Gli spudorati raid israeliani su Jenin alimentano una più accanita resistenza palestinese

Mariam Barghouti

27 febbraio 2024 +972 Magazine

Dal 7 ottobre le continue incursioni israeliane nel campo profughi di Jenin hanno ucciso quasi 100 palestinesi, tra cui molti civili. Ma mentre aumenta la repressione i figli della Seconda Intifada stanno imbracciando le armi

Nelle prime ore del 23 febbraio le forze armate israeliane hanno bombardato un veicolo nel campo profughi di Jenin, uccidendo tre residenti palestinesi del campo. L’obiettivo dell’attacco operato con i droni era il 27enne Yasser Mustafa Hanoun, comandante sul campo della Brigata Jenin – ufficialmente il braccio armato della Jihad islamica palestinese (PIJ), ma che negli ultimi anni ha operato come gruppo ombrello per una varietà di giovani palestinesi che vanno dal PIJ a Hamas, Fatah e persino al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), di sinistra e laico. Hanoun è stato ucciso sul colpo, in un attentato che ha ucciso anche Saeed Jaradat, 17 anni, e Majdi Nabhan, 20 anni, ferendo altri 15.

Negli ultimi mesi e in concomitanza con il continuo bombardamento israeliano della Striscia di Gaza, la Cisgiordania ha subito un forte aumento delle violente incursioni da parte delle forze israeliane. Se il 2023 è stato in Cisgiordania l’anno più mortale in circa due decenni con più di 500 vittime, almeno un quinto proveniva dalla sola Jenin.

Con la stessa tendenza dal 7 ottobre soldati e coloni israeliani hanno ucciso nel territorio 410 palestinesi, di cui 93 solo a Jenin. L’anno scorso la città ha dovuto spianare un appezzamento di terreno appena fuori dal campo profughi per farne un nuovo cimitero, poiché il cimitero comune era diventato troppo pieno e troppo in fretta.

Il campo profughi di Jenin è un microcosmo degli attacchi israeliani ai palestinesi che osano resistere alle sue politiche di esproprio e sfollamento. Mentre l’esercito israeliano sta pianificando un’operazione di “controinsurrezione” a lungo termine a Gaza come fase successiva alla guerra, Jenin getta luce su ciò che potrebbe esserci in serbo.

Il punto sono i palestinesi, non i palestinesi che resistono

Le incursioni dell’esercito israeliano a Jenin e nel suo campo profughi si sono susseguite quasi ininterrottamente dal 7 ottobre. L’invasione di gran lunga più vasta si è verificata tra il 12 e il 15 dicembre, quando i soldati israeliani hanno assediato l’intero campo per 60 ore: il raid più lungo e violento del suo genere da quando il campo fu quasi distrutto durante l’“Operazione Scudo Difensivo” nel 2002, nel pieno della Seconda Intifada.

Dopo aver portato a termine l’offensiva, il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato di aver arrestato 14 persone ricercate e “eliminato 10 terroristi” nel campo. Ma secondo testimoni oculari e residenti, almeno 12 palestinesi sono stati uccisi – 10 dei quali erano civili e non combattenti, compreso un bambino – mentre almeno altri 42 sono rimasti feriti da colpi di arma da fuoco, gas lacrimogeni e droni d’attacco israeliani.

Non esiste qualcosa come ‘questo è un combattente e questo no’ ”, ha detto a +972 Sami, un uomo sulla trentina che ha scelto di usare uno pseudonimo per paura di misure punitive da parte dell’esercito israeliano, in merito all’incursione che ha avuto luogo la sera del 13 dicembre. “Siamo tutti un bersaglio”, ha aggiunto, mentre le jeep militari pattugliavano le strade appena fuori dal campo profughi.

Alcune ore dopo il ritiro dell’esercito, la mattina del 15 dicembre, Umm Imad Ghrayeb, 72 anni, camminava per le strade fangose e in rovina del campo per la prima volta da tre giorni. Non sapeva da dove cominciare a raccontare le ore di orrore che aveva dovuto sopportare.

Eravamo solo noi anziani e mio marito non riusciva nemmeno ad alzarsi”, ha raccontato Ghrayeb a +972. “[L’esercito] ha sfondato la porta di casa nostra, anche se l’avevamo lasciata aperta per dimostrare che non abbiamo nulla da nascondere”.

Come è successo a molte altre famiglie, i soldati hanno chiuso Ghrayeb e suo marito in una stanza mentre l’esercito ha trasformato la casa in una base militare. Nel frattempo, intorno alle case continuavano spari e bombardamenti. “Tutto quello che potevamo sentire erano colpi forti, uno dopo l’altro”, ha ricordato Ghrayeb.

L’attacco di dicembre non è stata una semplice operazione di ricerca e arresto, e nemmeno un’operazione contro i combattenti della resistenza come affermato dall’esercito israeliano. Secondo quanto riferito, almeno 1.000 palestinesi – tutti uomini e ragazzi, per lo più giovani, comprese persone con malattie croniche – sarebbero stati arrestati nel corso delle 60 ore di invasione. La maggior parte è stata infine rilasciata, ma non prima di essere portata al campo militare di Salem a nord-ovest di Jenin o sottoposta a brutali interrogatori sul campo.

Quelli sottoposti a quest’ultima pratica venivano spesso bendati, spogliati e lasciati in faticose posizioni da seduti spesso all’aperto al freddo e alla pioggia. Alcuni detenuti hanno riferito che mentre erano detenuti i soldati li hanno coperti con la bandiera israeliana; i video hanno successivamente confermato queste testimonianze.

Da una casa del campo i soldati hanno pubblicato video sui loro account TikTok e sui social media in cui si mostravano fumare allegri il narghilè in un soggiorno con uomini palestinesi bendati costretti a star seduti sul pavimento.

Più che voler descrivere gli abusi subiti, gli abitanti del campo continuano a porsi la stessa domanda: “Perché?” Tenendo i palmi uniti e riuscendo comunque a mantenere un sorriso, Ghrayeb ha ricordato con voce tremante: “Tutto quello che abbiamo fatto è stato pregare: ‘Oh caro Dio, aiutaci’. Cos’altro potevamo fare?”

Se ce ne andiamo, chi resta?”

Mentre i residenti del campo di Jenin stavano subendo una campagna del terrore, i combattenti della resistenza palestinese hanno affrontato i soldati israeliani all’esterno del campo. Si sono radunati anche giovani disarmati provenienti da zone vicine, alcuni lanciando pietre, altri facendo la guardia e altri ancora imprecando ad alta voce contro i soldati.

Quando ho chiesto ad alcuni giovani palestinesi perché fossero in strada durante l’incursione pur sapendo che non avrebbero potuto entrare nel campo assediato, molti hanno risposto con un sentimento collettivo: “Almeno ci stiamo provando” e “Forse potremmo attirare l’attenzione dei soldati su di noi, per contribuire a mitigare la forza della violenza sul campo”.

Con i combattenti della resistenza armata non più all’interno del campo la popolazione dei rifugiati è rimasta senza protezione e alla mercé dei soldati israeliani. L’esercito ha assediato la zona, bloccato la circolazione delle merci e tagliato la fornitura di elettricità e acqua. “Non è consentito l’ingresso dei beni di prima necessità per esseri umani”, ha detto a +972 Eli, che ha scelto anche lui di usare uno pseudonimo, mentre osservava da lontano le jeep militari.

Guarda il campo”, diceva Sami mentre la sera del 13 dicembre si faceva più fredda, con i militari che si avvicinavano a un gruppo di giovani riuniti vicino a una clinica adiacente al campo. “Nessuno può entrare. Nessuna ambulanza. Niente latte per i neonati. Nemmeno il pane”, diceva.

Oltre a ciò, i soldati israeliani, compresi i cecchini, hanno ostacolato l’ingresso nel campo dei giornalisti e delle ambulanze nel campo. Ogni tentativo di avvicinarsi al campo veniva accolto dagli israeliani con violenta ostilità, incluso il lancio di proiettili veri direttamente contro il personale medico e i giornalisti.

Nel frattempo all’interno del campo le forze israeliane hanno danneggiato gravemente numerosi edifici imperversando di strada in strada. Nash’at Samara, insieme alla moglie e ai figli, si trovava a casa di suo fratello fuori dal campo quando è iniziata l’incursione; ha potuto rientrare nel suo quartiere solo dopo il ritiro dell’esercito. Non è tornato a una casa, ma alle rovine di una casa: era stata fatta saltare in aria, le piastrelle della cucina erano staccate dai muri e gli averi della famiglia erano stati saccheggiati.

“Perché hanno distrutto la nostra casa?” chiedeva a +972 mentre camminava tra le macerie della sua cucina. Guardando il cibo sul pavimento, diceva con una voce addolorata: “La resistenza si combatteva nelle strade, o fuori, non nelle case, e certamente non nel frigorifero”.

Il punto era umiliarci”, ha detto dell’invasione Walid Abu el-Fahed, 45 anni, il giorno che le forze israeliane si sono ritirate, percorrendo la scia di distruzione che avevano lasciato nel campo.

Più che umiliazione, tuttavia, queste pratiche servono a cacciare i palestinesi. Per l’esercito israeliano, le invasioni e le operazioni militari nelle case civili, negli ospedali o nelle scuole, oltre alle demolizioni di case e ai pogrom dei coloni, sono diventate una pratica sempre più comune che contribuisce all’espropriazione deliberata e allo sfollamento dei palestinesi.

Nell’arco di 116 giorni, tra ottobre 2023 e gennaio di quest’anno, Israele ha sfollato in Cisgiordania 2792 palestinesi. Si tratta di un aumento del 775% delle persone rimaste senza casa rispetto al numero dei palestinesi sfollati in tutti i primi nove mesi del 2023. Inoltre, come a Gaza, la maggioranza dei palestinesi uccisi in Cisgiordania non sono combattenti della resistenza ma civili, di cui quasi un terzo sono bambini e minori.

Tuttavia, nonostante le difficoltà, molte famiglie scelgono ancora di rimanere nelle proprie case. “Restiamo perché dobbiamo restare nella nostra patria”, spiega Abu el-Fahed guidando per le strade demolite dai bulldozer del campo profughi di Jenin mentre i suoi figli giocano sul sedile posteriore dell’auto. “Se io me ne vado con i miei figli, e lei se ne va con i suoi figli, e lui se ne va con i suoi figli”, comincia a chiedere Abu el-Fahed, “allora chi rimane?”

Nascita della resistenza

Sono nato con l’occupazione e i soldati, e morirò con l’occupazione e i soldati”, ha detto Eli mentre l’invasione e l’assedio continuavano per la terza notte. “Sparare, uccidere, sangue: questa è la vita dell’intera popolazione palestinese”, ha continuato depresso.

L’ultima volta che Israele ha condotto un’operazione così massiccia, tuttavia, è stato al culmine della Seconda Intifada, nel 2002. I danni di quell’incursione – parte dell’“Operazione Scudo Difensivo”, durante la quale le forze israeliane hanno invaso diverse città palestinesi in Cisgiordania nel corso di un mese –, la distruzione delle infrastrutture e delle istituzioni palestinesi ammonta secondo la Banca Mondiale ad una cifra stimata in più di 330 milioni di euro.

Oltre alle perdite materiali, l’incursione ha creato una generazione di palestinesi traumatizzati che non solo sono stati profondamente scossi dagli eventi di quell’anno, ma da allora hanno dovuto crescere con ulteriori violenze militari israeliane. All’epoca, le associazioni per i diritti umani avevano avvertito dell’impatto negativo che l’invasione del 2002 avrebbe avuto su quei bambini.

Più di due decenni dopo l’esercito israeliano continua ancora a effettuare raid regolari e intensi nelle città palestinesi della Cisgiordania. Anche la costruzione di colonie è in aumento, e con esse il tasso e la gravità degli attacchi ai palestinesi dei coloni che continuano a godere di un’impunità quasi totale ai sensi del sistema giudiziario israeliano. Gli arresti arbitrari e le umiliazioni dei palestinesi ai posti di blocco militari israeliani restano la norma, e gli omicidi extragiudiziali sono diventati il modus operandi degli ultimi anni.

Per i palestinesi in Cisgiordania l’intensificarsi degli attacchi israeliani è avvenuto soprattutto all’indomani dell’“Intifada dell’Unità” del maggio 2021, durante la quale i palestinesi tra il fiume e il mare si sono ribellati contro il governo israeliano e le forze di occupazione. Successivamente Israele ha lanciato l’“Operazione Break the Wave” (Spezzare l’onda), una serie di operazioni militari in tutta la Cisgiordania che hanno visto l’uso di forza letale contro i civili e missioni di assassinio extragiudiziale, illegali secondo il diritto internazionale.

Non sorprende, quindi, che la determinazione dei giovani palestinesi a prendere parte agli scontri militari con l’esercito israeliano non abbia fatto che crescere. Dopo l’Intifada dell’Unità un gran numero di palestinesi ha preso a impegnarsi nella resistenza armata, spesso unendosi a battaglioni locali non allineati con i tradizionali partiti politici palestinesi.

Ricordatevi, i ragazzi del 2002 ora sono la resistenza”, ha detto a +972 Abu el-Fahed, residente a Jenin, alcune ore dopo il ritiro dei militari dell’incursione di dicembre. Ricorda ancora la brutalità e la paura di quelle settimane. “[Israele] ha cercato di spostarci nel 2002”, dice. “Ci hanno distrutto la casa sopra la testa, ci hanno detenuti in massa e ci hanno ucciso”.

Questa inevitabile realtà non è né segreta né nuova per i palestinesi in generale, e per quelli di Jenin in particolare. “Ciò che distruggono lo ricostruiremo e i nostri figli saranno dei leader”, ha detto Abu el-Fahed.

Tuttavia, per poter crescere leader i bambini devono rimanere in vita. Israele ha portato avanti l’operazione di dicembre con il pretesto di prendere di mira sospetti combattenti palestinesi, usando gli attacchi di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele come scusa per giustificare l’incursione letale, ma almeno un quinto delle persone uccise a Jenin sono bambini e minorenni.

“Veniamo uccisi comunque”

Continuando la tendenza, il 30 gennaio le forze israeliane sotto copertura hanno effettuato un omicidio mirato nell’ospedale Ibn Sina di Jenin. Poco dopo l’alba, i soldati della famigerata unità Duvdevan – travestiti da personale medico e pazienti palestinesi – sono entrati nell’ospedale, hanno estratto le armi davanti al vero personale e ai pazienti e hanno marciato verso il terzo piano dell’ospedale.

Lì le forze sotto copertura hanno assassinato extragiudizialmente Basel al-Ghazzawi, un combattente di 18 anni della Brigata Jenin che stava ricevendo cure per le ferite riportate in un precedente attacco a Jenin dell’esercito israeliano. Da un anno e mezzo Israele cercava di assassinarlo.

Sono stati uccisi anche altri due uomini che erano in visita ad al-Ghazzawi: suo fratello Mohammed al-Ghazzawi, di 23 anni, uno dei cofondatori della Brigata Jenin, e il loro amico Mohammad Jalamnah, 27 anni, che è un combattente senior della Brigata. Secondo giornalisti locali sul posto, l’unità israeliana sotto copertura ha ucciso i tre uomini con pistole silenziate.

Nonostante gli uomini fossero combattenti attivi nella Brigata Jenin, il loro assassinio all’ospedale Ibn Sina non solo è illegale perché si tratta di un omicidio extragiudiziale, ma viola anche la Convenzione di Ginevra. Ancora più allarmante, questo attacco segnala un’escalation degli spudorati crimini di Israele in Cisgiordania.

Nell’ottobre 2022 ho intervistato un protagonista combattente della resistenza palestinese, Nidal Khazem, chiedendogli perché avesse scelto di imbracciare le armi nonostante il rischio che ciò rappresenta per la sua vita. Khazem ha detto con molta calma: “[L’esercito israeliano] viene qui, uccide i nostri amici e la nostra famiglia, abusa e umilia le donne e ci nega l’accesso [al culto] ad Al-Aqsa”. Questo sentimento è condiviso dalla maggior parte dei combattenti della resistenza che ho intervistato negli ultimi due anni in Cisgiordania, e tutti ripetevano la stessa opinione: “Verremo uccisi comunque”.

Khazem è stato ucciso diversi mesi dopo, nel marzo 2023, in un assassinio extragiudiziale compiuto da forze israeliane sotto copertura appartenenti a Duvdevan. Anche Yousef Shriem, un altro combattente della resistenza e amico intimo di Khazem, è stato ucciso. Anche un terzo ragazzo di 13 anni è stato ucciso mentre attraversava Jenin in bicicletta durante l’operazione.

Nel luglio 2023, appena tre mesi dopo l’uccisione di Khazem e Shreim, Israele ha effettuato un’altra incursione distruttiva nel campo di Jenin utilizzando droni, un elicottero armato e artiglieria pesante a terra. Nel corso di due giorni l’esercito israeliano ha provato, senza riuscirci, a mantenere il pieno controllo del campo profughi, finendo sotto il fuoco dei combattenti della resistenza con una frazione delle loro capacità e risorse militari. Durante i raid letali contro campi profughi palestinesi, paesi, città e villaggi, l’esercito israeliano ha ucciso più civili che militanti palestinesi. Israele non solo non è stato in grado di fermare la crescita dei gruppi di resistenza armata nel campo profughi di Jenin, ma ha provocato l’ascesa di una maggiore resistenza armata in diversi distretti tra cui Tulkarem, Nablus, Ramallah, Hebron, Tubas e Gerico.

L’unica difesa che sembrano avere i palestinesi sono i gruppi di resistenza armata, nonostante le loro piccole dimensioni e la mancanza di armi. Nel tentativo di sradicarli, Israele sta aprendo la strada alla creazione di una comunità palestinese completamente indifesa – composta da anziani, minori e malati – che resta un bersaglio facile per uno degli eserciti più avanzati del mondo. Incapace di limitare la resistenza o di prendere di mira efficacemente i combattenti, tuttavia, l’esercito israeliano si è ridotto a tentativi di omicidio extragiudiziale nei momenti in cui i combattenti sono più vulnerabili e non impegnati in battaglia.

Quello che hanno fatto nel campo è una replica di Gaza: dall’umiliazione degli uomini spogliati nudi all’attacco alla moschea e alla distruzione di case”, ha riassunto Abu El-Fahed, indicando gli edifici grigi che un tempo erano case del campo.

L’obiettivo è uno: liberare la Palestina”

A differenza di Gaza, tuttavia, i gruppi armati palestinesi in Cisgiordania non dispongono di un unico organismo organizzato per lo scontro armato. Sono invece gruppi di uomini della comunità, vicini di casa, parenti e amici d’infanzia che si ritrovano ad affrontare non solo un esercito potente, ma anche un esercito che opera con politiche discriminatorie che producono persecuzioni e apartheid.

Cosa pensi che significhi essere [affiliato a] Hamas o Jihad islamica palestinese?” chiede un combattente di Hamas sulla trentina, che chiameremo “A”, seduto a metà ottobre in un piccolo soggiorno nel campo profughi di Jenin. E dice: “Significa poter acquistare un’arma”, mentre un altro combattente accanto a lui annuisce in segno di approvazione.

L’altro uomo, “B”, all’inizio dell’anno scorso aveva disertato dalle forze di sicurezza palestinesi dell’Autorità Palestinese – di cui era ufficiale. Sebbene i due appartengano a fazioni politiche rivali, uno di Fatah e l’altro di Hamas, sono insieme in un unico battaglione sotto l’egida della Brigata Jenin.

“Per la Jihad islamica palestinese non è una questione di potere o denaro”, ha detto a +972 un terzo combattente “C”, che ha appena 20 anni ed è il più giovane del gruppo, seduto accanto ai due uomini. “L’obiettivo è uno: liberare la Palestina per poter vivere liberamente. Ecco perché combatto con [la Jihad], ma non per loro.

Tutti gli uomini hanno sottolineato che, si tratti di Hamas, Fatah, PIJ o qualsiasi altra fazione, alla fine fanno tutti parte della stessa comunità che cerca di difendersi dai continui e intensi attacchi alla loro vita da parte delle autorità, dell’esercito e dei coloni israeliani.

Capisci che per noi sono queste le vie di confronto”, spiega A. “Siamo persone umili, dobbiamo racimolare i soldi per permetterci un’arma con cui reagire”.

Per i combattenti della resistenza palestinese a Jenin e altrove in Cisgiordania, l’affiliazione politica come procedura per tracciare linee di divisione è cosa del passato. Non si tratta più del quadro Hamas contro Israele o di attacchi di lupi solitari, ma di una comunità riunita sotto l’ombrello dell’opposizione all’occupazione israeliana che ha raggiunto l’apice delle sue pratiche violente nel genocidio in corso dei palestinesi.

Anche se la linea politica è diversa da quella di Gaza, alla fine Israele tratta i palestinesi ovunque allo stesso modo. “Siamo una serie di bersagli per [il Ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar] Ben Gvir e [il primo ministro Benjamin] Netanyahu”, ha spiegato “D”, un combattente sulla quarantina che teneva d’occhio le due jeep israeliane nelle vicinanze, pronte a caricare il centro città in qualsiasi momento.

L’esercito israeliano sta fallendo a Gaza ed è venuto a ottenere risultati a Jenin”, ha continuato. “È così che i media israeliani possono mostrare alla gente che stanno raggiungendo gli obiettivi”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Nuovi rapporti confermano mesi di torture, abusi e violenze sessuali da parte di Israele contro i prigionieri palestinesi

Yumna Patel

27 febbraio 2027 Mondoweiss

Per mesi i prigionieri palestinesi hanno dato testimonianze di torture per mano delle autorità militari e carcerarie israeliane. Nuovi rapporti fanno luce sugli abusi perpetrati all’interno dei centri di detenzione israeliani, in particolare sulla violenza sessuale.

La settimana scorsa sono apparsi due nuovi rapporti riguardanti la tortura e il crudele trattamento dei palestinesi nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani dopo il 7 ottobre, comprese testimonianze di violenza sessuale contro donne e ragazze palestinesi. I rapporti hanno rinnovato il dibattito sulle dure condizioni dei palestinesi prigionieri in Israele, sulle quali gli stessi detenuti palestinesi e alcune associazioni per i diritti umani lanciano l’allarme da mesi.

Il 19 febbraio esperti dei diritti umani delle Nazioni Unite hanno espresso il loro allarme per quelle che hanno descritto come “vergognose violazioni dei diritti umani” perpetrate dalle forze israeliane contro donne e ragazze palestinesi a Gaza. Oltre alle esecuzioni extragiudiziali e arbitrarie di donne e bambini a Gaza, gli esperti delle Nazioni Unite hanno sottolineato il trattamento delle detenute palestinesi nelle carceri israeliane.

Secondo quanto riferito, molte sono state sottoposte a trattamenti inumani e degradanti, sono state private di assorbenti mestruali, cibo e medicine e sono state duramente picchiate. In almeno un’occasione, le donne palestinesi detenute a Gaza sarebbero state tenute in gabbia sotto la pioggia e al freddo, senza cibo”, si legge nella nota.

Siamo particolarmente angosciati dalle notizie secondo cui le donne e le ragazze palestinesi in detenzione sono state sottoposte anche a molteplici forme di violenza sessuale, come essere spogliate nude e perquisite da ufficiali maschi dell’esercito israeliano. Almeno due detenute palestinesi sarebbero state violentate, mentre altre sarebbero state minacciate di stupro e violenza sessuale”, hanno detto gli esperti, aggiungendo che foto di detenute palestinesi in “circostanze degradanti” sarebbero state scattate dall’esercito israeliano e caricate online.

Nel loro insieme, questi presunti atti possono costituire gravi violazioni dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario, e rappresentare crimini gravi ai sensi del diritto penale internazionale che potrebbero essere perseguiti ai sensi dello Statuto di Roma”, hanno detto gli esperti. “I responsabili di questi presunti crimini devono essere incriminati e le vittime e le loro famiglie hanno diritto a pieno risarcimento e giustizia”, hanno aggiunto.

Lo stesso giorno delle dichiarazioni degli esperti delle Nazioni Unite, Physicians for Human Rights Israel (PHRI, Medici per i Diritti Umani di Israele) ha pubblicato un rapporto di 41 pagine sulla condizione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane dal 7 ottobre, che l’organizzazione ha detto essere diventate “un apparato di vendetta e punizione.”

Il rapporto PHRI descrive nel dettaglio le estese violazioni dei diritti dei prigionieri da parte del Servizio penitenziario israeliano (IPS) e di altri organismi di sicurezza israeliani a partire dal 7 ottobre, compreso l’isolamento dei prigionieri dal mondo esterno, la mancanza di accesso all’assistenza sanitaria, la negazione della luce del giorno o dell’ora d’aria e il sovraffollamento delle celle prive di arredi e risorse di base come materassi e coperte, nonché di acqua ed elettricità.

Oltre a tali condizioni, il PHRI descrive nel dettaglio anche il “trattamento crudele, inumano e degradante” dei prigionieri, comprese le molestie sessuali e la violenza. “In decine di casi… le guardie sono entrate in uno o due alla volta nelle celle e hanno picchiato brutalmente [i prigionieri] con i manganelli… le persone in carcere hanno anche riferito di aggressioni fisiche che includevano pugni, schiaffi e calci quando uscivano dalle loro celle o mentre venivano trasferiti in un’altra struttura, anche contro persone malate e disabili”, afferma il rapporto PHRI.

Persone entrate di recente in detenzione hanno raccontato che le guardie dell’IPS li hanno costretti a baciare la bandiera israeliana e chi si rifiutava veniva violentemente aggredito”.

Similmente a decine di rapporti redatti in precedenza da associazioni per i diritti dei prigionieri palestinesi e da esperti in diritti umani, il rapporto PHRI sottolinea che i modelli di abuso e tortura indicano che “non si tratta di episodi isolati di guardie ribelli, ma di modelli di violenza sistematica”.

Dopo il 7 ottobre vengono alla luce gli abusi

All’indomani degli attacchi di Hamas del 7 ottobre, mentre Israele iniziava la sua campagna militare su Gaza, un’altra campagna è partita nella Cisgiordania occupata. I raid militari israeliani, consueti eventi notturni nel territorio, sono diventati molto più frequenti.

Nel giro di poche settimane migliaia di palestinesi, compresi i lavoratori giornalieri di Gaza intrappolati [in Israele], sono stati arrestati nel cuore della notte. Con la stessa rapidità con cui la popolazione carceraria ha cominciato ad aumentare, hanno cominciato ad arrivare le testimonianze dei palestinesi di soldati israeliani violenti che picchiavano i fermati e le loro famiglie e saccheggiavano le case.

Allo stesso tempo ha iniziato ad emergere una tendenza inquietante. Sui social media hanno iniziato a circolare video e foto che mostravano le forze israeliane sottoporre detenuti palestinesi ad abusi fisici, sessuali e verbali. Le riprese sono state filmate e pubblicate online con orgoglio dagli stessi soldati.

Il 31 ottobre uno dei primi video di questo tipo ha iniziato a circolare sui social media.

Mostrava un gruppo di uomini palestinesi distesi a terra, bendati con mani e piedi legati, molti dei quali parzialmente o completamente nudi. Gli uomini venivano portati in giro, presi a calci e picchiati da soldati militari israeliani in uniforme. Alcuni uomini piangevano di dolore, altri giacevano inerti, i corpi nudi ammucchiati uno sopra l’altro.

L’allarmante video ha provocato un’onda d’indignazione all’interno della comunità palestinese. Molti utenti online hanno paragonato le scene inquietanti alle famigerate foto dei corpi ammucchiati dei prigionieri iracheni torturati dalle forze armate statunitensi nella prigione di Abu Ghraib in Iraq quasi 20 anni fa.

Sono emerse voci contrastanti su dove siano avvenute le torture: alcuni indicavano che avessero avuto luogo nella Cisgiordania occupata, mentre altri dicevano che fossero scene di palestinesi detenuti nelle aree fuori dalla Striscia di Gaza. Mondoweiss non ha potuto verificare il luogo esatto dei fatti. Tuttavia, due associazioni per i diritti dei prigionieri hanno verificato che si tratta di un video autentico, girato in Cisgiordania dopo il 7 ottobre.

Secondo quanto riportato dai media israeliani, gli uomini palestinesi torturati erano lavoratori della Cisgiordania arrestati nella zona delle colline a sud di Hebron dopo aver presumibilmente tentato di entrare in Israele senza permesso.

In una rara ammissione di colpa l’esercito israeliano ha affermato di stare indagando sull’incidente, dichiarando: “la condotta [dei soldati] che emerge da queste scene è grave e non corrisponde ai valori dell’IDF”.

Ma la montagna di prove di torture, abusi e molestie nei confronti dei detenuti palestinesi per mano delle forze israeliane accumulata negli ultimi mesi continua a contraddire chiaramente le dichiarazioni dell’esercito israeliano sui suoi “valori” e sulla moralità dei suoi soldati. .

Secondo gli ultimi dati di Addameer, un’organizzazione per i diritti dei prigionieri palestinesi con sede a Ramallah dal 7 ottobre, l’esercito israeliano ha rastrellato e arrestato più di 6.000 palestinesi.

Video e denunce di abusi fisici e torture hanno cominciato ad emergere già alla fine di ottobre ma le denunce non sono cessate e hanno continuato ad accumularsi sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza. Mentre un gran numero di palestinesi vengono sottoposti a detenzione arbitraria, coloro che sono potuti uscire hanno condiviso varie testimonianze di derisioni e molestie sino alle percosse fisiche e alle aggressioni sessuali.

Dal 7 ottobre almeno otto prigionieri palestinesi sono morti nelle carceri israeliane. Le associazioni per i diritti umani sospettano fortemente che si tratti di crimini, anche se è impossibile confermarlo poiché Israele si rifiuta di rilasciare i loro corpi.

Questo è il momento più pericoloso e violento degli ultimi anni per essere arrestati in Cisgiordania”, ha detto a Mondoweiss Abdullah al-Zghari, portavoce dell’Associazione dei prigionieri palestinesi. “Loro [Israele] stanno arrestando tutti, persone di età diverse, giovani e anziani, bambini, donne, ragazze, ex prigionieri, tutti”.

È evidente dal modo in cui arrestano le persone, dal tipo di aggressioni e abusi a cui abbiamo assistito, che questa è una campagna di vendetta”, ha detto al-Zghari.

Stanno portando avanti la loro vendetta per quanto accaduto il 7 ottobre”.

In un rapporto approfondito di gennaio, Addameer ha dipinto un quadro simile, affermando che gli arresti di massa e l’intensificarsi della brutalità contro i prigionieri palestinesi in risposta ad atti di resistenza palestinese sono tattiche comuni utilizzate da Israele fin dall’inizio della sua occupazione.

Con il tempo, l’intensità della brutalità e degli arresti non fa che aumentare come forma di

punizione e come modo per sopprimere la resistenza, con l’obiettivo di controllare tutti gli aspetti della vita palestinese e punire un’intera società”, ha affermato Addameer.

Arresto arbitrario e abusi: “Sono stato picchiato per cent’anni della mia vita”

Comune a tutti i resoconti sulla campagna di arresti e incarcerazioni di massa di Israele delle organizzazioni per i diritti umani è la natura del tutto arbitraria con cui i palestinesi vengono presi di mira, arrestati e maltrattati.

Mentre Israele considera tutti i palestinesi sotto detenzione come “prigionieri di sicurezza”, quasi 3.500 dei circa 9.000 prigionieri sono detenuti nelle carceri israeliane senza essere mai stati accusati di un crimine o sottoposti a processo. Quel numero comprende persone comuni nonché attivisti, giornalisti e operatori per i diritti umani.

Altre centinaia di palestinesi arrestati ma poi rilasciati hanno raccontato di essere stati arbitrariamente fermati ai posti di blocco e successivamente arrestati e maltrattati fisicamente e verbalmente.

Questo è il caso del diciannovenne Mahmoud Dweik, un adolescente palestinese della città di Hebron nel sud della Cisgiordania occupata.

Il 4 novembre Dweik era in giro con i suoi amici per Hebron quando una jeep militare israeliana ha fermato la loro macchina. I soldati israeliani hanno iniziato a perquisire il veicolo e i telefoni dei ragazzi.

La perquisizione dei soldati ha portato alla luce prove sufficienti per arrestare i tre giovani: un bastone e un taglierino trovati in una cassetta degli attrezzi nel bagagliaio dell’auto e la foto di un posto di blocco israeliano sul telefono di Mahmoud, scattata più di un anno prima.

I soldati hanno poi portato Mahmoud e i suoi due amici in un accampamento militare in cima alla collina che domina la città di Hebron. E allora sono iniziate le violenze.

Circa 40 soldati, in gruppi, si sono alternati a picchiarci dall’inizio del nostro sequestro, dalle 19:00 fino alle 5 del mattino”, si legge in una testimonianza scritta da Mahmoud, condivisa con Mondoweiss da suo padre Badee. Il giovane adolescente l’ha descritta come una “festa di botte”.

“Sono stato picchiato [abbastanza] per cent’anni della mia vita”, ha detto Mahmoud, aggiungendo che i soldati hanno usato mani, piedi, fucili e bastoni per picchiare i ragazzi. Dopo circa otto ore di abusi i ragazzi sono stati portati in una stazione di polizia israeliana nell’insediamento illegale di Kiryat Arba, nel cuore della città vecchia di Hebron. I ragazzi hanno trascorso un’ora alla stazione di polizia prima di essere trasportati nuovamente al campo militare dove erano stati picchiati.

Abbiamo dormito per terra senza coperte o altro per proteggerci. Abbiamo semplicemente dormito all’aperto”, ha detto Mahmoud. Poche ore dopo, i ragazzi sono stati riportati alla stazione di polizia di Kiryat Arba. Ogni speranza di essere rilasciati e tornare a casa è stata delusa quando, poco dopo, i tre amici sono stati portati nella prigione militare di Ofer fuori Ramallah, nella Cisgiordania centrale.

Un viaggio che avrebbe dovuto durare due ore è stato tirato per le lunghe sino a più di 12 ore, ha detto Mahmoud, descrivendo il trasporto in “gabbie” all’interno di veicoli militari israeliani, dove stavano seduti su massacranti panche di ferro. Non è stato dato loro alcun cibo e l’acqua è stata fornita solo una volta.

Quando è arrivato in prigione è stato spogliato dei suoi vestiti e perquisito dalle guardie carcerarie, che lo hanno costretto a “piegarsi su e giù più volte con la faccia rivolta al muro”, ha detto Mahmoud.

Alla fine Mahmoud è stato accusato di “possesso di materiale sul telefono che minaccia la sicurezza dello Stato di Israele”. Il materiale in questione era la foto del posto di blocco militare che Mahmoud aveva scattato con il suo cellulare più di un anno e mezzo prima. Dopo 12 giorni di prigione, è stato rilasciato dietro pagamento di una cauzione di 1.000 shekel (250 euro).

Mahmoud dice di essere stato rilasciato a un posto di blocco vicino alla città di Ramallah nel cuore della notte senza telefono, con indosso solo i boxer e un paio di pantaloni da carcerato troppo grandi.

Grazie alla gentilezza di sconosciuti Mahmoud si è potuto vestire e prendere in prestito un telefono per chiamare suo cugino che viveva a Ramallah. Ha trascorso la notte a casa di suo cugino prima di tornare a Hebron il giorno successivo dove si è ricongiunto con i genitori.

“Sono stati i giorni più infernali della mia vita”, ha detto.

Di tendenza sui social media: i soldati documentano i propri abusi

Quando un palestinese viene arrestato dalle forze israeliane spesso passano diversi giorni prima che la sua famiglia venga a conoscenza di dove e in quali condizioni il congiunto è detenuto.

Questo rimane un dato di fatto, ma dal 7 ottobre sempre più famiglie palestinesi sono venute ad avere notizie dei loro cari attraverso i social media, imbattendosi in foto e video di membri della loro famiglia degradati, torturati e umiliati, registrati e pubblicati dai soldati israeliani.

Wajd Jawabreh, 33 anni, è madre di tre ragazze di età inferiore ai 10 anni e residente in un campo profughi nella zona di Betlemme. Il 31 ottobre Jawabreh era a casa e dormiva con suo marito, Khader Lutfi e le figlie, quando le forze israeliane hanno fatto irruzione in casa e arrestato suo marito.

Circa 30 minuti dopo il suo arresto a Wajd, già sconvolta, è stato inviato il link a un video sui social media. Ciò che ha visto è stato un colpo al cuore.

Nel video si vedeva suo marito, Khader, bendato e con le mani legate, in ginocchio davanti a un soldato israeliano, e si può sentire il soldato, che sembra essere quello che ha filmato il video, urlare imprecazioni a Khader, dicendo in arabo: “Buongiorno stronzo”, mentre gli dà un calcio nello stomaco.

Sono rimasta scioccata e sopraffatta. Mi ha spezzato il cuore. Non riuscivo a smettere di piangere”, ha detto Wajd a Mondoweiss a dicembre, più di un mese dopo l’arresto di Khader. “È davvero difficile vedere la persona con cui hai condiviso la vita in quelle condizioni.”

Wajd ha detto a Mondoweiss che il video è stato “girato con uno scopo”, ovvero umiliare suo marito, che è molto stimato nella loro comunità. “Da quando ho visto il video fino ad ora ho cercato di non lasciare che il video spezzasse la mia determinazione, perché è ciò che vuole l’occupazione”.

Il video di Khader è stato ampiamente diffuso sui social media, accumulando centinaia di migliaia di visualizzazioni. Wajd ha detto che ha cercato più di ogni altra cosa di assicurarsi che le sue figlie non lo vedessero mai, e che ogni nuova visione e condivisione del video la feriva ancora di più.

Non voglio che mio marito venga visto o ricordato in questo modo. Voglio che venga ricordato come la persona gentile e forte che è”, ha detto.

L’umiliazione e la vergogna che Wajd ha provato guardando il video di suo marito picchiato e umiliato sono proprio l’obiettivo di quei contenuti, dicono le associazioni per i diritti dei palestinesi.

Gli israeliani stanno cercando di umiliare i prigionieri e i detenuti dopo quello che è successo a Gaza [il 7 ottobre]. Li stanno mettendo alla prova in modi disgustosi, li spogliano dei loro vestiti, li picchiano nudi a terra, li rilasciano senza vestiti in modo che provino vergogna e umiliazione nelle loro comunità”, ha detto Abdullah al-Zghari a Mondoweiss.

Anche questo fa parte della tortura e della paura collettive instaurate dall’occupazione nella popolazione palestinese: far sì che le persone abbiano paura di essere arrestate. Questa è la prova di quanto ci disumanizzino e non ci considerino come esseri umani”, ha detto.

Torture e violenze sessuali nelle carceri

Se gli abusi sui detenuti palestinesi iniziano al momento dell’arresto, i rapporti delle associazioni per i diritti umani e degli stessi prigionieri indicano che alcune delle peggiori torture e maltrattamenti avvengono mentre i palestinesi sono chiusi nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani.

Testimonianze strazianti sono ripetutamente emerse da parte dei palestinesi di Gaza che sono stati imprigionati durante l’invasione di terra da parte di Israele, con i detenuti che hanno raccontato di essersi visti negare l’accesso al cibo, all’acqua e ai bagni. Video e foto hanno mostrato segni profondi e tagli sui polsi e le caviglie dei detenuti di Gaza rilasciati, che hanno affermato di essere stati legati per giorni senza alcun sollievo o riposo. In alcuni casi, secondo quanto riferito, le forze israeliane hanno utilizzato i cani dell’esercito per minacciare i detenuti.

A gennaio, durante una visita a Gaza, Ajith Sunghay, capo dell’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi occupati, ha dichiarato di aver visitato un certo numero di detenuti palestinesi che erano stati detenuti “in luoghi sconosciuti” per un periodo compreso tra 30 e 55 giorni.

Hanno raccontato di essere stati picchiati, umiliati, sottoposti a maltrattamenti e a ciò che può costituire tortura. Hanno riferito di essere stati bendati per lunghi periodi, alcuni di loro per diversi giorni consecutivi”, ha detto Sunghay. “Un uomo ha detto di aver avuto accesso a una doccia solo una volta durante i 55 giorni di detenzione. Ci sono segnalazioni di uomini che sono stati successivamente rilasciati ma solo in mutande e senza indumenti adeguati per questo clima freddo”.

Si stima che circa 600 palestinesi di Gaza siano detenuti nelle carceri israeliane. Di contro altre centinaia sono trattenute nei campi di detenzione israeliani, anche se il numero esatto di quest’ultima categoria è sconosciuto. Nei campi di detenzione Haaretz ha riferito che i prigionieri dormono praticamente nudi ed esposti al rigido freddo invernale, sono costantemente bendati e sottoposti a continue torture quasi ad ogni ora del giorno.

Nel dicembre 2023, è stato riferito, un numero non dichiarato di detenuti di Gaza “è morto” all’interno dei campi di detenzione israeliani. Tali rapporti non includevano gli almeno altri otto palestinesi non originari di Gaza che sono morti nelle carceri israeliane dal 7 ottobre.

Mentre i prigionieri di Gaza stanno probabilmente affrontando torture e abusi estremi a causa della loro identità, pratiche simili di tortura e abusi di ogni tipo, inclusa la violenza sessuale, sono stati impiegati anche contro palestinesi provenienti da altre parti dei territori occupati che sono detenuti nelle carceri israeliane.

Citando un avvocato palestinese che ha visitato i detenuti palestinesi ogni settimana dal 7 ottobre Amnesty International ha affermato: “Ai detenuti palestinesi è stato negato il diritto all’attività fisica all’aperto e una delle forme di umiliazione a cui sono sottoposti durante il conteggio dei detenuti è di essere costretti a inginocchiarsi sul pavimento.”

L’avvocato Hassan Abadi ha aggiunto che ai palestinesi detenuti “sono stati confiscati e talvolta bruciati tutti gli effetti personali inclusi libri, diari, lettere, vestiti, cibo e altri oggetti. Le autorità carcerarie hanno confiscato gli assorbenti alle detenute palestinesi nel carcere di al-Damon”. Secondo Abadi, una cliente da lui difesa gli ha detto che quando è stata arrestata e bendata un ufficiale israeliano “l’ha minacciata di stupro”.

Nel suo rapporto di gennaio, Addameer ha dettagliato diversi casi di minacce sessuali e violenze da parte delle forze israeliane contro uomini e donne palestinesi in detenzione. L’associazione ha affermato che tale violenza è strutturalmente impiegata dall’occupazione israeliana che è “ben consapevole dello stigma nei confronti degli uomini e delle donne palestinesi e dell’importanza dell’integrità e dell’onore del loro corpo. Ciò è particolarmente importante nelle società arabe”.

Molte testimonianze provenienti da donne vittime includono aspetti di molestie sessuali, minacce di stupro e perquisizioni forzate delle donne all’interno delle carceri e spesso persino

davanti ai propri figli durante le intrusioni domestiche. Questi sono tutti metodi di coercizione attuati per far sentire le donne impotenti e dare all’occupazione un senso di controllo sulle donne e sul loro corpo. È un abuso di potere e di autorità e gioca sulla paura delle vittime”, ha affermato l’associazione.

Addameer ha segnalato il caso di un prigioniero maschio di Gerusalemme, denominato “O.J.” nel rapporto, il quale afferma di essere stato sottoposto ad una perquisizione durante la quale gli agenti israeliani “hanno accarezzato ripetutamente le sue parti intime con la scusa di una perquisizione approfondita. Una volta denudato lo avrebbero fatto sedere e alzarsi più volte. Inoltre, mentre era nudo e veniva perquisito, l’ambiente in cui era tenuto aveva finestre senza vetri, così che il vento freddo entrava nella stanza.”

In un altro caso documentato da Adammeer, le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di una donna a Gerusalemme, l’hanno minacciata di stupro, le hanno sputato in faccia e l’hanno costretta a spogliare del tutto la sua nipotina appena nata di due settimane.

Questi atti di costrizione di uomini e donne a denudarsi toccandoli in modo inappropriato con la scusa della perquisizione di sicurezza sono compiuti con l’intento di mettere in imbarazzo e molestare sessualmente uomini e donne palestinesi”, ha detto Addameer.

Nel rapporto di Medici per i Diritti Umani, un prigioniero di nome “A.G.” che è stato detenuto nella prigione israeliana di Ktzi’ot, ha detto che le forze speciali israeliane sono entrate nella loro cella e hanno picchiato tutti, urlando insulti sessualmente espliciti tra cui “voi puttane”, “vi scoperemo tutti”, “scoperemo le vostre sorelle e mogli”, ecc. A.G. è stato poi portato in un bagno dove le forze israeliane urinavano su di loro.

A.G. ha anche descritto dettagliatamente episodi di perquisizioni violente, in cui le guardie carcerarie “bloccavano insieme individui nudi e infilavano un dispositivo di ricerca in alluminio nelle natiche. In un caso, le guardie hanno fatto passare una tessera magnetica fra le natiche di una persona. Ciò è avvenuto davanti agli altri detenuti e alle guardie, che hanno espresso il loro divertimento”.

Con il pretesto della guerra a Gaza, il Ministero della Sicurezza Nazionale, il suo ministro e il Ministero della Difesa, con il sostegno attivo e passivo di altri membri e ministri della Knesset, hanno promosso abusi senza precedenti dei diritti dei palestinesi in custodia militare e in detenzione. ” conclude il rapporto PHRI.

Lo Stato ha ripetutamente insistito sul fatto che si tratta di misure necessarie adottate nell’ambito delle ordinanze di emergenza per mantenere la sicurezza nazionale. Eppure, in realtà, queste misure violano il diritto locale e internazionale, nonché i trattati internazionali”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Amnesty International: l’“agghiacciante disprezzo” di Israele per la vita nella Cisgiordania occupata

Redazione Al Jazeera

5 febbraio 2024 – Al Jazeera.

Durante la guerra a Gaza Israele ha scatenato una violenza mortale illegale contro i palestinesi in Cisgiordania, afferma l’organizzazione per i diritti umani.

Israele ha scatenato una forza mortale al di fuori della legge contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata, commettendo uccisioni illegali e mostrando “un agghiacciante disprezzo per le vite dei palestinesi”, afferma Amnesty International.

L’organizzazione per i diritti umani ha affermato in un rapporto pubblicato lunedì che le azioni di Israele nel territorio si sono intensificate durante la guerra a Gaza e che il suo esercito e altri corpi armati stanno commettendo numerosi atti illegali di violenza che costituiscono chiare violazioni del diritto internazionale.

Gli occhi del mondo sono puntati soprattutto sulla Striscia di Gaza, dove l’esercito israeliano ha ucciso più di 27.000 palestinesi, soprattutto donne e bambini, dall’inizio della guerra il 7 ottobre. Ma Amnesty ha scritto nel suo rapporto che le forze israeliane stanno commettendo uccisioni illegali anche nei territori palestinesi occupati.

Il documento è stato redatto mediante interviste a distanza con testimoni, primi soccorritori e residenti locali, nonché video e foto verificati.

Sotto la copertura degli incessanti bombardamenti e delle atrocità commesse a Gaza, le forze israeliane hanno scatenato la loro mortale violenza in contrasto con le norme internazionali contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata, compiendo uccisioni illegali e mostrando un agghiacciante disprezzo per le vite dei palestinesi”, ha dichiarato Erika Guevara-Rosas, direttore della ricerca globale, del patrocinio e delle linne guida di Amnesty International.

Questi omicidi illegali sono in palese violazione del diritto umano internazionale e sono commessi impunemente nel contesto del mantenimento del regime istituzionalizzato di oppressione e dominio sistematici di Israele sui palestinesi”.

Già prima della guerra i palestinesi in Cisgiordania erano sottoposti regolarmente a raid israeliani mortali, ma da ottobre si è verificato un aumento esponenziale nel numero di attacchi.

Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel 2023 Israele ha ucciso almeno 507 palestinesi nella Cisgiordania occupata, tra cui almeno 81 minori, rendendolo l’anno più letale da quando l’organizzazione ha iniziato a registrare vittime nel 2005.

I numeri delle Nazioni Unite mostrano anche che 299 palestinesi sono stati uccisi dall’inizio della guerra fino alla fine del 2023, un aumento del 50% rispetto ai primi nove mesi dell’anno. Almeno altri 61 palestinesi, tra cui 13 minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane a gennaio, ha detto l’ONU.

Uccisioni deliberate”

L’analisi di Amnesty International di un raid israeliano durato 30 ore nel campo profughi di Nour Shams a Tulkarem, avvenuto il 19 ottobre, dimostra le tattiche impiegate dall’esercito israeliano.

In quel raid i soldati israeliani hanno utilizzato un gran numero di veicoli militari e soldati per assaltare più di 40 case. Hanno distrutto effetti personali, praticato buchi nei muri per le postazioni dei cecchini, tagliato acqua ed elettricità al campo profughi e usato bulldozer per distruggere strade pubbliche, reti elettriche e infrastrutture idriche.

Alla fine del raid avevano ucciso 13 palestinesi, tra cui sei minori, quattro dei quali sotto i 16 anni, e avevano arrestato 15 palestinesi.

Un agente della polizia di frontiera israeliana è stato ucciso dopo che un ordigno esplosivo improvvisato è stato lanciato contro un convoglio militare.

Tra le persone uccise durante il raid c’era un quindicenne disarmato di nome Taha Mahamid, a cui le forze israeliane hanno sparato uccidendolo davanti a casa sua mentre usciva per verificare se le forze israeliane avevano lasciato l’area, ha affermato Amnesty.

Non gli hanno dato alcuna possibilità”, ha detto Fatima, la sorella di Taha. “In un attimo mio fratello è stato eliminato. Tre proiettili sono stati sparati senza alcuna pietà. Il primo proiettile lo ha colpito alla gamba. Il secondo nello stomaco il terzo in mezzo agli occhi. Non ci sono stati scontri. … Non c’è stato alcun conflitto.”

Il padre di Taha, Ibrahim, ha cercato di portare in salvo suo figlio e nonostante fosse disarmato è stato raggiunto da colpi di arma da fuoco e ha riportato gravi lesioni interne.

“Questo uso non necessario della forza letale dovrebbe essere indagato come possibile crimine di guerra in quanto omicidio volontario o intenzione di cagionare grandi sofferenze o gravi lesioni al corpo o alla salute”, ha affermato Amnesty.

Ma questo per quella famiglia non è stata la fine dell’operazione israeliana. Circa 12 ore dopo l’omicidio di Taha l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella casa e ha rinchiuso i familiari, compresi tre bambini, in una stanza sotto la supervisione di un soldato per circa 10 ore.

Hanno anche praticato dei fori nei muri di due stanze per posizionare i cecchini con vista sul quartiere. Un testimone ha detto che i soldati hanno perquisito la casa, picchiando un membro della famiglia, e uno è stato visto urinare sulla soglia.

Gli estesi danni arrecati dai bulldozer israeliani alle strette strade del campo profughi hanno impedito il passaggio delle ambulanze, ostacolando l’evacuazione medica dei feriti.

Prendere di mira le ambulanze, uccidere i manifestanti

Amnesty ha anche documentato casi in cui le forze israeliane hanno aperto il fuoco direttamente su ambulanze e personale medico.

Impedire l’assistenza medica ai palestinesi è ormai “una pratica di routine” da parte delle forze israeliane, ha affermato l’organizzazione per i diritti umani.

Ha documentato un caso in cui i soldati israeliani hanno impedito alle ambulanze di raggiungere le vittime che hanno finito col morire dissanguate.

“Le vittime sono state successivamente raccolte da un’ambulanza militare israeliana e i loro corpi devono ancora essere restituiti alle famiglie”, ha detto Amnesty.

L’organizzazione ha anche documentato come l’esercito israeliano reprima sparando proiettili veri e lacrimogeni sulla folla le proteste pacifiche dei palestinesi tenute in solidarietà con il popolo di Gaza.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Voci dalla Cisgiordania occupata: “Continuerò a parlare con amore”

Dylan Hollingsworth

30 gennaio 2024 al Jazeera

Cisgiordania occupata – Proseguendo le conversazioni di Al Jazeera con persone della Cisgiordania occupata, su come considerino le infinite tragiche notizie dalla Striscia di Gaza assediata e bombardata, e sulle circostanze del tentare di rifarsi una vita come palestinese sotto occupazione, ecco quattro storie di palestinesi:

Un giovane cristiano sconcertato per come il messaggio di pace e di perdono nato con Cristo in Palestina possa essere dimenticato così barbaramente.

Un difensore dei diritti umani il cui lavoro di una vita è stato di proteggere il popolo palestinese dalla negazione dei suoi diritti.

Un padre che si sveglia ogni giorno nell’angoscia perché ha il terrore che uno dei suoi figli a Gaza sia stato ucciso durante la notte.

E una madre il cui figlio ha compiuto il sacrificio estremo della sua giovane vita perché ha intrapreso l’unica strada che gli è sembrata possibile per combattere contro l’ingiustizia.

Nota: le interviste sono state modificate per motivi di lunghezza e chiarezza.

Abu Ghazaleh, cristiano palestinese, Ramallah

Siamo palestinesi.

Siamo rimasti qui nel corso della storia, musulmani, ebrei o cristiani… la [nostra] prima identità è palestinese.

E anche se sono cristiano palestinese… questo non mi pone fuori dall’ambito del conflitto palestinese. Non consideriamo la religione come la forza trainante o il motivo per difendere la mia terra o rivendicare i miei diritti.

Per me la religione è un modo per contattare Dio, mentre il mio diritto di esistere su questa terra è un mio diritto come palestinese, indipendentemente dalla mia religione.

Questa è la terra di Gesù, la terra dove Cristo ha predicato, dove Gesù è venuto e da qui il cristianesimo si è diffuso nel mondo.

Se vogliamo parlarne dal punto di vista religioso noi cristiani siamo più legati a questa terra di chiunque altro, musulmani o ebrei.

Ma non facciamo distinzioni in base alla religione, piuttosto se si crede nel diritto di vivere in libertà, pace e felicità.

“Le due cose che amo di più nella Bibbia sono: ‘Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono.’ Dio dice che anche se il tuo nemico ti augura la morte e ti odia, devi amarlo perché attraverso l’amore gli insegnerai la strada giusta.

‘Ma con la violenza non gli insegnerai la retta via. Se tu uccidi e lui uccide, le uccisioni continueranno. Se ami, l’amore crescerà.’

Questa frase… è magnifica. Significa che ami qualcuno che ti augura la morte e molte cose orribili.

Non importano le nostre divergenze con gli israeliani, continuerò a parlar loro con amore, affetto e pace.

Ma questo non significa che se un israeliano mi uccide io rimango in silenzio. Se mi uccide l’accuserò, ma il mio obiettivo principale non sarà toglierlo di mezzo, ucciderlo o eliminarlo, come fa lui con me”.

Shawan, direttore generale di Al-Haq [ONG palestinese indipendente per i diritti umani fondata nel 1979, ndt.], Ramallah

“I funzionari americani, l’amministrazione, posso dire che stanno aiutando e sono complici dei crimini di guerra che avvengono in Palestina. Siamo uccisi dalle armi americane.

Noi veniamo uccisi e gli israeliani godono dell’impunità, perché gli americani usano il veto per non ritenere responsabile Israele della sua prolungata occupazione e delle atrocità che accadono quotidianamente contro i palestinesi.

Come l’uccisione di palestinesi. Come espandere qui gli insediamenti o le colonie. Come la confisca delle terre. Come le demolizioni di case. Come il saccheggio delle nostre risorse naturali… come l’acqua, i minerali, la terra, tutto. Gli israeliani non ci hanno lasciato nulla.

Ora molti delle giovani generazioni americane sono più consapevoli della situazione rispetto a prima. E per questo motivo credo che dagli Stati Uniti venga una speranza, nonostante questa orribile situazione.

Ma il nostro caso non è iniziato il 7 ottobre. Il nostro caso ha ormai 75 anni.

Metà della nostra gente è rifugiata in tutto il mondo. L’80% della popolazione della Striscia di Gaza. Gaza misura 360 km quadrati. Si tratta di 2,3 milioni di persone in un luogo molto piccolo e densamente popolato.

E comunque gli israeliani attaccano e uccidono i civili. E l’hanno dichiarato fin dall’inizio, hanno detto: ‘Sono animali umani’, proprio per disumanizzare da subito i palestinesi.

“E hanno detto: ‘Taglieremo l’acqua’, e lo hanno fatto. ‘Taglieremo l’assistenza umanitaria’, e lo hanno fatto.

Che cosa possono ottenere gli israeliani se non seminare sempre più odio nelle menti del popolo palestinese? Questo non porterà la pace. Ciò che porterà la pace è se godiamo del nostro diritto fondamentale all’autodeterminazione.

Questo è il vostro risultato, il risultato americano. Ma sei il principale sostenitore di Israele e non dici al tuo amico: “Ehi, ragazzi, questo non va bene e non è giusto”. Perché se sei un vero amico devi dire ai tuoi amici di evitare di commettere atti illeciti. L’America, in questo momento, non lo sta facendo”.

Raed, palestinese di Gaza con permesso di lavoro israeliano, Ramallah

“Questa guerra non è né la prima né l’ultima per me.

Ho perso metà della mia famiglia nella guerra del 2014 in al-Wehda Street, vicino all’ospedale al-Shifa, quando più di 100 persone furono uccise in una sola zona.

Bambini innocenti sono stati presi di mira dagli aerei israeliani. Sostenevano che ci fossero dei tunnel sotto le case. Mia madre era lì, la moglie di mio fratello e i figli di mio fratello sono stati uccisi.

Ogni corpo che ho recuperato era mutilato, ognuno peggio del precedente. Alcuni erano stati decapitati…

“Soffriamo moltissimo, non riusciamo a dormire e siamo perseguitati dagli incubi. I miei figli soffrono e la maggior parte delle volte preferisco spegnere il telefono per evitare di parlare con loro.

«Dicono: ‘Papà, eri qui con noi prima del 7 ottobre’. Ma io non posso, sento morire i miei figli e non posso fare niente per loro.

Questa non è solo la mia sofferenza, ma quella di tutti i giovani qui. Capita di perdere un amico carissimo una volta in 20 o 30 anni, ma qui ogni giorno perdi le persone più care.

E non siamo responsabili di questa guerra. Siamo lavoratori rispettabili e i nostri figli sono innocenti. Non hanno niente a che fare con questa faccenda. Israele prende di mira coloro che sono coinvolti e coloro che non lo sono. Cerca vendetta sui bambini.

“Perché? O è per annientarci una volta per tutte oppure per non permetterci di piangere gli uni per gli altri. È difficile, come padre, svegliarsi e guardare il telefono per controllare come sta tuo figlio solo per scoprire che è morto, o sapere che tua moglie o tuo fratello sono morti.

Dammi un motivo per cui uno qualsiasi dei nostri figli debba essere coinvolto in questo atto barbarico.

Sono d’accordo, Hamas ha ucciso centinaia di persone il 7 ottobre, ma non puoi annientare un’intera nazione… stanno distruggendo l’intero Paese”.

Amal, madre in lutto e casalinga, Dair Jarir

“Qais era di buon cuore ed era molto colpito dalle cose che accadevano intorno a lui.

Tutti i giovani qui, quando hanno visto cosa stava succedendo ad Al-Aqsa… quelle madri e quelle donne trascinate dagli israeliani, gli si è spezzato il cuore e si sono sentiti impotenti.

Quando sono comparse a Nablus la Fossa dei Leoni e a Jenin le Brigate Jenin, i giovani hanno cominciato a credere di avere uno spazio per agire.

Certo, non ne sapevamo nulla, non ne avevamo idea. Ci raccontava che era con i suoi amici. Non sapevamo che avrebbe fatto quello che ha fatto.

Non poteva sopportare di vedere i giovani martirizzati a Jenin, Nablus, e gli assalti ad Al-Aqsa sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso… riposi in Dio la sua anima. Non abbiamo ancora ricevuto il suo corpo.

Qais ha portato la vita nella nostra casa, lui e suo fratello. Ci prendeva in giro e qualche volta era testardo, ma la nostra casa era piena di vita.

Adesso siamo come zombi, non c’è più vita in casa nostra. Se avessimo avuto il suo corpo fin da subito e lo avessimo seppellito sarebbe più facile.

Non penso ad altro che a come è Qais, che aspetto ha, cosa hanno prelevato dal suo corpo e cosa gli hanno lasciato.

A volte mio marito viene e mi trova congelata, con il corpo così freddo anche se fa caldo e mi copre con delle coperte. Ma non riesco a scaldarmi. Dico: ‘Qais è gelato’.

So, e nella nostra religione tutti sappiamo, che l’anima è con Dio, ma… non lo so. Le madri non vogliono mai seppellire i propri figli, ma in questa situazione preferiremmo poterli seppellire.

Quando sarà sepolto, potrò recitare il Corano per lui, visitare la sua tomba e piangere accanto ad essa.

Vogliono torturare le famiglie detenendo i corpi dei martiri… una punizione collettiva per le famiglie”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi lottano per ricostruire le loro vite dopo i pogrom dei coloni in Cisgiordania

Yuval Abraham

18 gennaio 2024 – +972 Magazine

Unondata di violenze da parte dei coloni a partire dal 7 ottobre ha sottratto le terre e i mezzi di sussistenza a numerose comunità palestinesi che ora non sanno dove andare.

I figli sono tutto ciò che resta a Naama Abiyat. Incontro la ventinovenne madre di cinque figli all’interno di una tenda dalle pareti sottili dove vive nella Cisgiordania meridionale occupata; la tenda è quasi vuota, fatta eccezione per una coperta ricevuta da alcuni passanti e pochi ceppi di legno. I figli interrompono di tanto in tanto la nostra conversazione reclamando la sua attenzione e facendole capire che hanno freddo.

Fino a due mesi fa Abiyat aveva la sua stanza, una casa, un giardino e un uliveto ad Al-Qanoub, un piccolo villaggio di 40 abitanti a conduzione familiare situato a nord di Hebron. Tra l’11 ottobre e il primo di novembre, però, l’intera comunità è fuggita in seguito ad una serie di pogrom da parte di coloni israeliani provenienti dal vicino insediamento coloniale di Asfar e dall’adiacente avamposto di Pnei Kedem. I coloni hanno incendiato le case, aizzato i cani contro gli animali della fattoria e, sotto la minaccia delle armi, ordinato ai residenti di andarsene, altrimenti sarebbero stati uccisi.

Da allora Abiyat e i suoi figli vagano, senza terra e senza casa. Insieme ad altre quattro famiglie sfollate da Al-Qanoub hanno allestito tende provvisorie alla periferia della città di Shuyukh, più vicino a Hebron.

Il giorno dell’espulsione i coloni si sono rifiutati di consentire loro di portare via qualsiasi cosa dal villaggio in fiamme: la carta d’identità di suo marito, veicoli, materassi, cellulari, sacchi di olive, chiavi – “e i miei vestiti”, aggiunge uno dei figli. Tutto è stato abbandonato e in gran parte rubato. Il figlio maggiore di Abiyat, che ha 11 anni, non può più andare alla scuola vicina al villaggio perché non c’è nessuno che possa accompagnarlo.

Nei giorni precedenti la decisione della sua famiglia di fuggire dal villaggio Abiyat dormiva fuori con i suoi figli, temendo che i coloni dessero fuoco alla loro casa mentre dormivano, come era successo a uno dei suoi vicini. “Di notte chiudevamo la casa, spegnevamo le luci e poi andavamo a dormire tra gli ulivi, sotto il cielo”, dice.

Ora Abiyat è impegnata a cercare di ottenere del denaro sufficiente per comprare legna da ardere per linverno. “Sto parlando con te e tutto il mio corpo sta per esplodere”, dice. Qui è pieno di scorpioni e serpenti. I bambini si trovano in uno stato mentale difficile. Non li emoziona più niente nella vita.”

Con il pretesto della guerra, in Cisgiordania un totale di 16 villaggi palestinesi che ospitavano complessivamente oltre 1.000 persone sono stati completamente spopolati a seguito di unondata di violenza da parte dei coloni e di pogrom contro le comunità di pastori palestinesi. Separate dalle loro comunità e costrette a vivere in tende su terreni appartenenti ad altri palestinesi, le famiglie sfollate chiedono tutte la stessa cosa: poter tornare a casa.

Ci hanno detto che avevamo unora per andare via

Prima dellinizio della guerra il villaggio di Southern a-Nassariyah, nella Valle del Giordano, ospitava cinque famiglie, per un totale di 25 persone. Il 13 ottobre sono tutti fuggiti dalle loro case sotto le violente minacce dei coloni israeliani. Attualmente vivono in tende vicino al villaggio di Fasayil, su un terreno di proprietà di un abitante del luogo che ha permesso loro di restare a condizione che vadano via entro aprile. Le famiglie sfollate non sanno dove andranno dopo.

Ci hanno ridotto a fare i braccianti. Dio santo, ci hanno ridotto a fare i braccianti,dice Musa Mleihat, posando una tazza di tè su uno sgabello fuori dalla tenda divenuta la sua casa. Il giorno della sua espulsione ha perso la terra, il che ha significato perdere il sostentamento: non potendo più far pascolare il gregge, è stato costretto a vendere la maggior parte delle pecore e delle capre della famiglia.

Alcuni degli altri abitanti del villaggio hanno iniziato a lavorare come braccianti agricoli negli insediamenti coloniali vicini. Linsediamento di Tomer, ad esempio, è noto per i suoi datteri e gli ananas, e assume lavoratori palestinesi pagandoli illegalmente al disotto del minimo salariale. Molti degli sfollati dai villaggi affermano che diventare braccianti fa parte del costo dellessere costretti ad abbandonare la propria terra.

A sud-est di Ramallah anche i 180 residenti del villaggio di Wadi al-Siq sono stati espulsi con la forza a seguito di un pogrom da parte di coloni. Il 12 ottobre coloni e soldati hanno fatto irruzione nel villaggio, hanno sparato e scacciato donne e bambini prima di rapire tre uomini, ammanettarli, spogliarli, urinare su di loro, picchiarli fino a farli sanguinare e abusare sessualmente di loro.

Dopo averci bendato ci hanno detto che avevamo unora per lasciare il villaggio, dopodiché chiunque fosse rimasto sarebbe stato ucciso, racconta Abd el-Rahman Kaabna, il capo del villaggio. Tre mesi dopo lespulsione sta ancora combattendo per accettare la violenza subita, che ha traumatizzato profondamente i suoi figli, tanto che da allora continuano a bagnare il letto.

Kaabna spiega che in seguito all’espulsione tutta la sua vita è cambiata. La comunità di Wadi al-Siq è stata completamente smembrata: la maggior parte degli abitanti, compreso Kaabna, sono sparsi in tende a est e a sud della città di Ramun, mentre altri si trovano vicino alla città di Taybeh, nei pressi di Ramallah. Vivono tutti sulla terra di altri.

“Ci sentiamo estranei qui”, dice. Non abbiamo le case in cui vivevamo, con campi e pascoli aperti. Oggi vivo in un uliveto e il proprietario continua a chiedermi quanto resteremo”.

Dopo l’espulsione i figli di Kaabna, di 6 e 8 anni, non hanno ripreso a frequentare la scuola. A Wadi al-Siq cera una scuola per gli studenti fino allottava classe [in Palestina l’istruzione obbligatoria comprende dieci anni, ndt.], ma dopo che i residenti se ne sono andati, i coloni hanno rubato tutto allinterno, compresi i libri per bambini. Un mese fa hanno portato un trattore e hanno demolito tutte le nostre case”.

Il villaggio era pieno di ricordi

I coloni hanno distrutto o incendiato le case in molti dei villaggi che i palestinesi sono stati costretti ad abbandonare negli ultimi mesi, rendendo impossibile il ritorno degli ex abitanti. In questo modo, i coloni stanno completando l’intervento della politica del governo israeliano che per anni ha cercato di costringere i palestinesi a lasciare lArea C [parte della Cisgiordania occupata sotto totale controllo israeliano, ndt.]: rifiutando di riconoscere i loro villaggi, impedendo loro di accedere allacqua e allelettricità e demolendo le loro case. Secondo i dati forniti dallAmministrazione Civile, il braccio burocratico delloccupazione, allONG israeliana per i diritti di pianificazione Bimkom, tra il 2016 e il 2020 il governo ha rilasciato 348 volte più permessi di costruzione ai coloni israeliani rispetto ai palestinesi che vivono nellArea C.

Il villaggio di Zanuta, sulle colline a sud di Hebron, che prima dellinizio della guerra contava 250 residenti, è il più grande villaggio ad aver subito negli ultimi mesi la pulizia etnica da parte dei coloni. I coloni hanno successivamente distrutto la scuola del villaggio, insieme a 10 edifici residenziali. Quando gli abitanti di Zanuta hanno tentato di ritornare, un ispettore dellAmministrazione Civile ha detto loro che se avessero montato una sola tenda lesercito lavrebbe considerata una nuova costruzionee lavrebbe abbattuta.

Dopo essere fuggiti dalle loro case gli abitanti di Zanuta sono andati dispersi in sei luoghi diversi: alcuni vivono attualmente vicino al checkpoint di Meitar, all’estremità meridionale della Cisgiordania, alcuni vicino all’insediamento coloniale di Tene Omarim e altri hanno preso in affitto terreni ovunque siano riusciti a trovarne. Ci manchiamo l’un l’altro, mi dice Fayez al-Tal, un ex abitante del villaggio. “Dal giorno in cui abbiamo lasciato Zanuta non ci siamo più visti.”

Non solo gli abitanti hanno perso la maggior parte dei loro pascoli ma sono stati anche costretti a vendere la maggior parte delle loro greggi a causa delle ingenti tasse 70.000 shekel (circa 17.000 euro) a famiglia richieste per il trasporto di tutte le loro proprietà dal villaggio distrutto, lacquisto di nuove tende e baracche e del cibo per le pecore e le capre rimaste che non possono più pascolare.

Nei primi giorni della guerra gli 85 abitanti di Ein al-Rashash, un villaggio di pastori vicino a Ramallah, hanno raccolto le loro cose e sono fuggiti. “Il villaggio era pieno di ricordi della nostra infanzia”, dice uno degli abitanti. Oggi vivono in tende e baracche di alluminio che hanno costruito su un terreno roccioso vicino alla città di Duma. Non sanno cosa faranno in seguito.

Qui non ci sono coloni, ma ci sono altri problemi: lAmministrazione Civile, spiega Awdai, che viveva a Ein Rashash. Dopo che lui e altri hanno iniziato a montare le tende, un drone dell’Amministrazione Civile è arrivato e li ha fotografati. A breve potrebbe seguire un ordine di demolizione.

Il governo sostiene i coloni

Negli ultimi anni nellarea C della Cisgiordania sono stati realizzati decine di avamposti coloniali di allevamento di bestiame e sono diventati una forza trainante per l’incremento delle violenze contro i palestinesi. Tuttavia per molti ex abitanti di villaggi spopolati la paura dei coloni teppisti” non è lunica ragione del loro sfollamento, né ciò che impedisce loro di tornare a casa. Il problema più grave è rappresentato dal sostegno che i coloni ricevono dallesercito e dalla polizia israeliani.

Sappiamo come proteggerci, dice al-Tal, di Zanuta. Ma se lo facciamo i soldati ci sparano o finiamo in prigione. Il governo sostiene i coloni. In passato, racconta, quando i soldati o la polizia arrivavano nel villaggio durante un raid dei coloni arrestavano i palestinesi. Gli abitanti di ciascuno dei villaggi sfollati ripetono la stessa cosa: l’esercito protegge gli aggressori e arresta coloro che vengono aggrediti.

Il 3 gennaio si è tenuta un’udienza presso la Corte Suprema israeliana in merito ad un ricorso presentato a nome degli abitanti di Zanuta e di altri villaggi rimasti completamente o parzialmente spopolati. Lappello chiedeva allo Stato di specificare quale fosse il suo impegno rivolto a proteggere tali comunità dai coloni e chiedeva alle autorità di creare condizioni sul campo che consentissero alle comunità sfollate di tornare nelle loro terre.

Qamar Mashraki-Assad e Netta Amar-Shiff, che rappresentavano i palestinesi, hanno detto ai giudici che la polizia ignora sistematicamente le denunce sulla violenza dei coloni rifiutandosi di raccogliere prove sul campo. Inoltre lesercito non agisce in conformità con lobbligo previsto dal diritto internazionale di proteggere la popolazione occupata.

Durante ludienza, Roey Zweig, un ufficiale del Comando Centrale dellesercito, responsabile delle unità che operano in Cisgiordania e delle costruzioni nellArea C, ha affermato assurdamente che negli ultimi tempi la violenza dei coloni sarebbe in realtà diminuita grazie a misure che l’esercito avrebbe iniziato ad attuare. Nel corso delle sue osservazioni, Zweig che nel 2022, mentre prestava servizio come comandante della Brigata Samaria, aveva affermato che [il progetto di] insediamento coloniale e lesercito sono una cosa sola” – ha definito i villaggi spopolati avamposti palestinesi, ricorrendo al termine utilizzato per le comunità israeliane sulle colline della Cisgiordania che sono palesemente illegali secondo la stessa legge israeliana.

Gli abitanti di ciascuno dei villaggi spopolati conoscono i nomi dei coloni che li hanno terrorizzati e gli insediamenti o avamposti coloniali di cui fanno parte. Per mesi, se non anni, questi coloni hanno fatto di tutto per espellerli, impossessarsi delle loro terre e minacciarli violentemente.

Tuttavia, secondo un funzionario della sicurezza che ha parlato con +972 Magazine e Local Call, occuparsi delle violenze dei coloni e dellespulsione delle comunità palestinesi non rientra nel mandatodellAmministrazione Civile. Le accuse di discriminazione nei permessi di costruzione o nell’applicazione delle norme, ha detto il funzionario, dovrebbero essere “dirette altrove” perché l’Amministrazione Civile è “solo un organo esecutivo”, non “politico”.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che vive a Gerusalemme.

(traduzione dall’Inglese di Aldo Lotta)




Sette palestinesi uccisi da droni israeliani nella Cisgiordania occupata

Palestine Chronicle Staff  

17 gennaio 2024 Palestine Chronicle

Sette palestinesi sono stati uccisi mercoledì mattina da un bombardamento di droni israeliani che hanno preso di mira le città di Tulkarem e Nablus nella Cisgiordania occupata.

Tulkarem

Quattro palestinesi sono stati uccisi ed altri feriti in un bombardamento di droni israeliani che aveva come obbiettivo il quartiere Al-Tammam nel campo profughi di Tulkarem.

L’agenzia ufficiale di informazioni palestinese WAFA ha citato testimoni oculari dall’interno del campo che hanno detto che un drone ha preso di mira un gruppo di giovani nel quartiere Al-Tammam, uccidendo parecchi di loro e ferendone gravemente altri.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha confermato che i suoi equipaggi hanno trasportato i corpi di quattro vittime palestinesi dall’interno del campo all’ospedale governativo Martyr Thabet Thabet a Tulkarem.

Secondo la WAFA le forze israeliane hanno impedito alle ambulanze e alla Mezzaluna Rossa palestinese di entrare nel campo per trasportare i feriti dal luogo preso di mira.

Inoltre truppe israeliane hanno circondato il luogo del bombardamento e nelle vicinanze sono state dislocate pattuglie di fanteria.

Le forze di occupazione israeliane hanno continuato ad aggredire la città di Tulkarem e il suo campo profughi a partire dalle 4,30 del mattino, distruggendo anche proprietà private e infrastrutture.

Un ampio dispiegamento militare, accompagnato da due bulldozer dell’esercito, avrebbe assaltato la città all’alba dagli ingressi ad ovest, nord e sud.

Le forze di occupazione hanno circondato il campo di Tulkarem da tutti gli ingressi, dispiegando veicoli militari nelle strade e nei quartieri, mentre sui tetti di diversi edifici e negozi si sono appostati i cecchini.

Parecchi veicoli militari si sono posizionati agli ingressi dell’ospedale specialistico Al-Isra nel quartiere occidentale e nelle vicinanze dell’ospedale governativo Thabet Thabet accanto al campo, impedendo l’entrata e l’uscita degli abitanti dai suddetti ospedali.

In seguito all’incursione sono scoppiati intensi scontri tra residenti locali e soldati israeliani. Le forze israeliane avrebbero sparato proiettili veri e sono stati sentiti rumori di esplosioni e spari di fucili dall’interno della città e del suo campo profughi.

Durante l’incursione le forze israeliane hanno arrestato tre palestinesi, compresi due ex detenuti.

Nablus

All’alba di mercoledì sono stati uccisi tre palestinesi in un attacco con droni che ha preso di mira un veicolo vicino al campo profughi di Balata, a est di Nablus.

Secondo la WAFA un drone israeliano ha preso di mira un veicolo vicino all’incrocio di Barada, mandandolo completamente a fuoco e uccidendo tre uomini. Le forze israeliane hanno impedito alle equipe mediche di raggiungere il luogo.

I tre uomini sono stati identificati come Mohammad al-Qatawi e i fratelli Saif e Yazan al-Najmi.

Le forze di occupazione israeliane hanno circondato il veicolo con diverse jeep militari.

Inoltre le forze di occupazione israeliane hanno aperto il fuoco contro gli equipaggi delle ambulanze della Mezzaluna Rossa palestinese ed hanno impedito loro di raggiungere il veicolo in fiamme.

Le forze israeliane hanno ulteriormente devastato i campi profughi di Balata e Askar, compiendo massicce incursioni e perquisizioni di case.

La Mezzaluna Rossa ha detto di essere stata in grado di raggiungere il veicolo solo dopo che le forze di occupazione si sono ritirate dalla zona.

Le forze di occupazione avevano precedentemente assalito il campo di Balata con veicoli militari, fra attacchi aerei e sorvoli di aerei e droni, provocando violenti scontri tra gli abitanti del campo e le forze di occupazione.

(PC, WAFA)

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Sei morti nel corso di un attacco israeliano contro un campo profughi nella Cisgiordania occupata

Redazione di Al Jazeera

27 dicembre 2023 – Al Jazeera

Le ambulanze sarebbero state bloccate dall’esercito israeliano dopo l’attacco contro il campo profughi di Nur Shams, vicino a Tulkarem.

Almeno sei palestinesi sono stati uccisi da un drone israeliano durante un raid contro un campo profughi nel nord della Cisgiordania occupata mentre le forze israeliane hanno esteso le loro operazioni sul territorio.

La Mezzaluna Rossa palestinese (PRCS) e funzionari sanitari hanno riferito che mercoledì notte un drone ha colpito un gruppo di palestinesi nel campo profughi di Nur Shams, vicino a Tulkarem.

Secondo il Ministero palestinese della Salute sei corpi sono stati portati in un ospedale locale, oltre a varie persone ferite nel corso dell’attacco.

Secondo quello che ha riferito Imran Khan di Al Jazeera nel suo reportage di mercoledì da Nur Shams, le sei vittime sarebbero giovani fra i 16 e i 29 anni che stavano assistendo al raid.

Il drone è sceso dall’alto, chiaramente gli uomini non hanno avuto scampo. È stato un attacco mortale intenzionale,” ha detto.

L’incursione è stata il “secondo più massiccio raid” sul campo profughi in 24 ore, ha precisato Alan Fisher di Al Jazeera, che si trova nella Gerusalemme Est occupata ha riferito dei continui scontri a Tulkarem e Nur Shams durati fino alle 7 di mercoledì mattina.

Ci hanno avvertiti che c’erano cecchini sul tetto, che gli israeliani erano entrati a Nur Shams per cercare di arrestare persone che dicevano essere ‘ricercate’.”

La seconda notte consecutiva di raid contro il campo hanno fatto preoccupare la gente ancora di più per quello che sarebbe potuto succedere più tardi quella sera, ha aggiunto Fisher.

Ambulanze ‘bloccate’

opo l’attacco a Nur Shams, la PRCS ha detto che l’esercito israeliano ha impedito alle ambulanze di trasportare i morti e i feriti.

La gente ha cercato di aiutare [le vittime], ma per almeno un’ora e mezza gli israeliani non hanno permesso l’accesso alle ambulanze,” ha detto Khan di Al Jazeera. “Alla fine hanno dovuto prelevare i corpi e portarli giù dove stavano le ambulanze. Ovviamente a quel punto era troppo tardi. Erano morti.”

Al Jazeera ha parlato con fonti presso l’ospedale locale, secondo cui un soldato israeliano è entrato in un’ambulanza e ha pugnalato al collo un uomo ora ricoverato in un’unità di terapia intensiva.

L’esercito israeliano ha anche condotto raid notturni contro le città di Betlemme, Jenin, Hebron e Tubas. Secondo quanto riferito dalla palestinese agenzia di stampa Wafa, tre persone sono state ferite nel campo profughi di Dheisheh a Betlemme.

Stando a quanto dichiarato dalla Commissione degli Affari dei detenuti ed ex-detenuti e del Club dei Prigionieri palestinesi, almeno 12 persone sono state incarcerate dall’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata in raid notturni.

La violenza in Cisgiordania è esplosa con l’inizio della guerra israeliana contro la Striscia di Gaza il 7 ottobre. In questo periodo durante i raid oltre 300 persone sono state uccise e 4.700 palestinesi sono stati arrestati.

Nella Striscia di Gaza almeno 20.915 persone sono state uccise e 54.918 ferite nel corso degli attacchi israeliani dal 7 ottobre. Il bilancio aggiornato delle vittime dell’incursione di Hamas in Israele è di 1.139.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che il suo esercito non diminuirà l’intensità dei combattimenti, anzi “espanderà le operazioni a sud di Gaza”, mentre Herzi Halevi, il capo di stato maggiore israeliano, ha precisato che la guerra a Gaza continuerà per “molti mesi”.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Medici Senza Frontiere afferma che la situazione umanitaria nella Cisgiordania occupata è ‘estremamente critica’

Redazione di Middle East Monitor

19 dicembre 2023 – Middle East Monitor

Medici Senza Frontiere (Médicins Sans Frontières) ha descritto la situazione umanitaria nella Cisgiordania occupata da Israele come ‘estremamente critica’, in particolare a Jenin, data l’aggressione in corso contro i palestinesi da parte dello Stato di occupazione.

Oggi la situazione nella Cisgiordania, e particolarmente a Jenin, è estrema”, ha spiegato la coordinatrice a Jenin dell’organizzazione, Luz Saavedra. “Vediamo una significativa ripresa della violenza contro i civili, ed è andata crescendo rapidamente dal 7 ottobre.” Attacchi contro il sistema sanitario sono drammaticamente aumentati e sono diventati sistematici, ha sottolineato. Strade e infrastrutture, come anche acquedotti e fognature, sono stati distrutti.

Nelle scorse settimane,” ha aggiunto Saavedra, “le forze israeliane hanno assediato molti ospedali a Jenin, provocando un diretto impedimento alle cure sanitarie e hanno anche colpito e ucciso un ragazzo nella struttura dell’ospedale Khalil Suleiman. Il blocco delle cure sanitarie è sfortunatamente diventato una pratica comune. Durante ogni incursione diversi ospedali, incluso quello pubblico, sono stati circondati dalle forze israeliane.”

La mancanza di rispetto per gli ospedali è sconcertante, afferma un funzionario di Medici Senza Frontiere. “Da ottobre, siamo stati testimoni di un ragazzo di 14 anni colpito e ucciso nella struttura dell’ospedale, con i soldati che hanno sparato molte volte fuoco vivo e lacrimogeni contro l’ospedale, e infermieri sono stati costretti a spogliarsi e ad inginocchiarsi per strada. A fianco della violenza diretta, il costante blocco all’accesso alle cure sta anche mettendo a rischio le vite degli abitanti del campo e sembra che sia diventato una procedura operativa standard delle forze militari durante e dopo le incursioni militari a Jenin.”

In conclusione, ha sottolineato che l’organizzazione non può fornire le cure ai pazienti che non vanno in ospedale. “Le persone in stato di necessità devono poter avere un accesso sicuro al servizio sanitario e le strutture sanitarie devono essere protette.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Guerra Israele Palestina: in Cisgiordania i coloni potrebbero già essere in possesso delle armi americane, avverte un ex funzionario

Dania Akkad

23 novembre 2023 – Middle East Eye

Fanno notizia le preoccupazioni per un recente ordine israeliano di fucili statunitensi. Ma secondo gli esperti anche se le armi americane non si trovassero nelle loro mani i coloni sono riusciti ad entrare in possesso di quelle israeliane.

Quando il mese scorso il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamir Ben-Gvir ha iniziato a distribuire fucili dassalto ai civili, c’è stata un’immediata reazione da parte di Washington.

Secondo quanto riferito i funzionari statunitensi indignati avrebbero minacciato di bloccare le spedizioni di armi, inclusi 24.000 nuovi fucili che il ministero di Ben-Gvir aveva ordinato ad aziende americane.

Le armi fotografate in eventi pubblici ampiamente documentati non erano americane o, secondo quanto riferito, fornite dagli americani.

Tuttavia funzionari del Dipartimento di Stato e parlamentari statunitensi erano preoccupati che i nuovi fucili potessero essere consegnati ai coloni e usati contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata, dove dopo il 7 ottobre la violenza dei coloni è aumentata rispetto a livelli già da record.

In tale periodo in Cisgiordania sono stati uccisi da soldati e coloni israeliani più di 200 palestinesi.

Nonostante le assicurazioni israeliane che le armi sarebbero state conseganate ad unità sotto il controllo della polizia nazionale israeliana, allinterno della Linea Verde [confine stabilito negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e Paesi arabi confinanti, ndt.], gli Stati Uniti avrebbero ritardato la consegna di 4.500 fucili M-16.

Almeno questo è ciò che si può ricavare dai resoconti dei media israeliani e americani. Giovedì il Dipartimento di Stato ha rifiutato di rilasciare commenti su vendite commerciali dirette e conversazioni diplomatiche private.

Ma un ex funzionario del Dipartimento di Stato ha detto a Middle East Eye che è “quasi certoche le armi americane siano già utilizzate dai coloni in Cisgiordania.

Inoltre esperti sul controllo degli armamenti affermano che anche se le armi statunitensi esportate in Israele, finanziate attraverso gli aiuti militari statunitensi o acquistate a fini commerciali, non fossero nelle loro mani, i coloni potranno entrare in possesso dei fucili israeliani.

“Alcune delle armi che gli Stati Uniti avranno esportato saranno passate attraverso la licenza delle forze di difesa israeliane e naturalmente la maggior parte dei coloni in età per il servizio militare sono riservisti”, ha detto Josh Paul, che fino alle sue dimissioni del mese scorso era direttore dell’Ufficio di Affari di Politica Militare del Dipartimento di Stato.

Quindi nella maggior parte dei casi avranno le loro armi dall’esercito israeliano indipendentemente dal fatto che siano state consegnate o meno da Ben-Gvir ”.

MEE ha chiesto al Dipartimento di Stato se condivide la preoccupazione di Paul secondo cui le armi americane sarebbero probabilmente già nelle mani dei coloni in Cisgiordania.

Un portavoce non ha risposto direttamente alla domanda ma ha affermato che i governi che hanno ricevuto armi dagli Stati Uniti hanno la responsabilità di rispettare le condizioni dei trasferimenti e gli obblighi previsti dal diritto internazionale, compresi quelli relativi ai diritti umani.

Il portavoce ha anche affermato che pari attenzioni dovrebbero essere dedicate alla prevenzione della violenza estremista e alla consegna dei responsabili alla giustizia, compresi i membri delle forze di difesa e di sicurezza israeliani, così come della polizia nazionale israeliana, che restano a guardare e non intervengono.

Quante e quali tipi di armi americane siano arrivate in Israele nel corso degli anni costituisce un interrogativo che sfida anche i più ferrati esperti sul controllo degli armamenti.

Le informazioni più dettagliate disponibili al pubblico mostrano che nei primi nove mesi di questanno le esportazioni statunitensi verso Israele di rivoltelle, pistole e alcuni tipi di fucili sono aumentate in modo significativo rispetto ai tre anni precedenti.

Ma senza dati pubblici completi è impossibile per i contribuenti statunitensi e persino per i parlamentari valutare lentità delle esportazioni di armi statunitensi verso Israele e, soprattutto, quanto di questa sia approvata dal governo degli Stati Uniti.

“Se tutte queste vendite fossero completamente trasparenti per il Congresso e soprattutto per il pubblico penso che ci sarebbe molta più indignazione”, ha affermato Lillian Mauldin, tra le fondatrici e membro del consiglio di amministrazione di Women for Weapons Trade Transparency [Donne per la Trasparenza del Commercio delle Armi, ndt.] e ricercatrice presso il Center for International Policy [Centro di politica Internazionale, ndt.].

È nellinteresse delle aziende che le vendite di armi risultino incredibilmente difficili da tracciare, anche per persone che lavorano nel campo della ricerca sul controllo degli armamenti da decenni”.

Nel frattempo gli esperti affermano che i programmi del governo americano sul monitoraggio delle esportazioni di armi non sono impostati per tracciare il percorso delle armi leggere dopo la loro spedizione. Una volta spedite scompaiono, dice Paul.

Ciò lascia aperti degli interrogativi per i palestinesi in Cisgiordania come Mohammed al-Huraini.

“Prodotto negli USA“?

Al-Huraini è originario di Atuwani, uno dei villaggi della regione di Masafer Yatta, di circa 500 abitanti, nascosto tra le montagne a sud delle colline di Hebron.

Qui gli abitanti subiscono minacce di espulsione e ordini di demolizione da quando nel 1981 lesercito israeliano ha designato la loro terra come zona di esercitazione di tiro.

Huraini ora ha 19 anni e non ha mai conosciuto un momento in cui lui e la sua famiglia non abbiano subito pressioni per lasciare Atuwani.

Sua nonna, Fatemah, non vede da un occhio dopo che nel 2006 i soldati lhanno colpita durante una protesta. Lo scorso settembre i coloni hanno fratturato entrambe le braccia di suo padre Hafez.

Ma Huraini dice che dal 7 ottobre la situazione nel villaggio, raccolta attraverso filmati visionati da MEE e descritta da amici e familiari rimasti lì mentre lui frequenta l’università a Ramallah, è notevolmente cambiata.

I coloni hanno intensificato gli attacchi contro gli abitanti facendo irruzione nelle case e minacciando di uccidere chiunque non se ne vada. Indossano uniformi militari e sono tutti armati.

Prima non era così. Le persone ora hanno paura di affrontare [i coloni] perché sono a mani nude e non ricevono nessun aiuto, dice.

Suo cugino, Zakaria al-Adra, il 12 ottobre è stato colpito a distanza ravvicinata dai coloni con proiettili esplosivi che gli hanno squarciato lo stomaco. Da allora ha subito cinque operazioni.

Anche la casa degli Huraini è stata assalita e lorto della famiglia, che coltivavano da sei anni, è stato demolito con i bulldozer e sostituito da un tendone. Al-Huraini riferisce che non possono spostarsi nella loro proprietà o muoversi per fare la spesa senza essere presi di mira.

“Se ti avvicini ai 20 metri dalla casa iniziano immediatamente a sparare”, dice.

Prima almeno non avevi la sensazione che avresti potuto essere ucciso a sangue freddo. Adesso è più facile”.

Lanno scorso, dopo un attacco durato settimane da parte dellesercito e dei coloni israeliani contro il suo villaggio, Huraini ha trovato un contenitore di gas lacrimogeno fuori dalla sua casa con su scritto Made in USA”.

Non era la prima volta che vedeva un contenitore del genere ma era la prima volta che notava la scritta.

Siamo schiacciati dal potere del denaro e delle armi statunitensi, scrisse in quell’occasione. I cittadini americani dovrebbero sapere dove vanno le loro tasse e cosa finanziano”.

Ora si chiede se anche qualcuna delle armi moltiplicatesi nelle ultime settimane sia americana.

Limiti della Leahy

Tutte le armi americane finanziate o fornite come aiuto militare statunitense dovrebbero essere soggette alla legge Leahy, dal nome di Patrick Leahy, lex senatore democratico del Vermont che nel 1997 ha ideato la regolamentazione.

Secondo la legge ai dipartimenti statali e alla difesa degli Stati Uniti è vietato fornire assistenza in materia di sicurezza a governi stranieri che siano oggetto di accuse credibili di violazioni dei diritti.

Ma sia Paul, lex funzionario dell’ufficio del Dipartimento di Stato che sovrintende ai trasferimenti di armi, sia lo stesso Leahy hanno affermato che nel caso di Israele la legge non è stata applicata.

Nel corso degli anni ho protestato sia con lamministrazione repubblicana che con quella democratica sulla necessità di applicare la legge ad Israele”, ha detto la scorsa settimana Leahy al News & Citizen, un settimanale del Vermont.

Queste amministrazioni hanno sostenuto che Israele ha un sistema giudiziario indipendente, per cui non ci sarebbe bisogno. Recentemente abbiamo assistito agli sforzi volti a rendere la magistratura ancora meno indipendente di prima”.

Paul riferisce a MEE che allinterno del Dipartimento di Stato, riguardo alla Legge Leahy, Israele viene trattato diversamente rispetto aquasi tutti gli altri Paesi al mondo”.

Invece di controllare preventivamente le unità militari prima che ricevano questa roba, la inviamo e poi controlliamo eventuali violazioni dei diritti umani, dice Paul.

In precedenza ha affermato che il dipartimento ha trovato moltiesempi di unità israeliane sospettate di gravi violazioni dei diritti umani, ma non è mai stato in grado di giungere ad alcuna conclusione per cui dovesse essere richiesta lapprovazione da parte degli alti funzionari.

Un portavoce del Dipartimento di Stato non ha commentato direttamente le osservazioni di Paul e Leahy ma ha detto a MEE che ci si aspetta che qualsiasi Paese che riceva assistenza per la sicurezza dagli Stati Uniti la utilizzi in conformità con il diritto umanitario internazionale e le leggi sui diritti umani, e in conformità con gli accordi che ne regolano luso. Israele, ha detto, non fa eccezione.

Dettagli opachi

Nel frattempo il pubblico americano ha informazioni limitate sul tipo e sulla quantità delle armi da fuoco esportate in Israele, sia attraverso aiuti militari che tramite vendite commerciali.

La mancanza di trasparenza riguardo alle vendite di armi e gli aiuti militari statunitensi a Israele, il maggiore destinatario degli aiuti militari statunitensi a livello mondiale, è ben documentata.

E’ netto il contrasto tra le note informative del governo americano sulle armi fornite allUcraina, compresi kit di pronto soccorso e bende, e la scarsità di informazioni su ciò che viene inviato a Israele.

Questa opacità vale anche per le armi inviate a Israele: i dati sulle esportazioni di armi da fuoco statunitensi, qualunque sia il Paese destinatario, sono notoriamente difficili da ottenere.

Ciò è dovuto, in parte, al fatto che esistono restrizioni legali scritte da autorità di controllo finanziate con le tasse su quali informazioni possano essere fornite su determinate vendite.

Al Congresso, ad esempio, vengono comunicate solo le vendite di armi di valore superiore a soglie monetarie che variano a seconda del tipo di vendita, ma queste sono più elevate per i Paesi della NATO e altri cinque, compreso Israele.

Ciò significa che le vendite di armi leggere, che sono meno costose rispetto ad altri armamenti, sono particolarmente inclini a restare al di sotto della soglia e ciò ha determinato miliardi di dollari di vendite “non dichiarate al Congresso e al pubblico americano”, ha detto Mauldin.

I dettagli vengono regolarmente nascosti anche dai dipartimenti governativi statunitensi che sovrintendono alle licenze per l’esportazione di armi perché sostengono che si tratta di informazioni riservate la cui diffusione potrebbe indebolire le aziende statunitensi.

Le informazioni più dettagliate che MEE è riuscito a trovare sono i dati dell’US Census Bureau che mostrano che il valore totale delle armi e loro componenti esportate dagli Stati Uniti in Israele ha superato solo nei primi nove mesi di quest’anno il totale dei tre anni precedenti per ben cinque tipologie di armamenti.

Il valore degli articoli esportati che è aumentato in modo significativo riguarda rivoltelle e pistole, alcuni tipi di fucili, accessori e pezzi di ricambio per fucili e cartucce.

Seth Binder, direttore del settore assistenza legale presso il Project on Middle East Democracy a Washington, DC, ha affermato che il picco suggerito dai dati non è una grande sorpresa data l’intensità degli attacchi dei coloni in Cisgiordania e l’allentamento negli ultimi anni delle leggi israeliane al fine di consentire la concessione di più licenze di porto d’armi.

Quanto di questo proviene da finanziamenti militari stranieri? Sarebbe piuttosto interessante saperlo, ma queste informazioni non sono disponibili”, afferma Binder.

Ha ragione: i dati dellUS Census Bureau non dicono se i finanziamenti statunitensi siano stati forniti per assistere il governo o le aziende israeliane in questi acquisti o se alcuni [prodotti] siano stati inviati gratuitamente.

Quindi, anche se i dati mostrano che questanno c’è stato un forte aumento di componenti di armi e munizioni militari, non è chiaro quanto di questo sia stato sottoscritto dal governo degli Stati Uniti o dai contribuenti. Ma dalle bombe alle armi da fuoco, conoscere i dettagli è importante, sostiene Paul.

C’è qui un interesse intrinseco dei contribuenti statunitensi, prima di tutto su come vengono spesi i dollari dei contribuenti e se il modo in cui vengono spesi fornisce un netto positivo per la politica estera degli Stati Uniti, afferma.

Ciò è particolarmente vero in Israele, dove le armi americane sono lago della bilancia del conflitto.

“Le armi leggere e di piccolo calibro possono causare più danni di quanto la gente creda, in un modo più nascosto”, dice Mauldin.

“Ma il problema più grande è che ovviamente i finanziamenti statunitensi influenzeranno in modo sproporzionato il conflitto nel momento in cui concediamo miliardi di dollari, fondamentalmente una sovvenzione affinché Israele possa acquistare qualunque cosa voglia dagli Stati Uniti, comprese le armi leggere e di piccolo calibro”.

Limitazioni al monitoraggio

E c’è un altro mistero: dove sono le armi e componenti americane già presenti in Israele? Né il Dipartimento di Stato, che monitora le vendite commerciali, né il Dipartimento della Difesa, che monitora le vendite militari, sono in grado di tracciare le armi leggere.

Il programma Blue Lantern del Dipartimento di Stato pone fine ai controlli su circa il 2% delle licenze di esportazione di armi ogni anno, concentrandosi solitamente su nuove entità che compaiono nelle richieste di licenza o su aree in cui sussistono specifiche preoccupazioni guidate dallintelligence.

Quindi, per quanto riguarda le armi da fuoco destinate a Israele, è molto improbabile che si esegua qualsiasi tipo di controllo sulluso finale, presupponendo che siano destinate al governo israeliano e tramite entità logistiche note, afferma Paul.

Il programma Golden Sentry [sentinella d’oro, ndt.] del Dipartimento della Difesa si occupa in genere di armi molto più grandi e costituisce più uno strumento di controllo sulla localizzazione effettiva delle armi nellarsenale indicato da un’autorità militare straniera.

Gli esperti di armi con cui MEE ha parlato nelle ultime settimane hanno affermato che in questo momento il modo più semplice per rintracciare le armi americane in Cisgiordania sarebbe un’indagine fotografica.

Ma c’è anche un altro modo di vedere l’intera questione: anche se non è possibile risalire esattamente a dove siano finite le armi da fuoco statunitensi o se vengano utilizzate dai coloni in Cisgiordania, gli Stati Uniti sono comunque implicati.

Stiamo fornendo 3,8 miliardi di dollari in aiuti militari [all’anno, ndt.]. Si tratta di 3,8 miliardi di dollari che il governo israeliano non ha bisogno di utilizzare per lequipaggiamento militare perché lo forniamo noi, afferma Binder.

Fornire armi americane a Israele, sia attraverso aiuti militari sia attraverso vendite commerciali approvate dal governo degli Stati Uniti, funziona allo stesso modo.

Israele ha una propria industria nazionale e quindi, mentre garantisce che non forniranno armi americane ai coloni israeliani, di fatto lascia che le armi israeliane arrivino ai coloni, dice, aggiungendo che sarebbe rilevante e preoccupante se in questo momento le armi prodotte negli Stati Uniti venissero usate dai coloni.

In ogni caso, dal momento che lesercito israeliano o chiunque allinterno della linea verde utilizza armi statunitensi, se i coloni iniziassero a servirsi di quelle israeliane che differenza farebbe?

Huraini, che si sta preparando a tornare a casa per far visita alla sua famiglia ad Atuwani, ha detto di non essere un esperto di armi e di non essere sicuro se nei filmati che ha raccolto nelle ultime settimane i coloni stiano usando armi da fuoco americane.

Ma trova difficile capire come gli americani possano tollerare una tale politica finanziaria.

In realtà le persone stanno sostenendo con i loro soldi il genocidio, i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani, prosegue.

Non so dove [i soldi] siano finiti esattamente, per quali aiuti. Ma alla fine stanno sostenendo questo regime di apartheid che ha commesso di tutto contro il [nostro] popolo”.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Forze israeliane uccidono tre palestinesi durante un’incursione militare su vasta scala a Jenin

Redazione di Palestine Chronicle

17 novembre 2023 – Palestine Chronicle

L’agenzia di notizie ufficiale palestinese WAFA ha informato che nelle prime ore di venerdì mattina tre palestinesi sono stati uccisi e molti altri feriti quando le forze di occupazione israeliane hanno preso di mira con attacchi con i droni il campo profughi di Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata.

Testimoni oculari nel campo hanno dato notizia che nel quartiere di Hawashin del campo profughi un drone israeliano ha bombardato un assembramento di palestinesi, provocando la tragica uccisione di tre persone e il ferimento di altre nove, alcune in condizioni critiche.

Le vittime sono state identificate come il ventitreenne Baha Jamal Lahlouh, in trentaquattrenne Mohammed Azmi Husseiniya e Mohammed Abu Al-Hassan, di 28 anni.

Invasione su vasta scala

L’incursione israeliana a Jenin ha impegnato una significativa presenza militare, compresi unità speciali e bulldozer blindati.

Le forze di occupazione hanno attaccato vari quartieri in città e nel vicino campo profughi, schierando cecchini sui tetti di alcuni edifici.

Durante il raid le forze israeliane hanno fatto irruzione in una struttura residenziale del quartiere di Jabariyat in città, arrestando alcuni palestinesi e facendo esplodere diversi veicoli di proprietà della famiglia Rukh. L’attacco militare israeliano si è esteso ai quartieri di Jabal Abu Dhuhair, Khallet al-Soha ed alla periferia del campo profughi di Jenin.

Scavatrici Caterpillar D9 che accompagnavano i soldati israeliani hanno anche iniziato a devastare infrastrutture in città e all’ingresso del campo profughi di Jenin, provocando danni alle strade e alle auto parcheggiate.

Sono state segnalate interruzioni nelle comunicazioni in quanto le forze israeliane hanno bloccato il segnale nella città e nel campo di Jenin, ed è stata tolta l’elettricità in vari quartieri della città.

Un ospedale assediato

Inoltre l’esercito israeliano ha assediato anche l’ospedale Ibn Sina di Jenin, ha interrogato il personale medico e ha creato una situazione di tensione nella zona.

Secondo testimoni, l’ospedale è stato circondato per parecchie ore, con accurate perquisizioni da parte dell’esercito israeliano di ambulanze che si trovavano nei pressi e richieste di evacuazione dell’ospedale attraverso altoparlanti.

Testimoni oculari hanno anche raccontato che le forze israeliane hanno evacuato dall’ospedale con la forza personale medico, obbligandolo a stare con le mani in alto prima di sottoporlo a perquisizioni nel cortile dell’ospedale.

Le fonti affermano che parecchi lavoratori della sanità sono stati interrogati.

Nel contempo l’esercito israeliano di occupazione si è schierato nei pressi dell’ospedale governativo di Jenin lanciando una raffica di candelotti lacrimogeni tossici. L’uso indiscriminato di agenti chimici nei pressi dell’ospedale ha provocato problemi respiratori a molti civili a causa dell’inalazione di gas.

(traduzione di Amedeo Rossi)