La battaglia dell’acqua in Palestina (I parte)

Francesca Merz

24 marzo 2020 Nena News

Da sempre un punto centrale del conflitto arabo-israeliano, l’approvvigionamento idrico è una delle principali sfide che le autorità palestinesi in Cisgiordania e a Gaza devono affrontare. Una questione complessa dato che l’85% delle acque palestinesi è sotto il controllo israeliano

Il 22 marzo è stata la giornata dell’acqua, il 23 la Giornata mondiale del clima, l’intima connessione che lega il primo elemento con ciò che accadrà al nostro pianeta in futuro, è oramai nota, tanto che anche le Nazioni Unite si sono poste l’obiettivo di unificare il dibattito, esaltando l’interdipendenza tra questi due temi.

L’ufficio centrale palestinese di statistica, l’Autorità palestinese per l’acqua e l’Amministrazione generale sul clima palestinesi hanno rilasciato una dichiarazione stampa congiunta, venerdì, proprio in tal senso, con un messaggio univoco che mettesse in luce la correlazione tra queste due giornate “Acqua e cambiamenti climatici” appunto. 
L’obiettivo di unificare lo slogan per questi due giorni globali è arrivato, secondo la dichiarazione, proprio per sancire e sottolineare la grande interdipendenza tra acqua e clima, e con la volontà di coordinare gli sforzi di gestione dei due settori, per garantire la sostenibilità idrica e contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici, soprattutto perché entrambi sono essenziali per raggiungere obiettivi di sviluppo sostenibile e per ridurre disastri naturali in modo proattivo.

Secondo gli ultimi dati, il consumo medio pro capite di acqua per la popolazione ha raggiunto 87,3 litri al giorno di acqua in Palestina. Questo tasso ha raggiunto i 90,5 litri al giorno in Cisgiordania e un miglioramento rispetto agli anni precedenti grazie ai progetti idrici completati, che sono stati in grado di sviluppare le risorse disponibili e ridurre gli sprechi.
La quota pro capite a Gaza oggi ha raggiunto 83,1 litricon il rilevamento di una diminuzione di 5,2 litri rispetto allo scorso anno, a causa dell’aumento della popolazione. Con un ulteriore calcolo però a causa dell’ elevato tasso di inquinamento dell’acqua a Gaza, se si considerano solo le quantità di acqua idonee all’uso per gli esseri umani, la quota pro capite di acqua dolce raggiunge solo i 22,4 litri al giorno. Partendo proprio dalla differenza tra le singole quote tra i governatorati, ottenere un equilibrio nella distribuzione tra i centri abitati è una delle principali sfide che l’Autorità Palestinese deve affrontareVale la pena notare che il consumo medio di acqua palestinese per persona è ancora inferiore al minimo raccomandato a livello globale, il che non può non farci pensare al controllo israeliano di oltre l’85% delle risorse idriche palestinesi.

A Gaza, vedremo dopo il perchè, oltre il 97% della qualità dell’acqua pompata dal bacino costiero non soddisfa gli standard dell’OMS. 
In linea generale, secondo gli ultimi dati, il 77% dell’acqua disponibile proviene da acque sotterranee, ancora una volta il motivo principale dell’uso limitato delle acque superficiali è il controllo dell’occupazione israeliana sulle acque del fiume Giordano che impedisce anche ai palestinesi di usare l’acqua delle valli.
Secondo i dati del 2018, la Palestina ha iniziato a produrre quantità di acqua desalinizzata, che dovrebbe aumentare la percentuale di risorsa disponibile nei prossimi anni, con l’avvio di impianti di desalinizzazione specie a Gaza. Ad oggi, secondo quel principio di colonizzazione e dipendenza solidamente costruito dall’occupazione, il 22% dell’acqua disponibile in Palestina viene acquistata dalla compagnia idrica israeliana Mecorot, come sempre il controllo economico si cela sotto le sembianze di un libero mercato che toglie il diritto all’acqua e costringe un popolo a pagare per dei servizi dei quali non avrebbe bisogno se non fosse schiacciato da un colonialismo estremo, che vede proprio il controllo economico sulle risorse di base come sua prima arma.

Gli ultimi rapporti sui territori palestinesi, in relazione alla quantità di acqua piovana annuale e al potenziale aumento delle risorse idriche, ci dicono che, se da una parte piove di più, dall’altra lo fa in periodi dell’anno altamente circoscritti, con bombe d’acqua che non riescono ad aumentare le falde, e che, dall’altra, l’innalzamento della temperatura globale, porta ad una sempre più veloce evaporazione delle risorse, il cambiamento climatico è dunque un importante dato che andrà proprio ad intaccare in maniera forte le acque sotterranee e superficiali. Attualmente, l’Autorità per l’acqua e il Dipartimento sul clima, in collaborazione con un certo numero di autorità locali competenti, stanno implementando una serie di programmi volti a monitorare e valutare gli effetti dei cambiamenti climatici, pubblicando le relazioni necessarie a tale proposito, oltre a preparare i piani necessari per adattarsi agli effetti dei cambiamenti.

A Gaza, in particolare, la situazione è sempre più disastrosa, come certificato dalle stesse autorità israeliane. Il 3 giugno dello scorso anno ricercatori delle università israeliane di Tel Aviv e Ben Gurion hanno presentato un rapporto, commissionato dall’organizzazione ambientalista ‘EcoPeace Middle East’, in cui avvertono che “il deterioramento delle infrastrutture idriche, elettriche e fognarie nella Striscia di Gaza costituisce un sostanziale pericolo per le acque terrestri e marine, le spiagge e gli impianti di desalinizzazione di Israele”. Ma ciò che Israele ha identificato come un “problema di sicurezza nazionale” è in realtà un disastro causato da proprie responsabilità. Innumerevoli rapporti delle Nazioni Unite hanno infatti documentato dettagliatamente come e perché la principale causa del disastro sia l’occupazione israeliana. Il motivo per cui le acque reflue a Gaza vengono smaltite in questo modo definito dagli israeliani “irresponsabile” è che gli impianti per il trattamento delle acque non funzionano; sono stati colpiti nell’attacco israeliano alla Striscia del 2014 [operazione “Margine protettivo, ndtr.] e non sono mai stati ricostruiti perché l’assedio israeliano non consente di importare materiali da costruzione e pezzi di ricambio (vedi articolo sul Protocollo di Parigi).

Ma non solo a Gaza il tema dell’acqua è di profonda urgenza, anche in tutta la Cisgiordania, affollata da nuovi insediamenti israeliani, risulta chiarissima l’interconnessione tra la gestione dell’acqua da parte di Israele, e le innumerevoli questioni legate all’impatto ambientale che il colonialismo impone. Gli insediamenti israeliani incombono in numero sempre maggiore (dopo il piano Trump è stato dato il via libera alla costruzione di 122 nuovi insediamenti), producendo un flusso di liquami che scorre costantemente sotto di loro. Il terrificante impatto delle colonie sull’ambiente è visibile ovunque. Nelle valli Matwa e al-Atrash – situate nel distretto di Salfit della Cisgiordania occupata tra le città palestinesi di Ramallah e Nablus si raccolgono le acque reflue mal gestite da residenti palestinesi a Salfit e soprattutto da residenti israeliani nei vicini insediamenti illegali di Ariel e Barkan.

Secondo un rapporto del 2009 dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, i palestinesi che vivono in queste valli sono esposti a “acque reflue non trattate [che] contengono virus, batteri, parassiti e metalli pesanti e tossici [che] sono pericolosi per la salute umana e per gli animali”. Le acque reflue non trattate hanno un grave impatto sulla salute pubblica ma le sostanze chimiche riversate dalle fabbriche vicine rappresentano se possibile una minaccia ben peggiore. Secondo un report di B’Tselem del 2017, lo Stato di Israele stava sfruttando la terra palestinese per il trattamento di vari rifiuti creati non solo negli insediamenti illegali ma dall’interno della linea verde. Nel rapporto, si dice che le zone industriali dell’insediamento di Ariel e Barkan contengono due dei 14 impianti di trattamento dei rifiuti gestiti da Israele nella Cisgiordania occupata e nella Gerusalemme est.

Come si può immaginare, in un territorio composto da territori montuosi e aridi l’impatto di un’ agricoltura intensiva e aggressiva, e uno sviluppo industriale ai danni degli occupati, sono i fattori che fanno dell’acqua potabile, già di natura scarsa, una risorsa sempre più critica. Secondo l’Autorità Nazionale Palestinese, Israele possiede il controllo di quasi tutte le sorgenti e un terzo degli abitanti della West Bank riceve acqua a intermittenza. I dati sul consumo dell’acqua confermano ciò. Per i palestinesi, infatti, sono disponibili un quinto delle risorse idriche rispetto a quelle dei coloni. Entrambe le parti in causa attingono acqua dal bacino idrico delle montagne della West Bank.
Anche le altre due risorse della zona, il Mar di Galilea ed il bacino idrico costiero, sono condivise dalle due parti in causa che le sfruttano, vista l’aridità della zona, in maniera eccessiva. Tutti i bacini idrici si trovano dunque in territorio palestinese, e questo già ci dice molto di quanto “la guerra dell’acqua” sia risultata fondamentale sin dai tempi della nascita dello stato ebraico, come vedremo di seguito. Sempre B’Tselem, in un rapporto dichiara che oltre 215mila palestinesi in più di 150 villaggi non sono connessi alla rete idrica e che lo stato d’Israele alloca le risorse idriche in maniera discriminatoria.

L’esistenza di una doppia rete idrica nei territori occupati, una efficiente per gli insediamenti dei coloni e una priva della necessaria manutenzione da oltre 40 anni e con perdite di oltre l’11 per cento dell’acqua destinata ai palestinesi, sembra confermare l’ipotesi.

«Nei mesi estivi la Mekorot Israeli Water Company riduce i rifornimenti d’acqua alle aree palestinesi in maniera considerevole. – ha dichiarato al giornale israeliano Haaretz, Tashir Nasir Eldin, direttore generale dell’Autorità Palestinese per l’Acqua in Cisgiordania.

A Hebron, per esempio, i 300mila abitanti avrebbero bisogno di circa 25mila metri cubi d’acqua al giorno, ma dalla Mekorot ne arrivano solamente 5.500. Analogo discorso a Betlemme, dove i metri cubi necessari sarebbero 18mila, ma ne arrivano solamente 8mila.

Occorre a questo punto fare un passo indietro, per capire anche storicamente il grande valore che ha da sempre rivestito l’acqua all’interno di questi territori e del conflitto. Nel 1919, Chaim Weizman, alla testa dell’Organizzazione Sionista Mondiale, scrive al Primo Ministro inglese Lloyd George esprimendosi così « il futuro economico della Palestina, nel suo complesso, dipende dal suo approvvigionamento di acqua, per l’irrigazione e per la produzione di energia elettrica». Le frontiere che allora venivano richieste per la nascita dello Stato Ebraico, inglobavano, oltre alla Palestina, il Golan e i Monti Ermon in Siria, il sud del Libano e la riva est del Giordano, proprio per questo scopo. Nel 1941, David Ben Gurion dichiara «Noi dobbiamo ricordarci che, per pervenire al radicamento dello Stato ebraico, sarà necessario che le acque del Giordano e del Litani siano incluse all’interno delle nostre frontiere ». Inizia così una campagna massiccia tesa all’approvvigionamento di acque per il nuovo stato: già dal 1953, Israele comincia a deviare le acque del Lago di Tiberiade per irrigare il litorale e il Negev, portando alla attuale terrificante condizione del Lago, che descriverò a conclusione di questo articolo. Dal 1964 risulta attivo il National Water Carrier, (Trasporto dell’Acqua attraverso canalizzazioni), Siria e Giordania, preoccupate, intraprendono così la costruzione di dighe sullo Yarmouk e la deviazione del Baniyas, per riuscire a trattenere l’acqua a monte del Lago di Tiberiade e quindi impedire ad Israele di prelevare l’acqua dal Lago. Israele li accusa di essere aggressori e bombarda i lavori, fino allo scatenare la guerra dei Sei Giorni.

Con la guerra del 1967 Israele si accaparra anche parte delle risorse d’acqua di Gaza, della Cisgiordania e del Golan, sino ad arrivare al 1978, con l’invasione del Libano, dove si procede a deviare per pompaggio una parte del Litani, deviazione che rimane in atto fino al 2000, quando Hezbollah si è installata in questa regione. L’annessione del Golan, soprannominato il «castello dell’acqua », permette il controllo del bacino di alimentazione a monte del Giordano, e si traduce nell’espulsione della maggioranza della popolazione, circa 100.000 persone, cosa che, con un’unica mossa, permette ad Israele anche di recuperare l’acqua che non viene più consumata dai locali.




Rapporto OCHA del periodo 17 – 30 marzo 2020

La notte del 22 marzo, le forze israeliane hanno sparato e ucciso un palestinese 32enne e ferito un suo parente; i due viaggiavano su una strada principale vicino al villaggio di Ni’lin (Ramallah).

Fonti militari israeliane hanno affermato che i due erano implicati nel lancio di pietre contro veicoli israeliani; secondo i familiari, erano impegnati nell’acquisto di viveri. Le autorità israeliane hanno trattenuto il corpo dell’uomo ucciso. Questo decesso porta a nove il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania dall’inizio dell’anno.

In Cisgiordania, in vari scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 40 palestinesi, tra cui sette minori. Rispetto alle settimane precedenti, ciò rappresenta un netto calo, attribuito alle restrizioni di accesso imposte nel contesto della crisi COVID-19. La maggior parte dei [40] ferimenti (26) sono stati registrati nel villaggio di At Tuwani (Hebron), ad opera delle forze israeliane, intervenute in seguito a scontri tra residenti e coloni israeliani che, in precedenza, avevano fatto irruzione nel villaggio [vedi i dettagli in un paragrafo successivo]. Sei degli altri ferimenti sono stati registrati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), nel corso delle manifestazioni settimanali contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni di accesso. Dei 40 feriti, 24 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, 7 sono stati aggrediti fisicamente, 6 sono stati colpiti da proiettili di gomma e 3 da proiettili di armi da fuoco.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 72 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 64 palestinesi, tra cui dieci minori. 21 di queste operazioni hanno avuto luogo a Hebron (di cui 13 nella zona H2 della città sotto controllo israeliano) e 20 a Gerusalemme Est. Il numero complessivo di operazioni è diminuito di quasi il 30%, rispetto alla media quindicinale registrata dall’inizio dell’anno.

A Gaza, il 27 marzo, un gruppo armato palestinese ha lanciato un missile contro Israele e le forze aeree israeliane hanno effettuato un attacco aereo su Gaza. Non sono state riportate vittime, ma, a quanto riferito, sono state danneggiate strutture militari nel nord di Gaza.

In almeno 22 occasioni, per far rispettare le restrizioni di accesso alle aree di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed a quelle di mare al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco: non sono stati registrati danni. In due di questi episodi, due palestinesi sono rimasti feriti: un pescatore ed un uomo che avrebbe tentato di infiltrarsi in Israele; inoltre, sono state confiscate alcune reti da pesca. In un caso, ad est di Khuzaa (Khan Younis), le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Nel contesto della crisi COVID-19, le autorità israeliane hanno ulteriormente limitato l’accesso dei palestinesi a Gerusalemme Est ed alla “Seam Zone”, [cioé i lembi di] territorio palestinese chiuso tra la Linea Verde e la Barriera; ai palestinesi residenti in questa zona sono stati bloccati tutti i normali permessi che consentivano loro di raggiungere il resto della Cisgiordania [attraversando la Barriera]. Ai residenti che forniscono servizi essenziali sono stati concessi permessi speciali, mentre l’accesso per i casi di emergenza deve essere richiesto quando necessario. Allo stesso modo, con poche eccezioni, sono stati sospesi tutti i permessi che concedevano agli agricoltori della Cisgiordania di attraversare la Barriera per accedere ai loro terreni posti nella suddetta area [“Seam Zone”]. Anche per i pazienti sottoposti a cure mediche è stato bloccato l’accesso negli ospedali di Gerusalemme Est; ad eccezione dei casi di emergenza e dei malati di cancro.

Nello stesso contesto [crisi COVID-19], l’uscita delle persone da Gaza verso Israele (incluso il passaggio in Cisgiordania) e verso l’Egitto, è stata in gran parte sospesa. Dal 12 marzo, il valico di Erez, controllato da Israele, è stato chiuso per tutti i titolari di autorizzazioni, compresi oltre 5.000 lavoratori e commercianti giornalieri; è consentito solo il passaggio per i casi di emergenza medica e per i pazienti oncologici. Dal 15 marzo è stata bloccato il passaggio in uscita attraverso il valico di Rafah, controllato dall’Egitto.

In Area C della Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 20 strutture di proprietà palestinese, sfollando due persone e causando ripercussioni su altre 170 [segue dettaglio]. A Ibziq, una Comunità beduina nella valle settentrionale della Giordania, le autorità hanno demolito una casa e sequestrato otto tende fornite come aiuto umanitario: quattro di queste tende dovevano essere utilizzate come rifugi temporanei, durante le evacuazioni imposte ai residenti per consentire le esercitazioni militari israeliane; le altre quattro erano utilizzate come moschea e clinica. Le altre demolizioni hanno interessato strutture legate al sostentamento in cinque Comunità. Uno di questi casi si è verificato nel villaggio di Deir Ballut (Salfit), dove è stato demolito un locale ad uso agricolo, mentre una cisterna d’acqua, finanziata da donatori, è stata danneggiata in base all’ “Ordine militare 1797” che prevede la demolizione o il sequestro di strutture senza licenza e quindi considerate “nuove”. A partire dalla dichiarazione del 5 marzo, relativa allo stato di emergenza COVID-19 nei Territori occupati, le autorità israeliane hanno demolito (o costretto le persone ad autodemolire) o sequestrato 40 strutture, sfollando 26 palestinesi e creando ripercussioni diverse, per entità e tipo, su altri 260.

Almeno 16 attacchi da parte di coloni israeliani hanno provocato il ferimento di cinque palestinesi e gravi danni materiali [segue dettaglio]. Tale numero di attacchi rappresenta un aumento del 78% rispetto alla media quindicinale di episodi similari registrati dall’inizio del 2020 . In due casi separati, accaduti alla periferia dei villaggi di Umm Safa ed Ein Samiya (entrambi a Ramallah), gruppi di coloni israeliani hanno aggredito due palestinesi, in un caso con un’ascia e nell’altro con un martello, ferendoli gravemente. Altri due pastori sono stati aggrediti e feriti fisicamente (in un caso, da un cane sguinzagliato da coloni), mentre pascolavano le pecore nei pressi di Ein al Hilweh (Tubas) e At Tuwani (Hebron). Quest’ultima Comunità ha anche subìto un’incursione di coloni che ha innescato successivi scontri con le forze israeliane (vedi sopra). Il villaggio di Burqa (Nablus) ha assistito a cinque episodi separati in cui coloni dell’insediamento di Homesh hanno fatto irruzione nella Comunità, aggredendo fisicamente e ferendo un contadino, lanciando pietre contro veicoli, sradicando alberi e vandalizzando strutture. L’insediamento colonico di Homesh era stato evacuato nel 2005, ma è stato ripopolato negli ultimi anni. Anche nei villaggi di Al Mughayyir (Ramallah) e Khashem ad Daraj (Hebron), gruppi di coloni hanno fatto irruzione, tagliando le gomme di numerosi veicoli e rubando tubature per l’acqua. Inoltre, coloni israeliani hanno sradicato 100 ulivi di proprietà palestinese piantati vicino all’area di insediamento colonico di Gush Etzion (Betlemme). In due episodi verificatisi nella zona H2 della città di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani hanno rubato o danneggiato telecamere di sorveglianza in una casa e in una scuola, entrambe oggetto della violenza dei coloni.

Un israeliano, conducente di un autobus, è stato ferito su una strada vicino al villaggio di Kisan (Betlemme), in seguito al lancio di pietre contro il suo veicolo ad opera di palestinesi. Secondo una ONG israeliana, altre otto auto israeliane, che viaggiavano su tangenziali vicino ai governatorati di Ramallah e Nablus, hanno subito danni per lancio di pietre.




Il blocco di Israele contro il coronavirus intralcia il lavoro per i diritti umani, ma non i soprusi

Judith Sudilovsky

31 marzo 2020 – +972

Le associazioni per i diritti umani segnalano che le direttive per l’emergenza di Israele stanno rendendo più difficile monitorare e proteggere i diritti dei palestinesi durante la pandemia

Alcune associazioni per i diritti umani palestinesi ed israeliane affermano che le direttive d’emergenza emanate dalle autorità israeliane, che con la scusa del coronavirus vietano la libertà di movimento e altre attività, stanno rendendo più difficile monitorare, documentare violazioni israeliane dei diritti umani palestinesi e difendere da esse in vari aspetti della vita.

Stiamo ancora monitorando casi, ma le nostre ricerche non sono in grado di essere presenti e documentare nel suo complesso l’area,” dice Rania Muhareb, ricercatrice giuridica e responsabile della sensibilizzazione presso Al-Haq, un’organizzazione palestinese per i diritti umani con sede a Ramallah. “È molto difficile dire se ci sono più o meno incidenti, per la semplice ragione che in questa situazione è più complicato avere tutte le informazioni con la rapidità di sempre.”

Le violazioni, spiega Muhareb, includono la continua confisca di terre e i progetti di costruzione di colonie israeliane e della barriera di separazione nella Cisgiordania occupata; la violenza contro i contadini palestinesi; incursioni e arresti in città e villaggi palestinesi; demolizioni di case.

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Queste violazioni evidenziano un tentativo diffuso e sistematico di compromettere i diritti dei palestinesi durante un’emergenza sanitaria pubblica di portata internazionale,” afferma. Nonostante la grave crisi, “Israele continua ad avere il tempo di portare avanti queste azioni illegali.”

Muhareb evidenzia un incidente del 19 marzo nel villaggio di Sawahra Al-Sharqiya, a Gerusalemme est, in cui i bulldozer israeliani hanno distrutto una serie di edifici, compreso un recinto per le pecore, ma che non si può documentare a causa del divieto di muoversi.

Aggiunge che nella zona attorno a Nablus è continuata anche la violenza dei coloni. Il 17 marzo un gruppo di coloni ha attaccato una casa palestinese nel villaggio di Burin; secondo le persone che hanno seguito l’incidente, invece di bloccare i coloni i soldati israeliani hanno sparato proiettili ricoperti di gomma, bombe assordanti e lacrimogeni contro i palestinesi. Tre giorni dopo, il 20 marzo, a sud di Jenin i coloni hanno gravemente ferito il contadino Ali Musafa Zouabi.

Allo stesso modo l’associazione israeliana per i diritti umani Yesh Din ha riferito di violenti attacchi dei coloni che la scorsa settimana hanno ferito gravemente contadini e pastori palestinesi. I coloni sono arrivati da Halamish, Homesh (una ex-colonia che è stata demolita, ma in cui gli israeliani sono rimasti illegalmente), e Kochav Ha Shahar. Nessuno dei coloni è stato arrestato.

Muhareb afferma che i soldati delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] non hanno l’autorità di arrestare i cittadini israeliani in Cisgiordania. Al contrario, la scorsa settimana l’esercito ha arrestato parecchi palestinesi nella città vecchia di Jenin, a Qalqiliya e nei pressi di Nablus.

In un comunicato l’ufficio del portavoce delle IDF ha detto che le IDF “continuano l ‘attività operativa, che include l’interruzione di sospette attività terroristiche in base alle necessità operative e alle valutazioni aggiornate della situazione. Durante gli arresti i militari, così come i detenuti, sono protetti secondo le necessità operative.”

Non si può passare sopra diritti fondamentali”

In base alle nuove regole riguardanti la pandemia entrate in vigore il 15 marzo, questi prigionieri devono essere tenuti in quarantena per 14 giorni prima di poter essere interrogati. Il ministero israeliano della Sicurezza Pubblica ora può vietare le visite dei familiari per arrestati e detenuti e limitare i colloqui dei prigionieri con un avvocato solo a conversazioni telefoniche, afferma Sahar Francis, direttrice dell’ONG palestinese Addameer – Associazione per l’Appoggio e i Diritti Umani dei Detenuti.

L’esercito israeliano sta ancora arrestando persone pur sapendo che non le può interrogare, per cui le mette in isolamento per 14 giorni. È una violazione dei diritti fondamentali dei detenuti,” afferma.

Da due settimane o più hanno completamente chiuso tutte le prigioni e le strutture per la detenzione. (I prigionieri) non hanno contatti con i loro familiari e gli avvocati possono parlare con loro solo quando è prevista un’udienza in tribunale sul loro caso. Ci sono 5.000 prigionieri totalmente isolati dal mondo esterno.”

La portavoce del servizio carcerario israeliano ha fatto notare che le nuove regole sono state applicate in tutte le prigioni israeliane, indipendentemente dalle ragioni per cui i prigionieri vi sono reclusi.

Mantenerli in salute, tenere lontano il coronavirus, ora questo è il nostro unico obiettivo,” afferma. “Si spera che in breve tempo, quando ciò sarà finito, le cose torneranno come prima. Mantenerli in salute è nel nostro interesse più di qualunque altra cosa.”

La portavoce sostiene che le prigioni hanno fornito informazioni a tutti i detenuti in varie lingue, compreso l’arabo, ed hanno disinfettato le loro strutture. Stanno anche seguendo le direttive del ministero della Sanità di incrementare i turni di lavoro del personale carcerario fino a 96 ore, in modo che possano ridurre gli spostamenti dentro e fuori le prigioni.

Finora non abbiamo alcun prigioniero con il coronavirus, e speriamo che così continui ad essere fino alla fine della crisi,” afferma. “Non sappiamo se sia possibile, ma stiamo facendo del nostro meglio.”

Eppure, dice Francis di Addameer, ci sono preoccupazioni per la salute dei prigionieri palestinesi a causa delle loro condizioni di sovraffollamento. I prigionieri hanno anche raccontato che non gli è stato fornito alcun materiale sanitario speciale e che non è stata presa nessun’altra precauzione da parte delle autorità carcerarie.

Il 26 marzo Addameer, insieme ad Adalah – il Centro Giuridico per i Diritti delle Minoranze in Israele – e l’avvocato Abeer Baker hanno chiesto a nome del detenuto Kafri Mansour alla Corte Suprema israeliana di annullare le direttive d’emergenza nelle prigioni.

Pur riconoscendo la necessità di proteggere la salute dei reclusi, il ricorso sostiene che il governo israeliano non ha l’autorità giuridica di imporre il divieto alle visite di avvocati e familiari, che “violano in modo pesante e sproporzionato i diritti dei prigionieri”, in particolare dei minorenni. I ricorrenti accusano anche il fatto che le restrizioni impediscono anche ai prigionieri di riferire di qualunque violazione dei diritti nella prigione.

Il ricorso descrive anche come una conversazione tra l’avvocato Abeer Baker e un prigioniero sia stata trasmessa da altoparlanti in presenza delle guardie della prigione e di altri detenuti, violando la riservatezza tra avvocato e cliente.

Le sfide che questo stato d’emergenza pone alle autorità israeliane non possono consentire loro di passare sopra fondamentali diritti umani,” afferma l’avvocato di Adalah Aiah Haj Odeh. “Le leggi internazionali impongono che Israele debba riconoscere il diritto dei prigionieri e dei detenuti alle visite con i familiari, a consultarsi con gli avvocati e a rivolgersi ai tribunali.”

Arrestano come al solito i minorenni, come se non ci fosse il virus”

Nel contempo nel villaggio di Issawiya, a Gerusalemme est, gli abitanti affermano di aver sperato che l’attenzione sulla pandemia riducesse le incursioni e i pattugliamenti della polizia israeliana messi in atto in modo aggressivo nei loro quartieri dalla scorsa estate.

Invece, sostengono, tali azioni sono continuate. Blocchi stradali della polizia stanno ancora provocando lunghi ingorghi del traffico; scontri con i giovani comportano l’uso di lacrimogeni, granate assordanti e proiettili ricoperti di gomma, e vengono effettuati arresti nella totale inosservanza delle norme del governo sul coronavirus, mettendo in pericolo gli abitanti palestinesi.

Pensavamo che il coronavirus avrebbe contribuito a fermare le cose, ma non è cambiato niente,” dice Muhammad Abu Hummus, un attivista politico di Issawiya. “Al solito, arrestano minorenni come se non ci fosse nessun virus. Ogni giorno (la polizia) va in giro senza mascherine e senza guanti. Altrove forse aiutano la gente, ma a Issawiya portano solo lacrimogeni e balagan (disordine o confusione).”

Il portavoce della polizia Micky Rosenfeld sostiene che la presenza della polizia nel villaggio fa parte del normale pattugliamento in tutti i quartieri di Gerusalemme intrapreso specificamente nel contesto dell’epidemia di coronavirus, inteso a garantire che gli abitanti rimangano in casa.

Non vengono effettuate incursioni, solo normali attività di polizia,” dice. “Se gli abitanti vogliono protestare e fare ritorsioni contro la polizia israeliana è un loro problema. La polizia sta pattugliando tutti i quartieri e mettendo in atto le nuove norme per tenere per quanto possibile le persone al sicuro in casa, per il loro stesso bene e la loro salute.”

Tuttavia in un rapporto del 19 marzo l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha chiesto perché la polizia abbia scelto questo momento per incrementare quella che descrive come una punizione collettiva degli abitanti del villaggio, nonostante “una crisi senza precedenti che richiede…misure estreme di isolamento sociale.”

La presenza della polizia nel villaggio provoca scontri, dice B’Tselem, che sono già abbastanza problematici durante periodi normali, ma ancor più durante la pandemia, quando riunirsi in gruppo può diffondere il virus.

La violenza della polizia contro i palestinesi a (Issawiya), ormai una caratteristica nella vita del quartiere, è illegale e non può essere giustificata neppure come usuale routine dell’occupazione,” dice B’Tselem nel suo rapporto. “La condotta della polizia danneggia la sicurezza pubblica (compresa la salute dei poliziotti) e viola le linee guida sanitarie sull’isolamento sociale.”

B’Tselem aggiunge: “Il fatto che le autorità israeliane siano indifferenti alla vita degli abitanti (di Issawiya), compresi bambini ed adolescenti, non è affatto una novità. Eppure continuare e persino accentuare simile comportamento durante una pandemia è una manifestazione particolarmente vergognosa di questa politica.”

Un altro attivista del villaggio, che ha chiesto di rimanere anonimo per la sua sicurezza personale, ha detto a +972 di aver dovuto portare urgentemente la scorsa settimana sua figlia di sette mesi all’ambulatorio medico del villaggio dopo che la polizia durante uno scontro con giovani palestinesi ha utilizzato lacrimogeni che sono penetrati in casa sua.

La situazione è terribile,” afferma. “Ovviamente ho paura. Perché mettermi in una situazione per cui devo portare mia figlia all’ambulatorio in tempi di coronavirus?”

Judith Sudilovsky è una giornalista indipendente che da 25 anni si occupa di Israele e dei Territori Palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




‘Una grandissima e tempestiva vittoria per il BDS: Microsoft disinveste da AnyVision, l’azienda israeliana di riconoscimento facciale

Michael Arria 

30 marzo 2020  Mondoweiss

Microsoft ha annunciato che sta disinvestendo la propria quota in AnyVision, la società israeliana di riconoscimento facciale. La decisione fa seguito a un controllo imposto da una campagna del BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndtr.] che l‘aveva presa di mira. Gli attivisti dicono che la tecnologia di riconoscimento facciale di AnyVisionè usata per sorvegliare i palestinesi in Cisgiordania.

Dopo che il giugno scorso Microsoft aveva investito nell’azienda, NBC News [canale televisivo USA di notizie, ndtr.] aveva riferito che AnyVision “gestiva un progetto segreto di sorveglianza militare” in Palestina. “Il riconoscimento facciale è probabilmente il mezzo migliore per un completo controllo governativo degli spazi pubblici e quindi dobbiamo trattarlo con estrema cautela” aveva detto all’epoca Shankar Narayan di ACLU [American Civil Liberties Union, Ong per la difesa dei diritti civili e delle libertà individuali negli Stati Uniti, ndtr.]. Quando NBC ha contattato Eylon Etshtein, l’AD di AnyVision, per il servizio, ha negato di essere a conoscenza del progetto, sottolineando che la Cisgiordania non è occupata e insinuando che il reportage fosse finanziato da un gruppo di attivisti palestinesi.

Durante l’estate del 2019, Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, associazione ebraica USA contraria antisionista, ndtr.] ha lanciato la campagna #DropAnyVision, chiedendo a Microsoft di abbandonare l’azienda. Quest’anno si sono uniti i gruppi MPower Change [organizzazione in rete di musulmani statunitensi, ndtr.] e SumofUs [Ong USA che promuove campagne di sensibilizzazione e responsabilizzazione su vari temi, ndtr.] per lanciare una petizione. Oltre 75.000 persone l’hanno firmata ed è stata consegnata nella sede dell’azienda da militanti e dipendenti della Microsoft.

A novembre 2019, Microsoft aveva assunto Eric Holder, l’ex Procuratore Generale degli Stati Uniti (e il suo team dello studio legale internazionale Covington & Burling) per condurre un’indagine indipendente sulla AnyVision per determinare se le pratiche della ditta fossero in linea con i principi etici di Microsoft. Si era concluso che la tecnologia era usata nei posti di blocco dei varchi di frontiera, ma che la compagnia “al momento non gestiva quel programma di sorveglianza di massa in Cisgiordania di cui si parlava nei reportage dei media.”

Ciononostante, Microsoft ha deciso di separarsi da AnyVision. “Dopo un’attenta analisi, Microsoft e AnyVision hanno deciso che è nell’interesse di entrambe che Microsoft disinvesta la propria quota in AnyVision”, ha affermato in un comunicato. “L’audit ha confermato la difficoltà per Microsoft di essere un investitore di minoranza in una ditta che vende tecnologia sensibile, dato che tali investimenti generalmente non permettono il livello di supervisione o controllo che Microsoft esercita sull’uso delle proprie tecnologie.”

La decisione di Microsoft di lasciare AnyVision è un bruttissimo colpo per questa startup israeliana profondamente implicata [nella repressione israeliana] e un successo per la grandiosa campagna del BDS guidata da Jewish Voice for Peace” ha detto in un comunicato Omar Barghouti, il co-fondatore di BDS. “Grazie alla complicità di molte corporazioni come AnyVision e nonostante la minaccia del coronavirus, i crimini di guerra di Israele contro i palestinesi continuano e quindi non possono che continuare anche la nostra resistenza e la nostra lotta per libertà, giustizia e uguaglianza.”

La decisione di Microsoft di accogliere la richiesta della campagna e abbandonare AnyVision, l’azienda israeliana di sorveglianza, è una grandissima e tempestiva vittoria per il BDS” ha twittato l’account ufficiale del Comitato Nazionale del BDS palestinese (BNC).

La decisione di Microsoft di disinvestire da AnyVision è una vittoria importante dei militanti per la giustizia tecnologica e per la comunità internazionale solidale con i palestinesi.”, ha detto Lau Barrios, manager della campagna MPower Change. Questa decisione di Microsoft, leader globale del settore del software, rafforza la nostra convinzione che non ci si possa fidare di governo, polizia e forze armate e del loro uso della sorveglianza tecnologica come quella del riconoscimento facciale che è sempre di più utilizzata negli USA e in tutto il mondo per monitorare, sorvegliare e criminalizzare ulteriormente neri, immigrati, palestinesi e comunità musulmane.”

Michael Arria

Michael Arria è il corrispondente di Mondoweiss dagli Stati Uniti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Celebrare la Giornata della Terra nella Palestina del blocco

Yara Hawari

30 marzo 2020 Al Jazeera

Israele sta approfittando della crisi COVID-19 per impadronirsi di più terra palestinese, ma i palestinesi resisteranno

Quarantaquattro anni fa ad oggi, la polizia israeliana uccise sei cittadini palestinesi israeliani mentre protestavano contro l’espropriazione da parte del governo israeliano di migliaia di acri di terra palestinese in Galilea. Da allora, il 30 marzo è riconosciuto come La Giornata della Terra ed è una data importante nel calendario politico palestinese.

Quest’anno i palestinesi celebreranno la Giornata della Terra a casa, nel pieno della pandemia di COVID-19 che ha messo gran parte delle popolazioni del mondo in isolamento e coprifuoco. Essere confinati in casa e in villaggi e città non è un’esperienza nuova per i palestinesi, forse è per questo che in così tanti gestiscono la cosa senza problemi.

In effetti, i palestinesi in Cisgiordania sono confinati in quel che rimane di bantustan collegati tra loro solo da strade controllate dal regime israeliano, mentre i loro fratelli e sorelle a Gaza vivono in una prigione a cielo aperto ritenuta “invivibile” dalle Nazioni Unite. La maggior parte dei palestinesi che vivono al di là della “Linea verde” hanno la cittadinanza israeliana ma vivono in ghetti urbani e rurali.

Inoltre i palestinesi sono separati dai loro fratelli e sorelle arabi, poiché a molti di loro è impedito di viaggiare nel mondo arabo sia perché i loro documenti non consentono di farlo (nel caso di palestinesi con cittadinanza israeliana) sia perché sono soggetti a divieti di viaggio.

Come parte della risposta al COVID-19, il regime israeliano ha imposto ulteriori misure che limitano i movimenti ai palestinesi. La città di Betlemme è stata messa in sicurezza, e i varchi verso Gaza e la Cisgiordania sono stati chiusi. Ai lavoratori palestinesi che lavorano in Israele è anche stato detto di restare per un periodo di tempo indefinito in sistemazioni scadenti e poco igieniche o di rinunciare al lavoro e rimanere in Cisgiordania.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha imposto un coprifuoco e istituito checkpoint tra villaggi e città per limitare il movimento delle persone. Le aziende sono state chiuse, ad eccezione di supermercati e farmacie.

Nel frattempo, Israele continua le sue pratiche di rimozione dei palestinesi dalla loro terra, sfruttando persino l’isolamento dovuto alla pandemia per farlo. A Gerusalemme, dove c’è uno sforzo concertato per ebraicizzare i quartieri e ridurre il numero di abitanti palestinesi, le demolizioni di case palestinesi continuano nonostante l’epidemia. Per giustificare la loro demolizione, il regime israeliano afferma che quegli edifici sono illegali, ma ai palestinesi vengono costantemente negati i permessi di costruzione.

Le demolizioni sono usate anche come metodo di punizione collettiva per le famiglie dei prigionieri politici palestinesi, in particolare in Cisgiordania. Nel mezzo dell’attuale pandemia, questa continua e crudele pratica rende assurdi gli appelli delle autorità israeliane a “rimanere a casa”.

Allo stesso modo, la costruzione di insediamenti illegali in Cisgiordania non si è fermata e si teme che in queste circostanze l’annessione de jure di molte aree sarà anche più veloce, specialmente visto che Benjamin Netanyahu è di nuovo nella posizione di guidare il prossimo governo.

Già la scorsa settimana ci sono stati tre episodi in cui gli insediamenti israeliani illegali hanno raso al suolo il territorio palestinese e c’è stato un aumento generale degli attacchi contro le proprietà palestinesi.

All’inizio di questo mese, i palestinesi del villaggio di Beita vicino a Nablus hanno organizzato un sit-in per cercare di proteggere la loro terra dai furti dei coloni. Le forze di sicurezza israeliane sono arrivate al gran completo per difendere i coloni e nel corso degli eventi hanno sparato alla testa il quindicenne Mohammed Hammayel, uccidendolo all’istante.

Molti abitanti della Palestina storica sono preoccupati che Israele userà l’epidemia COVID-19 come scusa per mantenere le nuove misure restrittive anche quando la pandemia sarà finita e anche che impedirà ai palestinesi di opporsi al furto di terra. In un momento in cui il mondo si concentra esclusivamente sulla pandemia e il regime israeliano ha il pieno sostegno dell’amministrazione americana per fare ciò che vuole, un aggressivo espansionismo israeliano sembra inevitabile.

Eppure, nel corso dei decenni, i palestinesi hanno mostrato una forza, un coraggio e un sumud (determinazione) incredibili di fronte a grandi avversità. Se l’espansionismo di insediamento dei coloni israeliani non si ferma, non cessa nemmeno la perseveranza palestinese. Come scrisse il poeta palestinese Tawfiq Ziyad:

A Lidda, a Ramla, in Galilea,

resteremo

come un muro sul vostro petto,

e nelle vostre gole

come un frammento di vetro,

una spina di cactus,

e nei vostri occhi

una tempesta di sabbia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è borsista esperta di politica palestinese per Al-Shabaka, rete politica palestinese.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un noto chirurgo britannico afferma che alcuni feriti nelle manifestazioni del 2018 a Gaza non sono ancora stati curati

Peter Oborne e Jan-Peter Westad

30 marzo 2020 – Middle East Eye

Terence English parla con MEE del coronavirus, del disinteresse di Israele e dei fallimenti della politica britannica a Gaza

Terence English è un celebre chirurgo britannico. Nel 1979 ha eseguito il primo trapianto di cuore riuscito nel Regno Unito.

Ha ricoperto la carica di presidente del Royal College of Surgeons e della British Medical Association, nonché di rettore del St Catharine’s College di Cambridge. Nel 1991 ha avuto un riconoscimento per i suoi successi chirurgici con la nomina a cavaliere.

Così, quando si è ritirato 20 anni fa con molte onorificenze avrebbe avuto tutto il diritto di riposarsi e di dedicarsi al giardinaggio nella sua casa di Oxford. Invece Terence English è andato a Gaza.

Dapprima si è dedicato alla creazione di programmi di formazione dei medici palestinesi negli interventi di primo soccorso. Quindi lui e suoi colleghi chirurghi hanno contribuito alla realizzazione di vari progetti sanitari e alla formazione dei medici locali.

Uno dei progetti più importanti ha aiutato centinaia di persone bisognose di complessi interventi di ricostruzione degli arti.

Molti di questi pazienti erano adolescenti e giovani colpiti alle gambe dalle forze di sicurezza israeliane mentre prendevano parte alle proteste della Grande Marcia del Ritorno nei pressi della barriera perimetrale che circonda i due milioni di abitanti di Gaza.

Nel corso dei mesi di proteste settimanali almeno 190 persone sono state uccise da colpi d’arma da fuoco, di cui almeno 68 il 14 maggio 2018, quando a Gaza migliaia di persone hanno protestato contro l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme.

Nel secondo anniversario dell’inizio di quelle proteste, e con la situazione a Gaza più disperata che mai e complicata dalla diffusione della pandemia da coronavirus, English, ora 87enne, ha deciso per la prima volta di parlare.

Il chirurgo britannico ha una buona rete di contatti, tanto da aver avuto negli ultimi anni la possibilità di esprimere in privato le sue preoccupazioni con importanti ministri del governo britannico. Eppure, dice, i suoi sforzi non hanno dato alcun risultato.

“Gaza ora si trova in una grave crisi umanitaria”, dice English al Middle East Eye.

Le marce a Gaza sono iniziate il 30 marzo 2018, quando Ahmed Abu Artema, un giornalista palestinese, ha invitato i rifugiati palestinesi a radunarsi pacificamente vicino alla recinzione per chiedere il diritto di tornare nelle terre da cui furono costretti a fuggire o furono espulsi durante gli eventi che portarono alla creazione di Israele nel 1948.

La risposta israeliana è stata violenta. “Quando sono iniziate le proteste presso la recinzione c’è stato un numero enorme di feriti”, ricorda English.

“Adolescenti e giovani hanno avuto il ginocchio trapassato dai colpi dei cecchini israeliani dall’altra parte della barriera, che hanno utilizzato proiettili ad alta velocità”.

Egli descrive le orribili ferite caratterizzate da ossa e tessuti maciullati. Altri sono stati uccisi.

Israele ha sostenuto che stesse proteggendo la recinzione da manifestanti e attivisti violenti. English dice che le persone che ha curato erano manifestanti arrabbiati ma pacifici.

“Si immaginava – afferma – che le manifestazioni si svolgessero in tutta la Cisgiordania e a Gaza in segno di protesta per il diritto al ritorno, un bisogno particolarmente forte a Gaza”.

“Ora un numero enorme di palestinesi sono stati resi disabili”.

Per coloro che vengono operati con successo, possono essere necessari fino a sei mesi prima che possano camminare di nuovo, e c’è una lunga lista di attesa.

Ma molti non sono così fortunati. “Ci sono stati altri casi in cui l’unico modo per evitare mesi di sofferenza è stato eseguire un’amputazione”, dice English.

È difficile sapere con precisione quanti abbiano ancora bisogno di un intervento chirurgico, ma si stima che 500 di queste complesse operazioni siano state eseguite, con altre 700 persone ancora in attesa di cure.

Questo è comunque un risultato straordinario, date le condizioni dei servizi sanitari a Gaza.

Dice English: “Il primo problema è il blocco, che rende difficile garantire le risorse mediche necessarie. L’altro problema è che il conflitto ha distrutto gran parte delle infrastrutture. I generatori ospedalieri non sono affidabili, gran parte dell’acqua non è potabile e le scorte sanitarie sono scarse.”

English ricorda di aver chiesto alcuni anni fa al dottor Yousef Abu Reesh, viceministro della sanità di Gaza, quali fossero le gravi carenze da superare nella fornitura di assistenza sanitaria. Reesh rise e rispose: “Tutto!”

Il blocco israeliano di Gaza è in atto da quando Hamas ha assunto il controllo nel 2007, dopo aver vinto le elezioni legislative e poi estromesso dall’enclave costiera [l’organizzazione] Fatah del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, a seguito di violenti scontri tra le fazioni rivali.

Ora English ritiene che la minaccia del coronavirus, con una serie di casi già segnalati sul territorio, renda ancora più urgente la necessità di revocare il blocco.

“Densamente popolato in una stretta striscia di terra e con un servizio sanitario già sottoposto a uno sforzo enorme, si teme che il virus sarebbe impossibile da controllare e avrebbe effetti catastrofici”, afferma.

La gente di Gaza è molto più vulnerabile. Vivono in condizioni di sovraffollamento e non hanno nessuna possibilità di auto-isolarsi in modo efficace.”

English ritiene che il governo britannico abbia l’obbligo di fare di più per i palestinesi, a causa della sua storica responsabilità per la Dichiarazione Balfour del 1917, in cui si impegnò a sostenere la creazione di un focolare ebraico in Palestina.

“L’ultima frase della Dichiarazione Balfour chiarisce che fornire un focolare nazionale agli ebrei in Palestina non dovrebbe ‘pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina’. Questo chiaramente non è quello che è successo.

“Sono rattristato del fatto che la Gran Bretagna non abbia fatto di più per onorare le proprie responsabilità nei confronti dei palestinesi”.

Il suo messaggio è chiaro: “Dobbiamo fare pressione sui nostri parlamentari affinché sostengano il popolo di Gaza. La Gran Bretagna deve assumersi le sue responsabilità”.

Un modo in cui English crede che il governo britannico possa offrire un aiuto è quello di discutere con Hamas, con l’obiettivo finale di ricostruire una leadership unita in grado di rappresentare tutti i palestinesi in negoziati sostenuti a livello internazionale con Israele.

“È nell’interesse di entrambi i popoli e nel nostro interrompere il ciclo di conflitti e sofferenze a cui abbiamo assistito negli ultimi 50 anni”, sostiene il chirurgo.

Una tale mossa richiederebbe un coraggio diplomatico e politico, dal momento che dal 2001 nel Regno Unito l’ala militare di Hamas è considerata un’organizzazione terroristica messa al bando.

Il governo britannico descrive la sua politica nei confronti della Palestina l’istituzione di “una pace giusta tra uno Stato palestinese democratico stabile e Israele, sulla base sui confini del 1967, che ponga fine all’occupazione di comune accordo”.

Ma English teme che una tale politica rischi di essere superata dagli eventi, in quanto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, incoraggiato dal sostegno del presidente degli Stati Uniti Donald Trump e con macchinazioni politiche interne che sembrano destinate a tenerlo in carica, minaccia di indebolire ulteriormente le prospettive di un accordo futuro sensato, lasciando ancora una volta i palestinesi nella sofferenza.

“I servizi sanitari dipendono inevitabilmente dalla politica”, dice English.

“Con Trump in carica, Netanyahu crede di poter fare né più né meno ciò che vuole e con lui al potere potrebbe mirare ad annettere ciò che resta della Cisgiordania.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




B’Tselem: “Durante la crisi del coronavirus Israele confisca tende destinate a una clinica nel nord della Cisigordania

27 marzo 2020 – International Middle East Media Center

Il Centro Israeliano di Informazione per i Diritti Umani nei Territori Occupati (B’Tselem): Comunità che devono affrontare l’espulsione. Giovedì 26 marzo verso le 7,30 funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana in Cisgiordania sono arrivati con la scorta di una jeep militare, un bulldozer e due autocarri a pianale con gru nella comunità palestinese di Khirbet Ibziq, nel nord della Valle del Giordano.

Hanno confiscato pali e teli che destinati all’installazione di otto tende, due per un ospedale da campo, quattro per abitazioni d’emergenza per abitanti evacuati dalle loro case e due come moschee di fortuna.

La polizia ha anche confiscato una baracca di lamiera che si trovava sul posto da più di due anni, così come un generatore e sacchi di sabbia e di cemento. Sono stati portati via quattro bancali di mattoni di cemento per pavimentare le tende e altri quattro sono stati demoliti.

Mentre tutto il mondo lotta contro una crisi senza precedenti che paralizza il sistema sanitario, l’esercito israeliano dedica tempo e risorse ad angariare le comunità palestinesi più vulnerabili in Cisgiordania, che per decenni Israele ha cercato di cacciare dalla zona.

Impedire un’iniziativa comunitaria di primo soccorso durante una crisi sanitaria è un esempio particolarmente crudele dei costanti soprusi inflitti a queste comunità, e va contro principi umani e umanitari basilari durante un’emergenza. A differenza delle politiche di Israele, questa pandemia non discrimina in base alla nazionalità, all’etnia o alla religione.

È giunto il momento che il governo e l’esercito riconoscano che ora più che mai Israele è responsabile della salute e del benessere dei cinque milioni di palestinesi che vivono sotto il suo controllo nei Territori Occupati.

Oltre alla sconvolgente distruzione dell’ospedale in costruzione, l’Amministrazione Civile sta continuando la sua solita opera di demolizione. Oggi nel villaggio di ‘Ein a-Duyuk a-Tahta, ad est di Gerico, ha distrutto tre case stagionali di contadini che risiedono a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Coronavirus: ai lavoratori palestinesi viene ordinato di lasciare Israele a causa del cattivo trattamento

 

Akram Al-Waara – Betlemme, Cisgiordania occupata

giovedì 26 marzo 2020 – Middle East Eye 

L’Autorità Nazionale Palestinese chiede a tutti i suoi cittadini di rientrare a casa in quanto Israele è accusato di “mettere a rischio la loro salute”

I lavoratori palestinesi lasciano Israele dopo l’indignazione suscitata da diversi casi di operai malati cacciati dai loro datori di lavoro israeliani.

Effettivamente negli ultimi giorni parecchi operai palestinesi che lavoravano in Israele sono stati scaricati ai checkpoint tra Israele e il nord della Cisgiordania dopo aver presentato sintomi di COVID-19.

All’inizio di questa settimana le immagini video di un lavoratore malato e indebolito, steso a terra per ore davanti a un checkpoint della regione di Ramallah dopo esservi stato abbandonato dalle autorità israeliane, sono diventate virali, mettendo in discussione il trattamento riservato da Israele ai lavoratori palestinesi.

Oggi l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ordina a tutti i suoi cittadini che lavorano in Israele di tornare in Cisgiordania e di entrare in quarantena obbligatoria di 14 giorni, a pena di sanzioni non precisate da parte del governo.

Tenuto conto degli sviluppi gravi e continuati in Israele e delle restrizioni previste in materia di spostamenti, chiediamo a tutti i lavoratori palestinesi di rientrare a casa allo scopo di proteggerli e preservare la loro sicurezza”, ha dichiarato martedì il Primo Ministro dell’ANP Mohammad Shtayyeh in un comunicato.

Giovedì scorso Shtayyeh aveva annunciato che i palestinesi erano ormai sottoposti anche al divieto di lavorare nelle colonie israeliane illegali nel territorio occupato.

Questa decisione è intervenuta solo qualche giorno dopo che migliaia di lavoratori si erano precipitati in Israele in seguito alla promessa che si sarebbe dato loro un adeguato alloggio da parte dei loro datori di lavoro israeliani e sarebbero stati autorizzati a rimanere anche di notte in Israele, in modo da evitare la propagazione del virus in Cisgiordania – un’opportunità per innumerevoli lavoratori di provvedere alle necessità della propria famiglia in un contesto di incremento della disoccupazione durante la pandemia.

Sistema inquietante

Negli ultimi giorni sono stati registrati almeno quattro incidenti che hanno coinvolto operai palestinesi abbandonati ai posti di controllo dalle forze israeliane.

Lunedì Ibrahim Abu Safiya, del villaggio di Beit Sira, nella regione di Ramallah, ha raccontato a Middle East Eye di aver visto un operaio palestinese, in seguito identificato come Malek Jayousi, steso a terra davanti al locale checkpoint con febbre alta e difficoltà respiratorie.

Abu Safiya ha detto che la sera prima anche un altro operaio, del campo profughi di Jalazone nel governatorato di Ramallah, si era presentato al posto di controllo di Beit Sira con febbre alta, dopo che il suo datore di lavoro gli aveva tolto il lavoro in Israele.

L’uomo, che si sarebbe visto rifiutare le cure mediche in Israele, è arrivato da solo al checkpoint in taxi, prima di essere trasferito a Ramallah in ambulanza.

Martedì sera i media palestinesi hanno riferito che tre operai erano stati abbandonati dalle autorità israeliane ad un posto di controllo vicino a Tulkarem ed un altro davanti al posto di controllo di Jbara, vicino a Hizma, nella Cisgiordania centrale.

Le informazioni precisano che parecchi degli operai erano sintomatici, con febbre alta, a volte più di 40 gradi. Tutti i lavoratori sarebbero stati sottoposti a test per coronavirus da parte di medici locali e posti in isolamento.

Il portavoce dell’ANP, Ibrahim Melhem, ha condannato il trattamento israeliano “razzista e disumano” dei lavoratori palestinesi.

Se dovete lavorare per guadagnarvi da vivere, allora che sia con dignità e non in questo modo degradante”, ha affermato in un comunicato rivolto alle migliaia di operai palestinesi che lavorano in Israele.

Ribal Kurdi, un attivista di Betlemme di 29 anni, ha dichiarato a MEE di essere rimasto sconvolto e indignato vedendo come i lavoratori che presentavano sintomi della malattia venivano trattati dalle autorità e dai datori di lavoro israeliani.

Israele voleva che i lavoratori venissero nel Paese a lavorare”, ricorda Kurdi. “Ma (gli israeliani) non vogliono più farsene carico quando i lavoratori si ammalano”.

L’occupazione israeliana dovrebbe essere responsabile della vita dei lavoratori palestinesi”, sostiene.

I datori di lavoro non ci hanno dato niente” 

Secondo le associazioni di difesa dei diritti umani, la decisione presa la scorsa settimana di autorizzare i lavoratori a rimanere in Israele anche di notte – contrariamente alla usuale politica di Israele in materia di permessi di lavoro – per un periodo prolungato, allo scopo di evitare una nuova diffusione del COVID-19, era viziata fin dall’inizio.

Kav LaOved, un’associazione israeliana di difesa dei diritti dei lavoratori, ha dichiarato in un comunicato pubblicato su Facebook il 18 marzo che “purtroppo la maggioranza degli interlocutori israeliani non ha rispettato gli impegni presi riguardo all’offerta di una sistemazione adeguata e sicura ai lavoratori”.

Insieme a fotografie di centinaia di operai bloccati a un checkpoint non identificato, l’associazione ha anche affermato che non era stata presa alcuna misura per “assicurare una protezione sanitaria nel caso in cui un lavoratore fosse esposto” al coronavirus.

Secondo Kav LaOved circa 60.000 palestinesi lavorano in Israele, soprattutto nell’edilizia e in agricoltura. Si stima che altri 30.000 lavorino nelle colonie israeliane in Cisgiordania.

Kav LaOved, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI) e Medici per i Diritti Umani hanno preteso che il governo israeliano – in particolare il Ministro della Difesa Naftali Bennett, che aveva approvato l’ingresso dei lavoratori – tuteli i diritti dei lavoratori palestinesi durante la pandemia.

Abbiamo contattato i Ministeri del Lavoro, della Sicurezza e della Sanità per esigere che il governo verifichi il lavoro di questi lavoratori ed il loro soggiorno qui, e protegga i loro diritti. Abbiamo chiesto specificamente alloggi accettabili e assistenza sanitaria”, ha dichiarato un portavoce dell’ACRI a MEE.

Ma finora gli sforzi di queste ONG sono stati vani.

A., un lavoratore che ha trascorso parecchie notti in Israele, ha confidato a MEE in forma anonima che lui ed i suoi colleghi sono stati costretti a dormire su dei cartoni nel cantiere edile dove lavoravano e non hanno ricevuto nessuna protezione igienica come guanti, mascherine o disinfettante per le mani.

È molto diverso da quello che ci avevano detto”, lamenta. “I nostri datori di lavoro non ci hanno dato niente e se ti ammali ti mandano via senza la minima cura”.

Mercoledì il numero dei casi di coronavirus accertati in Palestina è arrivato a 62 – contro gli oltre 2.100 casi confermati in Israele.

Wafa, l’agenzia di stampa ufficiale dell’ANP, ha riferito che uno dei nuovi casi confermati, una donna sulla sessantina del villaggio di Biddu, vicino a Ramallah, “potrebbe aver contratto la malattia dai suoi figli che lavorano in Israele”.

Ribal Kurdi ha insistito sul fatto che non è stata colpa degli operai che andavano a lavorare in Israele. “Hanno dovuto scegliere tra mantenere la propria famiglia o ammalarsi. È una situazione spaventosa”, ha dichiarato l’attivista. In fin dei conti, secondo lui, “è l’occupazione israeliana ad essere responsabile di mettere a rischio la salute di tutta la Cisgiordania”.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Trattenendo il respiro a Betlemme mentre la primavera ci passa accanto

Yumna Patel  

24 marzo 2020 – Mondoweiss

È difficile resistere al richiamo della primavera palestinese, che mi attrae alla finestra con raggi di sole, una fresca brezza e gli uccelli che cinguettano.

La fine di marzo e l’inizio di aprile sono spesso visti come la stagione più bella in Palestina.

Sui mandorli fioriscono i pallidi fiori rosa e le foglie verde scuro dei fichi iniziano a svettare dopo un inverno particolarmente freddo.

È un periodo in cui la maggior parte dei palestinesi di Betlemme si radunerebbe con la famiglia e gli amici e si dirigerebbe sulla cima delle colline di Beit Jala, i ventosi sentieri della valle al- Makhrour e gli antichi terrazzamenti di Battir.

Ma quest’anno gli abitanti della piccola città di Betlemme rimpiangono il passaggio della primavera in quarantena, mentre il blocco totale della città entra nella sua quarta settimana.

Il piccolo assaggio della primavera che possono ritrovare dovrà essere assaporato da dentro le loro case, da un balcone o, se sono fortunati, in un giardino di famiglia.

Il numero di casi di coronavirus in Palestina ha raggiunto i 60 – 58 nella Cisgiordania occupata e 2 nella Striscia di Gaza.

La grande maggioranza dei casi, circa 40, rimane a Betlemme, l’epicentro dell’epidemia in Palestina.

La scorsa settimana abbiamo ricevuto qualche buona notizia molto attesa, quando il ministero della Salute ha annunciato che 17 dei primi pazienti di COVID-19 di Betlemme sono convalescenti.

In seguito ci è stato detto che uno dei 17 a quanto pare ha avuto una ricaduta ed è risultato positivo al virus dopo essere stato dimesso. Un piccolo incidente di percorso. La cosa importante è stata che pare che siamo riusciti con successo ad “appiattire la curva” [dei contagi].

È stato sorprendente vedere una società così profondamente caratterizzata da legami comunitari e da interazioni sociali, praticare così bene il concetto di distanziamento sociale.

A Betlemme per lo più la gente ha seguito gli ordini del governo di stare a casa, uscendo solo per ragioni indispensabili, come andare dal dottore o comprare alimenti.

Le attività economiche sono rimaste chiuse, la polizia ha incrementato i posti di blocco attorno alla città ed è stato imposto e, per quanto ne sappiamo, rispettato il coprifuoco dalle 7 del mattino alle 7 di sera.

Mentre le moschee e le chiese una volta affollate sono vuote, il richiamo musulmano alla preghiera risuona ancora in città – solo che ora con una piccola modifica. Invece di chiamare la gente a radunarsi nella moschea per pregare, ai fedeli viene detto di starsene a casa.

Ogni due o tre giorni lavoratori della difesa civile o delle amministrazioni locali vengono a disinfettare diversi quartieri in tutta la città e il ministero della Salute fornisce alla gente dati significativi sulla diffusione del virus.

A Betlemme si spera che le rigide misure di contenimento che sono state attuate quando tre settimane fa il primo test è risultato positivo faranno in modo che la città possa essere liberata del virus prima del resto del Paese.

Questa speranza tuttavia non annulla il vero timore che circonda il fatto che il virus si stia diffondendo in altri luoghi della Cisgiordania: finora Hebron, Ramallah, Nablus e Tulkarem.

Saranno in grado le autorità di questi altri governatorati, alcuni dei quali sono grandi il doppio o il triplo di Betlemme, di mettere in atto le stesse misure di contenimento che hanno preso quelle di Betlemme?

I cittadini palestinesi che stavano vivendo e studiando all’estero stanno lentamente ritornando nel Paese, suscitando timori che in questo modo il virus si possa diffondere.

Martedì il governo ha annunciato che una donna palestinese che recentemente era tornata dagli USA è risultata positiva al test per il virus ed è stata messa in quarantena a Ramallah.

Sette studenti palestinesi che stavano studiando in Italia in coordinamento tra l’Autorità Nazionale Palestinese e il governo israeliano sono stati portati in Israele e sarebbero immediatamente stati messi in quarantena e testati per il virus.

E mentre la percezione generale dell’ANP durante questo periodo è prevalentemente positiva, l’efficienza della sua organizzazione recentemente è stata messa in dubbio dopo un video scioccante diffuso sulle reti sociali che ha mostrato un lavoratore palestinese gettato dalle forze israeliane dall’altra parte di un posto di blocco in Cisgiordania, dopo che l’uomo ha iniziato a manifestare sintomi del virus.

L’ANP ha promesso ai lavoratori e alle loro famiglie che da parte dei loro datori di lavoro [israeliani] gli sarebbero state fornite sistemazioni adeguate per il mese o due in cui saranno obbligati a rimanere in Israele, nel caso scelgano di andarvi a lavorare la scorsa settimana.

Ha anche promesso alla cittadinanza in generale che il ritorno di tutti i lavoratori sarà fatto in stretto coordinamento con il governo israeliano e che chiunque sarà immediatamente messo in quarantena al suo ritorno.

Ma se Israele continua a scaricare al di là del confine i lavoratori ogni volta che sono malati, senza avvertire in precedenza i funzionari dell’ANP, come potrebbe il governo gestire la situazione?

Per molti palestinesi la decisione del governo di consentire ai lavoratori di andare in Israele, dove i casi sono oltre i 1.000, è stato un grave errore e nelle prossime settimane potrebbe dimostrarsi una spina nel fianco dell’ANP, sia riguardo gli sforzi di contenimento e nei termini della salvaguardia dell’ordine pubblico.

In fin dei conti i palestinesi sono tutti consapevoli del fatto che il loro sistema sanitario non può affrontare neppure la più piccola epidemia, soprattutto a Gaza, dove ci sono solo 62 ventilatori in tutto il territorio, che ospita più di 2 milioni di abitanti.

Mentre stiamo per entrare nella quarta settimana di quarantena, le persone stanno trattenendo il respiro per vedere se, in qualche modo, riescono a evitare il disastro che sta dilagando in tutto il resto del mondo.

Yumna Patel è la corrispondente di Mondoweiss dalla Palestina.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Messaggio da Betlemme: un barlume di speranza dopo due settimane di blocco

Yumna Patel –

20 marzo 2020 https://mondoweiss.net/

Questo è il primo di una serie bisettimanale di articoli che saranno inviati dalla nostra corrispondente palestinese Yumna Patel che vive a Betlemme, epicentro dell’epidemia di coronavirus in Palestina. Mentre la crisi continua ad acuirsi, Yumna ci dà un quadro della vita quotidiana in città, delle emozioni della gente, dei pensieri e delle paure delle persone.

Le ultime due settimane sono state una girandola di emozioni per il popolo di Betlemme. Sono passati 15 giorni da quando è stato dichiarato lo stato di emergenza e la città è stata messa sotto chiave, dopo la conferma di quattro casi di coronavirus.

Da allora, il numero di persone in strada è costantemente diminuito, il numero di casi confermati ha continuato a salire, sebbene più lentamente rispetto al rapido peggioramento dall’altra parte del muro.

Inutile dire che le persone hanno paura. Non esiste una sola conversazione in cui “corona virus” non sia menzionato nei primi cinque secondi.

Ma, nonostante il blocco e le maggiori restrizioni ai movimenti in tutta la città, c’era un’aria di ottimismo. Nella maggior parte, le persone erano contente del grado di successo con cui l’ANP sembrava affrontare la situazione.

Con chiunque parlassi, sosteneva con orgoglio che la Palestina era il “secondo miglior Paese” dopo la Cina nell’affrontare e rispondere rapidamente al coronavirus. Dopo numerose ricerche su Google, devo ancora trovare conferma di questo.

Che fosse corretta o no, l’opinione espressa da questa voce ha chiaramente avuto un effetto positivo sulle persone.

Dopotutto, nel corso di due settimane abbiamo ancora meno di 50 casi confermati, rispetto ai 500 di Israele.

La maggior parte dei negozi è rimasta chiusa, ad eccezione dei mercati di generi alimentari, e le persone sono rimaste nelle loro case. Pur appartenendo ad una cultura profondamente radicata nei legami di socializzazione e di comunità, le persone hanno messo in pratica il “distanziamento sociale” relativamente bene.

Nonostante nella maggior parte della città – che vive di turismo e del lavoro in Israele – non si lavori, le persone hanno eseguito gli ordini del governo con poche resistenze.

Ma appena è sembrato che potessimo uscire da questo pasticcio prima di quanto ipotizzato, mercoledì sera è invece parso che le cose peggiorassero.

Betlemme e le città vicine, Beit Sahour e Beit Jala, sono state messe in totale isolamento. Ad eccezione di giornalisti, funzionari della sanità e della sicurezza e speciali casi umanitari, a nessuno sarebbe stato permesso di lasciare la propria casa. Chiunque fosse stato sorpreso a violare il blocco sarebbe stato passibile di una multa.

Chiunque fosse stato trovato a violare un autoisolamento o un ordine di quarantena, sarebbe stato multato fino a 1.000 dinari giordani [1.312 €].

Le misure più rigide sono arrivate quando si è scoperto che le persone sospette di avere il virus avevano ignorato l’ordine di quarantena e negli ultimi giorni si erano mosse in giro per la città.

Dopo la notizia del blocco, la città è arrivata al massimo affollamento da settimane, tutti ci siamo precipitati nei negozi per fare scorta di cibo e provviste, non sapendo quando saremmo stati in grado di farlo di nuovo.

Nel campo profughi in cui vivo, i volontari dei centri locali distribuivano sacchi di prodotti e altri generi di prima necessità alle famiglie con situazioni finanziarie particolarmente difficili.

Nonostante il panico, le scene sono state molto più civili di quelle che vedevamo negli Stati Uniti. Gli scaffali erano ben forniti, anche di carta igienica, e nessuno sembrava fare incetta. Le persone stavano comprando ciò di cui avevano bisogno.

Quando i vicini si incontravano, reprimevano la tentazione di stringersi la mano e scambiarsi il tradizionale bacio sulla guancia, optando invece per un sorriso e una mano sul cuore.

Mentre le persone riempivano i loro carrelli di cose essenziali come farina, olio, sale e vari prodotti per l’igiene, c’era un senso di frustrazione tra gli acquirenti: a causa della trascuratezza di alcune persone, l’intera città soffriva più di quanto non avessimo già sofferto.

Nei supermercati si sentivano chiacchiere sull'”egoismo” delle persone che violavano la quarantena e voci su quanto tempo sarebbe durato il nuovo blocco.

Ora più che mai le persone sembravano davvero capire e preoccuparsene quanto le loro azioni potessero influenzare la vita di chi li circonda.

Tutti quelli che conosco, me compresa, siamo rimasti incollati ai notiziari a tutte le ore del giorno e della notte. Non è facile cancellare il turbamento e l’ansia che ne derivano.

Vedere i sistemi sanitari di alcuni dei Paesi più ricchi del mondo sull’orlo del collasso rende ancora più difficile liberarsi del pensiero di cosa accadrebbe se l’epidemia si acuisse in un luogo come la Palestina.

Di certo ospedali già poco attrezzati e scarsamente finanziati non sarebbero in grado di sostenere nemmeno una parte di ciò che stanno affrontando Paesi come l’Italia. Se questo sforzo iniziale di contenimento fallisse, potrebbe portare al disastro per il sistema sanitario, l’economia e il popolo palestinesi.

Ma proprio quando i sentimenti di paura e frustrazione sembravano sopraffarci, venerdì abbiamo ricevuto qualche buona notizia.

Diciassette fra i primi pazienti infettati dal COVID-19, che erano stati messi in quarantena presso l’Angel Hotel di Beit Jala e il Paradise Hotel di Betlemme, sono ufficialmente in fase di recupero, riducendo il numero dei casi confermati a 31.

Video di pazienti sorridenti che agitano le mani mentre lasciano l’hotel sono stati fatti circolare sui social media, facendoci sorridere e restituendo un senso di speranza in città.

Sarà una lunga strada da percorrere, ma potremmo farcela.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)