma senza annettere quest’area sensibile, è stato costruito un muro tra Gerusalemme e l’E-1, che obbliga i 38.000 coloni ebrei nella zona ad attraversare un checkpoint per entrare a Gerusalemme.

La nostra espulsione silenziosa”

Per i palestinesi l’involucro di Gerusalemme ha creato spazi urbani totalmente diversi da quelli che esistevano nel periodo precedente il muro. Il risultato che più colpisce è la separazione di Gerusalemme sia da Betlemme che da Ramallah, che di fatto esclude dalla Cisgiordania gli abitanti palestinesi di Gerusalemme.

Un esempio calzante è la vita di due studenti, M. e L., che vivono entrambi a Gerusalemme est ed hanno carte d’identità blu (quelle israeliane). Si sono incontrati al corso preparatorio dell’Università Ebraica di Gerusalemme, dove ancora studiano, ed hanno intenzione di sposarsi presto. Poiché la famiglia estesa di L. vive a Ramallah, lei ha presentato una richiesta per ottenere dei permessi di ingresso per i parenti in modo che possano festeggiare insieme alla coppia il giorno delle nozze. La data dell’avvenimento si avvicina, ma le autorità israeliane non hanno ancora risposto alla richiesta. Questo non era stato un problema che i genitori di L., che si erano sposati prima della costruzione del muro, dovettero affrontare quando spedirono gli inviti per il loro matrimonio.

Il secondo cambiamento importante è la separazione dalla città vera e propria di Kafr Aqab, un villaggio nel nord di Gerusalemme, e del campo profughi di Shoafat, a nordest. Il muro separa entrambe le aree dal resto della città. Per entrare a Gerusalemme – cosa per cui queste persone hanno il permesso, in quanto possiedono carte d’identità blu e sono considerati residenti di Gerusalemme – gli abitanti dei due quartieri sono obbligati ad attraversare dei checkpoint. Circa 90.000 persone, che rappresentano tra un quarto e un terzo degli abitanti palestinesi di Gerusalemme est, vivono in quartieri “lasciati” dalla parte sbagliata del muro, fuori dalla Gerusalemme vera e propria.

Per i palestinesi con status di residenti a Gerusalemme est, le barriere erano precedenti al muro. Già negli anni ’90, durante la prima Intifada, Israele eresse barriere e proibì ai palestinesi che non erano residenti a Gerusalemme di entrare in città senza un permesso – ma la separazione ora è concreta e permanente.

Molti palestinesi ricordano con nostalgia il periodo precedente il muro. Descrivono via Salah e-Din, la strada principale di Gerusalemme est, come un prospero centro commerciale, economico e culturale, una calamita per i palestinesi di ogni parte della Cisgiordania e di Israele. In seguito alla costruzione della barriera, tuttavia, l’accesso a Gerusalemme è diventato difficile e l’attività commerciale nella parte orientale della città si è ridotta. Negli anni seguenti circa 5.000 piccoli commerci a Gerusalemme est hanno chiuso per mancanza di clienti, cosa che ha ulteriormente intensificato la povertà. Se prima della costruzione dell’involucro di Gerusalemme la percentuale di poveri tra i palestinesi di Gerusalemme era del 60%, dopo è salita fino all’80%, ed è rimasta tuttora invariata.

Il quartiere Bir Naballah di Gerusalemme nord, per esempio, è stato chiuso fuori, trasformato in una enclave isolata. Nel passato il quartiere era un centro di locali da ricevimento. Oggi i palestinesi che vogliono entrare a Bir Naballah devono attraversare posti di blocco e nessuno vuole smorzare l’allegria di una festa in quel modo. La situazione ha portato alla chiusura della maggior parte dei locali da ricevimento e dei ristoranti.

E non sono state solo le attività commerciali a soffrirne – anche la vita culturale ne ha risentito. C’erano tre cine teatri popolari a Gerusalemme est, insieme al teatro nazionale palestinese, Al Hakawati; i cine teatri hanno chiuso e Al Hakawati si è spostato a Ramallah.

Quindici anni sono passati da quando è iniziata la costruzione del muro, e gli uffici ed i servizi governativi, come la polizia e i servizi fognari, in quei quartieri non stanno più funzionando,” dice Nisreen Alyan.

Il risultato è stato il dominio di delinquenti e famiglie criminali. Ci sono spaccio di droga, prostituzione e anche un mercato delle armi, e nessuno sta facendo qualcosa. I quartieri oltre il muro sono diventati il rifugio di criminali che scappano dalle leggi in Israele o dal sistema giudiziario dell’ANP.”

Si è detto e scritto molto sul campo di rifugiati di Shoafat (30.000 abitanti), che soffre per la scarsità di infrastrutture e per la povertà. Kafr Aqab (25.000 abitanti) e i quartieri limitrofi sono in una situazione simile. Ufficialmente si trovano all’interno della giurisdizione del Comune di Gerusalemme, ma in pratica ricevono dalla città servizi vergognosamente inadeguati.

I residenti del posto descrivono la loro condizione come “la nostra espulsione silenziosa.” Quello che vogliono dire è che, in base al fatto concreto del loro abbandono, sono convinti che il Comune di Gerusalemme e lo Stato di Israele stiano tentando di spingerli in una condizione disperata, in seguito alla quale se ne andranno, e così facendo perderanno il loro status di residenti a Gerusalemme. In questo modo non rappresenteranno più una minaccia demografica per la maggioranza ebraica della città.

Infatti la disperazione è il sentimento dilagante sia a Shoafat che a Kafr Aqab. Le ragioni di ciò non mancano, e recentemente se n’è aggiunta una nuova: il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente Trump e l’annuncio che l’ambasciata USA sarà spostata in città come omaggio a Israele per il 70° anniversario della sua indipendenza. Per i palestinesi di Gerusalemme è l’ennesima iniziativa che allontana ulteriormente le loro speranze della fine dell’occupazione e le loro aspirazioni a fare di Al-Quds – come definiscono la Gerusalemme est araba – la loro capitale. Ciò potrebbe non cambiare la loro situazione materiale, ma costituisce un colpo in più al loro morale.

Paura della partizione

Una persona che ancora non dispera di migliorare la situazione è l’avvocato Mu’in Odeh. È nato e cresciuto nel quartiere di Silwan a Gerusalemme, nei pressi della Città Vecchia. Quando si è sposato, otto anni fa, a trent’anni, ha constatato di persona la crisi abitativa del quartiere. Siccome Silwan è parte integrante di Gerusalemme, i suoi abitanti non devono attraversare posti di controllo per entrare in città, il che rende molto ricercato il fatto di abitarvi. Odeh e sua moglie non hanno avuto altra possibilità che spostarsi a Kafr Aqab, al di là del muro. Lì pagano un affitto mensile di 2.000 shekel (circa 400 €), mentre un affitto all’interno della barriera di Gerusalemme può costare due o tre volte quella somma.

L’affitto a Kfr Aqab è basso, sì, ma ci sono tre gravi problemi in questo quartiere,” dice Odeh, che ha uno studio legale privato a Gerusalemme. “Il primo è il checkpoint. Non c’è modo di sapere in anticipo se ci sarà un grande ingorgo e per attraversarlo ci vorranno due ore o se andrà veloce e potrò superarlo in un quarto d’ora.”

Il secondo problema è “l’assenza di una sensazione di sicurezza,” continua Odeh. “Non ci sono forze di sicurezza nel quartiere, né israeliane né palestinesi. L’unica istituzione che agisce qui a volte è l’esercito israeliano, che entra solo per compiere arresti legati alla sicurezza. Nessuno ci protegge.”

Odeh arriva al terzo problema: l’abbandono delle infrastrutture e della rete fognaria. Solo metà delle case sono collegate alla rete idrica, le strade secondarie non sono asfaltate e sono costellate di buche, e la spazzatura è ammucchiata dappertutto. I residenti di Kafr Aqab parlano di una carenza di aule scolastiche – secondo “Ir Amim”, un’organizzazione no profit che si dedica a creare una situazione più giusta per i palestinesi di Gerusalemme, c’è una carenza di 2.557 aule nei quartieri di Gerusalemme dall’altra parte del muro. I dati mostrano che c’è una carenza di ambulatori infantili e di centri di salute, uffici di assistenza sociale, uffici postali – e in zona non c’è neppure un parco giochi per i bambini.

Nel 2012 Odeh ha presentato una petizione contro il Comune di Gerusalemme presso il tribunale amministrativo a nome dei residenti di Kafr Aqab. Nel preparare la causa, gli abitanti hanno scoperto che il bilancio per i servizi di pulizia a Kafr Aqab ammonta a meno dell’1% del bilancio totale del Comune per quella voce. Il tribunale ha invitato le due parti a raggiungere un compromesso, e la città ha accettato di aumentare il bilancio per le pulizie all’1%.

Odeh dice che la risposta del Comune è sempre la stessa: non ci sono soldi ed è pericoloso mandare operai municipali in quei quartieri. Riguardo agli stanziamenti, dice, “paghiamo le tasse municipali e il bilancio dovrebbe essere ripartito in modo diverso. Invece in merito alle questioni di sicurezza, molti operai delle fognature sono di Gerusalemme est. Invece di mandarli in altre zone della città, perché non lavorano nei loro stessi quartieri? Se il Comune pensa che non sia troppo pericoloso per loro vivere lì, possono anche lavorarci.”

Nel 2015 Odeh ha presentato un altro ricorso, dato che i servizi comunali non sono migliorati. Il municipio afferma che, dato che è lo Stato che ha costruito il muro, dovrebbe partecipare alle decisioni. A questo lo Stato ha risposto criticando la città per aver trascurato i quartieri, benché abbia ricevuto fondi statali a loro favore. Per esempio, il ministero dei Trasporti ha informato il tribunale di aver concesso a Gerusalemme 423 milioni di shekel (circa 121.2 milioni di dollari) per migliorare infrastrutture come strade e servizi di autobus a Gerusalemme est, ma il Comune non ha utilizzato i soldi a quello scopo.

Nir Barkat è stato eletto sindaco di Gerusalemme per la prima volta nel 2008. Il suo predecessore, Uri Lupolianski, ha cercato di risolvere il problema dei suoi quartieri palestinesi nel 2005. Pensava che con 80 milioni di shekel (circa 17.5 milioni di dollari), si potesse creare una rete di servizi accettabile per quelli che erano stati tagliati fuori dal muro. “Prendi i soldi dai tuoi amici dell’Unione Europea, qual è il problema?” consigliò al sindaco l’allora ministro delle Finanze, Benjamin Netanyahu. In seguito lo stesso Netanyahu, come primo ministro, ha dovuto fare i conti con le conseguenze dell’abbandono. Un rapporto del servizio di sicurezza Shin Bet del 2008 ha fatto riferimento al crescente numero degli abitanti di Gerusalemme coinvolti nel terrorismo. C’era anche un allarme in merito alla possibilità di atti di terrorismo perpetrati da individui solitari dei quartieri di Gerusalemme est – una previsione che si sarebbe avverata qualche anno dopo.

Durante i primi anni 2000 relativamente pochi abitanti della città presero parte al terrorismo, ma il numero di attentatori residenti a Gerusalemme iniziò ad aumentare nel 2008. In un articolo di Nir Hasson nel 2014 su Haaretz, intitolato “La pericolosa anomalia imprevista di Gerusalemme est” egli ha citato palestinesi che attribuivano l’incremento a tre fattori. Il primo di questi era la barriera di separazione, che, con le parole di uno di loro, “danneggia gravemente la vita sociale ed economica a Gerusalemme.”

Un’altra proposta per risolvere il “problema dei quartieri di Gerusalemme est” è stata architettata recentemente dal ministro per Gerusalemme e il Patrimonio Nazionale, Zeev Elkin (Likud). Elkin ha fatto molte pressioni per l’approvazione di un emendamento alla “Legge Fondamentale su Gerusalemme, Capitale di Israele”. Una delle sue clausole avrebbe stabilito che i quartieri palestinesi della parte orientale della città sarebbero stati gestiti da un’autorità municipale separata rispetto a quella di Gerusalemme. L’ottobre scorso Elkin ha detto ai giornalisti di “Haaretz” Nir Hasson e Jonathan Lis che la situazione nei quartieri non potrebbe essere peggiore, ed ha proposto: “Il sistema attuale è stato un totale fallimento. È stato un errore il modo in cui hanno tracciato la barriera. Attualmente ci sono due aree municipali – Gerusalemme e i suoi quartieri – e il rapporto tra loro è molto scarso. Dal punto di vista formale l’esercito non potrebbe intervenire là, la polizia vi entra solo per (effettuare) operazioni, e la zona è diventata una terra di nessuno.”

Elkin ha anche manifestato preoccupazione per il rapido aumento della popolazione in quei quartieri, che sta disintegrando l’attuale equilibrio tra ebrei ed arabi in città, a danno della maggioranza ebraica. Il collega che ha proposto l’emendamento insieme a lui è il ministro dell’Educazione Naftali Bennett (“La casa ebraica” [partito di estrema destra, ndt]). Tuttavia molti altri deputati di destra si sono indignati all’idea di mettere i quartieri di Gerusalemme sotto l’autorità di un governo municipale a parte: essi hanno sostenuto che ciò avrebbe messo le basi per un’eventuale divisione della città, anche se solo a livello dei servizi. Ne è seguito un certo trambusto, e Elkin e Bennett sono stati obbligati a cancellare la clausola dall’emendamento. L’emendamento, il cui principale obiettivo era rendere più difficile ad ogni futuro governo rinunciare alla sovranità su una qualunque parte di Gerusalemme, è stato approvato dalla Knesset a gennaio di quest’anno, ma senza la clausola sulla “divisione”.

Un sacco di cancelli”

Ahmed Sub Laban, un ricercatore di “Ir Amim”, guida la sua auto con sorprendente destrezza nel dedalo di stradine nel quartiere A-Ram di Gerusalemme. Conosce bene ogni pezzetto di asfalto ed ogni vicolo, sa chi vive dove e può raccontare la storia di ogni edificio. “Pronta?” chiede poco prima di girare a sinistra da una stretta via senza nome ad un’altra. Improvvisamente il muro si profila davanti a noi, emergendo in tutta la sua gloria in mezzo alla strada, come se fosse caduto a caso dal cielo. Ma non c’è niente di casuale nel percorso del muro. Passa qui e non in un posto più logico perché c’è una scuola cristiana nel quartiere, a cui molti diplomatici stranieri mandano i propri figli. Non vogliono aver a che fare tutte le mattine con un posto di blocco, per cui lo Stato di Israele ha accettato di far passare il muro dietro la scuola. Il muro passa anche attraverso il cortile della casa del nonno di Sub Laban. Lo stesso Sub Laban sottolinea di aver passato un’infanzia relativamente tranquilla accanto agli ebrei del vicino quartiere di Neve Yaakov, all’estremità settentrionale della città.

Dice che fin dalle prime voci sulla costruzione della barriera, tra i palestinesi si scatenò un boom immobiliare: “Sapevamo che avrebbe cambiato il quartiere, per cui la gente iniziò a costruire in tutti i modi, per creare fatti sul terreno prima che l’occupante ci dicesse cosa avesse bisogno di un permesso e cosa no. Quelli che hanno costruito qui (sul lato che alla fine è rimasto all’interno di Gerusalemme) hanno fatto un affarone, quelli che hanno costruito là (in quello che è risultato essere l’altro lato del muro) hanno perso.” La differenza di prezzo è notevole: un appartamento di tre stanze sul lato israeliano costa 1.5 milioni di shekel (oltre 430.000 dollari), sul lato palestinese circa 16.000 shekel (48.000 dollari).

La direttrice esecutiva di “Ir Amim”, Yudith Oppenheimer, anche lei nell’auto, aggiunge che il muro a Gerusalemme “non separa solo israeliani da palestinesi, ma anche Gerusalemme est dalla Cisgiordania. La sua costruzione è stata provocata da ragioni di sicurezza, ma il percorso scelto è stato sfruttato per rispondere alle ambizioni politiche, demografiche e territoriali israeliane.”

Il geografo Arnon Soffer, professore emerito dell’università di Haifa, parla dell’estetica del muro. “Tutta questa barriera è un sacco di cancelli ed ingressi,” dice, quando ne parliamo. “La sua bruttezza è spaventosa. Entrambi possiamo concordare che è un’aggiunta estremamente brutta alla nostra capitale. Ricordo fin dall’adolescenza la classica immagine della stupenda Gerusalemme. Cosa ne è rimasto? È un errore estetico madornale, che è anche un errore geografico.”

Aggiunge: “Sa quanti palestinesi vivono a Gerusalemme? Qualcuno lo sa? Nessuno lo sa esattamente. I numeri variano da 300.000 a 400.000, e si suppone che un terzo di loro siano fuori dal muro. Ma non c’è un modo effettivo per contarli, perché nessuno sa cosa stia succedendo in quei miseri quartieri. Quale futuro stiamo preparando a noi stessi in questo terribile posto?”

La curiosità di sapere cosa succede dall’altra parte del muro è irresistibile, ma tutto quello che si può fare è ascoltare. Dall’altra parte, alla “Tomba di Rachele”, a sud della città, si sente una guida turistica spiegare in inglese fluente il muro a un gruppo che sembra avere un accento britannico. Sul lato israeliano circa 50 scolare ascoltano i loro insegnanti raccontare la storia della matriarca biblica Rachele. Chiedo se qualcuna di loro è curiosa di sapere cosa ci sia dall’altra parte del muro. Una risponde “Sì,” un’altra dice “C’è Betlemme”; tutte le altre rispondono negativamente, non sono curiose: “È così alla Tomba di Rachele.” È sorprendente con quanta rapidità un muro fatto dall’uomo possa diventare qualcosa che la gente dà per scontato.

Sfide insormontabili

Chiedo a Soffer, che ha 82 anni, come vede il futuro del muro. “Le sfide sono così terribili che sono seriamente preoccupato che voi” – riferendosi alle generazioni più giovani – “non sarete in grado di superarle,” risponde.

Infatti, a questo punto del conflitto e dato lo spirito dei tempi, è difficile immaginare che il muro possa mai crollare. Al momento non pare che succederà nel contesto di un accordo di pace, e la sua eliminazione per obiettivi di annessione ora è una missione troppo complessa. Ma ci sono anche quelli che pensano che il muro sia in realtà un segnale di speranza. Sottolineano che comunque esiste una specie di frontiera tra palestinesi ed israeliani, per quanto frammentata e discussa. Quindi lo spazio per un accordo potrebbe essere più ampio di quanto appaia in un primo momento.

Questa è la premessa di due architetti, Karen-Lee Bar Sinai and Yehuda Greenfield-Gilat (che è anche membro del consiglio comunale di Gerusalemme, in rappresentanza del Partito dei Gerosolimitani [partito laico-religioso di centro, ndt.]). Entrambi erano studenti di architettura quando venne lanciato il progetto di separazione.

Benché le implicazioni geopolitiche, spaziali ed economiche del muro siano enormi, abbiamo rilevato che la comunità locale degli architetti non è stata coinvolta nella questione,” dice Bar Sinai. “Pensiamo che gli architetti abbiano un importante ruolo da svolgere nell’assunzione di responsabilità su come sarà il confine tra Israele e Palestina. Quello che è iniziato come una tesi di laurea è diventato la nostra professione.” I due hanno fondato lo studio “SAYA/Design for Change” ed hanno prodotto numerose mappe e simulazioni con l’obiettivo di “valorizzare la frontiera tra Israele e Palestina,” come dicono loro.

Il muro attorno a Gerusalemme rimarrà,” dice Greenfield-Gilat, “ma il suo percorso cambierà una volta che siano stabiliti i confini definitivi. Secondo noi, insieme ad un cambiamento del percorso, deve cambiare anche l’essenza del muro, in modo che diventi un collegamento e non una divisione. Deve diventare una membrana che respira e rende possibile un tessuto urbano vitale.”

Se il muro rimane, ma non com’è adesso, a cosa somiglierà? I due suggeriscono che sia integrato nelle infrastrutture municipali e mostrano con immagini e mappe come ciò possa essere fatto. Un’idea, per esempio, è di collocare un attraversamento nella stazione centrale degli autobus, in modo che il controllo di sicurezza venga effettuato all’entrata della stazione viaria ed evochi un aeroporto più che un posto di blocco. Un altro attraversamento verrebbe creato sotto la porta di Damasco della Città Vecchia, vicino al sito archeologico. Propongono anche un punto di passaggio nella forma di un ponte pedonale nei pressi dell’hotel “American Colony” a Gerusalemme est. Invece di un muro, in certi punti propongono uno spartitraffico alto, che separi due parti di una strada.

Durante la nostra conversazione dico agli architetti che, benché abbiano descritto la barriera di separazione in termini eleganti, parlando di una “membrana che respira” o di “un viale di confine” – non posso smettere di immaginare un alto muro con filo spinato.

Il nostro ruolo,” replica Greenfield-Gilat, “è proprio cambiare quello che lei sta immaginando. Stiamo proponendo una soluzione che ponga le basi soprattutto per trasformare le coscienze.” A cui Bar Sinai aggiunge: “Lei dipinge la separazione tra i popoli, e va bene – quando viene deciso di separarli per ragioni di sicurezza, lasciamo fare la separazione -, ma noi stiamo parlando della connessione. Stiamo dimostrando che è possibile mettere in connessione in modo più intelligente, farlo meglio.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




La difficile situazione dei lavoratori palestinesi in Israele

Senussi Bsaikri

Middle East Monitor 11 maggio 2014

L’economia palestinese è in stato di totale collasso con una tasso di disoccupazione in Cisgiordania del 31%. Ne consegue che il numero dei palestinesi che cerca lavoro in Israele è in aumento, nonostante le difficoltà da affrontare.

Su una cifra stimata di un milione di lavoratori palestinesi che vivono in Cisgiordania, solo un piccolo numero ha il permesso di lavorare legalmente in Israele. Nel 2009 non più di 23.000 palestinesi hanno avuto il permesso di lavoro. Tuttavia circa 40.000 palestinesi continuano a lavorare in Israele, quasi la metà illegalmente.

Ne consegue che la maggior parte di questi lavoratori sono sfruttati dai datori di lavoro consapevoli della loro condizione illegale, e qualche volta non vengono nemmeno pagati. Se si lamentano sono semplicemente consegnati alle autorità. I 25.000 palestinesi che si stima entrino illegalmente in Israele ogni anno vivono nella costante paura di essere catturati dalla polizia. Secondo Moshe Ben Shi, un portavoce della polizia israeliana di confine, vengono arrestati annualmente 15.000 lavoratori palestinesi illegali.

Condizioni difficili di vita e di lavoro

in un rapporto di Al Jazeera del novembre scorso (2013) un lavoratore palestinese di Tulkarem in Cisgiordania ha descritto i Territori Occupati come “una grande prigione, in cui mancano le condizioni fondamentali della vita”, da cui decine di migliaia di lavoratori palestinesi entrano in Israele senza permesso con un viaggio che richiede fino a 24 ore, anche se Tulkarem si trova in linea d’aria a solo pochi minuti da Israele. Un altro lavoratore ha riferito alla stessa fonte che rimanere in Cisgiordania era assimilabile a “una lenta morte” per cui egli e altri come lui “vanno verso l’ignoto(in Israele) senza un permesso di lavoro”. Un terzo uomo ha detto che “gli uomini non hanno paura della prigione, nè dell’oppressione dell’occupazione”, quello di cui hanno paura più di qualsiasi altra cosa è di rimanere disoccupati.

Secondo il rapporto molti lavoratori vivono all’aria aperta senza la minima dotazione necessaria ai bisogni fondamentali della vita. Non vi sono nè utensili per cucinare nè acqua per lavarsi o per fare il bucato. Quando dormono appendono i loro vestiti ai rami degli alberi e si sdraiano a terra con le scarpe pronti a scappare se la pattuglia della polizia israeliana dovesse comparire

Non vediamo le nostre famiglie per mesi. Qualche volta ti dimentichi dei tratti del viso dei tuoi figli– che crescono mentre sei via… siamo umiliati e perseguitati… lavoriamo dall’alba al tramonto per dei salari molto bassi” ha detto un lavoratore. “Immagina” ha detto un altro, “ vivere così, un giorno dentro, uno fuori, o lavorare per qualcuno per molti giorni che poi lui rifiuta di pagarti e minaccia di denunciarti alla polizia”

Le decisioni politiche peggiorano le condizioni dei lavoratori palestinesi

Le autorità israeliane spesso prendono decisioni che hanno gravi ripercussioni sui lavoratori palestinesi in Israele. Per esempio, il fondo pensione israeliano non permette più di assicurare i lavoratori palestinesi, ed è stata stabilita una tassa annuale di 1.000 dollari per ogni lavoratore palestinese che lavora all’interno della Linea Verde ( la linea dell’armistizio del 1967).

Nel 2007 il governo israeliano ha deciso di sottoporre i lavoratori palestinesi alla legge giordana, ciò che ha avuto come conseguenza la perdita da parte di decine di lavoratori di quei pochi privilegi che possedevano, mentre i lavoratori israeliani nelle stesse condizioni hanno continuato a godere dei benefici della legge israeliana. Gli osservatori ritengono che queste decisioni costringeranno molti lavoratori a lasciare il loro lavoro non essendo in grado di pagare la tassa.

Nonostante una decisione della Suprema Corte costringa i datori di lavoro e il governo israeliano a garantire ai lavoratori palestinesi la previdenza e i diritti alla pensione in base ai contributi da loro versati, le autorità israeliane non hanno applicato la direttiva della Corte. Inoltre, è stato reso noto che un lavoratore medio palestinese versa il 17,5% del suo salario per quelle idennità, senza ricevere nulla in cambio. Da molti ciò è considerato un modo per il governo israeliano di incassare grandi somme di denaro extra senza un aumento della spesa, solamente privando i lavoratori palestinesi del loro diritti.

Questo è un indice del livello di discriminazione verso i palestinesi e viola tutta la normativa internazionale sul lavoro. Contravviene anche all’Accordo Economico di Parigi siglato da Israele e dall’OLP che non permette nessuna riduzione di salario e diritti senza il consenso delle due parti.

La politica di Israele nei confronti dei lavoratori palestinesi

Le autorità israeliane hanno indebolito [la forza contrattuale de] i lavoratori palestinesi, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e in Israele. Non esiste alcun sindacato o movimento collettivo sindacale che si occupi dei diritti dei lavoratori.

È da notare che le politiche israeliane per l’occupazione hanno spinto i giovani palestinesi ad abbandonare la scuola e trovare lavoro presso le imprese israeliane. Sono stati offerti significativi incentivi finanziari che hanno indotto un gran numero di giovani ad abbandonare la scuola e l’istruzione superiore per andare a lavorare nelle fabbriche, nelle aziende agricole e nei cantieri edili.

Per molti osservatori ciò non è esente da pericoli, particolarmente dopo la prima intifada del 1987. L’emergere di una forza lavoro molto poco istruita avrà un grande effetto sulla struttura e natura della società palestinese. Tuttavia, le restrizioni israeliane sull’attività economica palestinese negli ultimi 60 anni di occupazione hanno reso debole il mercato del lavoro palestinese; ciò scoraggia i giovani in particolare a cercare migliori lavori attraverso l’istruzione. L’economia palestinese non è stata in grado di accogliere un gran numero di persone che cercavano lavoro

La dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese [ANP] non ha migliorato la situazione dei lavoratori. Al contrario le condizioni sono peggiorate. il numero di occupati nelle istituzioni dell’ANP ha raggiunto le 160.000 unità, una cifra che non rappresenta le reali necessità del settore. La copertura dei salari di questa enorme forza lavoro ha impedito all’ANP di assistere altri lavoratori con il sostegno di cui abbisognavano.

La politica di chiusura in tutti i Territori Occupati e l’assedio di Gaza hanno duramente colpito la popolazione palestinese e la possibilità di trovare un lavoro. Come parte della repressione dei palestinesi, il governo israeliano ha incoraggiato l’impiego di lavoro a basso costo di persone provenienti da altri Paesi, peggiorando una situazione già pessima per i palestinesi.

Provvedimenti restrittivi sono in vigore riguardo l’occupazione di lavoratori palestinesi nei territori controllati da Israele e comprendono le seguenti[condizioni]:

– Devono ottenere un certificato di sicurezza per poter lavorare

Devono possedere una carta d’dentità magnetica contenente tutti i dettagli personali del lavoratore

– Devono pagare una tassa fino a 500 dollari al mese sia che lavorino che no.

Tali misure restrittive significano che si è formato un mercato del lavoro nero, con i lavoratori palestinesi vittime di un aperto e palese sfruttamento

Attraversare le barriere di sicurezza è il peggiore ostacolo che persino i lavoratori legali devono affrontare. Ogni giorno,devono mettersi in coda per ore per passare e poi trovare un mezzo di trasporto sino al loro posto di lavoro. Le misure di sicurezza comprendono ispezioni fisiche e controlli magnetici simili a quelli in aeroporto. Una conseguenza grave sulla salute delle frequenti esposizioni alle radiazioni durante il controllo di sicurezza è l’alto tasso di tumori fra i palestinesi. In molte occasioni, ai lavoratori viene impedito l’ingresso in Israele senza che vengano date spiegazioni. Perciò molti scelgono di rimanere la notte sul posto di lavoro per evitare di passare ogni giorno la sicurezza. Naturalmente questo significa che per lunghi periodi sono separati dai loro familiari anche se in linea d’aria si trovano molto vicini.

Effetti psicologici e sociali

Vivendo fra speranza e disperazione, avendo sempre a che fare con enormi insicurezze e umiliazioni, molti lavoratori palestinesi soffrono di problemi psicologici

Molti risultano disturbati, arrabbiati e pieni di odio per quello che gli israeliani gli stanno imponendo. Simili difficoltà e intimidazioni finiscono col creare un essere umano complesso, incapace di dividere le responsabilità della famiglia, in particolare l’educazione dei figli.

Vittime di truffe

Secondo l’agenzia di notizie Ma’an, alcuni funzionari israeliani, compresi un agente della sicurezza, un dirigente dell’amministrazione e un impiegato del Ministero dell’interno israeliano, insieme ad altri 23 israeliani e 11 palestinesi, hanno costituito una banda criminale che ha truffato migliaia di lavoratori palestinesi negli ultimi tre anni. La banda introduce clandestinamente in Israele i palestinesi e facilita l’emissione e la vendita di falsi permessi di lavoro riscuotendo il 40% del guadagno dei lavoratori

L’inchiesta condotta da Ma’an dice che dopo due giorni che i lavoratori sono entrati in Israele con documenti falsi, i loro nomi vengono dati dalla banda alle autorità israeliane che revocano il permesso in base alla mancanza di lavoro. La cancellazione del permesso di lavoro comporta la perdita dei diritti, stimabili in milioni di shekel israeliani.

Conclusione

La maggior parte dei lavoratori palestinesi che lavorano in Israele hanno bisogno di un sostegno per combattere una sofferenza finanziaria , psicologica e di sfruttamento. Molti si sentono perduti, abbandonati e alienati dalla comunità nella quale vivono e hanno un disperato bisogno di aiuto per poter condurre una vita onesta senza perdere la dignità. La comunità internazionale ha il dovere di costringere il governo israeliano ad attenersi al diritto internazionale e agli accordi sul lavoro assicurando così che i lavoratori palestinesi non vengano discriminati.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




“Non vedete che sto male”: cresce la campagna per la liberazione della palestinese ferita

Lubna Masarwa, Dania Akkad

Middle East Eye, 12 gennaio 2018

Israa Jaabis ha riportato ustioni su più della metà del corpo appena prima di essere incarcerata, nel 2015. Da allora lotta per ricevere cure mediche adeguate.

I sostenitori della donna palestinese detenuta che ha bisogno di cure mediche urgenti dicono che le autorità carcerarie israeliane la ignorano da due anni e ne chiedono l’immediata scarcerazione. La campagna per Israa Jaabis, che questa settimana si è guadagnata i titoli di testa sui media palestinesi, arriva mentre lei e il suo avvocato chiedono all’Alta Corte israeliana la riduzione della condanna a 11 anni. Si attende una decisione a giorni.
“Sono qui da due anni e non ricevo l’assistenza sanitaria di cui ho bisogno” ha dichiarato, giovedì, Jaabis alla Corte, ripresa dalle telecamere. “Non vedo alcuna ragione o buon motivo per cui io debba stare in carcere”. “Fisicamente, la situazione di Israa è veramente dura, ed è in condizioni difficili anche dal punto di vista psicologico” ha detto il suo avvocato, Lea Tsemel, dopo l’udienza.
Jaabis, 32 anni, è stata arrestata nell’ottobre del 2015 ed è accusata di aver tentato di far esplodere una bomba per colpire i soldati israeliani davanti a un checkpoint di Gerusalemme Est. Ma lei e la sua famiglia hanno dichiarato che stava traslocando per poter mantenere la residenza a Gerusalemme quando una bombola di gas da cucina difettosa ha preso fuoco a 500 metri dal checkpoint.
Jaabis, che ha un figlio di 10 anni, è rimasta gravemente ferita dalla fiammata, riportando ustioni sul 65% del corpo, tra cui le ferite più gravi a viso e mani. Dopo l’arresto, è stata portata al Hadassah Medical Centre, dove le sono state amputate otto dita. Prima che il trattamento medico fosse completato, però – dice la sua famiglia – è stata portata al carcere di HaSharon.
Da allora, lotta per ricevere cure adeguate e vive una vita dolorosa. Le ferite alle orecchie le hanno provocato continue infezioni e hanno compromesso l’udito. L’interno del naso è rimasto ustionato, quindi respira attraverso un piccolo foro. Non è in grado di sollevare una delle braccia e ha spasmi alle mani e ai piedi. “Non posso fasciare le ustioni perché per non riesco a mettermi le bende” ha scritto alla sorella e all’avvocato in una lettera diffusa sui social media come parte della campagna per liberarla. “Ho gli occhi secchi e provo molto dolore quando sono all’aria o ogni volta che li lavo con l’acqua. I miei occhi devono essere curati urgentemente, ma nessuno mi ascolta.”
Jaabis avrà bisogno di assistenza medica continua e di interventi chirurgici per riuscire a fare anche le cose più semplici, dice sua sorella Muna. “Sente forti dolori in ogni momento e di notte ha gli incubi. Le stanno cadendo i denti.” La famiglia di Israa si è offerta di pagare le cure, ma Muna dice che le autorità carcerarie hanno rifiutato. “Non è solo che è accusata di qualcosa che non ha commesso e di cui loro non hanno prove”, dice Muna, “Oltre a questo, l’hanno privata di diritti fondamentali come le cure mediche”.
Middle East Eye ha contattato venerdì il servizio penitenziario israeliano per un commento, e ci hanno detto di richiamare domenica per parlare con qualcuno del caso specifico di Israa. Centinaia in cerca di cure . Secondo un volontario che fornisce assistenza medica ai detenuti, e secondo il PHR-I (Physicians for Human Rights-Israel), sono centinaia i detenuti palestinesi come Israa che, ogni anno, fanno appello alle organizzazioni per i diritti, chiedendo aiuto per ottenere cure mediche.
“Devono sempre insistere, ripetendo le loro richieste di cure mediche” dice Niv Michaeli, coordinatore dei detenuti al PHR-I. “Ci vuole un sacco di tempo per ottenerle, e la qualità delle cure è molto bassa”. Amany Dayif, da tempo impegnata per i detenuti che necessitano di cure mediche nelle carceri israeliane, dice che nessuno sa quanti palestinesi detenuti da Israele abbiano bisogno di cure o quali siano le loro condizioni, perché manca la supervisione del Ministro della Salute israeliano.
“Il risultato è che il servizio penitenziario israeliano non ha alcun tipo di standard per le cure mediche. Per esempio, non si raccolgono regolarmente statistiche sulle patologie o sulla necessità di cure da parte dei detenuti, cose che sono considerate fondamentali nei sistemi sanitari degni di questo nome”. In base alla sua esperienza, dice, le autorità carcerarie israeliane gestiscono male il sistema sanitario carcerario, “principalmente perché si tratta di un’organizzazione della sicurezza che vede le cure mediche come l’ultima delle priorità”. Middle East Eye ha inviato un’email al servizio penitenziario per un commento sulle cure ai detenuti palestinesi, ma, fino a questa pubblicazione, non abbiamo ottenuto risposta.
(Traduzione di Elena Bellini)