L’apartheid al tempo del coronavirus

Yoav Haifawi

13 aprile 2020 – Mondoweiss

Devo dissentire dal dottor Azmi Bishara. Cercando di difendere l’ultima disastrosa risposta degli Stati capitalisti dell’Occidente alla pandemia, egli sostiene su “Arab 48” [app di notizie in arabo, ndtr.] che i governi non dovrebbero essere giudicati in base alla loro condotta durante le emergenze. Trovo che sia proprio il contrario. In molti casi abbiamo visto che in tempi normali un Paese se la può benissimo cavare senza un governo in carica. Ma una gravissima crisi mette brutalmente in evidenza molte cose sulla natura di ogni regime proprio nel momento in cui abbiamo disperatamente bisogno di un buon governo che ci protegga, e tutti ne stiamo prendendo atto.

L’“Economist” [noto settimanale di economia pubblicato a Londra, ndtr.] informa che negli Stati Uniti l’EPP (Equipaggiamento Protettivo Personale), salvavita importato dal governo (attraverso la FEMA [ente federale per la gestione delle emergenze]) è affidato a distributori privati perché ci guadagnino a spese della vita delle équipe mediche in prima linea. Abbiamo visto tutti i Paesi ricchi interrompere l’esportazione di prodotti sanitari essenziali e offrire più degli altri per accaparrarsi qualunque cosa sul mercato. Quando l’Italia era nel momento peggiore della crisi, la Germania ha vietato l’esportazione di forniture mediche, ma quando la Cina ha mandato l’equipaggiamento salvavita necessario i dirigenti dell’UE hanno messo in guardia che la Cina lo stava facendo “per fini propagandistici”.

Leggere le notizie locali sul coronavirus in Israele è una storia ancora diversa. Il regime israeliano di apartheid sta dimostrando di essere assurdamente anormale persino nel più abnorme dei momenti. Qui ci sono alcuni esempi strazianti su com’è l’apartheid ai tempi del coronavirus.

Pronti a morire come Sansone

Ci sono molte notizie su come ogni Stato e ogni istituzione sanitaria oggi stia cercando ogni opportunità per comprare EPP. La Turchia è uno dei principali produttori mondiali e uno dei pochi ancora disposti a venderli, nonostante l’epidemia sia in peggioramento sul fronte interno. Bloomberg [rete televisiva di notizie economiche, ndtr.] ha riferito che la Turchia stava fornendo equipaggiamento di protezione personale a Israele, compresi maschere chirurgiche, camici e guanti sterilizzati.

Giovedì 9 aprile tre aerei israeliani dovevano prelevare le forniture mediche da un aeroporto militare turco. Ma poi pare che la Turchia abbia chiesto che in cambio Israele consentisse il passaggio di pari quantità di aiuti turchi contro il coronavirus ai palestinesi.

Sia secondo “Times of Israel” [quotidiano israeliano in rete, ndtr.] che “Arab 48” pare che venerdì 10 aprile Israele abbia rifiutato di arrendersi al “terrorismo” turco e l’equipaggiamento non è stato fornito. Come disse l’eroico “Sansone”: “Che muoia io con i tutti i palestinesi…”

Poi ieri, 12 aprile, “Haaretz” [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] ha informato in merito a nuovi negoziati tra Israele ed Hamas relativi a uno scambio di prigionieri. Hamas ha affermato di essere pronto ad arrivare a un compromesso rispetto alle sue precedenti condizioni per proteggere prigionieri palestinesi anziani e malati dal pericolo di soccombere al coronavirus in prigione. Ciò che è significativo per il nostro discorso è che, secondo “Haaretz”, i palestinesi intendono che parte dell’accordo sia che Israele fornisca alla Striscia di Gaza, tuttora assediata, un numero non specificato di ventilatori per curare i pazienti di coronavirus. Ciò che è ancora più significativo è che, secondo lo stesso articolo, fonti israeliane hanno negato (a parte ogni dettaglio riportato riguardo al previsto accordo) che potessero essere consegnati ventilatori a Gaza!

Il Mossad ruba EPP?

Molto tempo fa Yeshayahu Leibowitz [eminente intellettuale e religioso israeliano, ndtr.] ammonì che Israele sarebbe diventato uno “Stato dello Shabak” – in riferimento all’onnipotente “servizio della sicurezza generale” (GSS, Shabak [noto anche come Shin Bet, ndtr.]). Un articolo su Maariv [giornale israeliano di centro destra, ndtr.] del 27 luglio 2019 stimava che lo Shabak e il Mossad (il suo gemello, responsabile delle operazioni fuori dai confini nazionali) impieghino ognuno circa 7.000 persone e abbiano un bilancio che supera il miliardo di dollari. Mentre gli investimenti di Israele per la salute sono bassi rispetto ad altri Paesi dell’OCSE, esistono questi due mostri e si è deciso di utilizzarli per lottare contro la pandemia.

Iniziamo con il Mossad. Gli è stato affidato il compito di acquistare equipaggiamento sanitario. Secondo “the Marker” [quotidiano economico in lingua ebraica legato ad Haaretz, ndtr.] avrebbe chiesto una somma di 7 miliardi di shekel [1,8 miliardi di euro], ma per iniziare gliene sono stati dati 2,5 [640 milioni di euro]. Tuttavia non ha competenze professionali in campo medico, né esperienza particolare o infrastrutture tali da operare acquisti su larga scala e gestire procedure di importazione.

Il Mossas si è subito vantato di aver importato 100.000 test virologici da una fonte non specificata, solo per essere redarguito da un funzionario del ministero della Sanità che ha affermato che quelli non erano i test di cui c’era bisogno. Dopo che la critica è stata resa pubblica il funzionario si è affrettato a chiedere scusa, e il Mossad ha promesso di ricontrollare ciò che serve e di continuare la ricerca.

Il 6 aprile “Haaretz” ha riferito che il ministro della “Difesa” di Israele, Naftali Bennett, non ha negato, e di fatto ha implicitamente riconosciuto, che il Mossad ha rubato equipaggiamento medico da altri Paesi. Quando durante un’intervista alla radio militare gli è stato chiesto se il Mossad avesse rubato equipaggiamento sanitario relativo alla pandemia di coronavirus, Bennett ha risposto: “Non risponderò a questa domanda. Stiamo tutti operando in modo aggressivo e astuto.” (È stato riportato in inglese su Middle East Eye).

Non sorprende che il Mossad, specializzato in assassinii, spionaggio e ogni sorta di attività clandestine, faccia ricorso a metodi illegali nel suo nuovo ruolo. Ma ci si potrebbe aspettare che Bennett, che dovrebbe essere un uomo d’affari rispettabile, sia almeno sufficientemente astuto da negarlo. Tuttavia potrebbe avere una buona ragione per far credere all’opinione pubblica israeliana che il Mossad stia rubando per lei. Sulla stampa israeliana alcuni commentatori hanno affermato che dare miliardi di shekel a organismi segreti come il Mossad significa che non c’è alcun controllo su come i soldi vengano spesi. Ora, quando ci fossero delle domande in merito, Bennett potrebbe sussurrare “Shh…” e ammiccare: “Non vuoi mica svelare segreti di Stato.”

Inoltre Israele è abituato ad essere al di sopra delle leggi internazionali per tutti i suoi crimini di guerra, quindi perché dovrebbe temere di rubare equipaggiamento sanitario in giro per il mondo?

Sul ricevitore dello Shabak

Sul fronte interno, allo Shabak è stato assegnato il compito di identificare i percorsi delle persone infettate dal coronavirus e di informare quelli che sono stati in contatto perché si mettano in auto-isolamento. Per la prima volta è diventato di dominio pubblico che lo Shabak può tracciare (ora lo sta facendo in modo ufficiale) l’ubicazione di ogni persona, almeno finché la gente va in giro con il proprio cellulare.

Per i palestinesi, sia in Cisgiordania che all’interno della Linea Verde [cioè in Israele, ndtr.], i continui controlli da parte dello Shabak non sono una novità. Persino ad Haifa, il luogo più pacifico sotto l’apartheid israeliana, qualunque giovane palestinese può essere invitato senza alcuna ragione a “colloqui” indiscreti da parte di ufficiali dello Shabak. Per gli attivisti politici il governatore militare (sì, ci sono governatori militari da entrambi i lati della Linea Verde) può emanare un ordine di detenzione amministrativa in base a “prove” segrete dello Shabak, in modo che al detenuto o al suo avvocato non sia consentito neppure sapere di cosa sia accusato. Funzionari dello Shabak compaiono nei tribunali sotto falso nome e alla difesa non è permesso neppure vederne il volto. Le loro parole in tribunale sono considerate indiscutibili.

Appena lo Shabak ha iniziato a prendere di mira israeliani ebrei, certo senza mandarli in prigione ma solo in auto-isolamento, improvvisamente la stampa si è riempita di articoli sui suoi errori.

Una donna aveva fatto in modo che il marito, tornato dall’estero, stesse in auto-isolamento nella loro casa, mentre lei sarebbe rimasta con i genitori per poter continuare il suo lavoro. Ma dopo essere passata per strada nei pressi della sua casa per salutare il marito che era sul balcone a distanza di sicurezza, è stata messa anche lei in auto-isolamento. Un’altra donna ha preparato una torta per un vicino in isolamento e gliel’ha lasciata vicino alla porta chiusa. Anche lei è caduta nella rete dello Shabak. Altri si sono lamentati di non riuscire a capire perché gli sia stato detto di isolarsi, in quanto non gli è stato detto con chi e quando si sarebbero incontrati.

Persone la cui vita è stata improvvisamente sconvolta senza ragione hanno chiamato il ministero della Sanità e gli è stato risposto che non ne sapevano niente, è competenza dello Shabak. Gli hanno detto che “lo Shabak non sbaglia mai.”

Alcuni hanno tentato di chiamare direttamente lo Shabak ed hanno scoperto che non c’è modo di raggiungere il servizio segreto né di presentare ricorso contro le sue decisioni.

Un caso riportato in dettaglio è quello di un medico che aveva qualche sintomo e gli è stata fatta l’analisi del coronavirus. Il test è risultato negativo (nessun virus), ma a quanto pare è stato inserito un risultato sbagliato nel sistema. Subito tramite un messaggino sul telefono è stato ordinato ai suoi parenti, vicini e colleghi di auto-isolarsi. Persino lui, con rapporti con il sistema sanitario e con il certificato di test negativo in suo possesso, ha avuto molte difficoltà a convincere le autorità a riconsiderare la decisione. Solo dopo che i media hanno messo in evidenza l’assurdità della situazione il ministero della Sanità ha ammesso l’errore.

Ciò farà sì che ogni giudice israeliano ci pensi due volte prima di basarsi sulle “prove” segrete dello Shabak per mandare in galera un palestinese? C’è da dubitarne.

La polizia aggredisce abitanti palestinesi di Giaffa

Per le normali forze di polizia israeliane la dichiarazione del blocco totale del Paese è stata un’ulteriore opportunità per maltrattare i palestinesi. Non posso qui riportare le tante violenze in Cisgiordania, dove aggressioni generalizzate contro i palestinesi da parte di coloni e soldati sono già state riportate qui il 6 aprile. Quello che è meno noto è il grave attacco avvenuto l’1 e il 2 aprile contro i palestinesi di Giaffa, una città araba che è stata annessa a Tel Aviv ed ora è sottoposta a pesanti pressioni per “ebraicizzarla/ gentrizzarla”.

La popolazione araba di Giaffa è per lo più povera e marginalizzata, e i rapporti con la polizia erano tesi anche prima della pandemia. Quando è stato decretato il blocco totale, la polizia di Tel Aviv ha avuto l’opportunità di fare una dimostrazione di forza a Giaffa come non è mai stato fatto in nessun altro quartiere. Ha provocato due giorni di estesi scontri che sono continuati fino a notte inoltrata.

Non ho potuto andare a Giaffa, ma ho parlato per telefono con un attivista del posto ed ho sentito il racconto di prima mano su come tutto è accaduto. Il primo giorno, durante quella che avrebbe dovuto essere la messa in pratica del blocco, la polizia ha iniziato ad arrestare giovani del posto. Per quanto ho sentito, ciò che ha provocato di più gli abitanti è stato il fatto che la stessa polizia non abbia dimostrato alcuna intenzione di seguire le istruzioni contro l’infezione. Si spostavano in gruppi compatti, senza mascherine e colpivano la gente a mani nude. Una donna che ha cercato di proteggere suo figlio è stata gettata a terra, la sua testa ha battuto sull’asfalto ed ha iniziato a sanguinare. Le persone in tutto il quartiere scoppiavano di rabbia, non più disposte a sopportare.

Il secondo pomeriggio alcuni attivisti hanno iniziato una veglia silenziosa contro la violenza della polizia, cercando di mantenere il distanziamento sociale stabilito, rimanendo lontani. Benché l’ordine di chiusura totale consenta specificamente le manifestazioni, la polizia ha chiesto che i dimostranti si disperdessero e subito li ha attaccati. Poi la strada è stata chiusa e gli scontri sono ripresi.

Il terzo giorno è stata la stessa dirigenza locale palestinese che ha fatto di tutto per convincere gli attivisti e la popolazione in generale a rimanere in casa. Il pericolo di infezione era troppo grande, e la violenza della polizia e le proteste contro di essa contineranno probabilmente molto dopo la pandemia.

* * *

L’apartheid ha avvelenato le nostre vite per molti anni. È ancora più pericolosa in questi tempi difficili.

Yoav Haifawi è un attivista antisionista.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In mezzo alla pandemia aumentano del 78% le aggressioni dei coloni

Tamara Nassar

11 aprile 2020 electronicintifada

In piena pandemia di COVID-19 nella Cisgiordania occupata si registra un forte aumento della violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi.

Anche dopo che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha chiesto un cessate il fuoco globale per ostacolare la diffusione della pandemia, Israele ha ucciso due palestinesi, incluso un bambino, e incrementato gli attacchi.

Israele ha continuato i suoi “raid militari in Cisgiordania, condotto arresti diffusi e detenzioni amministrative, ha permesso gravi accessi di violenza da parte dei coloni e ha continuato la sua draconiana chiusura della Striscia di Gaza”, ha affermato l’organizzazione per i diritti palestinesi Al Haq.

Nelle ultime due settimane di marzo, il numero di aggressioni dei coloni contro i palestinesi è stato del 78% superiore al solito, secondo il gruppo di monitoraggio dell’ONU OCHA.

Durante questo periodo, “almeno 16 assalti di coloni israeliani hanno ferito cinque palestinesi e causato gravi danni materiali”, ha riferito l’OCHA.

Anche se Mohammad Shtayyeh, primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha ordinato un isolamento di due settimane a tutti i residenti palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la sua decisione non ha avuto alcun impatto sui circa 800.000 israeliani che vivono negli insediamenti illegali.

Quei coloni condividono strade, negozi di alimentari e distributori di benzina con i palestinesi, sottoponendoli spesso a molestie verbali, aggressioni fisiche e danni materiali.

Le forze israeliane “non sono intervenute per prevenire i comportamenti illeciti, fornendo invece sostegno e protezione ai coloni, garantendo che tali individui non venissero chiamati a rispondere dei loro atti e consolidando l’attuale regime di impunità”, ha affermato Al Haq.

I coloni godono di un’impunità pressoché totale per le violenze che commettono contro i palestinesi, il che li incoraggia ad aumentare le aggressioni.

Oggetto di continui assalti, i palestinesi si stanno sforzando di prendere tutte le precauzioni sanitarie contro la pandemia di coronavirus. In effetti, i coloni stanno sfruttando l’isolamento per aumentare le loro violenze con poche resistenze da parte dei residenti palestinesi.

Assalto a un cimitero

Giovedì i coloni israeliani hanno vandalizzato le lapidi del cimitero palestinese nel villaggio di Burqa in Cisgiordania.

Ghassan Daghlas, che controlla le attività dei coloni nella Cisgiordania settentrionale, ha riferito all’agenzia di stampa palestinese WAFA che i coloni sono entrati nel villaggio attraverso l’adiacente e già evacuato insediamento israeliano di Homesh.

Homesh è stata liberata dai suoi residenti israeliani nel 2005 come parte del presunto “disimpegno” israeliano a Gaza e in diversi villaggi della Cisgiordania. La terra, che apparteneva al villaggio di Burqa, fu dichiarata zona militare e chiusa negli anni ’70.

Il mese scorso i coloni hanno picchiato e lanciato pietre contro un contadino che lavorava la propria terra nella zona di Homesh.

“Uno di loro aveva in mano una pistola”, ha detto ad Al Haq Ali Mustafa Mohammad Zubi, 55 anni.

“Ogni volta che provavo ad alzarmi e correre via mi buttavano a terra, mi picchiavano e mi aggredivano verbalmente.”

Colpito con un’ascia

Inoltre, un palestinese è stato ricoverato in ospedale dopo che i coloni israeliani lo hanno assalito con un’ascia il 24 marzo nel villaggio cisgiordano di Umm Safa, a ovest di Ramallah.

Un colono stava entrando con una mandria di 50 mucche in un uliveto a ovest del villaggio.

Otto residenti del villaggio, accompagnati dal vice capo del consiglio locale, Naji Tanatrah, sono andati a chiedergli di lasciare il villaggio. Mentre stava per ritirarsi, cinque coloni armati sono arrivati su due veicoli con asce e almeno un fucile e hanno preso ad aggredire Tanatrah, riferisce B’Tselem.

Un colono ha colpito Tanatrah alla testa con l’ascia, facendolo cadere a terra sanguinante. I coloni hanno continuato a picchiare il 45enne che giaceva sanguinante a terra.

Alcuni abitanti sono riusciti a recuperare Tanatrah e spostarlo in un ospedale di Ramallah, dove è stato operato e gli è stata diagnosticata una frattura al cranio.

“Ho trascorso cinque giorni in ospedale e me ne sono andato appena ho potuto, temendo di contrarre il coronavirus” avrebbe detto Tanatrah, come riferisce il quotidiano israeliano Haaretz.

Il giorno successivo, decine di coloni hanno tentato di entrare nel villaggio di Einabus, sempre nella zona di Nablus.

Contemporaneamente i coloni attaccavano un pastore nel villaggio di al-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron. Il 27 marzo sei coloni, alcuni armati, hanno attaccato il pastore mentre stava pascolando il suo gregge, riferisce B’Tselem. Uno dei cani dei coloni lo ha morso al braccio e all’addome; è stato portato in una clinica medica dove l’hanno vaccinato contro la rabbia.

Il giorno seguente i coloni hanno lanciato pietre contro tre abitanti che tornavano ad al-Tuwani.

Altri abitanti del villaggio sono arrivati per aiutarli finché sono giunti i militari israeliani e hanno lanciato candelotti di gas lacrimogeno contro gli abitanti del villaggio.

Le forze israeliane hanno arrestato tre abitanti del villaggio, rilasciandone due su cauzione.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




In Israele Netanyahu e Gantz si mettono d’accordo su un piano per annettere parti della Cisgiordania

Redazione di MEE

6 aprile 2020 – Middle East Eye

Secondo Haaretz, i due leader israeliani potrebbero presentare quest’estate un piano per il governo

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo rivale politico Benny Gantz hanno raggiunto un accordo per annettere parti della Cisgiordania, spianando la strada a un governo di unità dopo mesi di stallo e tre tornate elettorali inconcludenti.

Secondo Haaretz, lunedì, dopo un incontro, i leader israeliani si sono accordati su un piano per iniziare quest’estate un processo formale e reclamare alcune zone dei territori palestinesi occupati come parte di Israele.

Se Washington sarà d’accordo, il progetto verrà presentato al governo, riferisce il quotidiano israeliano. Dopo l’approvazione del gabinetto, il piano richiederà l’approvazione della Knesset, il parlamento israeliano. 

Gli Stati Uniti hanno già espresso la propria disponibilità all’annessione di insediamenti israeliani e della Valle del Giordano in Cisgiordania. 

Accordo del secolo’

A gennaio, il presidente Donald Trump aveva svelato il cosiddetto “accordo del secolo” per risolvere il conflitto, con cui si permetterebbe a Israele di annettere vaste zone della Cisgiordania in cambio del riconoscimento di uno Stato palestinese frammentato, senza controllo delle proprie frontiere o dello spazio aereo.

La maggioranza dei palestinesi ha respinto la proposta.

Sia Netanyahu, che guida il Likud, di destra, che Gantz, il capo del blocco di centro Blu e Bianco, si sono impegnati ad annettere parti della Cisgiordania.

Facendo seguito a tre elezioni che non hanno prodotto un chiaro vincitore, Gantz e Netanyahu sono impegnati in colloqui per formare un governo di unità dopo l’ultima tornata elettorale del 3 marzo.

Dopo segnali iniziali che un accordo avrebbe posto termine all’impasse, Blu e Bianco di Gantz ha dichiarato che i colloqui si erano bloccati sulle nomine dei magistrati.

“Dopo aver raggiunto un accordo su tutti i punti, il Likud ha chiesto di riaprire la questione della Commissione di selezione dei magistrati ” ha detto il partito in una dichiarazione.

“In seguito a ciò i negoziati si sono interrotti: non permetteremo alcun cambiamento nel ruolo della Commissione di selezione della magistratura o un danno per la alla democrazia.” 

Illegale

Gli esperti di diritto internazionale dicono che annettere i territori palestinesi sarebbe illegale.

Israele ha formalmente annesso Gerusalemme Est nel 1980 e le Alture del Golan siriane un anno dopo. Ma la comunità internazionale, compresa Washington, non ha riconosciuto il possesso di Israele di queste zone. Tuttavia alla fine del 2017 Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele e l’anno scorso ha riconosciuto la sovranità di Israele sulle Alture del Golan. 

All’inizio di quest’anno, dopo che Trump ha annunciato il piano per porre fine al conflitto, l’avvocato dei diritti umani Jonathan Kuttab ha detto a MEE che il divieto di acquisire territori con la forza è un principio fondamentale del diritto internazionale.

Dalla Seconda Guerra Mondiale ci sono stati tre tentativi di annessione: l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990; l’annessione russa della Crimea a danni dell’Ucraina nel 2014 e l’acquisizione di Israele dei territori arabi a partire dal 1967.

“Per 70 anni, l’intero ordine internazionale è stato costruito sul principio che non ci si può impossessare della terra altrui con la forza e annetterla” ha detto Kuttab.

“Fino a quando è arrivato Israele e ha detto: ‘Noi possiamo farlo’. Nessuno era d’accordo con loro fino a quando è arrivato Trump.”

Ha aggiunto che il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan da

parte di Washington stabilisce un “pericoloso” precedente che non ha incontrato l’opposizione della maggioranza dei Paesi arabi.

“Secondo la legge internazionale è chiaro come il sole che l’annessione è illegale. Non si tratta di una questione che si presti a interpretazioni.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Nel pieno dell’epidemia da coronavirus i soldati israeliani gettano immondizia e sputano sui veicoli palestinesi in Cisgiordania

6 aprile 2020 – Palestine Chronicle

Secondo l’agenzia di stampa palestinese WAFA, mentre i palestinesi cercano di combattere la diffusione della letale pandemia da coronavirus, oggi nella città della Cisgiordania meridionale di Beit Ummar soldati israeliani hanno scaricato rifiuti contaminati ed hanno sputato sulle portiere di veicoli e sulle porte delle case.

L’attivista locale Muhammad Awad ha detto alla WAFA che un folto gruppo di soldati israeliani ha fatto irruzione in una zona di Beit Ummar – situata vicino al blocco di colonie illegali di Gush Etzion – ed ha gettato in mezzo alle case del villaggio vetri contaminati con una sostanza sconosciuta, nonché rifiuti, siringhe e guanti usati.

I soldati israeliani hanno anche sputato sulle macchine e sulle porte delle case ed insultato gli abitanti con termini razzisti, ha detto Awad, sollevando il sospetto che i soldati vogliano intenzionalmente diffondere il coronavirus tra i civili palestinesi di quella zona.

Dopo che i soldati se ne sono andati dalla città, i volontari locali del Comitato di Emergenza di Beit Ummar hanno sterilizzato le due zone e distrutto e bruciato tutto ciò che i soldati avevano gettato.

Il 31 marzo l’Euro-Med Monitor [organizzazione indipendente per la protezione dei diritti umani, ndtr.] con sede a Ginevra ha chiesto alla comunità internazionale di proteggere i palestinesi e costringere i soldati israeliani a porre fine alle incursioni nelle città e cittadine, che mettono a rischio le misure preventive messe in atto dall’Autorità Nazionale Palestinese per controllare l’epidemia da coronavirus.

Ha chiesto inoltre di indagare sul comportamento sospetto di molti soldati e coloni israeliani, che sembra essere un tentativo di diffondere il contagio, e di far sì che quanti ne sono stati responsabili rispondano dei loro atti.

Secondo il Ministero della Sanità palestinese stamattina sono stati confermati 15 nuovi casi di coronavirus in Cisgiordania, che hanno portato il totale in Palestina a 252.

(Palestine Chronicle, WAFA, reti sociali)




La battaglia dell’acqua in Palestina ( II Parte)

Francesca Merz

25 marzo 2020 Nena News

(per la leggere la prima parte clicca qui)

Fin dal 1936 era stata proposta una «Jordan Valley Authority » posta sotto controllo internazionale. In gran parte, questa idea fu ripresa per la valle del Giordano dal Piano Johnston, dal nome di un inviato del Presidente americano Eisenhower, con l’intento di creare tra il 1954-1955 un’autorità regionale, fondata su una cooperazione fra gli Stati bagnati dal Giordano, allo scopo di attribuire e gestire al meglio le risorse d’acqua. Anche in questo caso Israele non fu d’accordo, e nel 1959, per tutta risposta, approvò una legge secondo la quale rendeva le risorse idriche «una proprietà pubblica (…) sottoposta all’autorità dello Stato». Con questa legge vede di fatto la nascita un sistema che impedisce ai Palestinesi di disporre liberamente delle loro risorse idriche.

E’ il 1967, e subito dopo le invasioni di Gaza e Cisgiordania, le prime due disposizioni introdotte, riguardano proprio l’argomento acqua: la prima è la proibizione alla costruzione di qualsiasi nuova infrastruttura idrica, di perforazione e di nuovi pozzi, senza autorizzazione; la seconda è la confisca delle risorse idriche, che vengono dichiarate proprietà dello Stato, in conformità alla legislazione israeliana sull’acqua. La quantità d’acqua a disposizione degli agricoltori della Cisgiordania è congelata proprio a quel 1967: il plafond è fissato a 90-100 milioni di metri cubi all’anno, per 400 villaggi, assai diversa la quantità d’acqua messa a disposizione delle colonie ebraiche, che è aumentata del 100% nel corso degli anni Ottanta. A questo si aggiunga la perquisizione degli antichi pozzi palestinesi in ottemperanza alla famosa «legge sulla proprietà degli assenti ». Non è questa la sede poi per approfondire la quantità di limitazioni imposte da Israele in Cisgiordania, regioni sottoposte a razionamento, distretti di drenaggio, aree di sicurezza militare, come nel caso di una striscia di terra lungo il Giordano, dichiarata «zona militare », che i Palestinesi utilizzavano a scopo di irrigazione. Nella Striscia di Gaza, prima del 1967, non esisteva alcun sistema di permessi e l’utilizzazione dell’acqua dipendeva dal diritto consuetudinario. In seguito, attraverso le ordinanze militari n° 450 e 451 del 1971, il diritto di concedere licenze di utilizzazione dell’acqua, prerogativa del Direttore del catasto giordano, veniva trasferito alle autorità israeliane. Secondo diverse fonti, dopo il 1967, sono stati concessi dai 5 ai 10 permessi. Allo stesso modo, come in ogni colonizzazione che si rispetti, anche il rifacimento e la manutenzione dei pozzi sono sottoposti ad autorizzazioni israeliane, mai accordate.

La finalità, anche questa tipica del colonialismo, come ci ricorda già il sempre illuminante Neve Gordon, nel suo testo “L’occupazione israeliana”, era quella di porre i Territori palestinesi in una situazione di dipendenza giuridica, amministrativa ed economica. A partire dal 1967, la Mekorot, l’azienda israeliana che controlla i rifornimenti d’acqua sul territorio, ha sviluppato reti di distribuzione in favore di un profitto quasi esclusivo per le colonie, mentre nei settori palestinesi serviti dalla Mekorot, lo stato di manutenzione è tale che fino al 40% dell’acqua trasportata in Cisgiordania è persa in rete. A Gaza, la situazione è ancora più drammatica, dato che la falda acquifera costiera super sfruttata viene infiltrata attualmente dall’acqua del mare. Le distruzioni delle reti idriche e delle riserve obbligano a far arrivare l’acqua tramite camion-cisterna, facendone rincarare il prezzo, che può arrivare fino a 40 NIS/metro cubo (più di 8 euro), vale a dire un prezzo quasi 10 volte più alto di quello inizialmente richiesto dalle municipalità. Se gli Israeliani beneficiano dell’acqua corrente tutto l’anno, i Palestinesi sono vittime di interruzioni arbitrarie, in particolar modo durante l’estate. Per quel che riguarda il prezzo pagato da un consumatore palestinese, l’acqua è fortemente sovvenzionata per le colonie ebraiche, mentre un Palestinese deve pagarla 4 volte più cara di un colono per accedervi. D’altra parte l’acqua e la sua riduzione fa ridurre drasticamente anche la già scarsissima possibilità che aveva l’agricoltura palestinese di poter competere in un mercato fatto di mille restrizioni alla circolazione dei beni. In aggiunta, il 75 % delle acque del Giordano sono deviate da Israele prima che queste bagnino i Territori.

A Gaza, proprio ai margini della Striscia, il governo israeliano ha costruito delle pompe che seccano in buona parte i pozzi palestinesi, la cui acqua disponibile risulta salmastra e oramai inquinata. Non esistono corsi d’acqua nella striscia di Gaza, ma un Wadi che raccoglie le acque di molti wadi della regione. Gli Israeliani hanno disposto piccoli sbarramenti su questi wadi e la sola acqua che scorre ormai nel Wadi Gaza è quella già usata e non ritrattata della città di Gaza.

Dulcis in fundo, come se ci fosse qualcosa di non amaro in tutto questo, come già detto, i Palestinesi non hanno il diritto di perforare pozzi, mentre i coloni lo possono fare e sempre più a grandi profondità (dai 300 ai 500 metri) non solo infatti viene proibito ai Palestinesi di perforare dei nuovi pozzi senza l’autorizzazione militare israeliana, ma soprattutto i loro pozzi non possono arrivare oltre i 140 metri di profondità, mentre quelli dei coloni hanno la potenzialità di arrivare oltre gli 800 metri. Un rapporto dell’ONU indica che fra la firma degli accordi di Oslo del 1993 e del 1999, sono stati distrutti 780 pozzi che fornivano acqua per uso domestico e per l’irrigazione. Nel marzo 2003, ed in seguito all’inizio della Seconda Intifada, i danni procurati nei Territori occupati potevano enumerarsi come segue : 151 pozzi, 153 sorgenti, 447 cisterne, 52 cisterne mobili (tankers), 9.128 serbatoi da abitazione, 14 bacini di riserva, 150 km di condutture e canalizzazioni che collegavano più di 78.000 abitazioni. Come ho già avuto modo di spiegare in un precedente articolo, dal titolo “i fiori del deserto”, la nascita di questa leggenda che pone Israele, come unico Stato capace di far fiorire il deserto, ha purtroppo un’origine macabra, quei fiori fondano la loro crescita su un sistema che non solo, come abbiamo brevemente analizzato, non rispetta la scarsità delle risorse, oggettiva a tutto il territorio, ma distrugge al contempo un fragilissimo ecosistema, schiacciando giornalmente i più basilari diritti umani.

Per sostenere questo sistema di fioritura Israele sta da anni affrontando una delle crisi più ampie sul rifornimento di acqua, il lago di Tiberiade, che era stata la principale fonte d’acqua potabile per Israele, si sta prosciugando. Da un paio di decenni, resisi conto che il problema stava divenendo assai importante per tutta l’economia dello Stato, le autorità israeliane hanno avviato un piano di desalinizzazione dell’acqua di mare riuscendo a ridurre la quantità di acqua che veniva estratta dal lago per irrigare le vaste coltivazioni del deserto. Tiberiade rimane però in condizioni sempre sotto soglia. Il governo israeliano era arrivato a prendere 400 milioni di metri cubi all’anno di acqua, per poter gestire la sempre maggiore richiesta idrica per coltivazioni, allevamenti e colonie con esigenze ben lontane da quel calibrato uso delle risorse che era stato attuato per secoli dalle comunità storiche. È il motivo per cui Israele aveva deciso di investire circa 250 milioni di euro per pompare nel lago acqua presa dal Mediterraneo, che dista circa 50 chilometri, e in seguito desalinizzarla. È risultata però un’impresa complicata, perché mai nella storia un lago di acqua dolce è stato ri-riempito in questo modo, una volta installate tutte le pompe, ci si aspettava di stabilizzare il livello del lago entro il 2020, obiettivo che appare quanto mai lontano. I lavori fanno parte di un ancora più grande piano del Ministro dell’Energia Yuval Steinitz, che vuole raddoppiare la quantità d’acqua che Israele desalinizza ogni anno, e che al momento è pari a circa 600 milioni di metri cubi.

Il problema dell’acqua, abbiamo visto, è stato vivo sin dall’inizio dell’occupazione: la crescente quantità di popolazione, e le necessità di una popolazione con abitudini occidentali, hanno comportato fin dall’inizio la necessità di controllare le risorse idriche del territorio. Il 90 per cento dell’acqua del Giordano viene portata al Negev per il progetto sul deserto, non solo bypassando tutte le necessità dei palestinesi sulla strada, ma sballando completamente tutti gli equilibri naturali. Assolutamente esemplare è l’esempio della valle di Gerico, in cui sono sorte 33 colonie, per la maggior parte specializzate in monocolture molto richieste dal mercato interno e internazionale, come il caffè e il the, piantagioni tipicamente inadatte al luogo, e che tendono ad inaridire terreni, che avrebbero necessità di colture a rotazione. Parallelamente, proseguendo nella valle, le intense monocolture sono invece di ananas, banane, palma da dattero, manghi, avocados. Coltivazioni non endemiche, disadatte alla ciclicità e al naturale rinnovamento del terreno; in tutta la valle di Gerico e non solo, sono completamente scomparsi gli alberi più caratteristici del territorio, ovvero gli alberi di arance, il commercio delle arance, come tristemente ci racconta anche l’esperienza economica siciliana, era troppo poco redditizio rispetto a datteri, manghi o avocados, cibi che oramai con la nuova cultura alimentare sono molto più richiesti e vengono pagati maggiormente.

La gestione di questo modello economico, e i progetti di immensa portata, che prevedono la costruzione di pompe idrauliche e la desalinizzazione progressiva delle acque pompate dal mare, sono salutati dalla comunità internazionale con l’afflato salvifico che fa come sempre di Israele il salvatore di un territorio arido, senza invece capire minimamente che questa immensa opera è pensata per arginare i danni irreversibili di uno sviluppo economico insostenibile sul piano ambientale, prosciugando il lago di Tiberiade, il Giordano e conseguentemente il Mar Morto, a causa di una politica dello spreco senza precedenti. Il medesimo discorso fatto per Tiberiade vale ovviamente per il Mar Morto, il calo dei livelli di acqua non è il solo risultato dei cambiamenti climatici, ma è dovuto all’aumentato uso delle acque degli immissari che dovrebbero rifornire il lago per l’irrigazione, e allo sfruttamento per l’estrazione di minerali. Il bacino è alimentato principalmente dal fiume Giordano, che si immette nel lago a nord, ma il Giordano non ha emissari, dunque modificando il suo corso prelevando una ingente parte delle sue acque per l’agricoltura e le colonie, il contraccolpo non solo sul fiume stesso ma anche sul mar Morto è risultato insostenibile: il ritiro dell’acqua ha lasciato intere sezioni del lago completamente secche, e questa rapida diminuzione del livello del Mar Morto ha una serie di conseguenze dannose, che vanno dai più elevati costi di pompaggio per le fabbriche che utilizzano il Mar Morto per estrarre il cloruro di potassio, magnesio e sale, ad un accelerato deflusso delle acque dolci sotterrane e circostanti dalle falde acquifere, inoltre, sempre per portare i famosi “fiori nel deserto”, il Giordano da circa cinquanta anni viene sfruttato per irrigazione su larga scala sottraendo gran parte dell’acqua che da sempre alimenta il lago.

Buona giornata dell’acqua, a chi può considerarla un bene non in discussione, ma soprattutto, a chi non ha questa fortuna.




Cadere tra le crepe a Gerusalemme

J. Ahmad

30 marzo 2020 – The Electronic Intifada

In questa parte del nostro mondo malato, come dovunque, mentre continua a crescere il numero di contagiati con il nuovo coronavirus, che provoca la patologia respiratoria COVID-19, palestinesi e israeliani contano i propri infettati.

Ma non è affatto chiaro quali statistiche andrei ad ingrossare se dovessi essere così sfortunata da contrarre il virus.

Perché? Sono una palestinese con uno status indefinito che vive nella Gerusalemme est occupata.

Come chiunque altro su questo pianeta ora, sto cercando di uscire da questa epidemia nel modo più sicuro possibile per me e per la mia famiglia.

Eppure, mentre seguo tutte le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Salute, dei Centri per il Controllo delle Malattie e dei governi (sia israeliano che palestinese) di lavarmi le mani, isolarmi fisicamente e lavorare da casa, la mia situazione è straordinariamente precaria.

Faccio tutto ciò dalla mia piccola casa nella Città Vecchia di Gerusalemme, confortevolmente nascosta nel cuore del quartiere musulmano. E, benché mi senta a volte come se fossi l’unica in questa situazione, sono sicura che non sia così. Ci sono decine di migliaia di persone come me.

Ecco il nostro problema: senza permessi delle autorità israeliane per rimanere a Gerusalemme – dove abbiamo famiglia, o proprietà, o lavoro, o di cui siamo originari – non abbiamo copertura sanitaria e rischiamo di essere “riportati” in Cisgiordania.

Ora, io sono cittadina sia palestinese che statunitense. Tuttavia, ai fini di questo articolo, ignorerò la mia identità statunitense dato che non mi offre assolutamente alcuna protezione contro i capricci delle autorità militari israeliane.

Ho vissuto per oltre vent’anni in questa Città Vecchia con mio marito e due figli, ma non ho alcun diritto alla residenza. Per i primi 11 anni ho vissuto qui a Gerusalemme “illegalmente” a causa del ritardo del trattamento delle domande di ricongiungimento familiare di palestinesi a Gerusalemme da parte di Israele.

Permessi e controllo della popolazione

Negli ultimi 10 anni il ministero dell’Interno israeliano mi ha rilasciato un permesso – rinnovato annualmente e subordinato a una pletora di documenti che dimostrano il mio luogo di residenza – tale per cui possa vivere in casa mia senza timore di essere arrestata o deportata.

A parte la burocrazia kafkiana, in questi 10 anni ho iniziato a sentirmi a mio agio con il mio status a Gerusalemme. Non ero cittadina di Israele, neppure residente permanente della città come mio marito e i miei figli, ma almeno ero, per così dire, una specie di inquilina legalmente riconosciuta.

Potevo viaggiare in autobus (anche se non guidare un qualunque mezzo), attraversare i posti di blocco e di fatto dormire nel mio letto senza temere che un poliziotto israeliano bussasse alla porta e mi informasse che sarei stata deportata in Cisgiordania perché vivevo “illegalmente” in città.

Tuttavia di recente sono involontariamente finita in un limbo. Cioè, non mi è stato negato un permesso di ricongiungimento familiare in senso stretto, ma non mi è stato neppure rinnovato, a quanto pare in attesa dell’approvazione da parte della polizia –e ora della giustizia – israeliana.

Quello che ciò significa in termini concreti è che il permesso che mi consente di viaggiare all’interno di Gerusalemme e dentro e fuori dalla Cisgiordania non mi è stato rilasciato. E, ciò che è più grave e più preoccupante date le circostanze, la mia copertura sanitaria israeliana mi è stata revocata. Da qui la precarietà della mia attuale situazione.

Mettiamo il caso che io contragga il nuovo coronavirus e mi ammali gravemente di CODIV-19. Come autorità occupante di Gerusalemme, Israele controlla i servizi medici della città. Quindi, se dovessi andare in un ospedale israeliano, dovrei mostrare la mia carta d’identità e – se non volessi pagare un occhio della testa – la mia tessera sanitaria.

Permettetemi solo di aggiungere: Israele ha uno dei migliori sistemi sanitari al mondo. Non mento, ho goduto di una sensazione di sicurezza durante questi pochi anni in cui ho avuto l’assicurazione.

Beh, non più, e non avrebbe potuto succedere in tempi peggiori. Dato che la mia carta d’identità è rilasciata in Cisgiordania, ciò di fatto mi esclude da ogni diritto a Gerusalemme.

Non solo rischierei di essere mandata via da un ospedale israeliano, ma aprirei un vaso di Pandora di guai amministrativi/punitivi con le autorità israeliane – che non si vergognano di continuare con le loro misure oppressive contro i palestinesi durante questa pandemia – sul perché non sono tornata in Cisgiordania, benché il mio caso sia ancora in sospeso.

Perché non andare in Cisgiordania? In primo luogo lì non ho la copertura sanitaria. Ma, cosa molto più importante, la mia famiglia non sta lì. Una volta in Cisgiordania non potrei vederli. Cosa succederebbe se uno di loro contraesse il virus e finisse in ospedale? Come potrei raggiungerli?

Timore e contagio

Quindi, adottando la filosofia del “minore dei mali”, ho deciso di restarne fuori a Gerusalemme, nei confini della mia casa e sperando che tutto il mio rigoroso lavarmi le mani, disinfettare e mantenere la distanza sociale alla fine diano risultati ed io e la mia famiglia ne usciamo relativamente indenni.

Quando mi avventuro fuori lo faccio solo per comprare alimenti e porto sempre con me di scorta mio marito “legalmente residente”, solo nel caso veniamo fermati e interrogati. In questi giorni la polizia israeliana sta pattugliando le strade più del solito, alla ricerca di cittadini con la febbre o di persone indisciplinate che sfidano la quarantena.

La mia è un’esistenza inquietante. Sono caduta nelle crepe di un sistema discriminatorio e segregazionista. Ma non sono affatto un’anomalia. Essere un abitante palestinese di Gerusalemme – “legale” o “illegale” – di per sé ti relega in uno status di seconda classe, anche nella disponibilità di cure mediche.

In questo nuovo mondo pandemico in cui viviamo, i gerosolimitani palestinesi, oltre alle preoccupazioni per l’epidemia da coronavirus nella loro comunità, devono ancora affrontare le incursioni della polizia e dell’esercito, gli arresti e i soprusi.

Proprio la notte scorsa la polizia israeliana ha fatto irruzione nel nostro quartiere, ha arrestato un giovane in casa sua e ci ha spruzzato tutti con spray al peperoncino.

Gli abitanti del quartiere sono usciti per liberare l’uomo, scontrandosi con la polizia, spingendo, tirando e gridando. Questo tipo di incursioni è già abbastanza traumatico in tempi normali, figuriamoci ora che aleggia su di noi la minaccia di un virus letale.

Inutile dirlo, quella notte non c’è stata nessuna distanza fisica, con la famiglia, gli amici e i vicini del giovane, tutti che cercavano di salvarlo dalle grinfie di poliziotti israeliani senza guanti e senza mascherine, che brandivano spray al peperoncino, fucili e manganelli sui nostri volti, anch’essi senza mascherine.

Pertanto la mia ultima preoccupazione è che una o più persone spinte quella notte una contro l’altra da entrambe le parti dello scontro politico siano portatrici del virus (che lo sappiano o meno) e che di conseguenza un numero imprecisato di noi lo abbia contratto.

Ho coperto bocca e naso sia dallo spruzzo di spray al peperoncino che da ogni particella di carica virale che si possa essere librata nell’aria. Solo i prossimi giorni diranno se è stato sufficiente.

J. Ahmad vive a Gerusalemme. Ha scritto sotto pseudonimo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi) 




Il punto di vista di un epidemiologo sul COVID-19 in Palestina

Rob Lipton

2 aprile 2020 Mondoweiss

In deroga al mio solito focus su Muzzlewatch sui tentativi di censurare il BDS e su altri punti di vista “pro-palestinesi” e anti-sionisti, indosso le vesti del mio lavoro quotidiano come epidemiologo socio- territoriale per parlare di alcuni aspetti della pandemia COVID-19, in via di diffusione in Paestina e Israele. Questo nell’ambito di un ciclo di interventi che seguirà gli effetti della pandemia in Israele e Palestina. Chiaramente, questo evento mondiale avrà ripercussioni di vasta portata e molto imprevedibili.

La prima cosa da capire è che ci troviamo nei primissimi giorni della pandemia. Al momento della stesura di questo articolo, ci sono 6.360 casi in Israele con 33 morti, mentre in Palestina 155 casi e 1 morto. Queste [cifre] cresceranno rapidamente su entrambi i lati della linea verde. Ovviamente la Cisgiordania, prosciugata delle sue risorse, e Gaza, prigione a cielo aperto, sono a gravissimo rischio, come in questa sede è stato a lungo ribadito – ma, come è ovvio, i confini non sono qualcosa che il COVID-19 riconosca.

Il problema più importante riguarda la capacità di assistenza sanitaria, e la Palestina semplicemente non ha le risorse per affrontare alcun genere di forte impennata nelle cure di emergenza, le cure intensive e le cure post ricovero. Al momento della stesura di questo articolo la maggior parte dei casi gravi e dei decessi riguardano la popolazione più anziana e, a questo proposito, la piramide delle età in Cisgiordania e Gaza potrebbe essere effettivamente favorevole. Rispetto all’età della popolazione israeliana possiamo rilevare che ci sono molti più giovani in Palestina. Al momento, le persone anziane sono più a rischio di malattie gravi e decessi rispetto alle più giovani (anche se sembra che, negli Stati Uniti, anche gli adulti relativamente più giovani, di età compresa tra 25 e 44 anni, siano a rischio di ricovero). D’altra parte, sebbene i giovani possano contrarre una malattia lieve o essere asintomatici, queste persone risultano comunque contagiose. Non sappiamo con precisione cosa questo implicherà col procedere della pandemia.

Il problema più consistente, tuttavia, riguarda i confini artificiali e il controllo micro-territoriale dei movimenti dei palestinesi. L’impossibilità per i palestinesi, già abbastanza grave in tempi “normali”, di suddividere le risorse sanitarie in base alle necessità, di organizzare correttamente la popolazione in base alle esigenze di distanziamento sociale e di una razionale quarantena e di tracciare e testare correttamente le persone, prevedibilmente comporterà molti più casi di malattie gravi e di morti, al di là di ciò che potrebbe accadere in uno scenario meno ad ostacoli. Se Israele imporrà un duro coprifuoco / quarantena alla Palestina, simile a quello del 2002 durante la seconda Intifada, diventerà estremamente difficile rispondere alla pandemia in crescita, fino al punto di vietare la libertà di movimento di ambulanze e operatori di Pronto Soccorso.

Una popolazione segregata, che sia per la porosità dei confini della Cisgiordania che per il contesto carcerario di Gaza, fa sì che il coronavirus sarà molto più grave per i palestinesi e lo stesso per gli israeliani, perché ci sarà un enorme serbatoio di infezione facilmente travasabile tra popolazioni contigue. La struttura a patchwork della Cisgiordania implica che sarà davvero difficile mantenere un effettivo isolamento in quanto palestinesi e israeliani vivono essenzialmente fianco a fianco. Questa situazione sarà aggravata dalla mancanza, in Palestina, di risorse sanitarie disponibili. Le malattie gravi dei palestinesi sono spesso curate in Israele e possiamo facilmente immaginare una situazione di quarantena “stretta” che impedisca tale assistenza sanitaria. Inoltre, se il sistema sanitario israeliano risultasse sovraccarico, ci sarebbero ancora minori possibilità per tutte le persone in Israele e in Palestina.

Rob Lipton è membro di lunga data di Jewish Voice for Peace, ha scritto per il Muzzlewatch di JVP, è stato membro dell’ISM [Movimento Internazionale di Solidarietà, ONG impegnata nel sostegno della causa palestinese, ndtr.] ed è stato il direttore di FAIR [organizzazione che monitora le notizie dei media degli Stati Uniti per “inesattezza, pregiudizi, e la censura”, ndtr.] di Los Angeles durante la prima guerra del Golfo. È poeta laureato a Richmond, California e epidemiologo territoriale.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)

 

 




Le spese per fronteggiare il COVID-19 bloccano l’approvazione della finanziaria dell’ANP

Ahmad Melhem

3 aprile 2020 – Al-Monitor

Ramallah, Cisgiordania —Si prevede che lo stato di emergenza dichiarato il 5 marzo da Mahmoud Abbas, presidente della Palestina, e le rigide misure annunciate dal governo il 18 marzo per arrestare l’espandersi del COVID-19 nei territori palestinesi limiteranno ancora di più la capacità finanziaria dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Il governo avrebbe dovuto pagare per intero gli stipendi dei dipendenti statali, ma, se lo stato di emergenza continuerà, si prospetta una crisi finanziaria.

Due fattori contribuiranno al peggioramento della crisi finanziaria dell’ANP: una diminuzione delle entrate fiscali (cioè tasse e dazi doganali) derivanti da una diminuzione dei commerci e un aumento delle spese, in risposta allo stato di emergenza, come il vasto impiego di servizi di sicurezza nelle città, i provvedimenti presi per fronteggiare gli effetti della disoccupazione, le spese mediche crescenti e l’apertura di centri per la quarantena. Dal 2 aprile, in Cisgiordania e Gaza sono stati registrati 160 casi di COVID-19, un decesso e diciotto ricoveri ospedalieri.

L’incertezza sui costi associati alla crisi da COVID-19 ha, in parte, frenato gli sforzi del governo per annunciare il bilancio dello Stato per l’anno finanziario 2020, che segue l’anno solare. La finanziaria di solito viene presentata entro il primo quadrimestre. Il Governo ha proceduto alla seconda lettura il 15 marzo, ma il primo aprile non c’era ancora stata la terza lettura necessaria prima di presentare il bilancio ad Abbas per l’approvazione.

Il Primo Ministro Mohammad Shtayyeh alla conferenza stampa del 29 marzo ha detto che, secondo il budget presentato al Gabinetto, le entrate statali caleranno di oltre il 50% e che diminuiranno anche gli aiuti internazionali. A causa di questa situazione finanziaria unita allo scoppio della pandemia, il governo si baserà su un bilancio di emergenza e austerità. Shtayyeh stima che il governo avrà bisogno di circa 120 milioni di dollari per fronteggiare il virus. “Nei prossimi giorni la situazione finanziaria sarà difficile” ha detto chiedendo ai palestinesi di prepararsi.

Amjad Ghanem, il segretario-generale di gabinetto dell’ANP ha detto ad Al-Monitor che “lo stato di emergenza impone oneri finanziari al governo che però non nasconderà la testa sotto la sabbia e farà fronte alla diminuzione degli introiti statali e delle spese mediche.” 

Si prevede che la finanziaria 2020 sarà simile a quella stilata in emergenza dal governo nel marzo 2019 quando Israele iniziò a trattenere fondi dalle entrate dell’ANP in misura equivalente ai soldi spesi per aiutare i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane e le loro famiglie. In seguito agli accordi Oslo Israele riscuote per conto dell’ANP i dazi doganali sulle importazioni e le tasse.

I fondi decurtati da Israele potrebbero porre termine alla crisi finanziaria che affligge l’ANP, aiutare il governo con la crisi da COVID-19 e a onorare i suoi obblighi finanziari” asserisce Ghanem. 

Afferma anche che il 22 marzo Israele ha trasferito all’ANP 120 milioni di shekel (30,4 milioni di euro) di imposte. Il giorno dopo, il Ministero delle Finanze ha detto che Israele continuava a trattenere 1.047 miliardi di shekel (circa 255 milioni di euro), di cui circa 650 milioni (161 milioni di euro) derivanti dalle tasse che ha riscosso. La cifra rimanente si riferiva a dati contabili di pagamenti precedenti.

Per resistere alla tempesta economica, l’ANP dovrà dipendere dagli aiuti internazionali, inclusi quelli provenienti dagli Stati arabi, e dalle donazioni locali. Il 24 marzo, il Ministero delle Finanze ha annunciato l’apertura di un conto bancario dove individui, aziende e altre imprese possono depositare donazioni per aiutare il governo a combattere il coronavirus.

Anche prima che si aprisse il conto, la Arab Bank e l’imprenditore Munib al-Masri avevano già donato 1 milione di dollari ognuno, rispettivamente il 19 e il 24 marzo. Il 9 marzo, la Paltel, l’azienda privata palestinese di telecomunicazioni, ha donato mezzo milione di dollari.

Il Qatar ha annunciato il 9 marzo che avrebbe fornito 10 milioni di dollari all’ANP per aiutare a contenere il diffondersi del coronavirus e il 18 marzo ha preannunciato una cifra ulteriore non specificata di assistenza finanziaria urgente. I qatarini progettano di donare 150 milioni di dollari nei prossimi 6 mesi per combattere il coronavirus a Gaza e il 16 marzo il Kuwait ha contribuito con 5,5 milioni di dollari. Le Nazioni Unite il 18 marzo hanno offerto 1 milione di dollari di aiuti sanitari urgenti.

May Kila, il ministro della Salute dell’ANP ha detto ad Al-Monitor: “Noi dobbiamo affrontare una sfida speciale perché non abbiamo il controllo delle nostre risorse finanziarie.” Kila ha detto che, oltre al problema dei fondi, le difficoltà maggiori sono quelle di ottenere i tamponi per i test e i respiratori. Data la loro scarsità, ci si deve concentrare sulla prevenzione.

Nasr Abdel Karim, un docente di economia e finanza dell’Arab American University in Cisgiordania, ha detto ad Al-Monitor che “se la crisi non si allenta entro uno o due mesi, l’ANP non riuscirà a rispettare i suoi impegni finanziari causati da un’economia paralizzata e dai minori introiti fiscali.”

Abdel Karim crede che tali introiti potrebbero diminuire del 50% e che l’ANP potrebbe coprire in parte il disavanzo tramite un sostegno internazionale o prestiti limitati delle banche e del settore privato. Per sostenere il funzionamento del settore sanitario, ha detto, l’ANP potrebbe pagare solo metà degli stipendi dei dipendenti statali come ha fatto nel 2019 durante la crisi di liquidità.

L’ANP si trova davanti a una crisi finanziaria ancora più grave perché è una crisi di cui non si intravede la fine” dice Abdel Karim, facendo anche notare l’ulteriore aggravio delle spese sanitarie abbinato alla diminuzione delle entrate fiscali.

La crisi, afferma, non si limiterà all’ANP, ma colpirà imprenditori, lavoratori, contadini e le istituzioni civili.

Ahmad Melhem è un giornalista e fotografo palestinese di Ramallah e collabora con Al-Watan News e vari altri media arabi.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




In Cisgiordania i coloni approfittano del confinamento dovuto al coronavirus per annettere terre palestinesi

Akram Al-WaaraBetlemme, Cisgiordania occupata

1 aprile 2020Middle East Eye

Mentre gli attacchi dei coloni sono moneta corrente, è stato constatato un netto aumento delle violenze dopo la proclamazione dello stato d’emergenza sanitaria.

Nella Cisgiordania occupata i coloni sfruttano l’isolamento imposto allo scopo di rallentare la propagazione del nuovo coronavirus per annettere terre palestinesi e condurre attacchi contro i civili e le loro case.

Negli ultimi giorni sono stati riferiti almeno tre episodi durante i quali dei coloni israeliani hanno spianato dei terreni palestinesi e pavimentato delle strade nei distretti di Nablus, Gerusalemme e Betlemme.

È stato anche osservato un picco di aggressioni contro i palestinesi e i loro beni. Middle East Eye ha documentato violenze nei villaggi di Madama, Burqa e Burin.

Normalmente subiamo attacchi da parte di coloni diverse volte al mese,” spiega a MEE Ghassan al-Najjar, un attivista di Burin, villaggio situato a 5 km. a sud di Nablus.

Ma dopo che siamo stati posti in isolamento a causa del coronavirus essi sono decuplicati”, dice il trentenne, aggiungendo che i coloni, sotto la protezione dei soldati israeliani, ormai fanno quotidianamente delle incursioni nel villaggio.

Aggiunge che degli abitanti della colonia di Har Brakha hanno cercato di impadronirsi di terre palestinesi nella periferia del villaggio.

I coloni sanno che le persone restano in casa per via del coronavirus, quindi cercano di approfittarne per attaccarci e prendere ancor più terre”, lamenta l’attivista.

Un netto aumento delle aggressioni

Mentre gli attacchi di coloni in Cisgiordania sono moneta corrente, alcuni attivisti di tutto il territorio occupato hanno segnalato un netto incremento di violenze dopo la proclamazione dello stato d’emergenza sanitaria a causa della pandemia di coronavirus all’inizio di marzo.

A sud della Cisgiordania, nel distretto di Betlemme, centro dell’epidemia del coronavirus in Palestina, l’attivista quarantottenne Mahmoud Zawahreh riferisce a MEE che in questi ultimi giorni i coloni hanno adottato tattiche simili nel comune di Khallet al-Nahleh.

I coloni cercano di impadronirsi di una collina di questo villaggio fin dal 2013. Nel corso degli anni, racconta Zawahreh, i coloni della vicina mega-colonia di Efrat hanno tentato di ricostruire l’“avamposto” che vi si trovava, dopo il suo smantellamento da parte delle forze israeliane.

Una sentenza ha stabilito che le terre appartengono a palestinesi e le tende dei coloni sono state smantellate”, ricorda Zawahreh. “Fino a poco tempo fa non avevano tentato di tornare qui.”

Negli ultimi giorni in effetti i coloni sono tornati, questa volta con più tende, serbatoi d’acqua e generatori elettrici. Lunedì scorso hanno iniziato a tracciare una strada sterrata per creare un più facile accesso all’avamposto.

La crisi del coronavirus limita gli spostamenti dei palestinesi, soprattutto intorno a Betlemme, a causa della quarantena e del coprifuoco imposti dal governo”, spiega Mahmoud Zawahreh.

I coloni lo sanno e ne approfittano. Sanno che le persone avranno troppa paura di venire in gran numero e protestare contro questi tentativi, come si faceva prima. Quindi è una situazione ideale per prendere il controllo del territorio”.

«Tra il martello dell’occupazione e l’incudine del coronavirus »

Mentre la pandemia non mostra alcun segnale di rallentamento, i palestinesi dicono di essere costretti a scegliere tra proteggere la loro salute e proteggere le loro terre.

A causa dei coloni e dell’occupazione noi non possiamo seguire le direttive fissate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità o dal nostro governo per proteggerci dal coronavirus”, afferma Ghassan al-Najjar.

Se restiamo a casa ci proteggiamo dal virus, ma finiamo per perdere le nostre terre”.

Cercando di difendere il villaggio riducendo al minimo l’esposizione degli abitanti tra di loro e coi coloni, l’attivista e altri giovani della regione di Burin hanno creato un piccolo gruppo incaricato di proteggere le terre durante l’isolamento.

Normalmente tutto il villaggio viene a difendere le terre, ma ora lavoriamo in piccoli gruppi e facciamo dei turni per ridurre al minimo l’esposizione potenziale”, spiega. “È quello che possiamo fare per il momento.”

Da Khallet al-Nahleh, Mahmoud Zawahreh esorta la comunità internazionale a fare pressione sul governo israeliano perché metta fine ai “crimini dei coloni” in Cisgiordania.

È triste e frustrante per noi palestinesi vedere che durante questa epidemia l’umanità dovunque si unisce per difendersi e proteggersi reciprocamente da questo virus, mentre qui i coloni fanno il contrario. Sfruttano il virus a loro vantaggio, per nuocere all’umanità degli altri e rubare la terra altrui”, denuncia.

In Palestina siamo schiacciati tra il martello dell’occupazione e l’incudine del coronavirus”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Perfino in una pandemia Israele non tratta i suoi sottoposti come uguali

Hagai el Ad, direttore B’Tselem

30 marzo 2020 +972 Magazine

2 aprile 2020 Cultura è Libertà

Un paese guidato da un primo ministro etnocentrico e razzista alle prese con una minaccia universale che colpisce tutte le persone sotto il suo controllo.

In un discorso alla nazione di metà marzo, il Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha cercato goffamente di rivolgersi a tutte le persone che vivono sotto l’effettivo controllo del Governo – compito difficile dato che l’idea stessa va contro le sue convinzioni fondamentali.

In difficoltà nel trovare le parole giuste per rivolgersi al suo pubblico, Netanyahu se ne è uscito così: “Possiamo farlo insieme. Tutti i cittadini, tutti i residenti, chiunque mi stia ascoltando ora, seguano queste linee guida e raggiungeremo il nostro obiettivo. “

Se tutte le persone che vivono nel territorio sotto il controllo di Israele fossero considerate uguali, Netanyahu non avrebbe dovuto dividerle in tre categorie per parlare direttamente con loro. Eppure è esattamente così che funziona il regime israeliano; non è né umanistico né universalistico e si basa sulla attribuzione di diritti e libertà diversi a persone diverse in base alla loro classificazione.

Traduciamo. L’enfasi di Netanyahu su “tutti i cittadini” era, a quanto pare, un raro tentativo di riconoscere non solo i cittadini ebrei, ma anche quelli palestinesi di Israele. Riferendosi a “tutti i residenti“, il primo ministro ha incluso oltre 300.000 non cittadini palestinesi che vivono nell’annessa Gerusalemme est. Il suo vago appello a “chiunque mi stia ascoltando ora” ha lasciato intendere che i soggetti palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza potrebbero essere entrati a forza nella coscienza del primo ministro.

Sono tutti tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo: cittadini, residenti e soggetti. Tutto sommato, 14 milioni di persone che non condividono gli stessi diritti.

Normalmente Netanyahu non conta né i residenti né i soggetti. Omette allegramente circa cinque milioni di persone – tutte palestinesi – il cui ruolo nel sistema è obbedire ai diktat israeliani. Di solito cerca anche di trascurare i cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono oltre un quinto della cittadinanza del paese e che ha definito “sostenitori del terrorismo”. Ciò significa che il primo ministro conta abitualmente solo la metà delle persone che vivono sotto le regole del suo governo, tutti cittadini ebrei.

Eppure questi sono tempi insoliti. Il rischio per la salute costituito dal coronavirus non obbedisce ai decreti israeliani. In effetti, mina gli stessi pilastri del regime israeliano, perché non distingue tra diverse classi di persone. Un primo ministro con una visione del mondo particolaristica, etnocentrica e razzista si trova di fronte a una minaccia universale.

Netanyahu sicuramente comprende il pericolo che questo virus rappresenta. Si rende conto che dopo aver spostato centinaia di migliaia di cittadini ebrei in circa 250 insediamenti in Cisgiordania – dove vivono in mezzo a 3 milioni di soggetti palestinesi – questa lotta non può essere vinta senza un approccio universalistico. Se sceglie di non prendere in considerazione tutti i milioni di persone che condividono questa terra, il virus si diffonderà e sconfiggerà tutti.

Netanyahu deve anche sicuramente sapere che nella Striscia di Gaza bloccata, ci sono condizioni mature per un’orribile diffusione della pandemia. Israele ha dimostrato il suo potere di tagliare Gaza dal resto del mondo attraverso i suoi 13 anni di assedio. Ciò potrebbe aver allontanato Gaza dal mondo in difficoltà; ma all’interno di una delle strisce di terra più densamente popolate della terra, quanto realistico è il distanziamento sociale come mezzo per combattere una pandemia?

Nel nord Italia, un sistema sanitario occidentale è crollato e il bilancio delle vittime ha raggiunto il 10 percento di tutte le persone infette. A Gaza, il sistema sanitario era crollato molto prima del primo paziente COVID-19 a seguito della politica israeliana. Se metà della popolazione rinchiusa a Gaza fosse contagiata, un tasso di mortalità del 10% significherebbe la morte di 100.000 persone.

Ovviamente, la retorica razzista e la visione del mondo del primo ministro si estendono oltre i suoi discorsi. Anche adesso, Netanyahu continua a incitare contro i cittadini palestinesi di Israele e minare la legittimità della loro rappresentanza politica. Circa 140.000 residenti palestinesi che vivono in quartieri oltre la barriera di separazione a Gerusalemme si svegliano ogni giorno con la paura di essere tagliati fuori dalla loro città e dal sistema sanitario che dovrebbe prendersi cura di loro e delle loro famiglie.

Nel frattempo, i soldati israeliani continuano a opprimere i palestinesi in Cisgiordania, alcuni ora indossando equipaggiamento medico protettivo. Al checkpoint di Maccabim, gli agenti di polizia hanno lasciato un lavoratore palestinese che mostrava sospetti sintomi del coronavirus sul ciglio della strada. La violenza dei coloni aumenta, senza sosta.

Questo è ciò che Netanyahu avrebbe dovuto dire a chiunque stesse ascoltando il suo discorso: che “un virus che non distingue tra nessuno, felice o triste, ebreo o non ebreo” (come ha detto) è per definizione un pericolo universale. Che questo tipo di minaccia va fronteggiata da una politica universalista che “non distingue tra nessuno”. Che sradicherà la divisione tra cittadini, residenti e soggetti. Che tutti sono esseri umani che hanno bisogno di essere protetti. Che difendere tutti noi è sua responsabilità.
Netanyahu, ovviamente, non dirà nulla del genere. Non può dirlo perché è un razzista. Il razzismo corrompe sempre l’anima, ma molte volte il prezzo può essere pagato anche con vite umane. Questo è uno di quei momenti.

Hagai El-Ad è il direttore esecutivo di B’Tselem: il Centro informazioni israeliano per i diritti umani nei territori occupati.

traduzione Alessandra Mecozzi