Rapporto OCHA del periodo 4 – 17 febbraio 2020

Il 6 febbraio, in tre distinti attacchi e presunti attacchi palestinesi, due palestinesi sono stati uccisi e 14 soldati israeliani sono rimasti feriti

[segue dettaglio]. Nella Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese 45enne, cittadino israeliano, dopo aver aperto il fuoco ed aver ferito un agente di polizia di frontiera, è stato ucciso dalle forze di polizia israeliane. A Gerusalemme Ovest, un palestinese ha investito con la sua auto un gruppo di soldati israeliani, ferendone 12; l’uomo è stato successivamente arrestato al bivio di Gush Etzion (Hebron). Nello stesso giorno, il 6 febbraio, nei pressi del villaggio di Deir Ibzi (Ramallah), palestinesi, secondo quanto riferito, hanno sparato contro soldati israeliani, ferendone uno; il 17 febbraio, l’esercito israeliano ha comunicato di aver trovato il corpo di un presunto attentatore: l’uomo sarebbe morto per le ferite riportate durante lo scontro a fuoco con i soldati israeliani. In un ulteriore episodio, accaduto il 17 febbraio nella città di Hebron, ad un checkpoint nell’area controllata da Israele, un palestinese ha tentato di pugnalare dei soldati israeliani ed è stato arrestato; non sono stati segnalati feriti.

Il 6 febbraio, in scontri scoppiati durante una demolizione “punitiva” nella città di Jenin, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo due palestinesi e ferendone altri nove. Una delle vittime è un 19enne e l’altra un poliziotto palestinese che, secondo quanto riferito, al momento degli scontri si trovava all’interno della stazione di polizia. Secondo fonti israeliane, durante gli scontri in questione, palestinesi hanno sparato e lanciato due ordigni esplosivi contro i soldati; non sono stati segnalati ferimenti di israeliani.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri scoppiati in risposta al piano americano per il Medio Oriente, annunciato il 28 gennaio, sono stati uccisi dalle forze israeliane altri due palestinesi e oltre 100 sono rimasti feriti. Le due vittime sono un minore di 17 anni, ucciso nella città di Hebron il 5 febbraio, e un 19enne, ucciso il 7 febbraio vicino a un cancello della Barriera, nei pressi del villaggio di Qaffin (Tulkarm). Altri scontri, con gran numero di feriti, sono stati registrati vicino al checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah), all’ingresso della città di Gerico, nel villaggio di Beita (Nablus), e nelle città di Al ‘Eizariya e Abu Dis (governatorato di Gerusalemme). Tra i feriti ci sono 21 minori. Oltre il 70% dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno, il 24% è stato colpito da proiettili di gomma e il 2% da proiettili di arma da fuoco.

In altri scontri, registrati durante il periodo di riferimento, altri 138 palestinesi, tra cui sette minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Oltre il 60% di questi feriti (88) si sono avuti durante scontri scoppiati nel contesto di tre operazioni di ricerca-arresto condotte a Beit Jala (Betlemme) a seguito del presunto investimento volontario del 6 febbraio [vedi 1° paragrafo]. Il 24% [dei 138 feriti] sono stati registrati durante le proteste settimanali nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) ed i rimanenti in altri scontri; tra cui [quello avvenuto durante] il funerale del poliziotto ucciso nella città di Jenin [vedi 2° paragrafo]. Questi episodi portano a sei il numero di palestinesi uccisi da forze israeliane in Cisgiordania e Israele ed a 623 il numero di feriti dall’inizio del 2020.

Il 15 febbraio, nel quartiere di Al Isawiya a Gerusalemme Est, mentre stava tornando a casa da scuola, un ragazzo palestinese di 9 anni è stato colpito ad un occhio da un proiettile di gomma sparato da un poliziotto israeliano. Il ragazzo è rimasto ferito in modo grave ed ha perso l’uso dell’occhio. Al momento dell’accaduto non risulta fossero in corso scontri. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale. Dalla metà del 2019, ad Al Isawiya sono in corso consistenti operazioni di polizia che, per almeno 18.000 residenti, sono causa di tensioni e disagi quotidiani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 135 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 132 palestinesi, tra cui otto minori. La maggior parte delle operazioni sono state effettuate nel Governatorato di Ramallah (34), seguito dai Governatorati di Hebron (30) e Gerusalemme (26).

È proseguito, da Gaza verso Israele, il lancio di proiettili, nonché di fasci di palloncini recanti esplosivo; sia i proiettili che i palloncini sono atterrati in aree aperte all’interno di Israele, o sono stati intercettati in aria. Nella città di Netivot, due israeliani sono rimasti feriti mentre correvano verso un rifugio. Questi episodi sono stati seguiti da attacchi aerei israeliani contro strutture militari di Gaza; non sono state segnalate vittime, ma nel Campo Profughi Beach è stata danneggiata una conduttura per lo scarico in mare dell’acqua piovana.

In almeno 53 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti in aree [di Gaza] adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa di Gaza [cioé, in “Aree ad Accesso Riservato”, vietate ai palestinesi]; un pescatore palestinese è rimasto ferito e due barche sono state danneggiate dalle forze navali israeliane. In tre occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza (a Beit Lahia, al Campo di Al Maghazi e Khan Younis) ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o costretto i palestinesi a demolire 24 strutture, sfollando 23 persone e causando ripercussioni su altre altre 88 [segue dettaglio]. Tredici delle strutture demolite, di cui tre precedentemente fornite come aiuto umanitario, erano situate in Area C. Tra i casi più rilevanti, due si sono verificati vicino alla città di Hebron (Al Hijra) ed a Deir Qaddis (Ramallah), dove sono state demolite tre strutture di sostentamento, due locali ad uso agricolo e due latrine. Sempre in Area C, nella città di Hebron, le autorità israeliane hanno demolito una abitazione ed una latrina fornite come assistenza umanitaria, sfollando una famiglia di sette persone. Le restanti undici strutture colpite si trovavano a Gerusalemme Est; cinque di queste sono state demolite dai proprietari, a seguito degli ordini di demolizione.

Il 6 febbraio, nella città di Jenin, per la seconda volta le autorità israeliane hanno demolito una casa per motivi “punitivi”, sfollando sette persone, tra cui due minori. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese, attualmente in carcere, che, nel gennaio 2018, partecipò ad un attacco in cui fu ucciso un colono israeliano. Dopo la prima demolizione, avvenuta il 23 aprile 2018, la casa era stata ricostruita.

Cinque attacchi, attribuiti a coloni israeliani, hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi [segue dettaglio]. Il 16 febbraio, coloni israeliani armati hanno fatto irruzione nel villaggio di Ein ar Rashash (Ramallah), dove hanno aggredito e ferito tre residenti palestinesi ed hanno danneggiato la loro casa. Secondo fonti locali palestinesi, in due episodi separati, coloni israeliani hanno vandalizzato almeno 5 ettari di coltivazioni nel villaggio di Iskaka (Salfit), colpendo i mezzi di sussistenza di sette famiglie, mentre, nel villaggio di Beitillu (Ramallah), hanno vandalizzato 30 ulivi. Nei villaggi di Deir Dibwan e Beitin (entrambi a Ramallah), coloni israeliani hanno vandalizzato 15 veicoli di proprietà palestinese e due case.

Secondo fonti israeliane, a seguito di lanci di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro auto percorrenti strade della Cisgiordania, tre israeliane (una ragazza e due donne) sono rimaste ferite e almeno 12 veicoli israeliani sono stati danneggiati.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Secondo quanto riferito, in risposta alla recente diminuzione del lancio di razzi e palloni incendiari da Gaza, il 18 febbraio le autorità israeliane hanno ampliato da 10 a 15 miglia nautiche la zona di pesca consentita [ai pescatori palestinesi] al largo della costa meridionale; hanno inoltre riattivato 500 permessi di uscita per le persone classificate come “uomini d’affari”.

Il 19 febbraio, il Comune di Gerusalemme ha annunciato che fermerà per sei mesi la demolizione di case nel quartiere di Al Isawiya, nella parte orientale di Gerusalemme. Dall’agosto 2019, ad Al Isawiya sono state demolite tredici strutture, di cui sette abitative, e per decine di altre sono in corso ordini di demolizione.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Per Angela Merkel, «Israele uber alles !»

Iqbal Jassat

19 febbraio 2020Palestine Chronicle

Poco tempo dopo la sua visita in Sudafrica, il governo della Cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto un nuovo annuncio scioccante difendendo l’insieme delle azioni criminali di Israele e le sue gravi violazioni dei diritti umani.

La Germania ha preso la decisione vergognosa di minare il diritto internazionale contestando la competenza dell’Aja, affermando che la Corte Penale Internazionale (CPI) non ha il potere di indagare sui crimini di guerra di Israele contro i palestinesi.

In un’istanza depositata presso la CPI il governo Merkel ha chiesto di essere considerato « amicus curiae » (collaboratore non coinvolto nella causa giudiziaria) per impedire all’Aja di perseguire il regime di Netanyahu.

Dopo lunghi periodi di rinvii, a dicembre la procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha finalmente annunciato che sussistono ragionevoli presupposti per indagare sulle azioni di Israele.

Ha tuttavia lasciato aperta una voragine che viene sfruttata da Israele e dai suoi alleati come la Germania. Bensouda ha chiesto all’Aja di pronunciarsi sulla questione della sua competenza, cosa che potrebbe inficiare e compromettere ogni possibilità di perseguire e punire i criminali di guerra del regime colonialista.

E questo nonostante che l’Ufficio della Procura abbia insistito sul fatto che Israele ha distrutto proprietà palestinesi, espulso con la forza palestinesi dalla Cisgiordania occupata e da Gerusalemme est. Bensouda ha anche incluso nel suo atto d’accusa crimini di guerra commessi nella Striscia di Gaza occupata durante l’operazione ‘Margine protettivo’ del 2014, oltre all’operazione israeliana di espulsione degli abitanti palestinesi del villaggio beduino di Khan al-Ahmar e alla costruzione di colonie in Cisgiordania.

La decisione poco accorta di Merkel di prendere le parti di Israele rafforza l’attacco di Netanyahu contro la CPI. In una recente intervista rilasciata ad una catena televisiva cristiana, il dirigente israeliano, che è stato incriminato per frode e corruzione [in Israele], ha falsamente affermato che la CPI sta conducendo un “attacco frontale” contro gli ebrei ed ha sfacciatamente invocato sanzioni contro l’Aja.

L’argomentazione della Germania nella sua istanza sembra un «copia e incolla» delle dichiarazioni di Israele, che sostiene che la competenza della CPI non si estende ai territori palestinesi occupati perché la Palestina non è uno Stato. Incredibilmente, in questo modo la Germania ignora il fatto che la Palestina è firmataria dello Statuto di Roma della CPI.

Non solo è disonesto da parte tedesca non rispettare i diritti della Palestina, ma, tentando di indurre in errore la CPI, il governo Merkel legittima settant’anni di disumanizzazione dei palestinesi da parte di Israele.

Mentre la vergognosa collusione di Merkel con Netanyahu da alcuni può essere vista come un colpo di fortuna per lui in un momento in cui rischia il carcere, per i palestinesi è chiaro che la Germania ha tradito la loro giusta e legittima causa per la giustizia. Come possono le famiglie dei martiri interpretare in altro modo l’istanza scioccante e ingiusta di Merkel, che sostiene che la CPI non ha nemmeno il potere di discutere se Israele ha commesso dei crimini di guerra?

Essendo la Germania uno dei principali membri del Tribunale dell’Aja, ha l’ingiustificato vantaggio di poter influenzare un risultato che nuocerà alle rivendicazioni di giustizia dei palestinesi. La decisione così spudorata di Merkel di schierarsi al fianco di Netanyahu è quindi un abuso di potere a causa della sua posizione privilegiata al momento delle udienze.

Gli ultimi rapporti indicano che, oltre alla Germania, Israele è attivamente impegnato nel reclutamento di diversi Paesi che appoggino la sua causa in quanto “rappresentanti non ufficiali”, poiché esso stesso ha deciso di non partecipare in modo da “evitare di dare legittimità” alla CPI.

L’Ungheria e la Repubblica Ceca, come anche l’Austria, l’Australia e il Canada si sono uniti per sostenere l’impunità di Israele.

Benché la Procuratrice Bensouda ritenga che la Palestina sia «sufficientemente uno Stato » perché all’Aja venga trasferita la giurisdizione penale sul suo territorio, la sua richiesta di verifica di questo punto di vista può far fallire l’inchiesta, essendoci una battaglia giuridica riguardo alla definizione di ciò che costituisca uno “Stato”. 

L’attacco contro la CPI – con gli appelli di Netanyahu a sottoscriverlo – arriva proprio dopo la pubblicazione da parte dell’ONU di un elenco di 112 imprese legate alle colonie illegali di Israele. E, nello stesso spirito contrario all’etica, il regime di apartheid ha attaccato il commissario delle Nazioni Unite definendolo partigiano e strumento del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

Schierarsi dalla parte di Netanyahu per mascherare i suoi terribili crimini contro i palestinesi può consentire alla Merkel di evitare la collera di Israele, ma questo pone la Germania dalla parte sbagliata della storia – ancora una volta !

Anche se appare incongruo che la Germania ed una manciata di Paesi vogliano impedire l’esercizio della giustizia da parte dell’Aja – cosa che peraltro si sforzano di fare – è vero che, per quanto riguarda i palestinesi, il fatto di schierarsi a fianco di Israele permette a questo Stato delinquente di continuare a commettere crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario internazionale.

Alcuni commentatori hanno sostenuto a giusto titolo che questa assurda difesa della sistematica condotta criminale di Israele possa rappresentare un colpo mortale per la CPI.

Il timore che viene espresso è che l’azione della Cancelliera Merkel sia miope, creando un buco nero legale nei territori palestinesi occupati che potrebbe comportare la distruzione di una CPI già fortemente screditata.

Israele spera che, distorcendo i fatti e sviando gli obbiettivi della CPI, ne uscirà indenne. Le sue speranze poggiano sulla Cancelliera Merkel in quanto principale dirigente europeo che può distogliere l’Aja dalle sue responsabilità impegnandola in una battaglia giuridica semantica priva di senso, come è la questione della “giurisdizione”, e contestando la ratifica da parte della Palestina dello Statuto di Roma.

Mentre i giuristi internazionali saranno impegnati (si fa per dire) nella discussione sui concetti giuridici, spetta a Paesi come il Sudafrica alzare la voce contro i diversivi giuridici.

Il silenzio a fronte di questo ostacolo giuridico inventato di sana pianta sarà interpretato come una rinuncia a far rispettare e a difendere i diritti umani dei palestinesi.

Iqbal Jassat è membro esecutivo di Media Rewiew Network, con sede in Sudafrica.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Amazon costringe i palestinesi a registrarsi come israeliani per la spedizione gratuita

Middle East Monitor

14 febbraio 2020 Middle East Monitor

I clienti che inseriscono il proprio indirizzo come “Territori palestinesi” sono costretti a pagare le spese di spedizione e gestione a partire da [un ordine di] 24 dollari

L’azienda internazionale di commercio on line Amazon è stata accusata di discriminare i palestinesi in quanto offre spedizioni gratuite verso le colonie della Cisgiordania occupata ma non ai palestinesi che vivono nella stessa area.

Nei risultati pubblicati in un’indagine del Financial Times, il giornale ha scoperto che, prendendo tutti gli indirizzi corrispondenti alle colonie illegali e inserendoli nel portale di consegna di Amazon, l’azienda applica l’offerta di spedizione gratuita prevista nel proprio sito web “se il tuo indirizzo di spedizione è in Israele, gli articoli scelti sono ammessi e il tuo ordine totale soddisfa la soglia di spedizione gratuita minima di 49 dollari [45,36 euro, ndtr.]”.

Invece i clienti che inseriscono il proprio indirizzo come “Territori Palestinesi” sono costretti a pagare le spese di spedizione e gestione a partire da [un ordine di] 24 dollari [22,22 euro,ndtr.]. Il portavoce di Amazon Nick Caplin ha dichiarato al giornale che i palestinesi possono solo aggirare il problema: “Se un cliente all’interno dei territori palestinesi inserisce il proprio indirizzo e seleziona Israele come Paese, può ricevere la spedizione gratuita usufruendo della stessa promozione”.

Tutte le consegne dell’azienda devono passare attraverso Israele per raggiungere la Cisgiordania occupata e ciò determina lunghi ritardi.

L’avvocato internazionale per i diritti umani Michael Sfard, tuttavia, ha ritenuto tale motivazione non sufficiente e ha definito la politica di Amazon “una palese discriminazione tra potenziali clienti sulla base della loro nazionalità” all’interno della stessa area operativa. Anche l’organizzazione di attivisti Peace Now [O.N.G. pacifista israeliana, ndtr.] ha commentato la situazione, affermando che la politica discriminatoria di Amazon “si aggiunge al quadro generale di un gruppo di persone che godono dei privilegi di cittadinanza, al contrario di altre che vivono nello stesso territorio”.

Negli ultimi anni le colonie ebraiche nei territori palestinesi occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme est sono notevolmente aumentate, con un numero di coloni di oltre 463.000 in Cisgiordania e altri 300.000 a Gerusalemme est alla fine del 2019.

Nonostante il fatto che le colonie siano illegali ai sensi del diritto internazionale, numerose grandi e fiorenti aziende hanno continuato a trattare con loro e ad operare nel territorio che questi hanno occupato illegalmente. Questa settimana le Nazioni Unite hanno pubblicato una lista nera di 112 aziende che continuano a operare nei territori occupati, tra cui i giganti mondiali Airbnb, Expedia, Opodo e Motorola.

Dopo la pubblicazione del documento gli Stati Uniti hanno bocciato l’iniziativa, mentre Israele ha sospeso i rapporti con il Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




In che modo i coloni si prendono la terra palestinese? La risposta è: con una strada

Dror Etkes 

12 febbraio 2020 – + 972

Per collegare le enclavi che compongono Kedumim, i coloni hanno assunto il controllo di una importante strada che serviva ai palestinesi e gliene hanno bloccato l’accesso.

Il 28 gennaio, il giorno in cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha reso pubblico l’ “accordo del secolo”, nella colonia di Kedumim una donna seduta in un’auto a noleggio digitava sul cellulare mentre gli spari risuonavano dalla vicina Kufr Qaddum. Si potevano sentire rumori di veicoli militari arrivare dal villaggio palestinese a poche centinaia di metri a ovest della colonia.

La donna continuava a guidare verso sud, verso l’uscita principale di Kedumim, e io proseguivo verso ovest lungo Nahlah Street. Dall’altra parte della strada, ho visto un allievo della scuola elementare tornare a casa mentre passava l’auto di servizio del consiglio dei coloni. Routine quotidiana della colonia.

Dopo un po’ sono arrivata alla casa più a ovest di Kedumim, accanto agli uliveti di Kufr Qaddum. È probabile che questo punto diventerà presto un altro segnale dei confini internazionali di Israele, se il piano di Trump verrà attuato e Israele annetterà gli insediamenti.

Kedumim fu fondata nel 1975 in seguito al famigerato “compromesso di Sebastia”, quando i coloni di Gush Emunim raggiunsero un accordo con l’allora Primo Ministro Yitzhak Rabin e il Ministro della Difesa Shimon Peres per fondare un nuovo insediamento come risarcimento dell’essere stati allontanati dalla terra che avevano occupato alla stazione ferroviaria di Sebastia, adiacente all’omonimo villaggio palestinese nella Cisgiordania settentrionale. Da molti anni, però, Nahlah Street era la strada utilizzata dagli abitanti palestinesi di Kufr Qaddum per accedere a Nablus, la grande città a loro più vicina.

Ma un tratto di 2 chilometri di quella strada si snoda tra gli ulivi e i campi di Kufr Qaddum orientale, su cui Kedumim è stata fondata 45 anni fa. E negli ultimi vent’anni, quella strada è stata chiusa agli abitanti palestinesi di Kufr Qaddum. Mentre la lotta popolare si è in gran parte attenuata in tutta la Cisgiordania occupata, il villaggio è uno degli ultimi posti in cui è possibile assistere a manifestazioni quasi settimanali del venerdì che protestano contro la chiusura della strada.

Kufr Qaddum non è affatto l’unica comunità palestinese in Cisgiordania ad avere uno dei propri punti di accesso chiuso dall’espansione delle colonie. La colonia di Kiryat Sefer, per esempio, ha inglobato la strada Bil’in-Safa. La colonia di Maale Adumim controlla il tragitto Abu Dis-Old Jericho. E la colonia di Neve Daniel ha inglobato una strada locale che collegava diversi villaggi palestinesi a Maqam Nabi Daniel.

Per di più, la maggior parte delle aree che l’esercito ha assegnato alle colonie è composta da enclavi e territori non contigui, e comprende campi agricoli che le autorità israeliane riconoscono come terra privata palestinese. In quanto tali, fin dall’inizio queste aree non potevano essere ufficialmente sotto la giurisdizione delle colonie.

La cosa può suonare strana a chiunque pensi in modo tradizionale ai progetti di una comunità – dove le persone normali desiderano condurre una vita in base alle regole che non implichi il furto di proprietà. Ma la Cisgiordania non è un posto normale, e il sistema di assegnazione e pianificazione del territorio che Israele vi ha imposto obbedisce ad un principio organizzativo supremo: rubare e saccheggiare a piacimento e poi pensare a come fare col bottino.

Oltretutto, esiste solo una connessione statisticamente casuale tra le aree giurisdizionali ufficiali e quelle effettive delle colonie. Il motivo è che i coloni essenzialmente fanno ciò che vogliono e le autorità responsabili dell’applicazione della legge non la applicano. È ciò che è successo a Kedumim: l’area totale delle sette enclavi assegnate in aree non contigue è di 3.300 dunam [330 ettari], mentre i coloni sostengono che la comunità occupa circa 6.000 dunam [600 ettari]. Da dove vengono i 2.700 dunam [270 ettari] in più?

Oggi Kedumim occupa tutta la terra di Kufr Qaddum, che l’esercito ha “donato” ai coloni a spese degli abitanti palestinesi. Tra il 1970 e il 1978 l’esercito israeliano ha cominciato ad emanare una serie di “ordini di sequestro militare temporaneo per esigenze di sicurezza”, espropriando oltre 450 dunam [45 ettari] di terra, di cui oltre la metà è stata data ai coloni.

Le fotografie aeree scattate nel 1970 mostrano l’area acquisita quell’anno. Nella parte meridionale si trova la base militare di Kadum dell’esercito israeliano, nello stesso punto in cui prima del 1967 si trovava una base militare giordana. L’area settentrionale divenne, nel corso degli anni, il punto di partenza della colonia di Kedumim e della piccola zona industriale adiacente. A nord della colonia si vede chiaramente la strada che collega Kufr Qaddum a Nablus.

Nel 1979, con l’istanza Alon Moreh, l’Alta Corte di Israele decretò che era illegale assegnare per la costruzione di colonie i terreni palestinesi espropriati dall’esercito israeliano per un preteso scopo militare. Ma poco dopo, per espandere le colonie, Israele cominciò a dichiarare “terreni di stato” ampie fasce di terreno attorno a quello sotto ordine di sequestro, appartenenti agli abitanti di Kufr Qaddum,.

Le immagini aeree del 1983 mostrano chiaramente che i “terreni statali” consegnati ai coloni non erano adiacenti al nucleo della colonia, perché in quei luoghi c’erano – e ci sono ancora – uliveti di proprietà degli abitanti di Kufr Qaddum. I residenti palestinesi possono accedere ad alcuni dei loro uliveti solo un certo numero di giorni fissati ogni anno, e gran parte di quei terreni rimane loro del tutto inaccessibile. Già nei primi anni ’80, Kedumim si espanse al punto che i confini della colonia erano 2 chilometri più a nord del suo originale centro.

Le foto aeree del 2019 mostrano il punto più a nord a cui è arrivata Kedumim, a quarant’anni dalla sua fondazione. Gli edifici costruiti da allora si trovano prevalentemente all’interno dei confini meridionale e settentrionale della colonia.

Dunque, come hanno fatto queste zone separate a formare un unico, continuo insediamento in Cisgiordania? Secondo Daniella Weiss, leader dei coloni ed ex sindaco di Kedumim, basta costruire una strada che attraversa gli uliveti di Kufr Qaddum. Lo studio ravvicinato di una foto aerea del 1983 mostra che, nell’area sotto ordine di sequestro, una strada dalla zona meridionale sbuca nella parte settentrionale lungo la strada Kufr Qaddum-Nablus.

L’espansione della colonia verso nord è stata il colpo finale alla strada Kufr Qaddum-Nablus. Nel corso degli anni, mentre Kedumim si espandeva ed estendeva su più di 10 colline, la strada è diventata determinante per la crescita della colonia e tutto ciò che i coloni hanno dovuto fare è stato aspettare un’opportunità per bloccarvi il traffico palestinese.

L’opportunità è arrivata nei primi anni della Seconda Intifada, che vedevano i coloni di Kedumim nel pieno di una aggressiva campagna di occupazione iniziata alcuni anni prima. Questa campagna per il controllo su più terra intorno alla colonia includeva le solite mosse di questo tipo di colonie: creare nuove strade, bloccare violentemente l’accesso alle aree intorno alla colonia e costruire avamposti.

È così che, alla fine degli anni ’90, il monte Mohammad di Kufr Qaddum è diventato l’avamposto “Har Hemed”. Ed è così che nel 2004 è stato costruito il quartiere in cui vive attualmente il parlamentare di estrema destra e Ministro dei Trasporti Betzalel Smotrich.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il “campo pacifista” di Israele rischia di scomparire

Jonathan Cook

7 Febbraio 2020 –The Electronic Intifada

Per il cosiddetto “campo pacifista” di Israele gli scorsi 12 mesi di elezioni generali – la terza è prevista il 2 marzo – sono stati vissuti come una continua roulette russa, con sempre minori opportunità di sopravvivenza.

Ogni volta che la canna della pistola elettorale è stata ruotata, i due partiti parlamentari collegati al sionismo liberale, Labour e Meretz, si sono preparati alla loro imminente scomparsa.

Ed ora che la destra israeliana ultranazionalista celebra la presentazione del cosiddetto “piano” per la pace di Donald Trump, sperando che porterà ancora più dalla sua parte l’opinione pubblica israeliana, la sinistra teme ancor di più l’estinzione elettorale.

Di fronte a questa minaccia Labour e Meretz – insieme ad una terza fazione di centro-destra ancor più minuscola, Gesher – a gennaio hanno annunciato l’unificazione in una lista unica in tempo per il voto di marzo.

Amir Peretz, capo del Labour, ha ammesso francamente che i partiti sono stati costretti ad un’alleanza.

“Non c’è scelta, anche se lo facciamo contro la nostra volontà”, ha detto ai dirigenti del partito.

Alle elezioni di settembre i partiti Labour e Meretz, presentatisi separatamente, hanno a malapena superato la soglia di sbarramento.

Il partito Labour, un tempo egemone, i cui leader hanno fondato Israele, ha ottenuto solo cinque dei 120 seggi in parlamento – il risultato più basso di sempre.

Il partito sionista più di sinistra, il Meretz,, ha ottenuto solo 3 seggi. È stato salvato solo dall’alleanza con due partiti minori, teoricamente di centro.

Sempre fragile

Anche al culmine del processo di Oslo alla fine degli anni ’90, il “campo pacifista” israeliano era una costruzione fragile, senza sostanza. Al tempo vi era un dibattito scarsamente rilevante tra gli ebrei israeliani riguardo a quali concessioni fossero necessarie per raggiungere la pace, e sicuramente riguardo a come potesse configurarsi uno Stato palestinese.

Le recenti elezioni, che hanno fatto del leader del Likud Benjamin Netanyahu il Primo Ministro israeliano più a lungo in carica, e la generale euforia riguardo al piano “di pace” di Trump, hanno indicato che l’elettorato ebraico israeliano favorevole ad un processo di pace – anche del tipo più blando – è del tutto scomparso.

Da quando Trump è diventato presidente, la principale opposizione a Netanyahu è passata dal Labour al partito Blu e Bianco, guidato da Benny Gantz, un ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano che è stato il responsabile della distruzione di Gaza nel 2014.

Il suo partito è nato un anno fa, in tempo per l’ultimo voto di aprile e nelle due elezioni generali dello scorso anno i partiti di Gantz e Netanyahu hanno praticamente pareggiato.

I commentatori, soprattutto in nord America e in Europa, hanno accomunato Blu e Bianco con Labour e Meretz come il “centro sinistra” israeliano. Ma il partito di Gantz non si è mai presentato come tale.

Si pone stabilmente a destra, attraendo gli elettori stanchi dei guai molto discussi sulla corruzione di Netanyahu –deve affrontare tre diverse imputazioni per frode e corruzione – o del suo continuo accondiscendere ai settori più religiosi della società israeliana, come i seguaci del rabbinato ortodosso e il movimento dei coloni.

Gantz e il suo partito si sono rivolti agli elettori che vogliono un ritorno ad un sionismo di destra più tradizionale e laico, che un tempo era rappresentato dal Likud – capeggiato da figure come Ariel Sharon, Yitzhak Shamir e Menachem Begin.

Non è stata quindi una sorpresa che Gantz abbia fatto a gara con Netanyahu nell’appoggiare il piano di Trump che sancisce l’annessione delle colonie illegali della Cisgiordania e della Valle del Giordano.

Ma le difficoltà della destra israeliana sono iniziate molto prima della nascita di Blu e Bianco. E per un po’ di tempo sia il Labour che il Meretz hanno cercato di reagire ostentando una linea più intransigente.

Abbandonare Oslo

Sotto la guida di diversi leader il Labour si è progressivamente allontanato dai principi degli accordi di Oslo che ha firmato nel 1993. Il discredito di quel processo è avvenuto in larga misura perché lo stesso Labour all’epoca ha rifiutato di impegnarsi in buona fede nei colloqui di pace con la leadership palestinese.

Nel 2011, dando un segnale generalmente interpretato come il riposizionamento del partito Laburista, la candidata alla sua guida ed ex capo del partito, Shelly Yachimovich, ha puntualizzato che le colonie, che violano il diritto internazionale, non erano un “peccato” o un “crimine”.

In un momento di sincerità ha attribuito direttamente al Labour la loro creazione: “È stato il partito Laburista che ha dato inizio all’impresa coloniale nei territori. Questo è un fatto. Un fatto storico.”

Questo graduale allontanamento dal sostegno anche solo a parole il processo di pace è culminato nell’elezione del ricco uomo d’affari Avi Gabbay come leader del partito Laburista nel 2017.

Nel 2014 Gabbay aveva contribuito a finanziare, insieme a Moshe Kahlon, un ex Ministro delle Finanze del Likud, il partito di destra Kulanu. Lo stesso Gabbay, benché non eletto, ha ricoperto brevemente un ruolo ministeriale nella coalizione di estrema destra di Netanyahu dopo le elezioni del 2015.

Una volta diventato leader del Labour, Gabbay ha fatto eco alla destra stralciando in gran parte il processo di pace dal programma del partito. Ha dichiarato che qualunque concessione ai palestinesi non doveva includere l’“evacuazione” delle colonie.

Ha anche suggerito che fosse più importante per Israele mantenere per sé l’intera Gerusalemme, compresa la parte est occupata, piuttosto che raggiungere un accordo di pace.

Il suo successore (e due volte predecessore) Amir Peretz potrebbe sembrare teoricamente più moderato. Ma ha mantenuto legami con il partito Gesher, fondato da Orly Levi-Abekasis alla fine del 2018.

Levi-Abekasis è un ex deputato di Yisrael Beitenu [Israele è casa nostra], il partito di estrema destra che è ripetutamente entrato nei governi di Netanyahu ed è guidato da Avigdor Lieberman, ex Ministro della Difesa e colono.

Abbandonare la minoranza palestinese di Israele.

Il Meretz ha intrapreso un percorso ancor più drastico di allontanamento dalle proprie origini di partito pacifista, lo scopo per il quale è stato espressamente creato nel 1992.

Fino a poco tempo fa il partito aveva l’unico gruppo parlamentare apertamente impegnato per la fine dell’occupazione e posto i colloqui di pace al centro del proprio programma. Tuttavia, a partire dall’indebolimento (degli accordi) di Oslo alla fine degli anni ’90, non ha mai conquistato più di una mezza dozzina di seggi.

Di fatto dal 2014 il Meretz si è pericolosamente avvicinato alla scomparsa elettorale. In quell’anno il governo Netanyahu ha alzato la soglia elettorale a quattro seggi per poter entrare in parlamento, nel tentativo di eliminare quattro partiti che rappresentavano l’ampia minoranza di 1,8 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

I partiti palestinesi hanno reagito creando una Lista Unita per superare la soglia. Ed in un chiaro esempio di conseguenze impreviste, la Lista Unita è attualmente il terzo più grande partito della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.].

Da parte sua, il Meretz è stato lacerato dalle divisioni su come procedere.

Dopo le elezioni di aprile dello scorso anno, in cui a fatica ha superato la soglia, nel Meretz ci sono state voci che chiedevano di prendere una nuova direzione, promuovendo la partnership ebraico-araba. I suoi molto votati rappresentanti “arabi”, Issawi Freij e Ali Salalah, si dice abbiano salvato il partito raccogliendo in aprile un quarto dei voti dai cittadini palestinesi di Israele, quelli che rimasero di quanti vennero espulsi dalle proprie terre nel 1948 durante la Nakba.

La minoranza palestinese è diventata sempre più politicamente polarizzata, esasperata dall’incapacità dei partiti ebraici di affrontare le sue preoccupazioni riguardo alla sistematica discriminazione che subisce.

I più votano per la Lista Unita. Ma una piccola parte della minoranza palestinese sembra stanca di gettare via quello che finisce per essere un voto di protesta.

Di fronte ad una sempre più forte istigazione anti-araba da parte della destra, guidata dallo stesso Netanyahu, alcuni erano sembrati pronti ad andare verso la società ebraica israeliana attraverso il Merertz.

Alcuni dirigenti del Meretz, guidati da Freij, hanno anche proposto di scindere la Lista Unita e creare un’alleanza con alcuni dei suoi partiti, soprattutto Hadash-Jebha, un’alleanza socialista che già include un gruppo ebraico minoritario.

Ma nella corsa al voto di settembre i dirigenti del Meretz hanno di fatto cassato qualunque ulteriore intenzione di promuovere questi tentativi di collegamento con la minoranza palestinese. In luglio il partito ha istituito un nuovo gruppo, chiamato Unione Democratica, con due nuovi partiti guidati da ex politici del Labour – il Movimento Verde di Stav Shaffir e il partito Democratico di Ehud Barak.

Improbabili alleati

Shaffir si era inimicata molti cittadini palestinesi durante le brevi proteste per la giustizia sociale nel 2011 in cui si è messa in risalto. I leader della protesta hanno lavorato sodo per mantenere a distanza i cittadini palestinesi e hanno ignorato le questioni relative all’occupazione, in modo da creare un’ampia coalizione ebraica sionista.

I precedenti di Barak – l’ex Primo Ministro è stato colui che ha messo il campo pacifista sulla sua strada di autodistruzione dichiarando che i palestinesi non erano “partner per la pace” –erano ancor più problematici.

Ha descritto il suo partito Democratico come “a destra del partito Laburista”. Il suo programma non faceva menzione di una soluzione di due Stati e della necessità di porre fine all’occupazione.

Nitzan Horowitz, il leader del Meretz, in quel momento ha giustificato l’alleanza in base al fatto che “abbiamo bisogno di aumentare la nostra forza (elettorale)”.

E, a parte il ruolo di Barak nell’ostacolare il processo di Oslo, nel 2000 come Primo Ministro all’inizio della seconda intifada diresse anche una violenta repressione poliziesca delle proteste civili dei cittadini palestinesi, in cui furono uccise 13 persone.

L’anno seguente Barak perse le elezioni a Primo Ministro dopo che i cittadini palestinesi infuriati boicottarono in massa il voto, di fatto spianando la strada alla vittoria del suo sfidante del Likud, Ariel Sharon.

Solo l’anno scorso, vent’anni dopo, Barak ha espresso le scuse per il suo ruolo in quelle 13 morti, come verosimile prezzo per entrare nell’alleanza con Meretz.

Ora il Meretz ha rotto l’alleanza con Barak e Shaffir. Ma facendolo, si è spostato ancor più a destra. Il suo accordo elettorale di gennaio con Labour e Gesher per le elezioni del 2 marzo sembra chiudere la porta ad ogni futura alleanza arabo-ebraica.

Il Meretz ha relegato Freij, il suo candidato palestinese di punta, in una irrealistica undicesima posizione [nella lista dei candidati].

Recenti sondaggi indicano che la nuova coalizione si aggiudicherà solo nove seggi.

Un improbabile scenario

Né il Meretz né il Labour hanno mai veramente rappresentato un significativo campo pacifista. Entrambi hanno una storia precedente di entusiastico appoggio a ogni recente guerra che Israele ha lanciato, benché parti del Meretz abbiano avuto abitualmente dei ripensamenti quando le operazioni si prolungavano e aumentavano le vittime.

Pochi, anche nel Meretz, hanno chiarito che cosa significhi il campo pacifista o come considerino uno Stato palestinese.

La “prospettiva” di Trump ha risposto a queste domande in modo del tutto negativo per i palestinesi. Ma il suo piano si allinea ai sondaggi che indicano che molto meno della metà degli ebrei israeliani sostiene alcun tipo di Stato palestinese, praticabile o no.

Ugualmente problematico per i sionisti liberali del Meretz e del partito Laburista è come contrastare la sistematica discriminazione nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele senza compromettere lo status ebraico dello Stato imposto per legge.

I fondamenti sionisti di Israele implicano privilegi per i cittadini ebrei rispetto a quelli palestinesi, dall’immigrazione ai diritti sulla terra e la separazione tra le due popolazioni negli ambiti sociali, dalla residenza all’istruzione.

Ma senza qualche forma di accordo con la minoranza palestinese è impossibile immaginare come il cosiddetto campo pacifista possa ottenere qualche successo elettorale, come previsto l’anno scorso dall’ex leader del Meretz Tamar Zandberg.

L’enigma è che sottrarre potere alla destra estremista e religiosa guidata da Netanyahu dipende da una quasi impossibile alleanza sia con la destra laica e militarista guidata da Gantz, sia con la Lista Unita.

Dato il razzismo anti-arabo dilagante nella società israeliana, nessuno crede davvero che una tale configurazione politica sia realizzabile. Questo è in parte il motivo per cui Netanyahu, gli estremisti religiosi e i coloni continuano a dettare l’agenda politica, mentre il “centro-sinistra” israeliano rimane a mani vuote.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale per il Giornalismo ‘Martha Gellhorn’.

I suoi ultimi libri sono: ‘Israel and the clash of civilization: Iraq, Iran and the plan to remake the Middle East’ [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridefinire il Medio Oriente] (Pluto Press) e ‘Disappearing Palestine: Israel’s experiments in human despair’ [Palestina che scompare: esperimenti israeliani di disperazione umana] (Zed Books).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele blocca le esportazioni agricole palestinesi

Redazione di MEE

8 febbraio 2020 – Middle East Eye

In seguito alla presentazione dell’“accordo del secolo” Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese hanno intensificato le sanzioni economiche

Sabato l’agenzia di notizie ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Wafa ha informato che le autorità israeliane hanno bloccato le esportazioni palestinesi verso l’estero che passano dalla Giordania, in quanto le tensioni sono notevolmente cresciute da quando il 28 gennaio il presidente Donald Trump ha presentato la sua tanto criticata proposta per la soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Mentre secondo il quotidiano israeliano Haaretz è prevista l’applicazione di un divieto ufficiale israeliano alle esportazioni palestinesi a partire da domenica, in un comunicato pubblicato dalla Wafa il ministero dell’Economia dell’ANP ha affermato che parecchi camion carichi di prodotti agricoli palestinesi sono già stati fatti tornare indietro dalle autorità israeliane dal valico con la Giordania.

L’unico posto di frontiera tra la Cisgiordania occupata e la Giordania è presidiato dalle autorità israeliane, che controllano l’entrata e l’uscita di persone e prodotti nei e dai territori palestinesi occupati.

L’iniziativa è arrivata dopo che all’inizio di questa settimana l’ANP ha annunciato che avrebbe vietato l’ingresso sul mercato palestinese di un certo numero di prodotti israeliani, come reazione per la decisione del ministro della Difesa Naftali Bennett del 31 gennaio di interrompere l’importazione in Israele di prodotti della Cisgiordania.

Nel contempo l’ordine di Bennett è una conseguenza del fatto che l’ANP ha boicottato per tre mesi l’importazione di bovini israeliani.

Con tutti i confini controllati da Israele, l’economia palestinese è molto vulnerabile alle sanzioni israeliane. Secondo la Wafa, nel 2018 le esportazioni agricole palestinesi, due terzi delle quali dirette in Israele, sono state del valore di 130 milioni di dollari.

La guerra commerciale arriva in un momento in cui la dirigenza palestinese ha categoricamente respinto il piano di Trump “pace per la prosperità”, che propone che Israele annetta formalmente Gerusalemme est e circa due terzi della Cisgiordania in cambio di uno Stato palestinese frammentato e smilitarizzato con un diritto al ritorno solo ridotto per i rifugiati palestinesi attualmente all’estero.

Chi ha criticato il cosiddetto “accordo del secolo” ha sostenuto che in effetti il piano intende ufficializzare un sistema di apartheid.

Come reazione il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha minacciato di porre fine al coordinamento per la sicurezza con Israele, anche se l’ANP deve ancora mettere in atto questa iniziativa.

Da quando gli USA hanno presentato il piano completo, almeno cinque palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane. Mentre giovedì un palestinese cittadino di Israele è stato ucciso nella Città Vecchia di Gerusalemme dopo che aveva tentato di sparare a poliziotti israeliani, la maggioranza delle vittime stava partecipando a manifestazioni contro le proposte USA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Elogi prudenti, silenzio e rifiuto: i gruppi ebraici americani divisi sull’ “accordo del secolo”

Richard Silverstein

giovedì 6 febbraio 2020 – Middle East Eye

Le organizzazioni di destra hanno elogiato il piano di Trump per Israele e la Palestina, mentre quelle di sinistra e di centro l’hanno criticato

Mentre l’“accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump è stato quasi universalmente criticato nei circoli politici al momento della sua presentazione pubblica la settimana scorsa, le reazioni delle organizzazioni di ebrei statunitensi sono state piuttosto contraddittorie e moderate.

Le dichiarazioni comprendono l’insieme dello spettro dei soliti noti, dalla destra alla sinistra. La lobby filo-israeliana AIPAC ha salutato il tentativo dell’amministrazione Trump di “lavorare di concerto con i dirigenti dei due principali partiti politici israeliani per presentare delle idee per risolvere il conflitto in modo da riconoscere le imperiose necessità in materia di sicurezza del nostro alleato” ed ha esortato i palestinesi a “unirsi agli israeliani al tavolo dei negoziati.”

È tipico di questa lobby individuare fino a che punto questo piano sia utile agli interessi di Israele omettendo al contempo ogni riferimento agli interessi palestinesi.

Strane reazioni

La Coalizione degli Ebrei Repubblicani, formata in gran parte da ricchi uomini d’affari e da miliardari di Wall Street filo-israeliani, ne ha fatto ossequiosamente le lodi, definendolo una “proposta coraggiosa ed equilibrata, profondamente ancorata ai valori fondamentali dell’America, che sono la libertà, le opportunità e la speranza nel futuro.”

Chi non ne sapesse abbastanza potrebbe pensare che il piano stilato dal genero di Trump, Jared Kushner, sia l’equivalente attuale della Dichiarazione d’Indipendenza e della Magna Carta messe insieme.

I deputati ebrei del Congresso, che sono in maggioranza democratici e stretti alleati della lobby israeliana, hanno avuto reazioni stranamente apatiche, moderando i loro elogi. Eliot Engel, presidente della commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti ha dichiarato: “Come mi piace dire, il diavolo sta nei dettagli. Abbiamo visto la proposta. Non l’ho studiata attentamente. Ci sono buone ragioni per sperare.”

Anche Ted Deutch, altro rappresentante ebreo vicino alla lobby, ha fatto commenti positivi, dichiarando che l’accordo di Trump “sembra garantire la possibilità di una soluzione a due Stati…Penso e spero che il dialogo continui e porti a negoziati tra le parti.”

Il capo della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer, nelle sue considerazioni al riguardo stranamente non ha espresso nessun parere sul piano di Trump. Si è limitato a ripetere il proprio sostegno a una soluzione a due Stati, senza pronunciarsi nel merito dell’accordo. È una dichiarazione senza esserlo.

Rispondere alla lobby filoisraeliana

Ciò che è curioso riguardo a queste reazioni è che, nel momento stesso in cui i democratici sono nel pieno della procedura per la destituzione del presidente, i democratici ebrei si pronunciano a favore di un piano che quasi tutti, dai candidati democratici alle elezioni presidenziali al principale giornale progressista israeliano, Haaretz, hanno universalmente condannato.

È possibile che questi politici non si preoccupino di quello che la comunità ebraica americana pensa di questo piano. Un sondaggio condotto l’anno scorso da J Street [associazione di ebrei americani moderatamente critici con l’occupazione, ndtr.] presso potenziali elettori alle primarie democratiche ha rilevato che solo il 12% di chi ha risposto aveva una buona opinione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, mentre un altro sondaggio della Commissione Ebraica Americana che ha interpellato americani di religione ebraica ha concluso che il 59% di loro disapprova la gestione dei rapporti israelo-americani da parte di Trump.

Tuttavia i democratici filoisraeliani non rispondono all’elettorato ebraico medio, ma piuttosto alla lobby filoisraeliana e ai suoi ricchi donatori, che finanziano le loro campagne elettorali. Non ci sono altre spiegazioni logiche al fatto che manifestino un sostegno, pur se modesto, a una proposta così mal formulata da parte di un presidente repubblicano in disgrazia.

L’Unione per la Riforma dell’Ebraismo da parte sua ha pubblicato questo timido comunicato: “Salutiamo ogni tentativo per riportare la pace e pensiamo fermamente che un Israele sicuro da una costa all’altra con uno Stato palestinese vitale sia nell’interesse della politica estera americana e, ovviamente, del futuro di Israele in quanto Stato democratico ed ebraico.”

Continua esprimendo delle “preoccupazioni” relative alla promessa di Netanyahu di “imporre, unilateralmente, il diritto degli ebrei su tutte le colonie della Cisgiordania e della Valle del Giordano proposte per lo status finale in base al piano di Trump”, definendo l’iniziativa “pericolosa per l’avvenire di Israele e per la stabilità e la pace nella regione.”

Al contempo diversi gruppi dal centro alla sinistra hanno unanimemente criticato l’accordo. I sionisti liberal di J Street, rigorosamente schierati con il partito Democratico, l’hanno definito l’“apogeo logico delle ripetute misure in malafede che questa amministrazione ha preso per confermare il programma della destra israeliana, per impedire la realizzazione di una soluzione dei due Stati praticabile e negoziata e per assicurarsi che l’illegale occupazione dei territori palestinesi in Cisgiordania da parte di Israele diventi permanente.”

Hanno cercato di utilizzare l’annuncio a proprio vantaggio, come uno strumento dell’organizzazione per rafforzare la propria base di appoggio. Hanno persino lanciato su Twitter l’hashtag #peacesham (pace truffa).

Piano dell’apartheid”

Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace], la più grande organizzazione progressista del Paese, ha condannato il piano in modo ancora più deciso, definendolo “piano dell’apartheid” e “un diversivo di due guerrafondai che danno la priorità alle proprie campagne elettorali personali su qualunque parvenza di capacità politica.”

Il candidato ebreo alla presidenza, Bernie Sanders, è parso esitare a inserire la sua risposta nella sua campagna elettorale, che è in pieno svolgimento con le primarie in Iowa. Il suo ufficio al Senato ha pubblicato il seguente comunicato: “Ogni accordo di pace accettabile deve corrispondere al diritto internazionale e alle molteplici risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Deve porre fine all’occupazione israeliana iniziata nel 1967 e permettere l’autodeterminazione dei palestinesi nel loro Stato indipendente, democratico ed economicamente sostenibile accanto a uno Stato israeliano sicuro e democratico. Il cosiddetto ‘accordo di pace’ di Trump è ben lontano da ciò e non farà altro che perpetuare il conflitto.”

Paragonata alle sue veementi denunce contro le “élite imprenditoriali miliardarie”, questa risposta è stranamente moderata per Sanders. Ciò potrebbe riflettere la sua convinzione che un atteggiamento realmente progressista verso Israele e la Palestina non sarebbe altrettanto ascoltato dall’elettorato che un’analisi economica di classe. Ma almeno è più consistente [di quella] di Chuck Schumer.

– Richard Silverstein è l’autore del blog « Tikum Olam » che mette in evidenza gli eccessi della politica della sicurezza nazionale israeliana. Il suo lavoro è stato pubblicato da “Haaretz”, “Forward”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”. Ha collaborato alla raccolta di saggi dedicati alla guerra del Libano del 2006 “A Time to speak out” [Il momento di parlare forte] (Verso) ed è l’autore di un altro saggio di una futura raccolta: “Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo non impegnano che il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




VITTORIO ARRIGONI. RICORDO DI UN VINCITORE

Patrizia Cecconi

1 febbraio 2020 Vitamine Vaganti

Nasceva il 4 febbraio del 1975 in un piccolo comune lombardo, Besana in Brianza, e per 16 anni, prima di venire ucciso appena trentaseienne, si era portato ovunque potesse aiutare, sia lavorando materialmente, sia provando a far conoscere al mondo le drammatiche situazioni dei popoli con i quali entrava empaticamente in sintonia.
Fu così che poco dopo il diploma Vittorio Arrigoni partiva per l’Europa dell’est, poi per l’America latina, poi per Africa.
Era uno spirito libero Vittorio, e come ricorda sua madre Egidia portando i suoi libri e la sua memoria ovunque venga invitata, aveva da sempre questo desiderio di dar senso alla sua vita aiutando gli altri. Aveva, come lui stesso diceva e come sua madre ricorda in ogni occasione, «un folle amore per i diritti umani».
Aveva aiutato a costruire e ristrutturare centri per disabili o per senzatetto tanto in Africa che in altri luoghi massacrati da guerra e povertà senza mai perdere quel suo look di giovane che, alla bellezza regalatagli dalla natura, aveva aggiunto un’espressività data dai valori che lo guidavano. Era questo che gli conferiva un forte carisma.
Era il 2002 quando toccò per la prima volta la Palestina, inviato a Gerusalemme Est dalla Ong nella quale era volontario. Successivamente entrò nell’Ism (International Solidarity Movement) prendendo a cuore la causa palestinese dopo aver visto cosa significasse vivere sotto la feroce occupazione militare israeliana.
Vittorio era un partigiano della giustizia e dei diritti umani, e mentre si batteva contro le quotidiane e sistematiche ingiustizie israeliane, aveva sufficienti critiche da fare anche alle leadership palestinesi, che si chiamassero Hamas o Fatah non faceva differenza.
Cominciò a scrivere report sulla situazione in cui era immerso dal vivo; faceva grande uso dei social e questo fece conoscere le sue parole ben oltre quelle frontiere odiose rappresentate dai muri di cemento e dai muri del pregiudizio. Non era un giornalista ma molto di più. Anche volendolo inserire nella categoria che secondo il grande Kapuscinski connota il giornalismo empatico, Vittorio era qualcosa di più, era uno scrittore prestato per congiunture drammatiche e per necessità di comunicazione al giornalismo. Passava alla tastiera ciò che vedevano i suoi occhi e senza cedimenti da libro-Cuore raccontava con un’empatia che riusciva a trasmettere a chiunque lo leggesse o lo ascoltasse quella verità generalmente filtrata e deformata dai media mainstream per “esigenze” di redazione.Probabilmente questo suo trasmettere ciò che portava conoscenza autentica, mettendo in comunicazione mente e cuore con l’efficacia del testimone diretto, fu la causa del suo inserimento nel libro nero di Israele e, nella primavera del 2005, mentre varcava la frontiera dalla Giordania che, come ogni accesso alla Palestina, è controllata dai soldati israeliani fin dal 1967, venne prelevato, massacrato e buttato in strada morente. Fu per un caso fortunato che alcuni militari giordani raccolsero il suo corpo ancora vivo e lo salvarono ma, chiaramente, per quella strada non sarebbe più potuto passare. Ci fu un’interrogazione parlamentare da parte di un senatore del gruppo dei Verdi ma si sa, a Israele – come diceva Golda Meir – dopo la Shoah tutto è permesso e quindi non successe nulla.
L’anno successivo Vittorio era in Congo, poi in Libano dove diede il suo aiuto nell’ampliamento di un centro sanitario in un campo profughi. Finalmente, nel 2008, quando la Striscia di Gaza era già sotto l’assedio israeliano, eludendo i controlli, via mare riuscì ad entrare come attivista umanitario e riprese a diffondere i suoi report.
La sua voce andava molto oltre l’assedio – immorale e illegittimo eppure ancora in atto dopo 13 anni di inutili appelli alle Nazioni Unite – e arrivava nel mondo.
Israele non poteva sopportare questo giovane italiano, insieme spavaldo e generoso, eccentrico e coraggioso, solidale con i pescatori e i contadini fino a rischiare la pelle, tenero con i bambini e duro nel denunciare i crimini quotidiani che l’assediante commetteva in quella striscia di terra lunga appena 40 chilometri e larga al massimo 10 nelle zone più estese. In totale 360 chilometri quadrati di carcere a cielo aperto.
Fu in una delle sue azioni di interposizione fisica a difesa dei pescatori che venne di nuovo preso dai soldati israeliani, picchiato duramente e probabilmente – se non si fosse gettato in acqua – sarebbero riusciti ad ucciderlo, magari simulando un incidente, visto che era cittadino di un Paese amico e non un palestinese per la cui uccisione non avrebbero avuto alcun obbligo di giustificazione.
Era il secondo tentativo di eliminazione di una voce troppo ascoltata e quindi troppo pericolosa. Ricordo che in quei giorni mi tornavano alla mente le parole che dalle elementari alle superiori avevo sentito tante volte nelle lezioni sul Risorgimento. Erano le parole dell’austriaco Metternich, primo ministro asburgico che vista la diffusione dell’autobiografia Le mie prigioni di Silvio Pellico, aveva definito quel libro più dannoso, per l’Austria, di una guerra perduta. Altre volte ho pensato invece a quando il generale e poi ministro israeliano Moshe Dayan convocò la poeta palestinese Fadwa Tuqan dicendole che una sua poesia (Mendicare un permesso, nda) faceva più danno all’immagine di Israele di dieci fedain.

Interessante rendersi conto che quando la parola fa male perché vera, il potere non corregge sé stesso ma cerca di neutralizzare o imbavagliare chi divulga la verità. Così anche Vittorio doveva essere tacitato, ma “con destrezza”, senza sollevare noie, che poi solo noie sarebbero state data l’impunità conclamata di quello Stato, ma meglio non averne. Comunque Vittorio, ancora una volta ferito, venne arrestato e successivamente espulso.
Ma questo ragazzo aveva deciso che Gaza era il luogo che in quel momento gli occupava  mente e cuore perché le condizioni in cui viveva la popolazione, ma soprattutto la mortificazione che si univa alla ferocia dell’assedio e, in mezzo a tutto questo, il calore umano che chiunque abbia vissuto qualche tempo a Gaza può testimoniare, gli avevano fatto scegliere la Striscia come sua momentanea patria di elezione. Fu così che tentò ancora e il 21 dicembre, con l’ultima nave che riuscì ad entrare nella Striscia, la Dignity del Free Gaza Movement, si ritrovò a Gaza pochi giorni prima della terribile aggressione da terra cielo e mare che in soli 22 giorni distrusse migliaia di case, scuole (compresa una scuola dell’Onu facendo strage dei rifugiati al suo interno), moschee, uffici pubblici, uccidendo immediatamente 1.203 palestinesi di cui 410 bambini e ferendone diverse migliaia di cui non tutti sarebbero sopravvissuti. Anche Israele ebbe i suoi morti, 12 militari e un civile e quasi 200 feriti, la maggior parte dei quali ricoverati per crisi di panico.
L’operazione venne definita “piombo fuso” e sembrava il massimo della ferocia possibile contro una popolazione sostanzialmente indifesa e impossibilitata a fuggire essendo chiusa in una gabbia che si apriva solo dall’esterno e solo per far entrare artiglieria a completare il lavoro degli F16. Venne usato il fosforo bianco, arma vietata che non si limita a uccidere ma brucia il corpo arrivando velocemente alle ossa fino alla completa combustione di ogni residuo di questa materia infernale che si alimenta con l’ossigeno contenuto nella sostanza organica.
Vittorio non volle uscire da Gaza per mettersi in salvo e, forse, non avremmo mai saputo la verità su “piombo fuso” se lui fosse uscito. I media si affannavano a parlare di rottura della tregua da una parte o dall’altra e poi, finalmente, venne fuori il perché di un attacco così particolarmente feroce: 410 bambini, o terroristi in erba come li definì una deputata  israeliana, che quindi era bene eliminare da piccoli! Tanta ferocia era finalizzata a guadagnarsi le simpatie dei votanti vista l’imminenza delle democratiche elezioni in Israele, il che non fa certo onore al popolo israeliano, ma il copione purtroppo si è più volte ripetuto anche se non c’era più Vittorio a raccontarci delle ambulanze schiacciate dai carri armati con la stella di David o dei bambini arsi vivi dal fosforo bianco e del correre tra un bombardamento e l’altro cercando di salvare qualche vita.
Vittorio era in mezzo a una violenza esercitata sui più deboli, una violenza di tale entità da far dimenticare torti e ragioni e capace di produrre solo odio eppure… Ecco che mi tornano alla mente le parole tante volte sentite nelle lezioni di storia relative a Silvio Pellico. Devo essere sincera, quelle parole le trovavo sincere solo perché scritte dopo essere uscito dal terribile carcere dello Spielberg, non credevo si potessero realmente pensare in stato di cattività. Pellico, con espressioni oggi arcaiche invitava «i cuori nobili a non odiare alcun mortale ma solo la pusillanimità, la perfidia e ogni morale degradamento». Vittorio è andato oltre. Vittorio firmava i suoi report con una frase, oggi diventata un leitmotiv più recitato che praticato, ma allora, tra terrore e sangue innocente, aveva la forza di cozzare contro la disumanità dell’Idf con lo stesso effetto dell’eruzione improvvisa e spettacolare di un vulcano dormiente. Vittorio firmava con la frase «restiamo umani». Un invito, un’invocazione, un comando, un impegno morale, una promessa, una via d’uscita dalla crudeltà che porta soltanto odio che si somma ad altro odio. Restiamo umani…nonostante tutto.
La realtà fatta di dolore e di urla, di morte e di terrore, nei report di Vittorio per “Il Manifesto” e per “Peace reporter” diventava letteratura, più e oltre che giornalismo, senza mai tradire di un millimetro l’impegno civile e umano che lo portava a restare sotto le bombe. Quando “Il Manifesto” raccolse i suoi report in un volume che titolò, appunto, Restiamo umani, ci si rese conto che quelle parole arrivavano alla mente e al cuore senza mai diventare emozioni viscerali di bassa lega. Vittorio forse sarebbe diventato un vero scrittore. La morte precoce glielo impedì.
La prima volta che parlai direttamente con lui era il 31 maggio del 2010. Era il giorno in cui Israele si era macchiato di un nuovo enorme crimine, stavolta era vera e propria pirateria, abbordando le navi della prima Freedom flotilla che tentavano pacificamente di rompere l’illegale assedio di Gaza portando medicinali, cibo e addirittura giochi per i bambini. Giusto un quotidiano come “Il Giornale” poteva titolare, a caratteri cubitali e a firma di Feltri, Israele ha fatto bene a uccidere.
Calandosi dagli elicotteri militari alle quattro di notte, in acque internazionali e col supporto di imbarcazioni da guerra, Israele aveva bloccato la flottiglia, sequestrato le navi e i loro passeggeri e ucciso a sangue freddo nove pacifisti sparando loro alla testa. Fu allora che Rainews24 chiamò me (ero tra le cinque persone che seguivano la Freedom flotilla in Italia) negli studi di Saxa Rubra a Roma e Vittorio in corrispondenza da Gaza per sentire le nostre opinioni.
La trasmissione venne censurata in alcuni punti per volere della direzione di Rainews e non andò a ripetizione come volevano i redattori che l’avevano organizzata, ma dopo la prima messa in onda dovette aspettare le tre di notte per un replay.
Vittorio, al di là del mare, sapeva come me che non sarebbe successo niente, che neanche per questo Israele avrebbe avuto sanzioni, ma ugualmente bisognava parlare perché non è vero che l’opinione pubblica non conta, altrimenti non si farebbe l’impossibile per addomesticarla, e quindi ci era chiaro che dovevamo usare i social perché quell’intervista non avrebbe girato troppo per i canali ufficiali, altrimenti avrebbe reso ridicola, come in effetti era, la voce dei valletti di Israele che affermava che i poveri soldati israeliani (armati fino ai denti) calatisi dagli elicotteri sulla nave Mavi Marmara, in piena notte, in acque internazionali (e coadiuvati dalle lance militari che avevano circondato la flottiglia) erano stati “costretti” a sparare in testa a nove attivisti per proteggersi dalla brutale violenza dei passeggeri (tra loro c’era anche un’anziana pacifista ebrea quasi novantenne) che “addirittura” avevano preso dei pezzi di sedia per colpirli.
Avevamo bisogno di operatori mediatici audaci e onesti che potessero dar senso a un’operazione tanto coraggiosa e portata avanti con spirito totalmente pacifista ma, a parte “Il Manifesto”, i media, anche senza arrivare all’ignobile titolo di Feltri, non diedero a questo fatto l’importanza che meritava, né misero l’accento sull’illegalità e l’illegittimità dell’assedio. Proprio per questo i social erano importanti, perché in parte riuscivano a supplire a quei voluti buchi neri in cui la verità andava smarrita e persa. E la voce di Vittorio era una voce che arrivava molto lontano. Vittorio, pur nella durezza delle sue condanne, invocava l’umanità nascosta dietro i silenzi e chiedeva attenzione al mondo. Lo faceva già prima di “piombo fuso”e avrebbe seguitato a farlo fino al suo rapimento.
La sua voce doveva essere spenta. Lo sapevamo tutti.
Quando venne ucciso Juliano Mer Kamis, il fondatore del Freedom theater a Jenin, circa dieci giorni prima del rapimento di Vittorio, la notizia ci arrivò da una radio “di movimento” e fu come un pugno in faccia. Stavamo preparando una serata per la Palestina. La mia amica ed io ci guardammo e dicemmo all’unisono «Vittorio deve tornare subito in Italia». Vittorio stava organizzandosi per tornare perché suo padre stava molto male, era questione di giorni, al massimo di settimane. Ma circa due mesi prima, quando lo avevo invitato a un convegno all’Università La Sapienza, mi aveva risposto «non sono io il regista della mia vita, verrò se potrò, altrimenti faremo un collegamento audio e vedrai che verrà una bellezza», poi mi aveva ricordato di mandargli sempre un sms prima di chiamarlo da un numero privato, aveva infatti smesso di rispondere a chiamate anonime perché erano tutte minacce di morte.
Vittorio quindi sapeva di essere preso di mira ma c’era qualcosa, la stessa cosa che non lo rendeva “il regista della sua vita” che gli imponeva di restare lì dove sentiva di poter essere utile. Era il 15 marzo il giorno del convegno e lui fu presente in diretta attraverso un cellulare. Esattamente un mese prima che lo uccidessero.
Quel giorno ci furono molti disordini a Gaza. Il movimento dei giovani che non volevano più sentir parlare di divisioni politiche aveva deciso di manifestare organizzando presidi di piazza ma le autorità locali, quelle che con spregio e con una buona dose di malafede quando non è pura ignoranza vengono definite “i terroristi di Hamas” avevano represso la manifestazione. E Vittorio spiegò la situazione al pubblico venuto ad ascoltarlo.
Le forze governative locali avevano ed hanno molte e purtroppo giustificate paure: lo spionaggio israeliano finalizzato agli omicidi dei leader, il tentativo di infiltrazione dell’Isis, i salafiti, i disperati per disoccupazione che vivono solo di sussidi, i giovani che vorrebbero vedere e assaggiare la libertà oltre la linea dell’assedio in cui li costringe Israele, le rivalità interne tra le diverse fazioni. Tutti elementi che Vittorio conosceva bene, ma conoscerli non è servito a proteggerlo.
Venne sequestrato mentre usciva dalla palestra. Sì, a Gaza ci sono palestre e anche molto altro per fortuna, e non solo disperazione e macerie. Gaza è un mosaico multicolore dove ciò che assolutamente manca è la libertà perché Israele la chiude da cielo, da terra e dal mare, ma i gazawi – e Vittorio lo sapeva benissimo – hanno una straordinaria dote, loro la definiscono “specifica follia gazawa”, forse è vero, comunque sanno fare nella loro prigione ciò che a un occhio estraneo sembrerebbe impossibile. Quindi hanno anche palestre e Vittorio andava regolarmente nella sua palestra e lì lo hanno aspettato per sequestrarlo.
Quando il suo viso pestato e bendato è apparso sui nostri telegiornali molti di noi hanno capito subito che i sequestratori non avrebbero aspettato il riscatto. “L’oggetto” di un riscatto è prezioso, non si massacra e soprattutto non si danno poche ore per decidere della sua sorte. Vittorio fu ucciso subito.
Le mani che lo strangolarono erano palestinesi. Il perché non si sa. Ma non era ai palestinesi che la voce di Vittorio dava fastidio.
Due dei suoi rapitori furono uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia che andava ad arrestarli. Gli altri tre non dettero giustificazioni comprensibili. Certo è solo che Vittorio non era un loro nemico! Questo è ciò che a distanza di nove anni ancora ci interroga e che ancora oggi non dà pace a sua madre: il non sapere il vero motivo della morte di questo figlio che però, paradossalmente, morendo, ha moltiplicato la sua voce, quella che Israele voleva spegnere.
Ricordo che il dolore per la sua morte colpì decine di migliaia di persone. Arrivarono ai suoi funerali a Bulciago non solo migliaia e migliaia di italiani, ma qualcuno prese l’aereo dall’Irlanda, qualcuno dalla Spagna, qualcuno dall’Africa. A me e ad altri arrivarono perfino telefonate dall’Australia.
A fronte di tanto dolore da parte di chi aveva imparato a sentire la sua voce tramite il suo blog ma anche tramite la trasmissione radio Caterpillar e di chi leggeva i suoi report o lo aveva seguito durante “piombo fuso”, c’è da dire che la sua salma arrivò in Italia senza che neanche l’ultimo straccio di un vice-vice-sotto-vice ministro andasse a riceverla all’aeroporto.
C’eravamo noi, gli  amici e i compagni, prima all’aeroporto e poi, a migliaia, a rendergli omaggio a San Lorenzo dove venne allestita la camera ardente.
Rainews24 aveva intervistato alcuni attivisti e fece un servizio decoroso. Altre TV, invece,  parlarono del «pacifista italiano ucciso dai palestinesi». Una notizia ghiotta e fasulla, perché “i” palestinesi ancora piangono Vittorio e lo definiscono un loro martire. I sicari che lo hanno ucciso, invece, di palestinese avevano solo la carta d’identità e neanche tutti. Erano altri che desideravano spegnere quella voce, esplosa invece come una galassia che è andata moltiplicandosi raggiungendo anche chi non l’aveva mai sentita prima. Chi non lo aveva conosciuto cominciò a conoscerlo allora. E cominciò ad amarlo. E a capire a distanza cosa significa vivere sotto il tallone di un’occupazione militare pluridecennale o dentro il recinto di una prigione a cielo aperto.   
Il dolore per il suo assassinio col tempo si è placato, mentre è rimasto vivo quel grido trasmesso dalla sua firma, “restiamo umani!”.
Di certo Vittorio, o Vik come veniva chiamato, è stato un sognatore e come lui stesso disse un giorno prendendo le parole di Nelson Mandela: «un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare e se un giorno, tra 100 anni dovessi morire, vorrei che sulla mia tomba fosse scritto: ‘Vittorio Arrigoni, un vincitore’».
È stato quindi un sognatore che ha vinto, ha vinto sul male e sulla morte perché, come una nuvola leggera, Vittorio ha lasciato nell’aria quell’invito accorato al mondo, quell’invito che vuole essere un programma senza scadenza, un programma da seguire, valido ovunque e per sempre: restiamo umani!

 

Patrizia Cecconi

Nata a Roma. Laureata prima in sociologia, poi in erboristeria. Si accorge che i meccanismi di inclusione ed esclusione applicati al mondo umano, il mondo umano li applica anche alla natura, così scrive qualche libro in cui tratta sia di piante che di diritti umani. Dopo 25 anni di appassionato lavoro all’interno delle scuole, lascia l’insegnamento si dedica alla scrittura e alla causa che ormai sente sua: la Palestina.




Rapporto OCHA del periodo 21 gennaio – 3 febbraio 2020

Il 21 gennaio, le forze israeliane hanno ucciso tre palestinesi: due 18enni e un 17enne. I giovani avevano varcato la recinzione israeliana che cinge Gaza e, a quanto riferito, avevano lanciato un ordigno esplosivo contro i soldati.

I loro corpi sono stati trattenuti dalle autorità israeliane. Non sono stati riportati ferimenti di israeliani.

Un 14enne palestinese è morto per la ferita riportate il 10 novembre 2019, durante una manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR): era stato colpito alla testa da un contenitore di gas lacrimogeno sparato dalle forze israeliane. La sua morte, avvenuta il 31 gennaio, porta a 214 (di cui 47 minori) il numero totale di vittime delle manifestazioni GMR da quando queste sono iniziate, il 30 marzo 2018. Il Comitato Organizzatore del GMR aveva annunciato che, dalla fine del 2019, le manifestazioni settimanali sarebbero state sospese fino al 30 marzo 2020; dopo tale data esse riprenderanno per continuare su base mensile e su temi specifici. Dal 28 gennaio, nei pressi della recinzione perimetrale con Israele, si sono svolte una serie di proteste contro il piano americano per il Medio Oriente, durante le quali 11 palestinesi, tra cui tre minori, sono stati feriti dalle forze israeliane.

Palestinesi di Gaza (compresi gruppi armati) hanno sparato colpi di mortaio ed hanno lanciato verso Israele diversi razzi, nonché ordigni esplosivi appesi a fasci di palloncini. I proiettili sono stati intercettati in aria o sono caduti in aree aperte. Nella città di Sderot, una donna israeliana e il suo bambino, mentre correvano verso un rifugio, sono rimasti feriti.

L’esercito israeliano ha effettuato una serie di attacchi aerei contro strutture di gruppi armati di Gaza; due di questi attacchi hanno provocato il ferimento di due minori palestinesi. Il 2 febbraio, le autorità israeliane hanno sospeso l’ingresso di cemento in Gaza [i valichi sono sotto controllo israeliano] ed hanno revocato il permesso di uscita a 500 uomini d’affari. Secondo quanto riferito, questi attacchi e questi provvedimenti sono stati attuati in risposta al lancio di razzi e palloncini esplosivi da Gaza.

In almeno 30 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti in aree [di Gaza] adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa di Gaza [cioé, le “Aree ad Accesso Riservato”]; sono stati segnalati tre feriti, tra cui un minore. In un caso separato, le forze navali israeliane hanno arrestato tre pescatori palestinesi, tra cui un minore, ed hanno sequestrato la loro barca.

In Cisgiordania (fino alla chiusura di questo bollettino), 287 palestinesi, tra cui 43 minori e otto donne, sono rimasti feriti in scontri avvenuti a partire dal 28 gennaio, data dell’annuncio del piano USA per il Medio Oriente. Gli scontri più ampi sono stati registrati nel villaggio di Beita (Nablus), nella città di Betlemme, al checkpoint Beit-El / DCO (Ramallah), nelle città di Hebron e di Al ‘Eizariya (Gerusalemme), nel villaggio di Khirbet ‘Atuf ed al checkpoint di Tayasir (questi ultimi due in Tubas ). Oltre l’80% dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, il 16% è stato colpito da proiettili di gomma e il 2% da armi da fuoco. Nella città di Hebron, durante scontri, le uniformi di un soldato israeliano e di un ufficiale della Polizia di Frontiera sono andate a fuoco a causa del lancio di bottiglie incendiarie da parte di palestinesi.

In altri scontri, avvenuti all’inizio del periodo di riferimento, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 49 palestinesi, di cui otto minori. Dei 49 feriti, venticinque sono stati registrati a Gerusalemme Est, nell’area di Beit Hanina, durante scontri scoppiati al diffondersi di voci secondo cui un ragazzo palestinese, scomparso, sarebbe stato rapito da coloni israeliani; il ragazzo è stato successivamente trovato morto, secondo quanto riferito, annegato in una cisterna d’acqua. Altri tredici palestinesi [dei 49] sono rimasti feriti nella città di Al ‘Eizariya (Gerusalemme) durante scontri spontanei, e cinque sono rimasti feriti durante le proteste settimanali nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya). Preoccupa la situazione di un ragazzo palestinese di 11 anni, colpito alla testa da una bomboletta di gas lacrimogeno sparata dalle forze israeliane durante scontri vicino alla scuola di Burin (Nablus); in conseguenza di ciò, le lezioni sono state sospese per il resto della giornata. Questi episodi portano a 336 il totale dei [palestinesi] feriti durante il periodo di riferimento [cioé, 2 settimane]; più del doppio della media del 2019 (136 feriti ogni 2 settimane).

Le forze israeliane hanno effettuato 81 operazioni di ricerca-arresto in Cisgiordania ed hanno arrestato 89 palestinesi, tra cui 12 minori. La maggior parte delle operazioni si sono avute nel Governatorato di Hebron (23), seguito dai governatorati di Gerusalemme (19) e Ramallah (14). Nel quartiere di Al Isawiya a Gerusalemme Est, durante le consuete operazioni di polizia, la situazione è rimasta tesa: a seguito di una di queste operazioni, una ragazza palestinese di 14 anni ha perso conoscenza ed è stata trasportata in ospedale. Secondo quanto riferito, la ragazza avrebbe subito un trauma per la perquisizione svolta dalle forze di polizia nella sua casa.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito, o costretto i proprietari a demolire, dieci strutture palestinesi, sfollando nove persone e causando ripercussioni su altre 41. Cinque delle strutture demolite, compresa una precedentemente fornita come aiuto umanitario, erano situate in Area C, nel villaggio di Az Zawiya (Salfit) e ad Al Khalayleh, una piccola Comunità nell’area di Gerusalemme, separata dal resto della Cisgiordania dalla Barriera. Le restanti cinque strutture si trovavano a Gerusalemme Est, una delle quali in una Comunità (Khirbet Khamis) separata da Betlemme dalla Barriera. Tre delle strutture in Gerusalemme Est sono state demolite dai proprietari, a seguito del ricevimento di ordini di demolizione.

Individui, ritenuti coloni israeliani, hanno dato alle fiamme una scuola e una moschea, hanno vandalizzato 189 alberi di proprietà palestinese ed hanno ferito quattro palestinesi. I sopraccitati episodi di incendio doloso si sono verificati il 24 ed il 28 gennaio in una scuola del villaggio di Einabus (Nablus) e in una moschea della zona di Sharafat, a Gerusalemme Est. In entrambi i casi, sui muri degli edifici, sono state spruzzate scritte offensive in ebraico [seguono i dettagli]. In due episodi distinti, verificatisi presso gli insediamenti colonici di Bruchin e Shave Shomron, coloni hanno abbattuto 182 alberi appartenenti agli agricoltori dei villaggi di Kafr ad Dik (Salfit) e Sebastiya (Nablus). Coloni israeliani hanno fatto irruzione nel vicino villaggio di Madama (Nablus), dove hanno lanciato pietre contro case palestinesi, vandalizzato ulivi e, negli scontri conseguenti l’irruzione, hanno ferito due palestinesi. Altri due contadini palestinesi del villaggio di As Sawiya (Nablus), mentre lavoravano la loro terra, sono stati colpiti con pietre e feriti da un gruppo di coloni israeliani. Un veicolo palestinese ha subito danni in un separato episodio di lancio di pietre vicino al villaggio di Haris (Salfit).

Secondo varie fonti israeliane, una ragazza israeliana è stata ferita nei pressi dell’area di insediamento di Gush Etzion (Betlemme) e almeno sette veicoli israeliani sono stati danneggiati da lanci di pietre e bottiglie incendiarie, ad opera di palestinesi, contro auto transitanti lungo le strade della Cisgiordania.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 5 febbraio, nella città di Hebron, durante scontri, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese di 17 anni.

Il 6 febbraio, nella città di Jenin, durante scontri, scoppiati durante una demolizione punitiva, le forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi; uno degli uccisi era un poliziotto palestinese che, secondo quanto riferito, durante gli scontri si trovava all’interno di una stazione di polizia.

Il 6 febbraio, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese, cittadino israeliano, ha aperto il fuoco contro forze israeliane che, a loro volta, lo hanno colpito e ucciso; un poliziotto israeliano è rimasto ferito.

Il 6 febbraio, a Gerusalemme Ovest, un palestinese si è lanciato con l’auto contro un gruppo di soldati israeliani, ferendone 13; si è quindi dato alla fuga, incolume.

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Il piano di pace in Medio Oriente di Trump rivela la dura verità.

Nathan Thrall

29 gennaio 2020 – New York Times

Questa non è una rottura dello status quo. È il culmine naturale di decenni di politica americana.

Martedì scorso il presidente Trump ha reso pubblico dopo una lunga gestazione il suo piano per la pace in Medio Oriente, il cosiddetto “accordo del secolo”. Questo prevede che vi sia uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza; che Gerusalemme, compresa la Città Vecchia, sia la capitale indivisa di Israele; che Israele annetta tutte le colonie, nonché la Valle del Giordano, che costituisce quasi un quarto della Cisgiordania, compreso il confine orientale con la Giordania, con la creazione di uno Stato-arcipelago palestinese a macchia di leopardo, circondato come da un mare dal territorio israeliano. Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconosceranno la sovranità israeliana su tutto il territorio che il piano assegna a Israele, e poco dopo, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è impegnato ad annettere tutte le colonie e la Valle del Giordano a partire da domenica.

I membri della destra israeliana e altri oppositori della soluzione dei due Stati hanno celebrato l’accordo come la fine definitiva della possibilità di uno Stato palestinese indipendente. La sinistra israeliana, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e altri sostenitori della soluzione dei due Stati hanno condannato il piano per le stesse ragioni, definendolo il colpo di grazia per la soluzione dei due Stati.

Quindi c’è stato accordo tra sostenitori e detrattori sul fatto che la proposta abbia segnato una svolta importante dopo decenni nella politica americana e internazionale. Ma il piano è davvero l’antitesi del tradizionale approccio al conflitto da parte della comunità internazionale? O è in realtà la logica realizzazione finale di questo approccio?

Per oltre un secolo, l’Occidente ha sostenuto gli obiettivi sionisti in Palestina a spese della popolazione palestinese originaria. Nel 1917 il governo britannico promise di stabilire una casa nazionale per il popolo ebraico in Palestina, dove gli ebrei costituivano meno dell’8% della popolazione [la dichiarazione Balfour del 2 novembre1917, scritta dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord Rothschild, referente del movimento sionista, affermava di guardare con favore alla creazione di una “dimora nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, allora parte dell’Impero Ottomano, ndtr.]. Trenta anni dopo, le Nazioni Unite proposero un piano per dividere la Palestina: gli ebrei, che costituivano meno di un terzo della popolazione e possedevano meno del 7% della terra, ricevettero la maggior parte del territorio. Durante la guerra che seguì, Israele conquistò più di metà del territorio assegnato allo stato arabo; ai quattro quinti dei palestinesi , che avevano vissuto in quelli che divennero i nuovi confini di Israele, fu impedito di tornare nelle loro case. La comunità internazionale non costrinse Israele a restituire i territori che aveva sottratto, né a consentire il ritorno dei rifugiati.

Dopo la guerra del 1967, quando sottrasse il restante 22% della Palestina, oltre alla penisola del Sinai all’Egitto e alle alture del Golan alla Siria, Israele insediò illegalmente delle colonie nei territori occupati e creò un regime con leggi separate per i diversi gruppi di persone , israeliani e palestinesi, che vivevano nello stesso territorio. Nel 1980 Israele annesse formalmente Gerusalemme est. Come per il processo di colonizzazione da parte di Israele, vi furono delle ammonizioni e condanne internazionali, ma il sostegno finanziario e militare americano rafforzò ulteriormente Israele.

Nel 1993, gli Accordi di Oslo concessero un’autonomia limitata ai palestinesi, [sparsi] in una manciata di isolotti senza collegamenti. Gli accordi non richiedevano lo smantellamento delle colonie israeliane né la sospensione della loro crescita. Il primo piano americano per lo Stato palestinese fu presentato dal presidente Bill Clinton nel 2000. Dichiarava che le estese colonie israeliane sarebbero stati annesse ad Israele, così come tutti gli insediamenti coloniali ebraici nella Gerusalemme est occupata. Lo Stato palestinese sarebbe stato smilitarizzato e avrebbe ospitato installazioni militari israeliane e forze internazionali nella Valle del Giordano che avrebbero potuto essere ritirate solo con il consenso di Israele. Come nel “patto del secolo”, questo piano, che costituiva la base di tutti i successivi, dava ai palestinesi una maggiore autonomia e definiva la Palestina uno Stato.

Ora secondo l’esercito israeliano ci sono più palestinesi che ebrei che abitano nei territori sotto il controllo di Israele. Sia nella visione di Trump che di Clinton, i piani americani hanno confinato la maggior parte del gruppo etnico predominante in meno di un quarto del territorio, con restrizioni alla sovranità palestinese di così vasta portata che il risultato dovrebbe essere più propriamente chiamato soluzione a favore di uno Stato e mezzo.

Il piano di Trump ha molti gravi difetti: dà la priorità agli interessi ebraici rispetto a quelli palestinesi. Premia e persino incoraggia le colonizzazioni e l’ulteriore espropriazione dei palestinesi. Ma nessuno di questi aspetti rappresenta una rottura fondamentale col passato. Il piano Trump si limita a dare gli ultimi ritocchi a una casa che i parlamentari americani, repubblicani e democratici, nel corso di decine di anni hanno aiutato a costruire. Negli ultimi decenni, quando Israele ha lentamente annesso la Cisgiordania, insediando più di 600.000 coloni nei territori occupati, gli Stati Uniti hanno fornito a Israele sostegno diplomatico, veti nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, pressioni su tribunali internazionali e organi investigativi per non perseguire Israele e miliardi di dollari in aiuti annuali.

Alcuni dei democratici che ora si candidano alla presidenza [USA] hanno parlato della loro disapprovazione per le annessioni da parte di Israele, anche se non propongono nulla per fermarle. Così una democratica popolare come la senatrice Amy Klobuchar può dichiarare la sua opposizione all’annessione e firmare una lettera che critica il piano Trump per il suo “disprezzo [del] diritto internazionale”, dopo aver sponsorizzato una risoluzione del Senato che “esprime profonda contrarietà” verso una Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 2016 che ha richiesto a Israele di interrompere gli interventi di colonizzazione illegale. Altri democratici, come la senatrice Elizabeth Warren e Pete Buttigieg, affermano che non sarebbero disposti a fornire il sostegno finanziario dell’America al processo di annessione da parte israeliana. Ma questo è poco più di una formula elegante che permette loro di apparire duri senza minacciare nulla, dal momento che l’assistenza americana a Israele non riguarderebbe, in ogni caso, direttamente i compiti burocratici, come il trasferimento del registro fondiario della Cisgiordania dai militari al governo israeliano.

A parte vaghi riferimenti all’utilizzo di aiuti come incentivo, nessun candidato presidenziale, tranne il senatore Bernie Sanders, ha avanzato proposte riguardo l’inizio di una riduzione della complicità americana nella violazione dei diritti dei palestinesi da parte di Israele. Le dichiarazioni di opposizione all’annessione suonano vuote quando non sono accompagnate da piani per prevenirla o annullarla: vietare i prodotti delle colonie; ridurre l’assistenza finanziaria a Israele dell’importo che spende nei territori occupati; disinvestimento di fondi pensione statali e federali in società operanti negli insediamenti illegali; e la sospensione degli aiuti militari fino a quando Israele non ponga fine alla punizione collettiva di due milioni di persone confinate a Gaza e non fornisca ai palestinesi in Cisgiordania gli stessi diritti civili concessi agli ebrei che vivono al loro fianco.

Il piano Trump, proprio come il processo di pace decennale che porta a compimento, offre a Israele la copertura per perpetuare quello che è noto come lo status quo: Israele come unico sovrano che controlla il territorio tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, privando milioni di persone senza Stato dei diritti civili di base, limitando il loro movimento, criminalizzandone i discorsi che potrebbero danneggiare l ‘ “ordine pubblico”, incarcerandoli sulla base dell’indefinita e illimitata “detenzione amministrativa”, senza processo o accusa, e spodestandoli della loro terra, il tutto mentre i leader del Congresso, l’Unione Europea e una buona parte del resto del mondo applaudono e incoraggiano questa farsa, esprimendo solennemente il loro impegno per la ripresa di “trattative significative”.

Ai difensori di Israele piace dire che Israele viene preso di mira e hanno ragione. Israele è l’unico stato che perpetua un’occupazione militare permanente, con leggi discriminatorie per gruppi separati che vivono nello stesso territorio, che in tutto il mondo [persone] autoproclamatesi democratiche fanno di tutto per giustificare, difendere e persino finanziare. In assenza di politiche di impegno che contrastino l’attuale oppressione, i critici democratici del piano Trump non sono molto meglio del presidente. Sono, non a parole ma nei fatti, anch‘essi sostenitori dell’annessione e della sottomissione.

Nathan Thrall (@nathanthrall) è autore di The Only Language They Understand: Forcing Compromise in Israel and Palestine (L’unico linguaggio che conoscono: imporre un accordo in Israele e Palestina, Metropolitan Books 2017) e direttore del Progetto arabo-israeliano dell’International Crisis Group.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)