Uccidili, sono un facile bersaglio

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Per la maggioranza degli ebrei israeliani gli arabi non sono esseri umani come noi. Questa disumanizzazione fa sì che i soldati e i poliziotti abbiano il grilletto facile.

Gideon Levy, 20 gennaio 2017 Haaretz

I palestinesi e gli arabi israeliani sono un bersaglio facile. Lo sono nei territori occupati ed in Israele. Lo sono perché il loro sangue vale poco. Vale poco a Umm al-Hiran e vale poco al checkpoint di Tulkarem. Vale poco nei cantieri edili [molti palestinesi lavorano come muratori in Israele, ndtr] e vale poco ai posti di blocco.

Quando le persone uccise sono arabe, a nessuno importa. Quando un soldato viene ucciso in un incidente, è una notizia da prima pagina. Ma quando un palestinese viene ucciso mentre sta camminando verso casa sua, a nessuno importa.

Nessuna delle persone uccise negli ultimi giorni sarebbe stata colpita a morte se non si fosse trattato di un palestinese o di un beduino. Ci sono dubbi sul fatto che ognuno di loro meritasse di morire. E’ stata una strage al fine di spostare l’attenzione da altre vicende, come è già successo in Israele e come è normale nei regimi poco trasparenti? Difficile dirlo. Ma si può con certezza dire: sono un facile bersaglio.

Lo sono stati mercoledì nel Negev. Ecco il sionismo del 2017 – la distruzione di una comunità di rifugiati beduini per costruire al suo posto una comunità ebraica. E’ la violenza che sta alla base del sionismo, nazionalista e razzista. Se si confronta questo caso con quello dell’avamposto di Amona (insediamento di coloni che doveva essere sgomberato in base ad una sentenza dell’Alta Corte israeliana, ndtr.) si ha la prova evidente dell’apartheid: negoziati e risarcimenti per gli ebrei, brutalità per gli arabi.

In nessuna situazione di espulsione di ebrei la polizia avrebbe sparato in quel modo. A Umm al-Hiran lo si può fare. E’ anche consentito ferire il capo della Lista Unita Ayman Odeh, perché la polizia è stata addestrata a pensare che i membri arabi della Knesset sono dei traditori. Questo è quanto hanno sentito dire dal loro ministro della pubblica sicurezza, Gilan Erdan (del partito di destra Likud, ndtr.).

Yakub Abu al-Kiyan, un insegnante, è stato colpito a morte nella sua macchina perché l’avrebbe lanciata di proposito contro un poliziotto. Immediatamente le autorità hanno diffuso le loro menzogne su di lui. Hanno detto che era legato allo Stato Islamico e che aveva quattro mogli. (Il deputato Ahmad Tibi [della Lista Unitaria, coalizione di partiti palestinesi di Israele, ndtr.] afferma che l’unica moglie di Abu al- Kiyan ha un dottorato di ricerca, e che suo fratello è un ispettore del Ministero dell’Educazione [i cui funzionari arabi sono selezionati in base alle informazioni dei servizi di sicurezza, ndtr.]).

Dopo questo, come si può credere alla polizia, che si è affrettata a dichiarare che lui stava deliberatamente lanciando l’auto contro un poliziotto? Almeno un testimone, Kobi Snitz, ha detto ad un sito web di aver visto il contrario. Prima la polizia ha sventagliato di proiettili l’auto di Abu al-Kinyan, e poi lui ha perso il controllo della vettura. Anche un video postato mercoledì solleva pesanti sospetti su quanto accaduto. Si ha l’impressione che gli spari siano stati precedenti all’investimento.

Ma molto altro nel corso della settimana scorsa ha preceduto gli avvenimenti di Umm al-Hiran. Nel campo profughi di Fara i soldati hanno ucciso un uomo che si era appena svegliato: 11 pallottole a bruciapelo di fronte a sua madre; i soldati affermano che stava cercando di aggredirli. Mohammed al-Salahi era figlio unico e viveva con la madre in un’unica stanza.

Nella città palestinese di Tuqu la polizia di frontiera ha ucciso un diciassettenne, Qusai al-Amour, che aveva lanciato pietre – ovvia vendetta. Poi hanno trascinato il ragazzo morente per terra come un sacco di patate. Mentre lo facevano, ha battuto la testa sulle pietre, mentre le telecamere filmavano la scena.

Il giorno dopo le telecamere hanno documentato anche l’uccisione di Nadal Mahadawi, di 44 anni, al checkpoint di Tulkarem. Una scena orribile. Lo si vede tranquillamente fermo in piedi quando i soldati sparano senza apparente ragione. Quando cerca di fuggire, in quella che sembra una corsa per salvarsi, loro lo uccidono.

Ma nulla di grave, il “terrorista” è stato ucciso. Così i media hanno descritto il fatto. Il modo in cui è stato trascinato il giovane ferito a Tuqu e l’esecuzione al checkpoint dovrebbero sconvolgere chiunque. Soprattutto dovrebbero sconvolgere tutti gli israeliani, perché chi ha fatto questo sono i loro figli, i loro soldati e i loro poliziotti. Ma le vittime erano palestinesi.

Un unico filo unisce Umm al-Hiran, Tuqu, Fara e Tulkarem – il filo della disumanizzazione che guida soldati e polizia. Inizia con le campagne di istigazione e finisce con le truppe dal grilletto facile.

Le radici sono profonde; devono essere riconosciute. Per la maggioranza degli israeliani tutti gli arabi sono uguali e non sono esseri umani come noi. Loro non sono come noi. Loro non amano i propri figli o la propria vita come facciamo noi. Sono nati per uccidere. Non c’è nessun problema ad ucciderli. Sono tutti nemici, oggetti sospetti, terroristi, assassini – la loro vita e la loro morte valgono poco.

Quindi uccideteli, perché non vi succederà niente. Uccideteli, perché è l’unico modo di trattarli.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Hebron, storia di una città sotto occupazione Video

Da Nena News

 

Il conflitto e l’occupazione nella città di Hebron raccontata dalle voci di coloni e residenti palestinesi. Il documentario di Francesco Sellari girato durante il seminario per giornalisti di Nena News

Hebron, 5 settembre 2016, Nena News – “Questo posto è la prova del fatto che abbiamo il diritto a stare ovunque in questo paese”. Basterebbero le poche parole di un colono ebreo di origini statunitensi che da trent’anni vive a Hebron, e la sua certezza resa inscalfibile dalla fede nelle Scritture, a spiegare il dramma di questa città di circa 170.000 abitanti nel sud della Cisgiordania.

Hebron – in arabo al Khalil – è la città della Grotta dei Patriarchi/Moschea di Abramo, sepolcro di Abramo, Isacco e Giacobbe e delle rispettive mogli. Un luogo sacro per ebrei e musulmani. Negli ultimi anni tuttavia, la “fama” di Hebron è associata alle durezza del conflitto e della occupazione militare israeliana. Solo per citare il più noto tra gli episodi più recenti: lo scorso 24 marzo nel quartiere di Tel Rumeida, il soldato israeliano Elor Azaria ha sparato ad un presunto attentatore palestinese, Abdel Fatah a-Sharif, ferito, disarmato e disteso a terra. La notizia è emersa e ha fatto il giro del mondo grazie ad un video girato da un attivista di B’Tselem.

In Palestina, Hebron vive una situazione paragonabile solo a Gerusalemme: una città divisa in due entità amministrative, una massiccia presenza dell’esercito israeliano, un nucleo di coloni (circa un migliaio ma mancano stime ufficiali) insediatisi nello stesso centro storico.

La città vecchia potrebbe essere un fiorente centro turistico ma nei fatti è una una città semi-deserta: tra continue tensioni e violenze, i pochi commercianti e artigiani rimasti devono convivere con i coloni e con i loro tentativi di espandere la loro presenza prendendo possesso, per vie legali e non, di case palestinesi, mentre Shuhada Street, quella che un tempo era la principale arteria cittadina,  il centro dei commerci, è zona militare chiusa dalla Seconda Intifada, ed è quasi del tutto interdetta al transito dei palestinesi.

Questo reportage video è stato realizzato alla fine di aprile 2016, nell’ambito del seminario per giornalisti organizzato da Nena News: una settimana tra Palestina e Israele per conoscere e capire la realtà del conflitto e dell’occupazione, con l’aiuto di associazioni locali, giornalisti e analisti sia israeliani che palestinesi.

Francesco Sellari

 




Rapporto Ocha della settimana 26 luglio – 1 agosto 2016

Nel corso di due distinte presunte aggressioni con coltello, rispettivamente ai checkpoints di Huwwara (Nablus) e Qalandiya (Gerusalemme), le forze israeliane hanno ucciso, con armi da fuoco, un 31enne palestinese e ferito una ragazza palestinese di 21 anni.

Nessun soldato israeliano è rimasto ferito nel corso dei due episodi. In Cisgiordania, dall’inizio del 2016, nel corso di aggressioni e presunte aggressioni effettuate da palestinesi, sono stati uccisi 60 palestinesi, tra cui 16 minori, e 11 israeliani, tra cui una ragazza. Alcuni di questi episodi hanno sollevato preoccupazione per un possibile uso eccessivo della forza e per esecuzioni extragiudiziali ad opera delle forze israeliane.

Nel villaggio di Surif (Hebron), in uno scontro a fuoco verificatosi nel corso di una operazione di ricerca-arresto che lo aveva come obiettivo, le forze israeliane hanno ucciso un 29enne palestinese. Durante l’operazione le forze israeliane hanno abbattuto, usando esplosivi e bulldozer, l’edificio di tre piani dove l’uomo si nascondeva; tre famiglie (otto persone, tra cui tre minori) sono rimaste senza casa. Nella stessa circostanza altri cinque palestinesi, tra cui due minori, sono rimasti feriti e sei sono stati arrestati; tra questi ultimi anche una donna. Il palestinese ucciso era sospettato di aver ucciso un colono israeliano e ferito la moglie e due figli in una aggressione con arma da fuoco, verificatasi il 1 luglio 2016.

Nei Territori palestinesi occupati (oPt), scontri con le forze israeliane hanno provocato il ferimento di 67 palestinesi, tra cui 14 minori. Due dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, i rimanenti in Cisgiordania. La maggior parte degli scontri sono scoppiati durante operazioni di ricerca-arresto, tra cui il sopraccitato episodio verificatosi nel villaggio di Surif, e durante una protesta, svoltasi nella città di Abu Dis (Gerusalemme), in solidarietà con i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto, complessivamente, oltre 100 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato circa 150 palestinesi.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno sette occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso agricoltori e pescatori palestinesi; non sono stati segnalati feriti o danni. In due degli episodi verificatisi nelle ARA di mare, otto pescatori sono stati arrestati e due barche sono state confiscate; i pescatori sono stati costretti a togliersi i vestiti e nuotare verso le imbarcazioni militari israeliane.

A Gerusalemme Est, a causa della mancanza dei permessi edilizi israeliani, sono state demolite venti strutture di proprietà palestinese; sfollate 17 persone e coinvolte, in modi diversi, altre 221. L’episodio più significativo ha avuto luogo il 26 luglio in una sezione del villaggio Qalandia: tale sezione rientra nei confini municipali israeliani di Gerusalemme, ma è separata dalla città dalla Barriera; in questo caso, solo una delle 15 strutture demolite era abitata. A Gerusalemme Est salgono così a 114 le strutture di proprietà palestinese demolite dall’inizio del 2016, con un incremento del 40% rispetto alle 80 strutture demolite in tutto il 2015.

In Area C, durante la settimana, non sono state registrate demolizioni; tuttavia le autorità israeliane hanno emesso molteplici ordini di demolizione e arresto-lavori per mancanza dei permessi edilizi [israeliani], permessi che è quasi impossibile ottenere. Sei delle strutture interessate al provvedimento si trovano nel villaggio di Qusra (Nablus) e sono state finanziate da donatori internazionali; fra esse figurano due pozzi d’acqua e una strada agricola. Nella stessa comunità, hanno ricevuto ordini di sfratto anche tre appezzamenti di terreno, dissodati e coltivati di recente, ma designati [da Israele] come “terra di stato”.

Nei pressi dell’insediamento di Ariel (Salfit), coloni israeliani hanno lanciato bottiglie di vetro vuote contro un veicolo palestinese, ferendo un giovane 20enne. Nei governatorati di Ramallah ed Hebron, i media israeliani hanno riferito di sei distinti episodi di lancio di bottiglie incendiarie o pietre, da parte di palestinesi, contro veicoli israeliani e verso torri militari. Nessuno di questi episodi ha causato lesioni o danni.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Dall’inizio del 2016, il valico è stato parzialmente aperto per soli quattordici giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 30.000 persone, con esigenze urgenti, sono registrate ed in attesa di attraversare.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Secondo un sopravvissuto il ragazzino palestinese stava festeggiando la visita di amici prima di essere ucciso dall’esercito

Ma’an News

22 giugno, 2016

Ramallah (Ma’an) – Dopo mezzanotte di lunedì cinque adolescenti palestinesi stavano tornando a casa dopo aver passato il pomeriggio in una piscina del villaggio di Beit Sira, a ovest di Ramallah, per festeggiare il recente arrivo dal Qatar di alcuni amici che erano venuti a passare l’estate nella loro cittadina d’origine, Beit Ur al-Tahta.

Tuttavia la loro allegria è finita quando un soldato israeliano ha cominciato a sventagliare l’auto con proiettili veri, uccidendo il quindicenne Mahmoud Raafat Badran e ferendo gravemente altri quattro ragazzi, uno dei quali ha raccontato a Ma’an lo svolgimento degli eventi che ha portato alla morte del ragazzino.

Uno dei feriti, il sedicenne Dawood Issam Abu Hassan, ha raccontato a Ma’an che sono stati “sorpresi da un uomo vestito di nero in borghese che è saltato fuori da una Toyota bianca ed ha iniziato a sparare contro di loro.” Il soldato è stato in seguito identificato dai media israeliani come appartenente alla brigata Kfir.

Dawood ha detto che lui e un altro ragazzino che era in auto hanno tentato di scappare dal veicolo dopo che è stato colpito per la prima volta e si sono nascosti sotto un ponte lì vicino per evitare altri colpi di arma da fuoco.

Nel frattempo Mahmoud è stato colpito a morte dalle fucilate e anche due fratelli sono rimasti seriamente feriti nell’episodio. Due dei feriti sono stati identificati da Ma’an come Majdi Badran, 16 anni, che arrivava dal Qatar, ed è stato colpito al torace, e Khaled Badran, in gravi condizioni.

Secondo Dawood le forze israeliane sono arrivate rapidamente ed hanno immediatamente iniziato a sfasciare l’auto palestinese, che si era schiantata contro il guardrail.

I genitori dei ragazzi, appena arrivati dal Qatar, hanno raccontato a Ma’an che stavano viaggiando in un’auto che seguiva quella in cui si trovavano i loro figli e sono stati obbligati ad assistere all’episodio che si è svolto davanti a loro e che hanno definito un “crimine israeliano”.

Gli operatori delle ambulanze della Mezzaluna Rossa palestinese hanno detto che i soldati israeliani hanno impedito ai soccorritori di raggiungere i palestinesi feriti per oltre un’ora e mezza.

Il padre di Mahmoud lavora come ambasciatore per il ministero degli Esteri palestinese in Arabia Saudita da parecchi anni, e fino al 1999 ha scontato una condanna a 15 anni nelle prigioni israeliane.

L’esercito israeliano ha ammesso di avere “erroneamente” aperto il fuoco contro passanti innocenti dopo che giovani palestinesi avrebbero lanciato pietre contro veicoli di coloni israeliani in quella zona. I mezzi di informazione israeliani inizialmente hanno comunicato che Mahmoud e i suoi amici che viaggiavano nell’auto erano “terroristi”.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Ma’an che al momento dell’incidente alcuni giovani palestinesi avevano lanciato pietre e bottiglie molotov contro automobili di coloni israeliani in circolazione sulla strada 443 a ovest di Ramallah, aggiungendo che “le forze israeliane hanno agito per proteggere altri veicoli dal pericolo immediato, hanno sparato contro i sospetti e i passanti sono stati erroneamente colpiti.”

La strada è la principale via di collegamento tra Gerusalemme e le colonie israeliane illegali nella Cisgiordania occupata, il che la rende una posizione privilegiata per i giovani palestinesi che lanciano pietre in quella zona.

Ai palestinesi è stato totalmente vietato l’uso della strada 443 – denominata “la strada dell’apartheid” dai palestinesi del luogo – fino al 2009, quando una sentenza della Corte Suprema israeliana ha stabilito che il divieto al transito da parte dei palestinesi dovesse essere tolto. Tuttavia le forze israeliane continuano a limitare fortemente l’accesso dei palestinesi alla strada con il posizionamento di checkpoint dove i palestinesi sono obbligati a sottoporsi a pesanti misure di sicurezza per ottenere il permesso di passare.

Martedì l’esercito israeliano ha aperto un’inchiesta sull’uccisione. Tuttavia, secondo l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, solo il 3% delle indagini intraprese dall’esercito israeliano hanno portato all’incriminazione contro soldati, cosa che lascia ai palestinesi ed ai gruppi per i diritti umani pochissime speranze che l’indagine possa avere effettive conseguenze.

Mercoledì il membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Taysir Khalid, del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP) ha denunciato l’assassinio.

“Il fatto che le truppe israeliane sparino frequentemente agli incroci ed ai checkpoint militari in tutta la Cisgiordania è il risultato naturale dell’educazione prevalente e dell’incoaraggiamento da parte dei circoli militari e politici israeliani,” ha detto Khalid.

Ha aggiunto che prendere di mira giovani palestinesi riflette il “cieco razzismo” che permea la società israeliana.

Martedì il segretario generale dell’OLP Saeb Erekat ha duramente condannato l’omicidio dicendo: “Questo assassinio a sangue freddo riconferma la nostra richiesta al relatore speciale ONU in merito alle esecuzioni extragiudiziarie, sommarie o arbitrarie, perché inizi un’immediata e ampia indagine sulle uccisioni extragiudiziarie israeliane contro i palestinesi, soprattutto bambini,” afferma il comunicato.

“La comunità internazionale ha la responsabilità di smettere di concedere l’impunità ad Israele per i crimini che commette contro la terra e le persone della Palestina occupata.”

Tuttavia il ministro degli Esteri israeliano ha detto in risposta all’omicidio: “Se non fosse per la difficile situazione della sicurezza, che è interamente il risultato dell’istigazione e del terrorismo palestinese, Israele non sarebbe obbligato ad utilizzare la forza per proteggere i propri civili,” nonostante l’ammissione da parte dell’esercito israeliano che Badran non aveva niente a che vedere con il lancio di pietre.

Mahmoud è uno degli oltre 220 palestinesi che sono stati uccisi dalle forze israeliane e dai coloni da quando un’ondata di ribellione politica ha travolto i territori palestinesi e Israele in ottobre. Benché un numero notevole di palestinesi siano stati uccisi in scontri con le forze israeliane, per la maggior parte sono stati colpiti a morte dopo presunti attacchi e tentativi di attacco contro israeliani, con circa 30 israeliani uccisi durante lo stesso periodo.

Gruppi per i diritti umani hanno contestato la narrazione israeliana, sostenendo che le uccisioni di palestinesi da parte delle forze israeliane rappresentano “esecuzioni extragiudiziarie”, in quanto sono state messe in atto anche quando non c’erano minacce di immediato pericolo [per i soldati. Ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




E’ tempo di porre fine alla “hasbarà”: i media palestinesi e la ricerca di una narrazione comune

Ma’an News – 24 maggio 2016

di Ramzy Baroud

Il solo fatto di essere insieme a centinaia di giornalisti palestinesi e ad altri professionisti dei media di ogni parte del mondo è stata un’esperienza edificante.

Per molti anni i media palestinesi sono stati sulla difensiva, incapaci di articolare un messaggio coerente, lacerati tra fazioni e cercando disperatamente di contrastare la campagna mediatica israeliana, con le sue falsificazioni e l’instancabile propaganda, o “hasbarà”.

E’ ancora troppo presto per affermare che ci sia stato un qualche cambiamento di paradigma, ma la seconda conferenza di Tawasol a Istanbul, che ha avuto luogo il 18 e 19 maggio, è servita come un’opportunità per prendere in considerazione un vasto cambiamento del panorama mediatico e di mettere in luce le sfide e le opportunità che i palestinesi devono affrontare nella loro ardua lotta.

Non solo ci si aspetta che i palestinesi demoliscano anni ed anni di disinformazione israeliana, imperniata su un discorso storico irreale che è stato venduto al resto del mondo come un fatto, ma anche che costruiscano una propria lucida narrazione che sia libera dai capricci di fazione e da vantaggi personali.

Ovviamente non sarà facile.

Il mio messaggio alla conferenza “La Palestina nei media”, organizzata dal “Forum Internazionale della Palestina per i Media e la Comunicazione” è che, se la dirigenza palestinese non è capace di raggiungere l’unità politica, almeno gli intellettuali palestinesi devono insistere nell’unificare la loro narrazione. Persino il più disposto al compromesso tra i palestinesi può essere d’accordo sulla centralità della Nakba, della pulizia etnica dei palestinesi e della distruzione dei loro villaggi e città nel 1947-48.

Possono, e devono, anche concordare sull’atrocità e sulla violenza dell’occupazione; sulla disumanizzazione ai chekpoint militari; sulla sempre maggiore riduzione degli spazi in Cisgiordania come risultato delle colonie illegali e della colonizzazione di quanto rimane della Palestina; sul soffocante dominio nella Gerusalemme occupata; sull’ingiustizia dell’assedio a Gaza; sulle guerre unilaterali contro la Striscia di Gaza che hanno ucciso più di 4.000 persone, per la maggior parte civili, nel corso di sette anni – e molto altro.

Il professor Nashaat al-Aqtash dell’università di Birzeit, forse più realisticamente, ha ridotto ulteriormente le speranze. “Se potessimo anche solo essere d’accordo su come presentare la narrazione riguardo ad Al-Quds (Gerusalemme) e alle colonie illegali, almeno sarebbe un inizio,” ha detto.

Il fatto ovvio è che i palestinesi hanno più cose in comune di quante ne vorrebbero ammettere. Sono stati vittime delle stesse circostanze, lottato contro la stessa occupazione, sofferto le stesse violazioni dei diritti umani e devono affrontare le stesse conseguenze future determinate dallo stesso conflitto. Tuttavia, molti sono stranamente incapaci di liberarsi dalle loro affiliazioni di fazione, di carattere tribale.

Naturalmente non c’è niente di male nell’avere orientamenti ideologici e nell’appoggiare un partito politico piuttosto che un altro. Tuttavia ciò determina una crisi morale quando le affiliazioni di parte diventano più forti di quelle con la lotta collettiva e nazionale per la libertà. Tristemente, molti sono ancora intrappolati in questa logica.

Ma le cose stanno anche cambiando; succede sempre. Dopo oltre due decenni di fallimenti del cosiddetto “processo di pace” e il rapido incremento della colonizzazione dei territori occupati, oltre all’estrema violenza utilizzata per raggiungere questi risultati, molti palestinesi si stanno finalmente rendendo conto di questi tristi fatti. Non ci può essere libertà per il popolo palestinese senza unità e senza resistenza.

Resistenza non deve necessariamente significare un fucile e un coltello, ma piuttosto l’utilizzazione delle energie di una nazione, in patria e nella “shatat” (diaspora), insieme alla mobilitazione delle comunità in tutto il mondo a favore della giustizia e della pace. Ci dev’essere al più presto un movimento in cui i palestinesi dichiarino una lotta globale contro l’apartheid, coinvolgendo tutti i palestinesi, la loro dirigenza, le fazioni, la società civile e le comunità ovunque. Devono parlare con una sola voce, dichiarare un solo obiettivo e formulare le stesse richieste, continuamente.

E’ sconcertante rendersi conto che una nazione così offesa per tanto tempo sia stata così incompresa, mentre i responsabili sono largamente assolti e visti come vittime. A un certo punto, alla fine degli anni ’50, il primo ministro israeliano David Ben Gurion si è reso conto della necessità di unificare la narrazione sionista riguardo alla conquista ed alla pulizia etnica della Palestina.

Secondo le rivelazioni del giornale israeliano” Haaretz”, Ben Gurion temeva che la crisi dei rifugiati palestinesi non si sarebbe risolta senza un sistematico messaggio israeliano secondo cui i palestinesi avevano abbandonato la loro terra di loro spontanea volontà, seguendo le direttive di vari governi arabi.

Naturalmente anche questo era un’invenzione, ma molte supposte verità nascono da una sola menzogna. Egli diede incarico ad un gruppo di accademici di presentare la storia assolutamente falsificata, ma coerente, sull’esodo dei palestinesi. Il risultato fu il documento Doc GL-18/17028 del 1961. Quel documento, da allora, è servito come pietra angolare dell’ “hasbarà” israeliana relativa alla pulizia etnica della Palestina. I palestinesi se ne andarono e non furono cacciati, era il punto cruciale del messaggio. Israele ha continuato a ripetere questa menzogna per oltre 55 anni e, ovviamente, molti gli hanno creduto.

Finché solo recentemente, grazie agli sforzi di un crescente gruppo di storici palestinesi – e di coraggiosi israeliani – che hanno smentito la propaganda, una narrazione palestinese sta prendendo forma, benché molto ci sia ancora da fare per controbilanciare il danno che è già stato fatto.

Infatti, una reale vittoria della verità ci sarà soltanto quando la narrazione palestinese non sarà più vista come una “contro-narrazione”, ma come una legittima storia autonoma, libera dai limiti di un atteggiamento difensivo e dal peso di una storia carica di menzogne e di mezze verità.

L’unico modo in cui lo vedo realizzabile è quando gli intellettuali palestinesi dedicano più tempo e sforzi nello studio e nel racconto di una “storia popolare” della Palestina, che possa finalmente umanizzare il popolo palestinese e sfidare la percezione polarizzata dei palestinesi come terroristi o eterne vittime. Quando la persona comune diventa il centro nella storia, i risultati sono più pregnanti, efficaci e incisivi.

La stessa logica può essere applicata anche al giornalismo. Oltre a trovare le loro vicende comuni, i giornalisti palestinesi devono raggiungere il mondo intero, non solo il loro tradizionale circolo di amici e sostenitori affezionati, ma la società nel suo complesso. Se la gente comprende veramente la verità, soprattutto da un punto di vista umano, non può certo appoggiare il genocidio e la pulizia etnica.

E con “il mondo intero” non mi riferisco certo a Londra, Parigi e New York, ma all’Africa, al Sud America, all’Asia e a tutto il Sud del mondo. Le nazioni di quell’emisfero possono comprendere pienamente la sofferenza e l’ingiustizia dell’occupazione militare, della colonizzazione, dell’imperialismo e dell’apartheid. Temo che l’importanza attribuita alla necessità di contrastare la “hasbarà” israeliana in Occidente abbia portato a destinare una sproporzionata quantità di risorse ed energie in pochi luoghi, ignorando al contempo il resto del mondo, il cui appoggio è stato a lungo la spina dorsale della solidarietà internazionale. Non deve essere data per scontata.

Tuttavia la buona notizia è che i palestinesi hanno fatto notevoli progressi nella giusta direzione, benché senza il riconoscimento della dirigenza palestinese. La cosa fondamentale ora è la capacità di unificare, dare forma e costruire sugli sforzi esistenti in modo che tale crescente solidarietà si trasformi in un grande successo nel suscitare una consapevolezza globale e rendere Israele responsabile dell’occupazione e della violazione dei diritti umani.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto Ocha della settimana 19-25 aprile 2016

Durante la settimana non sono state registrate uccisioni di palestinesi o israeliani. Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 70 palestinesi, tra cui 11 minori.

La maggior parte di questi scontri sono scoppiati nel corso di proteste: ad Abu Dis (Gerusalemme), contro la recente uccisione di palestinesi; a Ni’lin (Ramallah), contro la Barriera; a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la manifestazione settimanale; durante manifestazioni nei pressi della recinzione di confine tra Gaza ed Israele. I numeri di questa settimana includono sette palestinesi feriti in scontri con le forze israeliane durante una demolizione punitiva.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 26 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare, ferendo un pescatore e arrestandone altri sette, confiscando una barca e distruggendone un’altra. Due degli arrestati sono stati costretti a spogliarsi e nuotare verso le imbarcazioni della marina israeliana, sulle quali sono stati trattenuti in detenzione preventiva.

Le autorità israeliane trattengono ancora i corpi di 16 palestinesi uccisi nel corso di episodi verificatisi negli ultimi sei mesi. Secondo i media israeliani, nel marzo 2015, il Primo Ministro israeliano, ha dato istruzioni alle autorità competenti di fermare, fino a nuova comunicazione, la restituzione dei corpi di palestinesi sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 74 operazioni di ricerca-arresto; il maggior numero nel governatorato di Hebron (20 operazioni). In totale sono stati arrestati 132 palestinesi; la quota più alta di arresti è stata registrata nel governatorato di Gerusalemme: 66, tra cui 19 minori, soprattutto nella città vecchia di Gerusalemme (23 arresti) e nel quartiere di Al ‘Isawiya (23 arresti, tra cui 15 minori).

Durante la settimana, le forze israeliane hanno chiuso il checkpoint di Al Jalama (Jenin), impedendone l’attraversamento a piedi ai lavoratori palestinesi; il checkpoint è tuttavia rimasto aperto per il movimento dei veicoli. Per diverse ore è stata chiusa anche la strada tra Azzun (Qalqiliya) e Jit (Nablus) mentre era in corso una marcia di coloni israeliani, tenutasi tra gli insediamenti di Karnei Shomron e Kedumim. A Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno emesso ordini di polizia e ordini giudiziari che vietano, per 15 giorni, a 24 palestinesi di entrare nella Spianata delle Moschee/Monte del Tempio; ad altri cinque è stato vietato, fino a 10 giorni, di entrare a Gerusalemme. I provvedimenti sono motivati dal fatto che gli interessati sono stati implicati in proteste contro l’ingresso nel Complesso di coloni israeliani e di altri gruppi israeliani. Secondo i media israeliani, in seguito a presunte violazioni delle prescrizioni imposte da Israele, a due israeliani è stato proibito l’ingresso nel Complesso ed almeno altri 13 ne sono stati allontanati.

Nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), le autorità israeliane hanno effettuato una demolizione punitiva contro la casa di famiglia di un palestinese sospettato di aver ucciso, il 25 gennaio 2016, una colona israeliana. Di conseguenza, è stata sfollata una famiglia di otto persone, di cui cinque minori. Nel mese di novembre 2014, il coordinatore umanitario per Territori palestinesi occupati ha chiesto la fine delle demolizioni punitive, sottolineando che “le demolizioni punitive sono una forma di sanzione collettiva, vietata dal diritto internazionale”. Inoltre, nella zona di Sur Bahir di Gerusalemme Est, per la mancanza di un permesso di costruzione rilasciato da Israele, le autorità israeliane hanno costretto una famiglia ad auto-demolire un ampliamento della loro casa.

Questa settimana sono stati registrati due attacchi di coloni con conseguenti danni materiali: ad Husan (Betlemme), il danneggiamento di circa 7 ettari di terra agricola palestinese inondata da acque di scolo, pompate dall’insediamento colonico di Betar Illit; a Far’ata (Qalqiliya), il furto di attrezzi agricoli. Segnalato inoltre, non incluso nel conteggio, il ferimento di due palestinesi, di cui uno in modo grave, investiti da veicoli con targa israeliana. In uno dei due casi si trattava di un minore al quale le forze israeliane hanno prestato i primi soccorsi.

Una carrozza della metropolitana leggera, nell’attraversamento del quartiere di Shu’fat, a Gerusalemme Est, è stata colpita e danneggiata da una pietra (o bottiglia) lanciata, si sospetta, da palestinesi.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, continua a restare chiuso in entrambe le direzioni da ormai 70 giorni consecutivi. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare 30.861 persone, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 27 aprile, una 23enne madre di due figli e il fratello 16enne sono stati uccisi dalle forze israeliane al checkpoint di Qalandiya a Gerusalemme, in circostanze poco chiare. I corpi sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per esplicitare informazioni che gli estensori dei Rapporti considerano note
ai lettori
abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




L’ANP tratta il proprio popolo come se fosse il nemico

di Amira Hass,

Haaretz

La politica israeliana produce l’impoverimento e la disoccupazione in Cisgiordania, ma affrontarli ricade sulle spalle dell’ANP, cuscinetto tra il principale responsabile ed il popolo.

“Dove vivi? Non sai che cosa sta succedendo?”

“ Mi sto occupando delle demolizioni.”

“Lascia perdere le demolizioni; i checkpoints circondano tutte le città.”

“Vuoi dire che l’esercito pensa ancora che questo sia un deterrente?”

“ Non si tratta degli ebrei; stamattina tutti i servizi dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno installato dei checkpoints alle uscite dalle città e all’ingresso di Ramallah/El Bireh, per impedire agli insegnanti di partecipare ad una manifestazione contro il mancato rispetto degli accordi salariali firmati con loro nel 2013. Dove siamo arrivati? Dove siamo arrivati?”

Ieri i servizi di sicurezza dell’ANP hanno installato cordoni di posti di blocco nelle enclaves dell’area A, dove Israele consente alla polizia palestinese di portare armi. Hanno fatto scendere gli insegnanti dagli autobus e li hanno minacciati di confiscare le loro carte di identità. Gli autobus affittati per il trasporto degli insegnanti sono stati fatti tornare indietro. Ai tassisti è stato detto che avrebbero perso le loro licenze se avessero trasportato i dimostranti.

Chi è riuscito a raggiungere l’enclave di Ramallah e El Bireh è incappato in ulteriori checkpoints ed è rimasto bloccato in lunghe file di auto che non si muovevano. Nella stessa Ramallah il personale di sicurezza ha bloccato le vie tra il palazzo del Consiglio Legislativo Palestinese e l’ufficio del Primo Ministro.

Alle 11 di ieri mattina circa 1000 insegnanti si erano già radunati nella piazza Mahmoud Darwish, di fronte all’ufficio del Primo Ministro. Altre centinaia stavano arrivando a piedi dalle strade vicine in un flusso senza fine. Lentamente la piazza si è riempita.

“Noi, che riusciamo a superare i checkpoints israeliani, non possiamo superare quelli dell’ANP?” hanno detto gli insegnanti che arrivavano dalla zona di Hebron. “Non li abbiamo visti mettere dei checkpoints per impedire all’occupante (l’esercito israeliano) di invadere i nostri villaggi e le nostre case,” ha detto un ascoltatore irato ad una stazione radio locale.

Le proteste e gli scioperi parziali sono ricominciati circa due settimane fa. Fin dalla metà degli anni ’90 gli insegnanti del settore pubblico hanno cercato di spiegare all’ANP che i loro salari e sussidi umilianti offendono gli studenti ed il futuro dell’intera società palestinese. Martedì scorso circa 20.000 persone hanno preso parte ad una manifestazione di insegnanti a Ramallah. I servizi di sicurezza dell’ANP hanno arrestato circa 20 insegnanti e due dirigenti e li hanno rilasciati dopo due giorni. L’accusa dell’ANP che la manifestazione fosse organizzata da Hamas è stata accolta con sdegno dagli insegnanti.

Giovedì è stato raggiunto un accordo con i rappresentanti dei sindacati degli insegnanti, che è affiliato all’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ndt.) e dipende da Fatah, il partito principale dell’ANP [e di Abu Mazen,ndt]. Ma gli insegnanti hanno respinto l’accordo, che non era retroattivo. Sabato e domenica gli altoparlanti della moschea hanno diffuso ordini di rientrare a scuola, ma lo sciopero è continuato.

La protesta degli insegnanti ha portato in piazza più gente di qualunque protesta contro l’occupazione israeliana negli ultimi cinque mesi, da quando è iniziata la sollevazione dei singoli individui [la cosiddetta “Intifada dei coltelli”, ndt]. Nella situazione permanentemente provvisoria instaurata dagli Accordi di Oslo, Israele continua a determinare le condizioni di non sviluppo nel territorio palestinese, attraverso il controllo dei confini, della vasta area della Cisgiordania nota come Area C e della libertà di movimento dei palestinesi. Ma la responsabilità di affrontare l’impoverimento e la mancanza di lavoro ricade sulle spalle dell’ANP, il cuscinetto tra il principale colpevole ed il popolo.

I manifestanti lo sanno bene, ma conoscono anche l’iniqua distribuzione del reddito nazionale, indipendentemente da quanto ciò sia dovuto alle restrizioni israeliane. Vedono le eccessive risorse destinate ai servizi di sicurezza, gli sprechi e la corruzione, il clientelismo e gli esorbitanti stipendi dei principali dirigenti. Non si aspettano niente dall’occupante. Ma certo hanno qualcosa da chiedere al subappaltante che si autodefinisce governo, autorità nazionale e movimento di liberazione.

“L’ANP è impazzita,” ha detto al telefono un insegnante di Nablus che non è riuscito a superare i checkpoints. “Lei ed i suoi servizi di sicurezza si comportano come se il popolo fosse il nemico.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I suoni dell’occupazione

I sussurri, le grida ed i colpi di fucile “sentiti ma non necessariamente visti” sono parti integranti dei lavori artistico-documentaristici creati da Rehab Nazzal, che è stata ferita a una gamba dai soldati dell’esercito israeliano in dicembre.

di Amira Hass,

Haaretz 

Il soldato dell’esercito israeliano che ha ferito Rehab Nazzal a Betlemme venerdì 11 dicembre 2015, sparandole ad una gamba, non sapeva chi fosse. Non conosceva il suo nome; che è nata a Qabatiyah, vicino a Jenin; che ha 55 anni e che è anche cittadina canadese; che insegna arte in una scuola a Betlemme; che una delle sue esposizioni ha fatto arrabbiare l’ambasciatore israeliano in Canada; o che sta scrivendo una tesi di dottorato interdisciplinare che non si può sintetizzare in una frase, ma si occupa tra altre cose degli armamenti contemporanei, compresi i droni e il fatto che prendano di mira le capacità sensoriali degli esseri umani.

Ai fini della sua ricerca, Nazzal ha assistito alle manifestazioni settimanali a Betlemme in via Al-Khalil, che dall’inizio di ottobre è bloccata dal minaccioso muro di separazione e dalla torre di controllo. Filma come vengono disperse le manifestazioni, accompagna i feriti in ospedale, incontra le famiglie dei partecipanti arrestati e parla con i residenti delle case colpite dai gas lacrimogeni e dal liquido puzzolente, spruzzato da un veicolo militare noto come “La Puzzola”.

Come sempre, Nazzal quel venerdì aveva in mano una cinepresa. Stava camminando in direzione opposta rispetto ai manifestanti, che fuggivano verso sud poiché “La Puzzola” si stava avvicinando, minacciando di spargere in ogni direzione il suo liquido disgustoso, che Israele ha sviluppato come arma non letale. L’odore rivoltante impregna il corpo per parecchi giorni, e nessun lavaggio lo toglie dai vestiti. Ma per amore della sua ricerca, Nazzal ha deciso di dirigersi a nord, avvicinarsi il più possibile al veicolo “La Puzzola” e filmarlo mentre era in azione.

Non ha sentito lo sparo; era concentrata sul veicolo. Ma improvvisamente ha avvertito il dolore, come una bruciatura di sigaretta sulla gamba. I suoi pantaloni e le scarpe si sono intrisi di sangue.

La sensazione di bruciore ed il rumore dello sparo ci distoglie brevemente dal descrivere la ferita, anche solo per rispettare la massima di Nazzal, che nessun evento deve essere isolato dal suo contesto.

Poiché l’artista ha vissuto per molti anni all’estero, i suoi ricordi della conquista israeliana del 1967 sono ancora freschi. Uno di quei ricordi riguarda una visita alla prigione di Jenin, quando suo fratello tredicenne fu imprigionato dopo essere stato sorpreso a tagliare le linee telefoniche di una postazione dell’esercito a Qabatiyah [cittadina nei pressi di Jenin- Ndtr.].

“Mio fratello cominciò a gridare che voleva tornare a casa con noi.”, ha ricordato durante un’intervista ad Haaretz il mese scorso. “E ci mostrò che lo avevano torturato: quelli che lo avevano interrogato gli avevano bruciato i piedi con una sigaretta accesa.”

Ricorda i segni della bruciatura. Era una ragazzina nel 1967, e ricorda i soldati che entravano nelle case a Qabatiyah, puntando luci abbaglianti negli occhi dei residenti nel mezzo della notte. “Cerchi di vedere qualcosa, e vedi i fucili e gli scarponi.”

Ricorda i soldati che svuotavano sacchi di cibo. Riso e legumi più tardi potevano essere sistemati, ma l’incubo di sua madre era che mischiassero il sale con lo zucchero.

Nazzal dice che i soldati picchiarono suo padre di fronte a lei e ai suoi fratelli. Negli anni ’30 lui si era unito ai combattenti di Sheikh Azz A-Din al-Qassam (che lottò contro la colonizzazione britannica ed ebraica). “Immagina che cosa significò vederlo umiliato davanti a te. Tornò dalla prigione e non disse una parola sulle torture,” dice.

Ricorda che I soldati usarono i megafoni per ordinare a tutti gli uomini ed i ragazzi che avevano fucili o coltelli di portarli nella scuola, e poi irruppero nelle case in cerca di armi.

Ricorda lunghi periodi di coprifuoco. Una volta, sbirciò fuori da una fessura e vide dei prigionieri con i ferri ai piedi che buttavano giù un muro. Era un unico ricordo, di prigionieri reclutati per demolire una casa, o erano due diversi ricordi che erano affiorati? Lei non lo sa.

Nazzal aveva uno zio che insegnava inglese e ricorda l’umiliazione che gli inflissero: i soldati, che non sapevano l’arabo, lo misero sulla parte anteriore di una jeep che pattugliava la città. Gli diedero ordini in inglese e lui dovette fare il traduttore.

Il potere del suono

A Nazzal è sempre piaciuto dipingere e disegnare, ma negli ultimi 10 anni si è maggiormente concentrata su altri sensi, soprattutto sull’ascolto. Nel 2006 ha scoperto il potere del suono come strumento di arte politica, quando per la prima volta ha portato i suoi tre figli dal Canada ad incontrare la sua famiglia a Qabatiyah. Aveva vissuto all’estero dal 1980, prima in Giordania e in Siria, poi in Canada.

“Il volo da Toronto ad Amman è durato 12 ore”, ha detto. “Poi ci sono volute altre 12 ore per raggiungere Qabatiyah: checkpoints, attese, perquisizioni. Come siamo arrivati, siamo crollati a letto ed abbiamo dormito a lungo.

“Improvvisamente, sono stata svegliata da una granata stordente. Giuro che ho pensato fosse un terremoto. Ho stretto la mano di mia madre e lei mi ha detto di non preoccuparmi. Era normale. Lei ci era già abituata.

“Poi sono cominciati gli spari, e la casa al buio si è riempita di mormorii in inglese e in arabo. Ho immediatamente afferrato la mia cinepresa. Mia madre ha urlato ‘Ti uccideranno!’. Ma ciò che ho registrato erano solo i suoni e le poche luci che si potevano vedere.

“Da 30 ore di video ho estratto quattro minuti di registrazione audio (lo spettatore sente il suono, ma vede solo uno schermo nero) per il lavoro ‘Una notte a casa’. Mi ha sorpresa il modo in cui la gente lo ha recepito, perché quei suoni richiamavano rumori di violenza in altri luoghi, come il Sudamerica e la Bulgaria, in altri tempi.”

Ha scoperto che un’immagine è passibile di turbare le persone, di riempire lo spettatore di stereotipi. “Se sentono il suono di una donna che piange, si identificano con lei. Se vedono la donna in lacrime che indossa un foulard, il pregiudizio prevarrà sull’empatia.”

Ma Nazzal non ha sentito lo sparo che l’ha ferita l’11 dicembre. Un’ambulanza palestinese che si trovava nei pressi l’ha raggiunta e mentre i paramedici le prestavano i primi soccorsi, i soldati hanno tirato dalla jeep gas lacrimogeni contro di loro. “Eravamo tutti soffocati dal gas”, ha detto. Poi lei ha perso conoscenza per il dolore.

“E’ un crimine di guerra tirare gas lacrimogeni a persone che stanno curando un ferito”, ha aggiunto.

La pallottola è entrata ed uscita dal suo corpo, e fortunatamente non ha spezzato delle ossa. Lentamente è guarita dall’infezione, il dolore è passato ed ha smesso di zoppicare.

“Io sono solo una delle 600 persone ferite da armi da fuoco da ottobre”, ha detto a metà gennaio (oggi il numero è almeno di 2000). “Solo in quel giorno, ci sono stati 16 feriti a Betlemme.”

Quando è stata colpita, la sua videocamera si è spostata dall’immagine della”Puzzola” e della strada vuota. Più tardi si è accorta che aveva filmato una jeep della polizia di frontiera e due cecchini che stavano dietro ad una colonna all’entrata dell’albergo di fronte al quale lei si trovava. L’asfalto intorno alla jeep era coperto di pietre.

Haaretz ha chiesto all’esercito israeliano se ci fossero ordini di sparare ai fotografi. L’Ufficio del portavoce dell’esercito ha risposto che quel giorno c’era una dimostrazione violenta vicino alla tomba di Rachele, durante la quale due ufficiali dell’esercito sono stati feriti e che “i soldati hanno risposto con metodi per disperdere la folla.” Ha aggiunto che sono stati feriti diversi palestinesi, e che la procura militare sta predisponendo un’ indagine sulla vicenda.

Nazzal aveva un altro fratello, che studiava ad Amman quando scoppiò la guerra nel 1967; Israele non gli ha mai permesso di tornare. Non si ricorda di lui, e non lo ha mai incontrato prima che gli ufficiali della sicurezza israeliana lo assassinassero in Grecia nel 1986.

Ha mostrato il funerale in un video intitolato “Mourning [Lutto]” alla sua esposizione ad Ottawa nel 2014. Un altro video mostrava i volti di altri palestinesi uccisi durante gli attacchi contro israeliani o in operazioni omicide. Si è rifiutata di commentare i rapporti che mettevano in relazione suo fratello ad attacchi che hanno ucciso dei civili, compresi dei bambini, come quello alla scuola di Maalot nel 1974 [nell’attacco, avvenuto in occasione del 26° anniversario della nascita di Israele vennero uccise, oltre agli aggressori, 26 persone, tra cui molti bambini di una scuola, e 66 vennero ferite. Ndtr.].

“Se c’è qualcuno che può parlare di perdere dei figli, quelli siamo noi”, ha replicato Nazzal. “Circa 800.000 persone scacciate nel 1948 hanno perso la loro patria. Io lavoravo in Giordania aiutando le famiglie sopravvissute. Ero sconvolta dal numero dei nostri morti: 50.000.

Se c’è qualcuno che può parlare di umiliazione e tortura, siamo noi.”, ha proseguito. “Andate ad Hebron, guardate i soldati che controllano le mani degli scolari per scoprire i segni (che hanno tirato pietre). Andate a vedere gli alberi che Israele sradica ogni giorno. Non è possibile separare un evento o una persona dal complessivo contesto di questa martoriata terra.”

Traduzione di Cristiana Cavagna




Che cosa spinge i funzionari della sicurezza palestinese a ribellarsi contro gli israeliani?

La situazione in Cisgiordania ha spinto alcuni palestinesi a perpetrare un’occupazione contro il loro stesso popolo

di Edo Konrad

+972 Magazine

Domenica mattina il 34enne Amjed Sakari, membro dei servizi di sicurezza palestinesi, ha guidato la macchina fino ad un checkpoint israeliano riservato esclusivamente al personale dell’Autorità Nazionale Palestinese. Alla richiesta di esibire il suo documento di identità, è saltato fuori dalla macchina ed ha aperto il fuoco, ferendo tre soldati israeliani. Come reazione, l’esercito israeliano ha posto Ramallah, la capitale politica e finanziaria della Cisgiordania, sotto assedio quasi totale.

Sakari, guardia del corpo del procuratore capo palestinese, è solo il secondo membro delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese ad aver compiuto un attacco da quando, lo scorso ottobre, è scoppiata l’ultima ondata di violenze. Il primo è stato Mazan Hasan Ariva, un funzionario dell’intelligence dell’ANP, che ha aperto il fuoco contro un civile israeliano ed un soldato al checkpoint di Hizma, vicino a Ramallah, nel dicembre dell’anno scorso.

Come ha sottolineato Amos Harel (uno dei più importanti commentatori israeliani in materia di difesa, ndt), è troppo presto per dire se le azioni di Sakari e Ariva preannunciano ciò che sta per accadere, e per ora l’attuale momento politico dovrebbe concedere una pausa.

Dall’inizio dell’occupazione nel 1967 fino al 1993, Israele ha costituito l’unico potere sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Gli Accordi di Oslo hanno prodotto una serie di accordi politici ed economici tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il più importante dei quali è stato la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – un’entità provvisoria di autogoverno insediata per gestire le questioni di sicurezza e civili in alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

L’ANP, mentre non è stata autorizzata ad avere un esercito, ha potuto creare le proprie forze di sicurezza, comprese polizia e servizi segreti. Queste forze agiscono in collaborazione con lo Shin Bet (servizi di sicurezza israeliani, ndt.) e con l’esercito israeliano per sventare attacchi contro civili e militari israeliani, ed anche per impedire rivolte contro l’ANP nelle aree A e B.

Sulla carta, Oslo ha delineato un processo di anni per garantire un’autonomia graduale ai palestinesi nei territori occupati. In realtà, i successivi governi israeliani hanno usato l’ANP per affidare i compiti di sicurezza dell’esercito israeliano alla nascente polizia palestinese, addestrata dagli americani.

Intanto, la colonizzazione israeliana ha continuato ad erodere la già minacciata contiguità territoriale in Cisgiordania. Oggi si contano più di mezzo milione di coloni israeliani oltre la Linea Verde (linea di demarcazione stabilita con l’armistizio del 1949 tra Israele e i paesi arabi, ndt.), appoggiati da uno dei governi maggiormente favorevoli alle colonie della storia di Israele.

pa-policeLa polizia dell’Autorità palestinese cerca di impedire ai giovani del campo profughi Aida di scontrarsi con le forze israeliane, Betlemme, Cisgiordania , 27 settembre 2013.(Ryan Rodrick Beiler/Activestills.org)

I palestinesi della Cisgiordania hanno incominciato a provare rancore verso il proprio governo tanto quanto verso il potere israeliano. Secondo un sondaggio pubblicato a dicembre dal Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca, due terzi dei palestinesi chiedono che il presidente Mahmoud Abbas si dimetta. Inoltre, il sondaggio rivela che se si tenessero oggi le elezioni presidenziali, un candidato di Hamas, la fazione avversa, otterrebbe una netta vittoria su Abbas.

L’attuale compromesso è utile sia al governo israeliano che alle elite palestinesi a Ramallah: Abbas può utilizzare le sue forze di sicurezza per reprimere la violenza e il dissenso, da parte di singoli individui e di Hamas. Per Israele, Abbas è un capro espiatorio – colui che può essere biasimato per le mosse unilaterali per ottenere il riconoscimento internazionale o ogni volta che la violenza esplode in Cisgiordania. Nonostante ciò che Netanyahu possa far credere, comunque il governo di Abbas è la chiave del futuro dell’occupazione israeliana.

Allora che cosa fanno quei palestinesi che sono inseriti nell’apparato di sicurezza quando si rendono conto che la partita è truccata – che loro stessi stanno svolgendo il compito dei soldati occupanti contro il proprio popolo? Che cosa fanno quando capiscono che, di fatto, non c’è via d’uscita?

Un’occhiata alla pagina Facebook di Sakari getta una luce sul suo dilemma. Nelle prime ore di domenica mattina, Sakari ha pubblicato su Facebook una sua dichiarazione in cui afferma che non ha senso vivere “finché l’occupazione opprime le nostre anime ed uccide i nostri fratelli e sorelle.” La notte precedente, Sakari ha pubblicato un’affermazione, secondo cui “Ogni giorno abbiamo notizie di morti….Perdonatemi, forse io sarò il prossimo.”

Gli israeliani sono giustamente spaventati dalla prospettiva di ulteriori attacchi proprio da parte delle persone impegnate a proteggerli. Il collasso dell’ANP non è impossibile; un crescente numero di membri del servizio di sicurezza palestinese che si rivoltano contro i loro padroni israeliani, sostenuti da un’indomabile popolazione civile ormai sull’orlo di un’autentica rivolta popolare, potrebbe mettere fine al “coordinamento sulla sicurezza” su cui si basa Israele per mantenere lo status quo. Il problema è se la leadership israeliana possa offrire un progetto alternativo che garantisca reale potere ed autorità al popolo palestinese, non solo ai suoi subappaltatori.

 

Edo Konrad è uno scrittore, blogger e traduttore, che vive a Tel Aviv. Ha precedentemente lavorato come redattore di Haaretz, ed è attualmente vicedirettore di +972 Magazine.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)

Riferimento Twitter: @edokonrad