Rapporto OCHA del periodo 8 – 21 dicembre 2020

Il 21 dicembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un 17enne palestinese di Qabatiya (Jenin), secondo quanto riportato, ha aperto il fuoco contro una postazione di polizia ed è stato successivamente colpito e ucciso dalle forze israeliane che lo avevano inseguito.

È stato anche riferito che un agente di polizia è caduto durante l’inseguimento, ferendosi in modo leggero.

Il 20 dicembre, una donna israeliana è stata trovata morta in un bosco vicino all’insediamento colonico di Tal Menashe (Jenin), dove ella viveva; le autorità israeliane sospettano che sia stata aggredita da un palestinese. I media israeliani ritengono questo caso conseguente ad una serie di lanci di pietre e aggressioni fisiche da parte di coloni israeliani contro palestinesi (per lo più antecedenti al periodo di riferimento).

In Cisgiordania, nel corso di molteplici scontri con forze israeliane sono rimasti feriti un totale di 73 palestinesi, compresi 16 minori [seguono dettagli]. La maggior parte dei feriti (57) sono stati registrati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), Al Mughayyir e Kafr Malik (Ramallah), durante proteste contro le attività di insediamento colonico. Quattordici palestinesi sono rimasti feriti nelle città di Tulkarm e Nablus e nel villaggio di Jaba’ (Jenin), nel corso di scontri verificatisi durante operazioni di ricerca-arresto; altri due sono stati feriti vicino a Jenin, mentre cercavano di entrare in Israele attraverso varchi della Barriera. Dei palestinesi feriti durante questo periodo, 10 sono stati colpiti da proiettili di armi da fuoco, 17 da proiettili di gomma e 40 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 183 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 154 palestinesi. La maggior parte delle operazioni sono state registrate nei governatorati di Nablus (39), Tulkarm (35), Gerusalemme (28) ed Hebron (23).

Ad est della città di Gaza, una abitazione, situata a circa un chilometro dalla recinzione perimetrale con Israele, è stata colpita e gravemente danneggiata da un proiettile di carro armato israeliano; a quanto riferito, il colpo è stato sparato accidentalmente. Nelle aree [di Gaza] adiacenti la recinzione perimetrale e al largo della costa di Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco d’avvertimento in almeno 22 occasioni. Per due volte i bulldozer israeliani [sono entrati nella Striscia ed] hanno spianato terreni a ridosso della recinzione. A circa 100 metri dalla recinzione [all’interno della Striscia], le forze israeliane hanno collocato cartelli che vietano agli agricoltori palestinesi la coltivazione dei terreni prossimi alla recinzione, pena la rimozione forzosa delle colture.

A motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate un totale di 21 strutture di proprietà palestinese, sfollando 14 persone e creando ripercussioni su oltre 100 [seguono dettagli]. Due case sono state sequestrate in due Comunità beduine (Abu Nuwar e Az Za’ayyem Za’atreh) situate nell’Area C del governatorato di Gerusalemme; tali Comunità si trovano all’interno, o nelle vicinanze, di un’area (E1) su cui Israele ha pianificato una vasta espansione di insediamenti [colonici]. Altre 16 strutture sono state demolite o sequestrate in diverse zone dell’Area C, sette delle quali interessano un’altra Comunità beduina (Ras ‘Ein al’ Auja) situata nella Valle del Giordano. Le restanti tre strutture, in Gerusalemme Est, sono state demolite direttamente dai loro proprietari per evitare maggiori spese e multe. Dal 2009, anno in cui OCHA ha iniziato a documentare sistematicamente questa pratica, il 2020 ha registrato un numero di strutture demolite inferiore solo a quello del 2016.

Nei pressi del villaggio di Suba (Hebron), le forze israeliane hanno spianato con bulldozer circa 3 ettari di terreno agricolo, sulla base del fatto che era stato dichiarato [da Israele] “terra di stato”. Durante l’operazione sono stati sradicati o danneggiati circa 930 ulivi, viti, mandorli e fichi d’india; danneggiati anche terrazzamenti agricoli, pali metallici, recinzioni e un cancello. I mezzi di sussistenza di otto famiglie sono stati colpiti.

Otto palestinesi, tra cui tre minori, sono stati feriti e almeno 740 alberi e alberelli di proprietà palestinese sono stati danneggiati da autori ritenuti coloni israeliani [seguono dettagli]. In tre distinti episodi, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente contadini palestinesi della comunità di Susiya, costringendoli ad abbandonare il loro terreno e ferendo un ragazzo e un anziano; questa è una delle molteplici comunità dell’Area C a rischio di trasferimento forzato. In altri tre episodi simili sono rimasti coinvolti agricoltori e altri residenti del villaggio di Kisan (Betlemme). Dopo la morte della donna israeliana [vedere 2° paragrafo], tre palestinesi sono stati feriti vicino a Hebron: un ragazzo e suo padre all’incrocio di Beit ‘Einun e un pastore vicino all’insediamento colonico di Asfar. Gli altri tre degli otto feriti palestinesi sono stati aggrediti fisicamente a Gerusalemme Est, nella Valle del Giordano e a Nablus. La vandalizzazione di circa 740 tra alberi e alberelli [vedere inizio paragrafo] è avvenuta nel corso di cinque episodi: uno di questi si è verificato nella Comunità di Khallet Athaba’ (Hebron), dove, tra ulivi e mandorli, sono stati danneggiati 400 alberi. Dall’inizio del 2020, almeno 8.550 alberi sono stati danneggiati da persone riconosciute, o ritenute, coloni israeliani.

Secondo fonti israeliane, due israeliani sono rimasti feriti e 17 veicoli israeliani, in viaggio sulle strade della Cisgiordania, sono stati danneggiati dal lancio di pietre e bottiglie di vernice ad opera di persone ritenute palestinesi.

Il 21 dicembre, a est di Ramallah, un ragazzo israeliano di 16 anni è deceduto e altri quattro coloni sono rimasti feriti per lo schianto della loro auto, inseguita dalla polizia israeliana; secondo quanto riferito, le autorità israeliane sospettavano che gli occupanti avessero lanciato pietre contro auto palestinesi.

288

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




La guerra di Israele agli aiuti europei per i palestinesi.  

Asa Winstanley

 

18 dicembre 2020 – Middle East Monitor

 

Chiunque visiti la Cisgiordania, come ho fatto io in diverse occasioni, avrà notato qualcosa di piuttosto comune, specie nelle comunità rurali: insegne, cartelloni, targhe che pubblicizzano l’Unione Europea e altri donatori nei confronti delle comunità palestinesi.

L’esempio più insidioso di questo fenomeno neocoloniale è l’Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale (USAID) che, essendo in realtà controllata dal Dipartimento di Stato, è una ramificazione del “soft power” dell’impero americano.

USAID promuove in ogni parte del mondo dei cambi di regime e gli “interessi nazionali” americani – un eufemismo che sta in realtà per gli interessi delle maggiori corporazioni statunitensi – sotto la parvenza di aiuti umanitari. Una volta fotografai un manifesto USAID a Ramallah che era stato deturpato dalla scritta in inglese: “Non vogliamo il vostro aiuto”. Questo legittimo scetticismo palestinese nei confronti degli “aiuti” occidentali è motivato da un semplice fatto fondamentale: la causa palestinese non è assolutamente una mera questione umanitaria: è una questione politica.

Gli aiuti di USA e Europa ai palestinesi hanno un vizio di fondo, ritengo intenzionalmente, in quanto si pongono come se i palestinesi fossero stati sradicati da un uragano, dalla siccità o da altra calamità naturale. Sappiamo bene invece che i profughi palestinesi furono cacciati dalle proprie terre in seguito alla pulizia etnica perpetrata dal braccio armato di un movimento politico razzista, il sionismo. Prima e dopo la fondazione di Israele nel 1948, circa 800.000 palestinesi furono cacciati dalle proprie case sotto la minaccia delle armi. Questo non fu una calamità naturale; fu una decisione deliberata presa a freddo dai sionisti.

In quel contesto molti palestinesi vennero uccisi, e le loro case e villaggi furono cancellati dalle carte geografiche dal nascente Stato di Israele. Da allora Israele ha impedito sistematicamente a loro e ai loro discendenti di tornare nelle loro terre – che è loro diritto legittimo – semplicemente perché non sono ebrei. 

Gli aiuti destinati dall’Europa ai palestinesi sembrano più tesi a placare la coscienza dei progressisti europei che ad aiutare davvero i palestinesi nel lungo termine. La UE ostenta quanto “aiuti” e finanzi progetti palestinesi nella Cisgiordania occupata, ma questi progetti ignorano sia il fondamentale problema dell’occupazione israeliana sia la politica coloniale israeliana che costringe costantemente gli abitanti originari fuori dalle loro terre.

Di fatto, sia le scuole palestinesi sia altri progetti finanziati con gli aiuti della UE vengono abitualmente demoliti, danneggiati o rubati da Israele, che provvede quindi a sostituirli con insediamenti illegali. Questa settimana il mio collega David Cronin, che lavora a The Electronic Intifada, appellandosi alla libertà di informazione, è riuscito a quantificare la portata di questa distruzione degli aiuti della UE, rivelando che i danni e i furti perpetrati da Israele solo negli ultimi cinque anni ammontano complessivamente a più di 2 milioni di dollari. Dio solo ne conosce la cifra totale.

Cronin sostiene inoltre che quasi 20 anni fa i ministri degli Esteri della UE dichiararono pubblicamente che “si riservavano il diritto di richiedere il risarcimento” ad Israele per tali demolizioni “nelle sedi appropriate”. Tuttavia quella debole contestazione non si è tradotta in nulla di fatto.

Eppure, nonostante tali distruzioni vadano avanti da decenni, la UE continua a finanziare progetti in Cisgiordania, sapendo bene che probabilmente essi verranno prima o poi distrutti dall’esercito israeliano. E nel frattempo la UE non fa nulla per affrontare la causa che è alla radice di questa devastazione, vale a dire l’occupazione israeliana.

A dire il vero, la UE fa esattamente il contrario. L’Europa continua a premiare Israele con generose donazioni, sovvenzioni e investimenti scientifici e militari, per non parlare del sostegno politico e diplomatico. Tutto ciò mentre Israele, a tutti gli effetti, porta avanti una guerra contro i progetti UE che dovrebbero in teoria aiutare le comunità palestinesi.

 La nuova ambasciatrice israeliana in Gran Bretagna, l’oltranzista di destra Tzipi Hotovely, invoca abitualmente la distruzione delle comunità palestinesi per far largo alle colonie e ad altre infrastrutture funzionali alla occupazione israeliana in Cisgiordania. Inoltre, come altri politici israeliani, attacca e demonizza frequentemente sia la UE sia associazioni per i diritti umani guidate da dissidenti israeliani, questi ultimi perché, sostiene lei, sono il prodotto di un efferato complotto finanziato con fondi europei. L’anno scorso, in un video particolarmente scioccante, Hotovely è arrivata addirittura ad usare termini esplicitamente antisemiti per attaccare uno di questi gruppi ebraici israeliani per i diritti umani.  

 Ma badate bene, la UE non è la vittima innocente di questa guerra che Israele conduce contro gli aiuti finanziati dall’Europa. I politici e i burocrati europei sono anzi parte della farsa.

La priorità deve essere la fine dell’occupazione e del sistema di apartheid imposto ai palestinesi. Il minimo che Bruxelles può e deve fare è smettere immediatamente di sostenere Israele.

 Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Una lobby del partito democratico americano difende la demolizione israeliana di un villaggio palestinese

Alex Kane

16 dicembre 2020 – +972

 Un rapporto svela che Democratic Majority for Israel [Maggioranza Democratica Per Israele] respingendo le critiche del proprio partito alla maggiore demolizione in Cisgiordania negli ultimi dieci anni ne incolpa i palestinesi.

Quando il 3 novembre i bulldozer israeliani hanno preso d’assalto e demolito il paesino di Humsa al-Fuqa (Khirbet Humsa), in Cisgiordania, 11 famiglie palestinesi sono rimaste senza casa, ma hanno anche attirato l’attenzione di alcuni Democratici a Washington.

Due settimane dopo le demolizioni, avvenute approfittando del giorno delle elezioni USA, Mark Pocan, parlamentare del Wisconsin, e 39 dei suoi colleghi del Congresso hanno inviato una lettera al Segretario di Stato, Mike Pompeo, criticando le azioni di Israele che costituiscono “una grave violazione del diritto internazionale” e un esempio di “annessione strisciante.” Nella lettera Pocan chiedeva anche che Pompeo verificasse se Israele aveva usato macchinari di fabbricazione americana.

La demolizione di Humsa al-Fuqa ha attirato grande attenzione nelle ultime settimane. Nella Cisgiordania occupata, l’esercito rade al suolo regolarmente edifici palestinesi senza permessi israeliani, che sono comunque praticamente impossibili da ottenere. Ma questa demolizione in particolare, approvata dalla Corte Suprema, ha causato la distruzione di 76 strutture, il numero più grande in una singola operazione negli ultimi dieci anni.

Non ci sono scuse per l’annessione de facto di territori palestinesi e l’America non può più restare in silenzio davanti a questi abusi dei diritti umani,” ha detto Pocan in una dichiarazione dopo la pubblicazione della lettera.

Ora il gruppo di pressione Democratic Majority for Israel [Maggioranza Democratica Per Israele] (DMFI) sta cercando di sminuirne il contenuto. In una nota mandata a dipendenti Democratici del Congresso e in possesso di +972 Magazine, il gruppo dice che i membri che avevano firmato la lettera di Pocan erano “male informati,” e continua dando la colpa ai palestinesi che abitavano nel villaggio perché “sapevano di essere in pericolo,” giustificando in effetti l’operazione.

Il documento ci dà l’occasione di dare un’occhiata al dibattito sulla Palestina che si fa sempre più acceso fra i membri progressisti e quelli conservatori del partito Democratico e di vedere come DMFI stia tentando di intralciare i tentativi di criticare l’occupazione israeliana a Washington.

DMFI è l’ultima lobby filoisraeliana ad aprir bottega a Washington, ma i suoi membri non sono degli sconosciuti in parlamento. Guidati dal consigliere democratico di lungo corso Mark Mellman, la leadership e il consiglio di amministrazione sono affollati di affiliati con stretti legami con l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC)  [Comitato per gli Affari Pubblici Americani e Israeliani], l’influente gruppo lobbistico israeliano a Washington.

È assolutamente ingiustificabile trovare scuse a chi butta la gente fuori casa nel mezzo di una pandemia globale,” dice Emily Mayer, responsabile politico di IfNotNow, gruppo ebraico anti-occupazione che ha esaminato la nota di DMFI. “Ma non è una sorpresa perché il documento sintetizza perfettamente la natura di DMFI: dietro la facciata progressista ripete argomenti pericolosi che giustificano lo status quo.”

Giustificare le demolizioni israeliane

Le due pagine di DMFI a commento della lettera di Pocan sono state diffuse il primo dicembre. Nel documento si sottolinea che la demolizione di Humsa al-Fuqa è avvenuta nell’Area C della Cisgiordania che, secondo gli accordi di Oslo, si trova “sotto il pieno controllo israeliano”. Non si fa nessun riferimento al fatto che, secondo il diritto internazionale, la zona, come il resto della Cisgiordania, è sotto occupazione militare.

Facendo eco alla giustificazione fornita dall’esercito israeliano, il documento continua dicendo che la comunità era stata “illegalmente collocata nel centro di un’area che dal 1972 è usata dall’esercito israeliano per esercitazioni militari operative,” e che per questo motivo, “coloro che vivono nell’accampamento si sono consapevolmente messi in pericolo.”

Inclusa nel documento c’è una foto aerea dove è segnata la zona di fuoco dell’esercito israeliano, che include Humsa, presa dal sito di Regavim, un gruppo di coloni di destra il cui logo appare nell’immagine nell’angolo in alto a sinistra.

Forse sarebbe stato meglio se il governo israeliano si fosse astenuto da un simile passo o lo avesse fatto diversamente,” scrive DMFI, “ma cercare di etichettare la rimozione di queste 7 tende e 8 recinti per animali come ‘illegale’ o ‘annessione strisciante’ o (come hanno fatto alcuni) ‘pulizia etnica’ riflette ignoranza dei fatti o l’intenzione di creare ostilità contro Israele malgrado i fatti.”

Il testo conclude che una “soluzione negoziata dei due Stati” porrebbe fine alle demolizioni e invita l’Autorità Nazionale Palestinese a “ritornare al tavolo dei negoziati.”

In risposta alle domande di +972, Mark Mellman, il direttore di DMFI, ha detto che la sua organizzazione “è fortemente schierata a favore di una soluzione negoziata dei due Stati, il che include critiche pubbliche e private alla proposta di annessione del governo israeliano, allo sviluppo di colonie nel corridoio “E-1” (Gerusalemme est) e al cambiamento delle politiche USA del Segretario Pompeo a favore di un’espansione delle colonie.”

Mellman continua: “Il documento di DMFI chiarisce che noi non prendiamo posizione sulla distruzione dell’accampamento, ma segnaliamo invece i problemi nel contenuto della lettera al Congresso e l’intento dei suoi autori che non hanno interpretato correttamente i fatti, usando un linguaggio esagerato. Nel sottolineare che gli abitanti non hanno diritti legali e che hanno montato il loro accampamento in una zona destinata da 48 anni per esercitazioni militari, noi seguivamo le sentenze della Corte Suprema Israeliana dell’anno scorso che abbiamo citato e che, in altri casi, aveva giustamente impedito ai coloni ebrei di sfrattare dei palestinesi da terre di loro proprietà.”

Democratici che si mascherano a favore dell’impunità”

Dagli anni ‘70, l’esercito israeliano ha dichiarato che il 18% della Cisgiordania occupata è una zona per esercitazioni militari. Secondo Al-Haq, associazione palestinese per i diritti umani, lì vivono circa 6200 palestinesi con un grave rischio di demolizioni ed evacuazioni. Al-Haq dice che le minacce israeliane di sfratti e le restrizioni all’accesso alle risorse “creano un’atmosfera oppressiva con cui si fa pressione sui palestinesi perché abbandonino queste aree e si trasferiscano altrove.” Nel frattempo, la Corte Suprema ha come al solito approvato lo sfratto di queste comunità, legalizzando in pratica l’uso di queste zone da parte dell’esercito quale pretesto per espellere i palestinesi.

Debra Shushan, direttrice del gruppo progressista per gli affari governativi, in un documento di risposta di J Street [gruppo ebraico statunitense sionista ma contrario all’occupazione, ndtr.] fatto circolare fra i parlamentari democratici e ottenuto da +972 Magazine, respinge le affermazioni di DMFI. Lei asserisce che le tesi di DMFI “rispecchiano quelle di Regavim” e che “Israele ha destinato molte zone per esercitazioni per cacciare comunità palestinesi e mantenere il controllo da parte di Israele.”

DMFI sta cercando di proteggere Israele dalle critiche sulle sue politiche che mettono a repentaglio la prospettiva di uno Stato palestinese e di una fine negoziata al conflitto israelo-palestinese,” conclude Shushan. “Minando la soluzione dei due Stati usando fonti e argomenti di destra pro-annessione, la difesa di DMF delle demolizioni ed espulsioni forzate non solo va contro i valori democratici, ma danneggia il futuro di Israele.”

Le attività di DMFI, fondato nel gennaio 2019, vogliono zittire le critiche del partito Democratico verso Israele. Nei quasi due anni di esistenza ha speso milioni di dollari per difendere i Democratici da fondamentali accuse da parte di progressisti che difendevano i diritti dei palestinesi. Secondo The Intercept [sito di controinformazione statunitense, ndt.] DMFI, con l’aiuto di donatori dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, Comitato per gli Affari Pubblici Americano-Israeliano, principale organizzazione della lobby filoisraeliana, ndtr.] ha anche speso molto in annunci che attaccavano Bernie Sanders durante le primarie presidenziali 2020; sebbene essi non citassero Israele, Sanders nella sua campagna elettorale ha ripetutamente criticato il governo israeliano.

Nel frattempo in Campidoglio DMFI ha duramente attaccato parlamentari democratiche progressiste come Betty McCollum [che ha presentato un disegno di legge per subordinare gli aiuti militari USA a Israele al rispetto dei diritti dei minori palestinesi, ndtr.] e Rashida Tlaib [parlamentare di origine palestinese appartenente al gruppo progressista “The Squad”, ndtr.], per la loro difesa dei diritti dei palestinesi mentre proclamava di sostenere “un progetto di politiche progressiste.”

L’AIPAC è diventata così dannosa per i Democratici dopo l’instancabile lavorio per sabotare il primo presidente afroamericano che sono saltati fuori altri gruppi che sperano di portare avanti un progetto simile con un altro nome,” secondo Yousef Munayyer, un dottorando presso l’Arab Center Washington DC. “Questi personaggi [del DMFI] si nascondono dietro la maschera democratica per smerciare la stessa vecchia storia, facendo credere che le incessanti violazioni dei diritti umani da parte di Israele siano incredibilmente complicate e che, alla fin fine, siano i palestinesi a essere colpevoli per le proprie sofferenze.”

Alex Kane è un giornalista di New York i cui articoli su Israele/Palestina, libertà civili e politica estera USA sono stati pubblicati, tra gli altri, da Vice News, The Intercept, The Nation, In These Times.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




“Forza letale intenzionale”: gli esperti delle Nazioni Unite accusano Israele di aver ucciso un ragazzo palestinese.

Redazione MEE

17 dicembre 2020 – Middle East Eye

L’uccisione del quindicenne Ali Abu Alia è una “grave violazione del diritto internazionale”, afferma l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani

Gli esperti delle Nazioni Unite hanno condannato l’esercito israeliano per aver ucciso all’inizio di questo mese un ragazzo palestinese durante una protesta nella Cisgiordania occupata, definendo l’uccisione del quindicenne Ali Abu Aliya una “grave violazione del diritto internazionale”.

In una dichiarazione rilasciata giovedì dall’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, gli esperti hanno invitato il governo israeliano a condurre “un’indagine civile indipendente, imparziale, immediata e trasparente” sulla morte del ragazzo.

“L’uccisione di Ali Ayman Abu Aliyaa da parte delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] in circostanze in cui non vi era nessuna minaccia di morte o di lesioni gravi per le forze di sicurezza israeliane – è una grave violazione del diritto internazionale”, hanno dichiarato. “La forza letale intenzionale è giustificata solo quando il personale di sicurezza deve affrontare una minaccia immediata che può essere letale o provocare un grave danno fisico”.

I soldati israeliani hanno colpito all’addome il palestinese Abu Aliyaa il 4 dicembre, nel corso di una protesta vicino al suo villaggio di al-Mughayir, in Cisgiordania. In seguito è deceduto in seguito alle ferite.

L’esercito israeliano ha affermato di aver aperto un’indagine sull’incidente, ma ha negato che contro i manifestanti, che ha definito “rivoltosi”, siano state usate munizioni vere.

La dichiarazione delle Nazioni Unite di giovedì ha evidenziato che la manifestazione si svolgeva a al-Mughayir contro [la presenza di] un “avamposto di un insediamento coloniale illegale”. Pur riconoscendo che i ragazzi stavano lanciando dei sassi, ha sottolineato che non rappresentavano un pericolo immediato per le forze israeliane e ha messo in discussione la dichiarazione secondo cui non sarebbero state utilizzate munizioni vere.

“Abu Aliya è stato colpito all’addome con un proiettile di un fucile di precisione Ruger 0,22, sparato da un soldato israeliano da una distanza stimata di 100-150 metri. È deceduto più tardi in ospedale quello stesso giorno”, si legge nel comunicato.

“Gli esperti sui diritti umani non sono a conoscenza di alcuna affermazione secondo cui le forze di sicurezza israeliane si trovassero in alcun modo in pericolo di morte o di lesioni gravi”.

Gli esperti delle Nazioni Unite – Agnes Callamard, relatrice speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, e Michael Lynk, relatore speciale sui diritti umani nei Territori palestinesi – hanno anche evidenziato la questione più ampia dei maltrattamenti a danno dei bambini palestinesi.

Atrocità contro i minori

Abu Aliyaa è il sesto minorenne palestinese ucciso nel 2020 in Cisgiordania dalle forze israeliane mentre, secondo l’ufficio per i diritti delle Nazioni Unite, nel corso dell’ultimo anno sono stati feriti più di 1.000 minori palestinesi.

Le atrocità israeliane contro i minori sollevano “profonde preoccupazioni” in merito agli obblighi di Israele in materia di diritti umani, nella sua veste di potenza occupante nei territori palestinesi, hanno sostenuto Callamard e Lynk. Essi hanno anche sottolineato che le indagini israeliane sull’uso letale della forza contro i palestinesi “raramente si traducono in un’adeguata ricerca di colpevoli”.

“Questo basso livello di responsabilizzazione legale per l’uccisione di così tanti minori da parte delle forze di sicurezza israeliane è indegno di un Paese che dichiara di vivere secondo lo stato di diritto”, hanno affermato gli esperti.

L’uccisione di Abu Aliyaa ha causato indignazione tra i difensori dei diritti dei palestinesi, secondo i quali l’incidente rappresenta lo specchio degli abusi che i palestinesi subiscono per mano delle forze israeliane.

Anche l’Unicef, l’Unione Europea e alcuni parlamentari statunitensi hanno espresso preoccupazione per l’omicidio.

All’inizio di questo mese, la deputata statunitense Betty McCollum ha denunciato l’uccisione del ragazzo palestinese, definendola un’espressione del fenomeno dell’occupazione della Cisgiordania.

“L’uccisione di ieri in Cisgiordania di un minorenne palestinese di 15 anni da parte di un soldato israeliano che ha sparato al ragazzo all’addome è un orrendo omicidio sponsorizzato dallo Stato”, ha dichiarato McCollum a MEE in un comunicato del giorno successivo all’uccisione di Abu Aliya.

“Questo reato insensato deve essere condannato in quanto risultato diretto dell’occupazione militare permanente della Palestina da parte di Israele”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Perché l’UE aiuta Israele nel trattamento dei suoi rifiuti in Cisgiordania?

Adri Nieuwhof

10 dicembre 2020 – The Electronic Intifada

Tre aziende europee stanno partecipato al bando per la commessa riguardante un nuovo impianto di termovalorizzazione maggiormente rispettoso dell’ambiente [previsto] nella colonia israeliana di Maaleh Adumim.

L’ubicazione dell’impianto – nei territori occupati, e quindi illegale ai sensi del diritto internazionale – non ha tuttavia scoraggiato l’Unione Europea, che sostiene con 1,5 milioni di euro l’attuazione di un piano strategico israeliano per il 2030, riguardante la gestione dei rifiuti, che include l’impianto di Maaleh Adumim [colonia nella Cisgiordania a est di Gerusalemme, ndtr.].

L’impianto dovrebbe essere costruito presso il deposito per il riciclaggio “Buon Samaritano” a est (e ben all’interno del territorio occupato) di Maaleh Adumim e a poche centinaia di metri da piccole comunità di pastori palestinesi.

Né l’UE, né le aziende europee possono pretendere di non essere informate al riguardo. Il bando di gara per il progetto è stato pubblicato nell’ottobre dello scorso anno, lasciando molto tempo per una approfondita verifica.

Tuttavia nel novembre di quest’anno il quotidiano [economico, ndtr.] israeliano Calaclist ha rivelato che tre società europee sono disposte a sostenere Israele – la gara prevede che le società straniere debbano avere un partner locale – nella costruzione dell’impianto illegale.

Esse sono: l’azienda tedesca Standardkessel Baumgarte, che ha sede a Duisburg e che collaborerà con l’Israeli Generation Capital Fund.

La Hitachi Zosen Inova, con sede in Svizzera, propone una partnership con la TMM Integrated Recycling Industries, in passato di proprietà di Veolia [multinazionale francese leader mondiale nel trattamento delle acque, ndtr.].

TMM gestisce attualmente la discarica di Tovlan nella Cisgiordania occupata.

L’azienda italiana TM.E. S.P.A. Termomeccanica Ecologia di Milano collabora con la società israeliana Shikun & Binui, che ha realizzato progetti negli insediamenti di Maaleh Adumim e Har Homa.

In tutto si trovano in competizione per la gara otto gruppi, con altre società israeliane che lavorano in partnership con aziende cinesi e giapponesi.

Tutte le aziende che intendono partecipare alla realizzazione di questo sito illegale di termovalorizzazione a Maaleh Adumim violano il diritto internazionale e dovrebbero essere considerate legalmente perseguibili.

Supporto dell’Unione Europea

L’Unione Europea sostiene il Ministero israeliano della Protezione Ambientale nell’attuazione del suo piano strategico per il 2030 al fine di migliorare la gestione dei rifiuti israeliani nell’ambito del suo progetto di gemellaggio da 1,5 milioni di euro.

L’accordo di gemellaggio specifica che “tutte le azioni finanziate dall’UE sono soggette alla politica dell’UE nei confronti di Israele sulla base dei suoi confini definiti in linea con il diritto internazionale”.

Ma il piano strategico per il 2030 del ministero include la creazione del termovalorizzatore di Maaleh Adumim.

L’impianto costerà fino a più di 400 miliardi di euro e tratterà circa 1.500 tonnellate di rifiuti al giorno provenienti dall’area metropolitana di Gerusalemme, inclusa Maaleh Adumim.

Dovrà essere costruito un inceneritore per l’utilizzo dei rifiuti per la produzione di elettricità.

Il trasferimento del trattamento dei rifiuti israeliani nella Cisgiordania occupata è illegale secondo il diritto internazionale. Non giova in alcun modo alla popolazione originaria palestinese. L’UE dovrebbe revocare immediatamente il suo sostegno al progetto.

Il progetto di gemellaggio sostiene di voler “contribuire alla protezione della salute umana e dell’ambiente in Israele”.

A quanto pare, [il concetto di] salute umana, secondo l’UE, non si estende ai palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 24 novembre – 7 dicembre 2020

In Cisgiordania, in quattro separati episodi, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese 15enne e ferendone gravemente altri tre di 16 anni.

Il quindicenne è stato ucciso il 4 dicembre, nei pressi del villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), in scontri scoppiati durante una protesta contro la realizzazione di un avamposto colonico israeliano. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine. Due dei ragazzi feriti sono stati colpiti al petto, con armi da fuoco, durante lanci di pietre avvenuti il 28 e 29 novembre, vicino ad Al Bireh e Silwad (Ramallah), e sono stati ricoverati in unità di terapia intensiva. Il quarto ragazzo è stato colpito alla testa da un proiettile gommato, il 27 novembre, durante la manifestazione settimanale contro l’espansione degli insediamenti a Kafr Qaddum (Qalqiliya), ed è stato ricoverato in ospedale con il cranio fratturato. Il Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite, Nickolay Mladenov, nonché l’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite hanno invitato Israele a condurre indagini rapide, trasparenti e indipendenti e a fare in modo che i responsabili rendano conto.

Le forze israeliane, in due distinti episodi verificatisi a posti di blocco che controllano gli ingressi in Gerusalemme Est da altre parti della Cisgiordania, hanno sparato e ucciso un palestinese e ne hanno ferito gravemente un altro [seguono dettagli]. Il 25 novembre, al checkpoint di Az Za’ayyem, un autista palestinese, i cui documenti erano in fase di controllo, secondo fonti ufficiali israeliane, ha improvvisamente accelerato la sua auto, ferendo leggermente un poliziotto israeliano; successivamente l’uomo si è fermato ai bordi della strada, ma le forze israeliane che avevano rincorso il veicolo hanno aperto il fuoco, uccidendolo. Un’indagine di B’Tselem, organizzazione israeliana per i Diritti Umani, ha accertato che, nel momento in cui è stato ucciso, l’uomo non costituiva una minaccia. Il 7 dicembre, le forze israeliane hanno sparato e ferito un palestinese disarmato che stava camminando verso il checkpoint di Qalandiya e, secondo quanto riferito, si era rifiutato di fermarsi all’intimazione di alt.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri, sono complessivamente rimasti feriti 206 palestinesi, inclusi dieci minori, e sei soldati israeliani [seguono dettagli]. 148 palestinesi sono stati colpiti nel corso di proteste contro attività di insediamento colonico: a Salfit, a Ein as Samiya e Al Mughayyir (entrambi in Ramallah), a Beit Dajan (Nablus) ed a Kafr Qaddum (Qalqiliya). Altri 25 palestinesi sono rimasti feriti al checkpoint di Tayasir, nella valle del Giordano settentrionale, durante una protesta contro la demolizione di case. Scontri con forze israeliane, scoppiati nella città di Nablus in seguito all’ingresso di un gruppo di israeliani al sito religioso della Tomba di Giuseppe, hanno provocato il ferimento di 13 palestinesi. Cinque palestinesi e sei soldati israeliani sono rimasti feriti durante un’operazione di ricerca-arresto nel Campo Profughi di Qalandiya (Gerusalemme). I restanti 15 feriti sono stati registrati nel Campo Profughi di Ad Duheisheh (Betlemme), durante operazioni di ricerca-arresto e nel quartiere Al ‘Isawiya di Gerusalemme Est (compreso un giovane colpito al volto), durante episodi di lancio di pietre e tentativi, da parte di palestinesi, di entrare in Israele attraverso brecce nella Barriera. Dei palestinesi feriti, 9 sono stati colpiti da proiettili di arma da fuoco e 78 da proiettili gommati; 110 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno e la maggior parte dei rimanenti è stata aggredita fisicamente.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 182 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 149 palestinesi. Il maggior numero di operazioni è stato registrato nei governatorati di Gerusalemme (52) e Hebron (46). Delle 52 operazioni condotte a Gerusalemme, 40 sono state effettuate in Gerusalemme Est, e 9 di esse nel quartiere di Al ‘Isawiya. Sempre a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno emesso ordini di divieto di ingresso nei confronti di tre palestinesi; costoro precedentemente erano stati arrestati nel complesso di Haram al Sharif / Monte del Tempio per “disturbi all’ordine pubblico”. Sono oltre 150 le persone bandite da tali ordini dall’inizio del 2020.

In almeno 18 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco [di avvertimento] verso palestinesi presenti in aree di Gaza adiacenti alla recinzione israeliana e, in mare, al largo della sua costa, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso. Non sono stati registrati feriti. In altre due occasioni, bulldozer israeliani, entrati in Gaza, hanno spianato il terreno in prossimità della recinzione perimetrale. Le forze israeliane hanno arrestato, e successivamente rilasciato, due palestinesi che, a quanto riferito, erano entrati in Israele, a est di Deir al Balah, attraverso la recinzione.

A causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, 52 strutture di proprietà palestinese (49 in Area C e 3 in Gerusalemme Est) sono state demolite o sequestrate, sfollando 67 persone e creando ripercussioni su circa 860 [seguono dettagli]. Il 25 novembre, in sette Comunità dell’area di Massafer Yatta, a sud di Hebron, le autorità israeliane hanno demolito dieci strutture, compresi circa quattro chilometri di condutture idriche fornite come assistenza umanitaria. La maggior parte di quest’area è designata [da Israele] come “area chiusa” e destinata all’addestramento militare, mettendo i suoi 1.400 residenti a rischio di trasferimento forzato. Tredici delle strutture sono state demolite sulla base di “Ordini Militari 1797”, che consentono di effettuare la demolizione entro 96 ore dall’emissione di un “ordine di rimozione”. A Gerusalemme Est, due delle tre demolizioni di strutture residenziali sono state eseguite dagli stessi proprietari per evitare multe e oneri aggiuntivi.

Nei pressi di Qalqiliya, due palestinesi sono stati feriti e almeno 300 alberi di proprietà palestinese ed altre proprietà sono state danneggiate da persone ritenute coloni israeliani [seguono dettagli]. Gli alberi sono stati vandalizzati nei villaggi di Turmus’ayya (Ramallah), As Sawiya (Nablus) e Kafr ad Dik, Bruqin, Yasuf e Haris in Salfit ed includono 150 viti e circa 140 tra ulivi ed alberelli. A titolo di riepilogo consuntivo [parte dei dati sono già stati riportati in Rapporti precedenti]: nei mesi di ottobre e novembre sono stati vandalizzati almeno 1.750 ulivi ed il prodotto di oltre 1.800 è stato rubato da sospetti coloni. In due dei rimanenti episodi sono stati danneggiati un vivaio nel villaggio di As Sawiya ed un negozio nella città di Hebron, nella zona controllata da Israele. Un altro episodio, in Tubas, ha riguardato l’aggressione contro pastori palestinesi ed il ferimento di una mucca. A Gerusalemme Est, la polizia israeliana ha arrestato un israeliano che stava tentando di dare alle fiamme una chiesa.

Le forze israeliane hanno sradicato circa 200 ulivi e viti piantate da agricoltori palestinesi del villaggio di Al Khader (Betlemme) su terreno dichiarato [da Israele] “terra di Stato” nel 2014. Il terreno è situato vicino all’insediamento colonico di Neve Daniel.

Secondo fonti israeliane, due israeliani sono rimasti feriti e 19 veicoli israeliani che viaggiavano su strade della Cisgiordania sono stati danneggiati dal lancio di pietre, bottiglie di vernice e bottiglie incendiarie, ad opera di aggressori ritenuti palestinesi.

287




Nella Cisgiordania occupata Israele traccia enormi strade che preparano la via a un’annessione di fatto

Clothilde Mraffko

Lunedì 7 dicembre 2020 – Middle East Eye

In un nuovo rapporto l’Ong israeliana Breaking the Silence svela circa 25 progetti israeliani di strade nella Cisgiordania occupata destinate a servire alla colonizzazione e a incoraggiarla nei prossimi anni. Middle East Eye vi ha avuto accesso in anteprima.

Da mesi i bulldozer mordono la montagna nei pressi di Betlemme. Il cantiere è gigantesco, si scavano tunnel e ponti a tutta velocità. Lo scopo? Costruire nuove strade per trasformare questo asse viario intasato mattina e sera in un’autostrada con un traffico scorrevole.

Il tratto di strada è percorso solo dai coloni israeliani che fanno ogni giorno il tragitto da Gush Etzion, gruppo di colonie situate a sud di Betlemme, nella Cisgiordania occupata, fino a Gerusalemme, dove lavorano.

Invece i palestinesi non possono accedere a questo tratto: le loro strade passano dall’altra parte del muro di separazione che dal 2002 Israele ha costruito a Betlemme. In totale, entro 5 anni dovrebbero emergere dalla terra 37 km di tunnel, ponti e svincoli.

L’allargamento di questa “strada dei tunnel” fa parte di un progetto più grande, svelato questa settimana da Yehuda Shaul, cofondatore e importante membro dell’Ong israeliana “Breaking the Silence” in un nuovo rapporto scritto insieme alla nuova organizzazione che ha fondato, “The Israeli Centre for Public Affairs” [Il Centro Israeliano per le Questioni Pubbliche, ndtr.].

Secondo lui, mentre il mondo aveva gli occhi puntati sulle voci di un’annessione israeliana di una parte della Cisgiordania quest’estate, Israele procede da anni a un’annessione di fatto, imponendo cioè una serie di fatti sul terreno difficili da cancellare.

L’obiettivo è avere un milione di coloni israeliani entro dieci-venti anni,” spiega a Middle East Eye, aprendo con attenzione una cartina davanti a sé. Oggi più di 600.000 israeliani vivono a Gerusalemme est e in Cisgiordania, in totale violazione del diritto internazionale, e la loro presenza compromette gravemente la formazione di uno Stato palestinese indipendente e sostenibile.

Incoraggiando la colonizzazione, Israele tende ormai a persuadere i coloni israeliani ad insediarsi sempre più in profondità nella Cisgiordania occupata. Estendendo la presenza israeliana, i dirigenti sionisti sperano di rendere impossibile qualunque spostamento di popolazione e di liquidare così definitivamente la soluzione a due Stati.

Ma per fare ciò ci vogliono delle strade. Per il momento la maggioranza dei coloni continua a lavorare in Israele, dall’altra parte della Linea Verde (il tracciato dell’armistizio del 1949 tra Israele e i Paesi arabi), dove si trovano le principali opportunità di lavoro. Fanno ogni giorno i pendolari su assi viari diventati troppo piccoli per assorbire la crescita delle colonie e della popolazione palestinese.

Galvanizzati da Trump

L’ultima volta che c’è stato un piano di sviluppo completo in Cisgiordania era il 1991. In seguito ci sono stati gli accordi di Oslo,” commenta Yehuda Shaul, che percorre instancabilmente le strade dei territori palestinesi per valutare l’avanzamento di questo “grande progetto”.

Nel rapporto pubblicato questo lunedì elenca circa 25 cantieri avviati o previsti per estendere le reti viarie nella Cisgiordania occupata e per migliorare i collegamenti tra le colonie e Israele.

I progetti infrastrutturali di Israele in Cisgiordania rafforzano il controllo israeliano sulla terra, frammentano il territorio palestinese e costituiscono un ostacolo importante per ogni soluzione che includa in futuro la pace e l’uguaglianza,” conclude il rapporto.

Negli ultimi anni gli eletti nei consigli dei coloni in Cisgiordania hanno fatto pressione, arrivando fino a scatenare nel 2017 uno sciopero della fame simbolico per ottenere più finanziamenti. I primi progetti sono stati presentati nel 2014, ma la presidenza Trump ha chiaramente galvanizzato le ambizioni israeliane.

Un grande progetto è una visione, non vuol dire che venga effettivamente realizzato, soprattutto per questioni di bilancio,” frena l’attivista di Breaking the Silence.

In particolare l’allargamento della strada dei tunnel verso Betlemme dovrebbe costare circa 850 milioni di shekel, circa 214 milioni di euro. Tutto attorno a Gerusalemme l’allargamento degli assi stradali che portano alle grandi colonie o la costruzione di nuove strade dovrebbero costare in totale circa 5 miliardi di shekel, 1.26 miliardi di euro.

Questi lavori servono innanzitutto agli interessi dei coloni israeliani e rafforzano la segregazione in atto in Cisgiordania. In qualche caso, come conseguenza dell’effetto di rimbalzo, queste strade favoriranno anche i palestinesi, esclusi dai grandi cantieri israeliani, riducendo il traffico su alcune strade.

La maggior parte dei progetti studiati da Breaking the Silence riguarda le tangenziali. Queste strade, sviluppate dalla metà degli anni ’90, permettono ai coloni di spostarsi tra colonie o verso Israele senza attraversare città o villaggi palestinesi.

Ormai Israele intende investire per trasformare la maggior parte delle strade in autostrade, oppure costruire dei prolungamenti.

Dopo la realizzazione di questi 25 progetti nessun colono, salvo ad Hebron (dove i coloni vivono all’interno della città), dovrà guidare nelle zone dove vivono i palestinesi,” spiega Yehuda Shaul.

In totale per i palestinesi saranno costruiti due assi stradali. L’idea è di permettere loro di aggirare la colonia di Maale Adumim, situata a 7 km ad est di Gerusalemme, per riservare ai coloni israeliani una strada che colleghi la colonia alla città santa senza posti di controllo, come se facesse parte della periferia naturale di Gerusalemme.

Ovviamente i palestinesi che non sono autorizzati ad entrare a Gerusalemme non potranno transitare su questa strada. Nel gennaio 2019 un tratto, soprannominato la “strada dell’apartheid”, era già stato aperto, con da una parte la carreggiata riservata ai palestinesi e dall’altra quella per quanti dispongono di una vettura con una targa israeliana, separate tra loro da un alto muro sormontato da una barriera.

La prova che questi progetti servono allo sviluppo israeliano è che seguono degli assi est/ovest, dalla Cisgiordania verso i luoghi di lavoro in Israele. Lo sviluppo naturale palestinese invece ha luogo attraverso le colline, da nord a sud,” commenta il coautore del rapporto.

L’ampiamento delle strade si accompagna anche all’“espropriazione di una notevole quantità di terreni. Vede queste linee? Sono le linee degli espropri,” sottolinea, al bordo di una strada che si dirige verso Hebron, nel sud della Cisgiordania.

Da ogni lato dei piccoli bastoni neri piantati profondamente nella terra si mangiano grandi porzioni di campi.

Non è consentito costruire ai bordi delle autostrade,” continua Yehuda Shaul.

Queste strade impediranno anche lo sviluppo delle enclave palestinesi. Così l’ingrandimento della strada dei tunnel impedirà ogni possibilità di espansione di Betlemme verso nord. Cambia anche il rapporto tra le città e i villaggi palestinesi, tagliati fuori le une dagli altri dai grandi assi viari che non servono a loro e li obbligano a delle deviazioni.

Nel 2019, in un’intervista al giornale israeliano Israel Hayom [quotidiano israeliano gratuito di destra, ndtr.] l’ex-ministro dei Trasporti Bezalel Smotrich, del partito di estrema destra [dei coloni, ndtr.] Yamina, ha annunciato chiaramente: “Se si vuole portare un altro mezzo milione di abitanti in Giudea e Samaria (nome biblico che gli israeliani utilizzano per evitare di dire “Cisgiordania”), si deve essere sicuri che ci siano delle strade. Le colonie seguono le strade e i trasporti pubblici.”

Con questi 25 progetti, denunciano gli autori del rapporto, Israele accelera la sua politica di annessione di fatto, contribuendo a “definire ancor di più la situazione di uno Stato unico con disparità di diritti,” in spregio al diritto internazionale.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




“Che Dio ci conceda la pazienza”: i palestinesi piangono il ragazzo ucciso

Anas Jnena, Mersiha Gadzo

6 dicembre 2020 – ALJAZEERA

Ali Abu Alia è il quinto minore palestinese della Cisgiordania occupata ucciso quest’anno dalle forze israeliane con munizioni vere, dichiara un’organizzazione per i diritti.

Venerdì Ali Abu Alia aveva appena compiuto 15 anni, quando le forze israeliane gli hanno sparato uccidendolo, con l’utilizzo di munizioni vere, durante una protesta nel villaggio di al-Mughayyir, nella Cisgiordania occupata.

Era elettrizzato per la festa di compleanno che ci sarebbe stata più tardi la sera, soprattutto perché la famiglia Abu Alia è religiosa e non è solita fare festeggiamenti.

Ma il padre di Ali, Ayman, aveva fatto sapere a sua moglie che questa volta gli avrebbero organizzato una festa.

Ali era molto eccitato e ha chiesto a sua madre di preparare la torta per la sera. Ma il suo destino è mangiare la torta in un altro luogo [in paradiso] “, afferma Ayman, 40 anni, ad Al Jazeera da al-Mughayyir, a nord-est di Ramallah.

Secondo le informazioni ottenute da Defense for Children International Palestine (DCIP)[ONG con sede a Ginevra impegnata nella salvaguardia dei diritti dei bambini, ndtr.] le forze di occupazione israeliane hanno sparato ad Ali all’addome mentre osservava gli scontri tra i giovani palestinesi e le forze israeliane all’ingresso del villaggio.

Proprio come in gran parte della Cisgiordania, ogni settimana ad al-Mughayyir si svolgono proteste contro gli insediamenti israeliani.

Un’ambulanza ha trasferito Ali Abu Alia in un ospedale di Ramallah dove un medico ne ha dichiarato la morte poco dopo il suo arrivo.

Ittaf Abu Alia, un parente, ha detto ad Al Jazeera che dopo aver appreso la notizia la madre di Ali è svenuta e la famiglia ha cercato uno psicologo per tentare di calmarla.

Si è affermato che altri quattro palestinesi sono stati feriti da proiettili di metallo rivestiti di gomma.

Venerdì gli organi di informazione hanno riferito che un portavoce dell’esercito israeliano ha negato che durante la protesta siano state usate munizioni vere.

Ali non sarà l’ultimo ragazzo ad essere ucciso”

Ayman descrive Ali come “il ragazzo più tranquillo”, amichevole, pieno di gioia, con un sorriso che non lasciava mai il suo viso.

Trascorreva la maggior parte del tempo a giocare a calcio con i suoi amici o a pascolare le pecore con il nonno.

Mi manca tutto di lui – il suo sorriso, le sue risate e la gioia nei suoi occhi quando la sua squadra [di amici] vinceva una partita di calcio. Ha lasciato nel cuore della sua famiglia un vuoto che nessuno può colmare”, dice Ayman.

“La sua morte è caduta come un fulmine a ciel sereno sulla nostra casa, ma non è il primo ragazzo palestinese [ad essere ucciso] e non sarà l’ultimo”.

Secondo il DCIP Ali è il quinto minore palestinese della Cisgiordania ad essere ucciso quest’anno dalle forze israeliane con munizioni vere ed è il secondo omicidio documentato ad al-Mughayyir negli ultimi anni.

Nel febbraio 2018 ad al-Mughayyir le forze israeliane hanno sparato, uccidendolo, al sedicenne Laith Abu Naim, dopo che egli aveva lanciato una pietra contro un veicolo militare, ha dichiarato venerdì il DCIP. Il proiettile di metallo rivestito di gomma è penetrato nella parte sinistra della sua fronte e si è fermato nel cervello.

Secondo il diritto internazionale, [l’uso della] forza letale intenzionale è giustificata solo quando c’è una minaccia diretta per la vita o per lesioni gravi, ma le indagini del DCIP rivelano che le forze israeliane usano la forza letale contro i minori palestinesi in circostanze ingiustificate, il che può equivalere a uccisioni extragiudiziali.

Ayed Abu Eqtaish, direttore del DCIP, venerdì ha detto che le forze israeliane violano regolarmente il diritto internazionale usando la forza letale contro i minori palestinesi senza giustificazione.

“Come quasi ogni altro caso riguardante l’uccisione illegale di minori palestinesi da parte delle forze israeliane, l’impunità sistemica come norma garantisce che l’autore del reato non sia mai ritenuto responsabile da parte delle autorità israeliane”, ha sostenuto Abu Eqtaish.

“Siamo costantemente presi di mira”

Ciò che infastidisce di più Ayman è come alcune persone siano apparse scandalizzate quando hanno saputo dell’uccisione di un quindicenne.

“Questa non è una novità … Siamo continuamente presi di mira – le nostre pecore, le nostre case e i nostri figli – se non dall’esercito israeliano, dai coloni”, afferma Ayman.

Secondo il DCIP, gli abitanti di al-Mughayyir tengono regolari manifestazioni di protesta contro il vicino avamposto israeliano illegale Malachei HaShalom, insediato sulle terre del villaggio nel 2015.

Ayman riferisce che nel loro quartiere sono state finora incendiate dai coloni due moschee: la moschea Al Kabeer e la moschea Abu Bakir. Suo figlio di 17 anni, Bassam, è stato ferito due volte prima dai coloni israeliani e poi dall’esercito israeliano.

Ogni venerdì, i coloni israeliani compaiono nelle strade di al-Mughayyir e iniziano ad attaccare gli abitanti palestinesi, lanciando pietre contro di loro o contro le loro auto. È tutto fatto con l’intenzione di “privarci della nostra libertà e identità“, dice Ayman.

“Il mondo sa cosa sta succedendo, ma nessuno agisce … Ali non è il primo a morire senza motivo e non sarà l’ultimo. È una lotta continua e sarà sempre la stessa storia fino a quando l’occupazione non sarà finita”, afferma Ayman.

Ripeterò ciò che Ali diceva sempre: che Dio ci conceda la pazienza di sopportare [l’occupazione]”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I vigneti israeliani vogliono partecipare alla crescita mondiale del vino delle colonie

Joseph Massad

sabato 5 dicembre 2020 – Middle East Eye

Israele ambisce a creare una nicchia commerciale per i suoi vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati

Dagli anni ’90 uno degli aspetti più significativi della nuova cultura mondiale del vino è che non si limita ai Paesi produttori di vino europei.

Accanto alla Francia e, in misura minore, all’Italia, che in precedenza dominavano il settore, i nuovi produttori di vino sul mercato provengono da ex-colonie europee: Australia, Nuova Zelanda, California, Sudafrica, Argentina, Cile. I loro vini sono largamente commercializzati a livello internazionale.

Le colonie israeliane cercano di penetrare in questo mercato, peraltro senza successo a causa della scarsissima competitività dei loro vini sul piano qualitativo, salvo forse in luoghi limitati di alcune città americane ed europee e in alcune zone degli Emirati Arabi Uniti.

Recenti ricerche che valutano la produzione del vino in diverse regioni del mondo non citano neppure Israele come candidato degno di questo nome.

Le origini colonialiste di questi vini sono una semplice coincidenza o la produzione del vino è stata fondata sul furto di terre indigene?

Un importante episodio della storia della produzione vitivinicola europea è stato il disastro avvenuto verso la fine del XIX secolo a causa di una invasione di fillossera, un insetto che si nutre delle viti. La fillossera ha rischiato di distruggere l’industria vinicola francese, con una produzione scesa di circa il 75% tra il 1875 e il 1889.

Era l’epoca dell’apogeo del colonialismo francese, in particolare in Algeria, che a partire dagli anni ‘70 dell’‘800 vide dilagare una nuova ondata di coloni. La maggior parte dei nuovi coloni erano agricoltori del Sud della Francia che cercavano di sfuggire alla povertà dopo la distruzione dei vigneti della Linguadoca e della Provenza da parte della fillossera.

Con la concessione di crediti da parte dello Stato e prestiti bancari ai coloni bianchi, i vigneti cominciarono a ricoprire la regione dell’Atlante telliano [catena montuosa settentrionale del Maghreb, ndtr.] in Algeria, dove si costituì e prosperò un’industria vitivinicola redditizia fino all’indipendenza dell’Algeria.

Le olive e l’uva

I contadini algerini spogliati delle loro terre svolgevano la maggior parte dei lavori agricoli. La resistenza anticolonialista algerina si manifestò con attacchi periodici contro le colonie agricole.

Come illustra l’esempio algerino, le misure giuridiche colonialiste che consentivano di privatizzare le terre conquistate sono sempre state determinanti per l’espansione della colonizzazione.

Nella vicina Tunisia, un’altra colonia francese, i francesi usurparono più di un quarto di milione di ettari tra il 1892 e il 1914.

L’agricoltura colonialista si è specializzata nelle olive e nell’uva per la produzione di olio e di vino. Con la colonizzazione ufficiale sostenuta dallo Stato, i francesi hanno cacciato i contadini tunisini dalle terre su cui lavoravano da sempre ma per le quali non avevano un titolo di proprietà.

La stessa sorte è stata riservata ai pascoli, che persero a favore dei coloni. I tunisini espulsi e in preda alla miseria attaccarono le aziende agricole coloniali.

Nel 1858 gli Ottomani emisero un codice agrario che privatizzò le terre in Palestina: esse cominciarono ad essere acquistate dai mercanti della Palestina e di altre zone. Proprietari assenteisti acquistarono enormi estensioni di terreno e ne vendettero alcuni a degli agenti locali di organizzazioni filantropiche ebraiche con sede in Francia, che finanziavano a loro volta delle colonie agricole.

Allo stesso tempo i vigneti francesi del barone Edmond de Rothschild, un importante produttore di vino francese, furono devastate dalla fillossera. Il barone cominciò a concedere dei fondi ai coloni ebrei russi perché coltivassero delle vigne e nel 1883 finanziò le colonie di Petah Tikva e di Rishon LeZion, dove intendeva impiantare dei vigneti e una tenuta vitivinicola.

Nel 1882 i coloni russi crearono sulle terre perse dal villaggio di Uyun Qarah la prima azienda vinicola di Rothschild a Rishon LeZion, poi poco più tardi nella colonia di Zikhron Yaakov, costruita su terre del villaggio palestinese di Zamarin.

Rothschild “seguì il modello della colonizzazione agricola francese in Algeria e in Tunisia” inviando degli esperti agricoli e orticoli formati in Algeria e in Francia. Proprio come i contadini tunisini ed algerini, quelli palestinesi vennero espulsi dalle terre dove avevano vissuto e lavorato da secoli.

Il primo grande atto di resistenza contadina contro le colonie ebraiche avvenne nel 1886, quando dei contadini attaccarono la colonia ebraica di Petah Tikva finanziata da Rothschild.

Alla colonia erano state vendute delle terre dei contadini confiscate da usurai di Giaffa e dalle autorità a causa dell’indebitamento dei contadini.

Tuttavia una grande quantità di terre vendute alla colonia non era stata confiscata e in realtà apparteneva ai contadini.

Le azioni di resistenza si moltiplicarono quando i coloni ampliarono le loro attività agricole, in quanto i contadini si resero conto di tutte le terre che gli erano state rubate.

Alla fine del XIX secolo la resistenza era tale che non c’era nessuna colonia ebraica “che prima o poi non fosse entrata in conflitto” con i palestinesi.

Vini provenienti dalle colonie

Circa un secolo dopo, nel 1967, Israele invase e occupò le Alture del Golan siriano, espellendo 100.000 siriani. In spregio al diritto internazionale, i coloni ebrei arrivarono in massa e nel 1981 Israele annesse il territorio.

Oggi circa 22.000 coloni ebrei vivono nelle 33 colonie sulle Alture del Golan. Alcune di esse hanno piantato viti e cominciato a produrre vino. Nel 1984 l’azienda vinicola delle Alture del Golan ha prodotto la sua prima annata. Tra gli altri produttori di vino figurano le colonie ebraiche costruite su terre confiscate a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania, come la colonia di Rehelim, nel nord della Cisgiordania. Ciò ha provocato dei problemi agli esportatori di vino israeliani e messo in difficoltà gli importatori europei.

Nel 2015 l’Unione Europea (UE), primo partner commerciale di Israele, ha deciso di identificare i vini provenienti dalle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata, di Gerusalemme est e delle Alture del Golan come provenienti dalle “colonie israeliane”. Questa decisione è stata ratificata nel 2019 da una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Questa decisione è stata presa dopo un’azione legale intentata dall’azienda agricola di Psagot, un’impresa fondata nella colonia ebraica di Pisgat Ze’ev a Gerusalemme est occupata, perché venissero rimosse le etichette di questo tipo.

I vigneti di Psagot sono situati sulle terre nella Cisgiordania occupata. La sua azione legale ha avuto un effetto controproducente: la decisione della Corte di Giustizia della UE ha fatto seguito a un’altra decisione presa nel 2019 da parte della Corte Federale del Canada, che ha rifiutato di autorizzare l’etichetta “Made in Israel” per il vino proveniente dalle colonie ebraiche.

Nel suo parere consultivo un alto responsabile della Corte di Giustizia dell’UE aveva già paragonato il vino israeliano prodotto nelle colonie alle merci proveniente dal Sudafrica all’epoca dell’apartheid.

Un apartheid di altro genere

Più di tre secoli fa dei coloni ugonotti [denominazione dei calvinisti in Francia, ndtr.] olandesi e francesi avviarono su terre indigene conquistate l’industria vitivinicola sudafricana. Gran parte della manodopera agricola delle vigne sudafricane era fornita dalla popolazione “di colore” pagata con vino attraverso il “dop system” [sistema per creare dipendenza da alcool, ndtr.], una forma ufficiosa di schiavismo che ha determinato un diffusissimo alcoolismo.

Negli anni ’90, dopo la fine dell’apartheid, che ha coinciso con l’era del neoliberismo, i vini sudafricani che appartenevano ancora a coloni bianchi hanno iniziato ad essere commercializzati all’estero.

Nonostante sia illegale, il “dop system” in Sudafrica continua ad esistere: secondo alcune stime, nel 2015 rappresentava tra il 2% e il 20% dei salari nella [provincia del] Capo Occidentale.

Insistendo sul fatto che, contrariamente all’apartheid sudafricano, il suo tipo di apartheid è più che accettabile agli occhi dei regimi arabi, in particolare del Golfo, con cui recentemente ha stretto rapporti, Israele ambisce a creare una nicchia commerciale per i suoi vini di scarsa qualità prodotti su terre palestinesi e siriane rubate.

Benché gli Emirati Arabi Uniti riconoscano le Alture del Golan come territorio siriano occupato e Gerusalemme est e la Cisgiordania come territori palestinesi occupati, la commercializzazione da parte di Israele di vini “Made in Israel” negli Emirati contribuisce a rafforzare il riconoscimento dell’annessione di questi territori, ottenuto dall’amministrazione Trump negli ultimi anni.

Resta tuttavia da sapere se il governo emiratino o i suoi tribunali insisteranno affinché l’etichettatura specifichi se i vini sono stati prodotti nelle colonie israeliane illegali o sarà consentito di etichettarli “Made in Israel”.

– Joseph Massad è professore di storia politica ed intellettuale araba moderna alla Columbia University di New York. È autore di numerosi libri ed articoli, sia accademici che giornalistici. Tra le sue opere figurano “Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan” [Effetti coloniali: la creazione dell’identità nazionale in Giordania], “Desiring Arabs” [Arabi Desideranti] e, pubblicato in francese, “La persistance de la question palestinienne” [La persistenza della questione palestinese] (La Fabrique, 2009). Più di recente ha pubblicato “Islam in Liberalism” [L’Islam nel liberismo]. I suoi libri ed articoli sono stati pubblicati in una decina di lingue.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Secondo le associazioni israeliane per i diritti umani le retate in casa di palestinesi sono disumanizzanti, cercano di piegare il loro spirito.

2 dicembre 2020 – Middle East Monitor

Un rapporto pubblicato la settimana scorsa dalle associazioni israeliane per i diritti umani condanna le intrusioni illegali nelle abitazioni dei palestinesi da parte dell’esercito israeliano, suggerendo che questa pratica viola il diritto internazionale.

Questo studio, che si basa su due anni di ricerche da parte di Yesh Din [organizzazione di donne israeliane per la difesa dei diritti umani dei palestinesi, ndtr.], Physicians for Human Rights Israel [Medici per i Diritti Umani – Israele, associazione di medici israeliani, ndtr.] (PHRI) e Breaking the Silence [organizzazione di ex-soldati israeliani contrari all’occupazione, ndtr.], mette in luce una vasta documentazione e molte testimonianze di soldati e famiglie sfrattate.

Le notti passano senza poter chiudere occhio e non posso stare qui in casa. Per molto tempo non ho potuto dormire in casa, andavo dai miei genitori. Loro (i soldati) sono venuti ed hanno buttato giù la nostra porta. Fino ad oggi non sono ancora riuscita a metabolizzarlo,” dice una donna di Beit Ummar nel rapporto.

Attacchi, aggressioni e atti di vandalismo sono frequenti nelle città e nei villaggi palestinesi della Cisgiordania occupata da Israele, tanto da parte di coloni illegali che di soldati.

Secondo il rapporto intitolato “Una vita in bilico: irruzioni militari in case palestinesi in Cisgiordania”, ogni anno centinaia di adolescenti palestinesi vengono arrestati dall’esercito israeliano durante retate notturne, violando le stesse direttive militari riguardo all’emissione di mandati di comparizione per un interrogatorio prima dell’arresto.

Quello che mi viene da pensare,” ha detto la dottoressa Jumana Milhem, una psicologa che lavora con Medici per i Diritti Umani – Israele, “è che il processo implica la disumanizzazione di tutta la società. La questione è piegare l’animo umano.

Ci sono vari fattori di rischio per il TEPT (disturbo da stress post-traumatico) che notiamo in alte percentuali nella società palestinese in generale. Non stiamo parlando di un solo trauma, ma di uno degli aspetti del trauma continuo dell’occupazione. La sensazione di stare chiuso in carcere nel tuo stesso Paese. Questa sensazione di essere continuamente a rischio.”

Luay Abu ‘Aram, palestinese di Yatta, ha detto a Yesh Din: “È stato veramente terrificante il fatto che siano entrati in casa in piena notte con armi, i volti coperti, cani e tutti che si aggiravano in cortile. Nella tua testa passano tanti pensieri. Ha avuto un impatto terribile sulle ragazze, e perché? Perché fanno una perquisizione del genere di tutta la famiglia e dei vicini? Se ci sono informazioni dovrebbero cercare quelle.”

Per qualcuno, come Fadel Tamimi, imam di 59 anni di una moschea a Nebi Salih in Cisgiordania, le retate sono diventate frequentissime negli ultimi 20 anni. Dice di aver perso il conto del numero di volte in cui i soldati sono entrati in casa sua, il che fa pensare che possano essere più di 20, l’ultima nel 2019, appena prima della pandemia da coronavirus.

Il rapporto evidenzia come i civili palestinesi debbano essere protetti contro le frequenti e mortali offensive ed incursioni militari israeliane.

Vengono sottolineati anche gli effetti di queste incursioni sui soldati dell’occupazione, due dei quali hanno descritto la propria esperienza di irruzioni in case palestinesi come un punto di svolta per loro, soprattutto nel modo in cui vedevano se stessi come i “buoni” o “buoni” soldati e persone.

Ci è stata mostrata un’immagine aerea con ogni casa numerata. Ci è stato detto di scegliere quattro abitazioni a caso per entrarvi e “rovistare”, che vuol dire mettere tutto a soqquadro per un qualunque sospetto. Mi è sembrato strano che mi dessero questa possibilità di scelta,” ha spiegato Ariel Bernstein, 29 anni, che ha fatto il militare in un’unità d’élite della fanteria, la Sayeret Nahal.

L’esercito israeliano nega queste accuse, secondo cui le perquisizioni di case verrebbero realizzate a caso, e afferma che sono una questione relativa alla sicurezza.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)