Rapporto OCHA del periodo 10 – 23 dicembre 2019

Durante le manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR), tenute nei pressi della recinzione perimetrale che separa la Striscia di Gaza da Israele, 129 palestinesi, tra cui 44 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane.

Secondo il Ministero palestinese della Salute di Gaza, 60 persone sono state ricoverate in ospedale per ferite, mentre le rimanenti sono state curate sul campo. Fonti israeliane hanno riferito che, in diverse occasioni, i manifestanti si sono avvicinati alla recinzione ed hanno lanciato ordigni esplosivi, senza provocare feriti israeliani. Le proteste del 13 e del 20 dicembre hanno fatto registrare il più basso numero di ferimenti dal marzo 2018, data di inizio della GMR.

In alcune occasioni, fazioni armate di Gaza hanno lanciato missili contro Israele che, a sua volta, ha effettuato attacchi aerei su Gaza, prendendo di mira, a quanto riferito, strutture militari. Nessuno degli attacchi ha provocato vittime. A Gaza, circa 10 edifici residenziali, prossimi agli obiettivi citati sopra, hanno subito lievi danni.

Il 19 dicembre, secondo quanto riferito in risposta al lancio di un razzo, Israele ha ridotto da 15 a 10 miglia nautiche (NM) la zona di pesca consentita [ai palestinesi] al largo della costa meridionale di Gaza; il limite di 15 miglia è stato poi ripristinato il 23 dicembre. Sulla costa settentrionale rimangono immutate le restrizioni di pesca imposte da Israele; qui la distanza massima consentita dalla costa è di sei miglia nautiche. Durante il periodo in esame, al largo della costa di Gaza le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso pescatori palestinesi in almeno sette occasioni; non risultano feriti, ma una barca è stata affondata.

L’esercito israeliano ha riferito che a Gaza, il 17 dicembre, ad est di Khan Younis, un palestinese 18enne armato è stato colpito e ucciso dalle forze israeliane mentre si stava avvicinando alla recinzione. Il giovane non è stato riconosciuto da alcuna fazione armata e il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. In un altro caso, le forze israeliane hanno sparato e ferito, e successivamente arrestato, un palestinese che era entrato in Israele attraverso la recinzione; secondo quanto riferito era in possesso di un coltello.

In almeno altre 15 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco [di avvertimento] allo scopo di far rispettare le restrizioni di accesso [imposte da Israele ai palestinesi] sulle aree [di Gaza] adiacenti alla recinzione perimetrale; non sono stati segnalati feriti. Le forze israeliane hanno effettuato una incursione [nella Striscia] ed hanno svolto una operazione di spianatura del terreno vicino alla recinzione. In due episodi separati, vicino alla recinzione perimetrale tra Gaza e Israele, sono stati arrestati quattro palestinesi, tra cui tre minori.

Il 22 dicembre, le autorità israeliane hanno annunciato che, in occasione delle festività natalizie, avrebbero agevolato l’accesso dei residenti cristiani di Gaza e della Cisgiordania ai luoghi sacri di Gerusalemme Est e Betlemme. Secondo lo stesso annuncio, i permessi per uscire da Gaza ed entrare in Gerusalemme Est (destinati ai titolari di documento di identità della Cisgiordania) consentiranno agli interessati di dover sostenere unicamente il controllo di sicurezza individuale, indipendentemente dalla loro età. Secondo la consueta politica israeliana nei confronti di Gaza, avrebbero invece ottenuto permessi di uscita solo palestinesi appartenenti a determinate categorie ben definite, fermo restando il controllo di sicurezza individuale.

In Cisgiordania, in diverse circostanze, sono stati feriti dalle forze israeliane 14 palestinesi, tra cui almeno tre minori [segue dettaglio]. Nella zona di Tulkarm, in tre diverse occasioni, le forze israeliane hanno sparato con armi da fuoco ed hanno ferito sei palestinesi; ne hanno aggredito fisicamente altri due che, a quanto riferito, per motivi di lavoro avevano tentato di entrare in Israele valicando la Barriera, senza permesso e attraverso aperture non autorizzate. Altri quattro ferimenti sono stati segnalati durante scontri avvenuti nel corso di operazioni di ricerca-arresto. Un altro palestinese di 16 anni è stato colpito e ferito con arma da fuoco sulla strada 60, vicino a Betlemme; a quanto riferito, stava per lanciare una bottiglia incendiaria contro veicoli israeliani; il ragazzo è stato successivamente arrestato.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato un totale di 154 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 146 palestinesi, tra cui almeno 17 minori. Il maggior numero di operazioni è stato registrato nel governatorato di Gerusalemme (41) (principalmente nel quartiere di Al ‘Isawiya a Gerusalemme Est), seguito dai governatorati di Ramallah (34) e Hebron (27).

In Area C e Gerusalemme est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o costretto le persone ad autodemolire 29 strutture, sfollando 45 persone e creando ripercussioni su altre 100. Dodici delle strutture prese di mira, di cui cinque precedentemente fornite come assistenza umanitaria, si trovavano nei governatorati di Tubas, Nablus e Gerico, presso tre Comunità di pastori situate in aree designate come “zone per esercitazioni a fuoco” e destinate [da Israele] all’addestramento militare. In Cisgiordania nel 2019, finora, sono state demolite o sequestrate 617 strutture, sfollando 898 palestinesi; queste cifre rappresentano rispettivamente un aumento del 35% (strutture) e del 92% (sfollati), rispetto al corrispondente periodo del 2018. Oltre il 20% di tutte le strutture prese di mira nel 2019 e circa il 40% di tutte le strutture di sostegno finanziate da donatori, si trovavano in “zone per esercitazioni a fuoco”; questa denominazione viene attribuita a circa il 30% dell’Area C.

Durante una delle demolizioni in una “zona per esercitazioni a fuoco” ad est di Nablus, le forze israeliane hanno sradicato o tagliato circa 2.500 alberi forestali e alberelli. Gli alberi facevano parte di un’area ricreativa (anche descritta dai palestinesi come una “riserva naturale”) fruibile da circa 14.000 residenti della vicina città di Beit Furik e della Comunità di pastori di Khirbet Tana. Quest’area era stata attivata con il sostegno del Ministero dell’Agricoltura palestinese e di una Organizzazione internazionale. In Area C, questa è la terza area ricreativa distrutta nel 2019.

Il 10 dicembre, circa 80 agricoltori palestinesi di tre villaggi del governatorato di Salfit hanno perso il diritto di accesso alla loro terra situata dietro la Barriera della Cisgiordania; infatti le autorità israeliane hanno confiscato i loro permessi di ingresso. L’episodio si è verificato al cancello della Barriera che porta ai terreni degli agricoltori, secondo i quali non è stata data loro alcuna motivazione. Il 5 dicembre, gli agricoltori di questi tre villaggi avevano presentato una petizione alla Corte Suprema di Israele contro la abituale trascuratezza delle autorità nell’apertura del cancello all’ora prevista.

In otto attacchi di coloni israeliani, quattro palestinesi sono rimasti feriti e circa 330 alberi di ulivo e sette veicoli sono stati danneggiati [segue dettaglio]. Nella Zona (H2) della città di Hebron, controllata da Israele, tre donne palestinesi sono state aggredite con spray al peperoncino e ferite. Nei pressi dell’insediamento colonico avamposto [cioé, non autorizzato da Israele] di Ibei Hanahal (Betlemme), un pastore palestinese che stava pascolando le sue pecore è stato attaccato e ferito da un cane sguinzagliato da coloni. Presso i villaggi di Al Khadr (Betlemme) e Al Mughayyir (Ramallah), assalitori (ritenuti coloni) hanno vandalizzato circa 330 alberi di ulivo; questo episodio si è verificato in un’area in cui i palestinesi, per accedere alla loro terra, devono richiedere una autorizzazione alle autorità israeliane. In altri due episodi verificatisi nel villaggio di Far’ata (Qalqiliya) e nella Zona H2 della città di Hebron, coloni israeliani hanno dato fuoco a due veicoli palestinesi, hanno forato le gomme di altri due ed hanno spruzzato scritte tipo “Questo è il prezzo da pagare”. Altri tre veicoli palestinesi, in transito su strade principali, sono stati colpiti da pietre e danneggiati.

Secondo resoconti di media israeliani, nel corso di sette episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi, verificatisi su strade prossime a Betlemme, Hebron, Gerusalemme e Ramallah, un israeliano è stato ferito e almeno otto veicoli sono stati danneggiati.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

 




La Corte Penale internazionale (CPI) avvierà un’indagine approfondita sui crimini di guerra israeliani.

Redazione di MEE

20 dicembre Middle East Eye

Le associazioni palestinesi e israeliane per i diritti umani salutano la decisione della procuratrice della Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine ufficiale

La procuratrice capo della Corte Penale Internazionale ha dichiarato che aprirà un’indagine approfondita su presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza, un annuncio che è stato accolto favorevolmente dai palestinesi ma che ha suscitato una forte critica da Israele.

“Sono persuasa che ci sia una base ragionevole per procedere a un’indagine sulla situazione in Palestina”, ha detto venerdì Fatou Bensouda in un comunicato.

“In breve, sono convinta del fatto che i crimini di guerra siano stati commessi o si stiano commettendo in Cisgiordania, tra cui Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza”.

Bensouda ha aggiunto che prima di aprire l’ indagine avrebbe chiesto al tribunale dell’Aja di pronunciarsi sui territori sui quali è competente, poiché Israele non è membro della Corte.

La questione della giurisdizione del tribunale deve essere risolta prima che la CPI possa procedere alle indagini.

Un’indagine approfondita da parte della CPI può comportare accuse contro singoli. Gli Stati non possono essere processati.

Questa fondamentale questione dovrebbe essere decisa ora e il più rapidamente possibile nell’interesse delle vittime e delle comunità colpite “, ha detto Bensouda.

Ha aggiunto che “non ci sono ragioni sostanziali per credere che un’indagine non servirebbe a fare giustizia”.

Il 5 dicembre, dopo cinque anni di indagini preliminari ed esame di prove di violenti azioni israeliane contro i palestinesi, la CPI ha pubblicato un rapporto.

La CPI ha esaminato le prove relative al conflitto tra Israele e Gaza del 2014,in cui sono morti 2.251 palestinesi, di cui la maggior parte erano civili e 74 israeliani, la maggior parte dei quali soldati.

L’annuncio è stato accolto con favore dalla leadership palestinese come un “passo atteso da tempo”.

“La Palestina si compiace di questo … come passo atteso da tempo per far avanzare il processo verso un’indagine, dopo quasi cinque lunghi e difficili anni di esame preliminare”, si afferma in una dichiarazione del ministero degli Esteri

Anche Hanan Ashrawi funzionara palestinese di alto livello, ha accolto con favore l’annuncio, affermando che i palestinesi “hanno fatto affidamento sulla Corte Penale Internazionale”.

“Israele deve essere ritenuto responsabile”

Mohammed Bassem, un attivista della Cisgiordania occupata, ha dichiarato a Middle East Eye di sostenere la decisione della CPI.

“Penso che sarà una buona opportunità per discutere della colonizzazione della Palestina e di come Israele ha portato avanti la sua occupazione”, ha detto Bassem.

Tuttavia ha affermato che alcuni palestinesi sono scettici sul fatto che l’inchiesta porti a risultati concreti.

“Siamo anche preoccupati di cosa si occuperà effettivamente l’indagine “, ha detto Bassem. “Per esempio l’inchiesta non seguirà le questioni dei rifugiati e il loro diritto al ritorno e questo è preoccupante, perché è una delle maggiori questioni al centro di ciò che riguarda il conflitto, e sappiamo che, a tal proposito, la Corte non farà nulla “.

In seguito all’annuncio di Bensouda, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è scagliato contro quello che ha definito “un giorno oscuro per la verità e per la giustizia”.

“La Corte non ha giurisdizione in questo caso. La CPI ha giurisdizione solo sulle petizioni presentate da Stati sovrani. Ma non c’è mai stato uno Stato palestinese”, ha detto Netanyahu in un comunicato.

Nel contempo anche il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit si è opposto alla decisione della CPI, affermando che la Corte non ha la giurisdizione per processare [cittadini] israeliani per crimini di guerra.

“Solo gli Stati sovrani possono delegare alla Corte la giurisdizione penale. Ai sensi del diritto internazionale e dello statuto istitutivo della Corte l’Autorità Nazionale Palestinese chiaramente non soddisfa i criteri di statualità”, ha affermato Mandelblit.

L’Autorità Nazionale Palestinese è riconosciuta come uno Stato non membro dalle Nazioni Unite, il che le consente di firmare trattati e godere della maggior parte delle prerogative, in modo simile agli Stati membri a pieno titolo.

Nel 2015 l’ANP ha firmato lo Statuto di Roma che governa la CPI. Alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, non sono firmatari e pertanto sono protetti dall’accusa all’Aja per crimini di guerra.

Il centro legale per i diritti delle minoranze arabe [palestinesi ndt] in Israele “Adalah” ha accolto con favore la decisione della CPI, affermando di ritenere che la Corte “abbia la piena giurisdizione per decidere sui casi penali in questione”

“Sulla base dei numerosi rapporti delle organizzazioni per i diritti umani e delle commissioni d’inchiesta delle Nazioni Unite nel corso degli anni, il procuratore della CPI, alla luce dei fatti, ha preso la giusta decisione”, ha scritto Adalah in un comunicato venerdì. Ha aggiunto che “nessun’ altra decisione avrebbe potuto essere possibile”.

Anche B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani, ha affermato che la decisione di aprire un’indagine “è stato l’unico possibile risultato derivante dai fatti”.

In una dichiarazione dell’associazione si afferma che “alle acrobazie legali di Israele nel tentativo di nascondere i propri crimini non deve essere consentito di bloccare i tentativi giudiziari internazionali, che finalmente se ne stanno occupando”.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)

 




Due donne palestinesi sottoposte da Israele alla detenzione amministrativa

17 dicembre 2019 – Al Jazeera

Due donne palestinesi arrestate la scorsa settimana dall’esercito israeliano sono state sottoposte a detenzione amministrativa, una forma di internamento in cui un prigioniero è detenuto indefinitamente senza accusa né processo.

Bushra al-Tawil, 26 anni, è stata arrestata nel corso di un’incursione israeliana nella sua casa di al-Bireh, città della Cisgiordania sotto occupazione, giorni dopo la scarcerazione di suo padre da una prigione israeliana.

La Palestinian Prisoner Society (PPS) [organizzazione umanitaria palestinese che si occupa del rispetto dei diritti umani dei detenuti palestinesi] ha affermato che al-Tawil è attualmente detenuta nella prigione di Hasharon, nel nord di Israele.

Impegnata nella difesa dei diritti dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, al-Tawil è stata arrestata più volte dalle forze israeliane. Secondo i media locali, ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione.

Al-Tawil è stata arrestata per la prima volta a 18 anni. Ha scontato cinque mesi della sua condanna a 18 mesi prima di essere rilasciata nel 2011 nel quadro di un accordo di scambio di prigionieri.

Tuttavia, è stata nuovamente arrestata nel 2014 e ha trascorso in stato di detenzione i restanti 11 mesi della sua pena. Nel 2017, è stata ancora arrestata e ha trascorso otto mesi in prigione.

Suo padre, Jamal al-Tawil, è un ex leader della municipalità di al-Bireh. È stato rilasciato il 5 dicembre dopo due anni di detenzione amministrativa.

Gli studenti sono un bersaglio dell’esercito israeliano

Anche Shatha Hassan, una studentessa di 20 anni e coordinatrice del consiglio studentesco della Università di Birzeit, è stata arrestata la scorsa settimana a Ramallah nella sua casa di famiglia.

Il PPS ha riferito che martedì è stata sottoposta ad una detenzione amministrativa di tre mesi.

Il 12 dicembre, con un raid prima dell’alba, un grosso contingente di veicoli militari israeliani ha circondato la sua casa nel quartiere di Ain Misbah.

I video diffusi sui social media mostrano sua madre che grida: “Dio sia con te” a cui Shatha risponde: “Prega per me!” prima di essere spinta dai soldati su di una jeep israeliana.

I media locali hanno riferito che l’esercito israeliano ha improvvisato un checkpoint sulla strada che porta all’Università Birzeit nella Cisgiordania centrale per verificare l’identità degli studenti che transitavano in vista di una conferenza organizzata dal braccio studentesco del movimento di Hamas.

Prima dell’arresto della Hassan è stato diffuso dall’esercito israeliano un video in cui si afferma che l’Università Birzeit sia un “centro di reclutamento per terrorismo e di incitamento alla violenza”.

Ghassan Khatib, un docente universitario, ha dichiarato ad Al Jazeera: “Dalla nostra lunga esperienza sull’occupazione israeliana, ogni volta che loro lanciano una campagna di disinformazione sull’università significa che si stanno preparando ad una campagna di oppressione e ad un’accentuazione della repressione sull’ organizzazione educativa nei territori palestinesi.”

L’ Università Birzeit è stata a lungo un bersaglio da parte dell’esercito israeliano. Nel marzo 2018 l’allora presidente del consiglio studentesco Omar Kiswani è stato arrestato durante un raid nell’università da parte di militari israeliani sotto copertura.

Secondo la campagna sul diritto all’istruzione, più di 80 studenti sono attualmente detenuti nelle carceri israeliane, dei quali 20 ancora senza processo.

La campagna spiega sul suo sito web: “Queste detenzioni e misure non sono altro che una spaventosa violazione della libertà di parola e di espressione”.

Il PPS ha riferito che il numero di donne detenute nelle carceri israeliane è arrivato a 42, di cui 38 nella prigione di Damoon, mentre le restanti quattro, inclusa Tawil, sono imprigionate nel centro di detenzione di Hasharon.

Secondo i dati ufficiali palestinesi, più di 5.500 palestinesi stanno attualmente languendo nelle carceri israeliane, con 450 [di loro] in [stato di] detenzione amministrativa.

52 anni di privazione delle libertà fondamentali

Indipendentemente da questo, martedì scorso Human Rights Watch (HRW), con sede a New York, ha pubblicato un rapporto in cui si chiede a Israele di concedere ai palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata, come minimo, le stesse garanzie di legge dei cittadini israeliani.

Il rapporto di 92 pagine – intitolato Nato senza diritti civili: l’utilizzo israeliano delle draconiane direttive militari per la repressione dei palestinesi in Cisgiordania – evidenzia l’uso da parte di Israele di norme militari che criminalizzano l’attività politica non violenta.

“La legge militare israeliana in vigore da 52 anni – ha detto Sarah Leah Whitson, direttrice esecutiva degli uffici del HRW attivi nel Medio Oriente e nel Nord Africa – esclude i palestinesi in Cisgiordania da libertà fondamentali come [poter] sventolare bandiere, protestare pacificamente contro l’occupazione, aderire a tutti i principali movimenti politici e pubblicare materiale politico”.

“Questi direttive danno carta bianca all’esercito per perseguire chiunque organizzi politicamente, parli pubblicamente o addirittura riferisca le notizie con modalità non gradite all’esercito”.

Citando esempi di ordinanze militari israeliane definite in modo generico, secondo il rapporto tra il 1 luglio 2014 e il 30 giugno 2019 l’esercito israeliano ha perseguito 358 palestinesi per “istigazione”, 1.704 per “appartenenza e attività in un’associazione illegale” e 4.590 palestinesi per essere entrati in una “zona militare vietata” – un termine che l’esercito usa frequentemente per i luoghi in cui si svolgono le proteste.

Il rapporto fa anche cenno ad una condanna a 10 anni che può essere inflitta ai palestinesi che partecipino ad un raduno di oltre 10 persone senza un permesso militare per qualsiasi problema “che potrebbe essere interpretata come politico”, o nel caso in cui espongano “bandiere o simboli politici” senza l’approvazione dell’esercito.

Whitson ha affermato che, dato il controllo di lunga data di Israele sui palestinesi, il governo “dovrebbe almeno consentire loro di esercitare gli stessi diritti che garantisce ai propri cittadini, indipendentemente dagli accordi politici in vigore”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta




Le prospettive di un’indagine formale della CPI sulla situazione della Palestina sono nulle

John Dugard

9 dicembre 2019 – The Right Forum

C’è qualche possibilità di un’indagine sulla “situazione in Palestina” sotto la supervisione dell’attuale procuratrice della CPI, Fatou Bensouda? No, non ce n’è nessuna, spiega John Dugard, per ragioni che potrebbero essere considerate scioccanti.

Ho una breve e semplice risposta alla domanda posta. No, non c’è nessuna possibilità di una simile inchiesta sotto la supervisione dell’attuale procuratrice della CPI [Corte Penale Internazionale, ndtr.], Fatou Bensouda, il cui incarico scade nel 2021.

Perché lo dico?

È diventato assolutamente chiaro che l’ufficio della procuratrice è deciso a non aprire un’indagine sui crimini commessi da Israele in Palestina e contro il popolo palestinese. Il 16 gennaio 2015 la procura ha iniziato un esame preliminare sulla situazione in Palestina. Il 15 maggio 2018 la stessa Palestina ha deferito la questione alla CPI.

Tuttavia già nel 2009 la procuratrice aveva condotto un esame preliminare sulla situazione in Palestina, interrotto nell’aprile 2012, e dal 2013 sulla situazione della ‘Flotilla’ per Gaza. Ciò significa che per 10 anni la procura ha condotto un esame preliminare su una situazione sulla quale ci sono quattro rapporti della commissione d’inchiesta indipendente del Consiglio per i Diritti Umani [dell’ONU], un’opinione consultiva della Corte Internazionale di Giustizia, risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale, rapporti di numerose Ong israeliane, palestinesi e internazionali, ampia copertura televisiva e video che descrivono e testimoniano di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

E finora [la Procura] non ha trovato nessuna base per procedere alla fase successiva dell’inchiesta – cosa che è stata riconfermata dalla procuratrice nel suo ultimo rapporto sulle indagini preliminari. Un rapporto che, come al solito, non dà una onesta e ragionevole spiegazione del fatto che non abbia iniziato un’indagine.

A ciò si unisce il persistente rifiuto della procuratrice ad aprire un’inchiesta sul caso delle Comore (della Mavi Marmara, ndr.), nonostante gli inviti da parte dei giudici della Corte. Secondo me l’unica spiegazione di questo rifiuto a indagare sulla situazione in Palestina e su quella delle Comore è che la Procura è guidata nella sua presa di decisioni da considerazioni extragiudiziarie e politiche.

Sono convinto che ci siano prove più che sufficienti per sostenere che Israele ha commesso crimini di guerra usando una forza e una violenza eccessive e sproporzionate contro civili a Gaza e in Cisgiordania. Sono anche convinto che ci siano prove certe che l’impresa di colonizzazione israeliana costituisca apartheid e abbia dato come risultato l’espulsione forzata e il trasferimento di migliaia di palestinesi dalle loro case, il che significa che ha commesso crimini contro l’umanità.

Tuttavia sono poco propenso ad accettare che ci possa mai essere ragionevolmente una discussione sulla legge e le prove relative al fatto che siano stati commessi questi crimini. Quindi mi si lasci invece spiegare il fondamento della mia affermazione secondo cui fattori extragiudiziari guidano la procura riguardo al crimine di trasferimento da parte della potenza occupante – Israele – di settori della propria popolazione civile nei territori occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme est.

Qui le leggi e i fatti sono chiari e non consentono alcuna possibile discussione o dibattito di sorta. La legge è chiara. L’articolo 8(2)(viii) dello Statuto di Roma definisce questo comportamento come un crimine di guerra. Così fanno gli articoli 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra e 85(4) del protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977. Così fa il diritto internazionale consuetudinario (1).

I fatti sono chiari. Circa 700.000 coloni ebrei israeliani vivono in circa 130 colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Questi insediamenti sono chiaramente all’interno del territorio palestinese occupato – come stabilito dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004 (2). Israele continua ad espandere il suo impero coloniale. Questi fatti sono stati ripetutamente portati all’attenzione della Procura della CPI dal governo della Palestina e da ong.

Le prove forniscono chiaramente una base ragionevole per credere che sia stato commesso un crimine che rientra nell’ambito di competenza della Corte, come richiesto dallo Statuto della CPI (3). Non agire in queste circostanze, quando le prove dei crimini di Israele riguardo all’espansione delle colonie aumentano, non solo elimina ogni pretesa di deterrenza, ma in più contribuisce alla commissione del reato. La colpevole mancanza di iniziative per interrompere il crimine quando si ha l’obbligo di farlo rende la procuratrice complice della perpetrazione del reato.

C’è uno schiacciante e autorevole sostegno per arrivare alla conclusione che le colonie siano illegali in base alle leggi internazionali. La Corte Internazionale di Giustizia ha sostenuto all’unanimità che le colonie sono state edificate in violazione del diritto internazionale (4). Il Consiglio di Sicurezza in molte occasioni ha condannato le colonie come illegali, di recente con la risoluzione 2334 del 2016. Ogni anno l’Assemblea Generale [dell’ONU] ha condannato le colonie come illegali. L’UE e quasi tutti gli Stati hanno condannato le colonie come illegali. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa è d’accordo. Persino lo stesso consulente legale di Israele: quando Israele iniziò questa impresa di colonizzazione Theodor Meron avvertì che erano illegali. (Ovviamente il presidente Trump ha un’opinione diversa, ma questa è solo una prova a favore della posizione contraria).

Tutto ciò mi porta a concludere che fattori politici e non giuridici guidino la presa di decisioni dalla procura. Ma come questi fattori hanno determinato le decisioni della procura? Per come la vedo io, ci sono due possibilità: una deliberata decisione collettiva della procuratrice, del suo vice e dei funzionari più importanti di non procedere, oppure fattori non esplicitati che hanno portato la procuratrice e la sua équipe ad essere prevenute a favore di Israele.

La prima spiegazione prospetta una deliberata decisione collettiva da parte della procuratrice e dei suoi principali collaboratori di non aprire un’inchiesta. La ragione più probabile per una simile decisione sarebbe il timore di ritorsioni da parte di Israele e degli Stati Uniti. O potrebbe essere la suscettibilità all’opinione diffusa, prevalente tra gli Stati europei, secondo cui la CPI è troppo fragile come istituzione da resistere alle reazioni che potrebbero seguire a una simile inchiesta. Benché una decisione collettiva di questo genere sia possibile, non penso che sia la spiegazione più probabile. La seconda, che fattori non esplicitati abbiano determinato la decisione, richiede qualche spiegazione.

I realisti giuridici americani, una rispettabile scuola di filosofia del diritto, sostengono che la decisione giudiziaria sia il risultato di tutta la storia personale del giudice: che le norme di legge e spinte nascoste, come i pregiudizi politici e morali del giudice, interagiscano nel produrre la decisione giudiziaria. Il giudice della Corte Suprema [USA] Benjamin Cardozo avvertiva che “molto al di sotto della coscienza ci sono…forze, le simpatie e antipatie, le predilezioni e i pregiudizi, il complesso degli istinti ed emozioni e abitudini e convinzioni” di un giudice che contribuiscono alla decisione giudiziaria.

Questi fattori inespressi contribuiscono ancor di più nel processo decisionale dei pubblici ministeri. Fattori non esplicitati sono molto significativi nel contesto della discrezionalità dell’azione penale – un’ampia concessione di autorità discrezionale con scarso controllo e poca trasparenza. È molto più facile per un procuratore soccombere a indebite influenze non formalizzate quando crede che non dovrà giustificare pubblicamente la propria posizione.

Benché la decisione di avviare un’inchiesta spetti principalmente alla procuratrice, è strano che nessun membro del suo staff abbia pubblicamente sollevato obiezioni contro la decisione di non indagare. Ci si sarebbe aspettato che qualcuno anonimamente denunciasse la decisione presa dalla procuratrice e dal suo gruppo di esperti. L’unica spiegazione di ciò è che anche loro abbiano ragioni non esplicitate per adeguarsi alla decisione.

Poiché la maggior parte dei membri della procura ha un mandato limitato e la necessità di tener conto del proprio futuro professionale, c’è inevitabilmente il timore che future possibilità di lavoro possano essere pregiudicate dalla decisione di avviare un’inchiesta su Israele, che sarebbe interpretata da potenziali datori di lavoro come un indicatore di antisemitismo. C’è anche la paura che ciò possa portare a un divieto d’ingresso negli Stati Uniti. La maggior parte degli Stati europei vede Israele come parte dell’alleanza europea (da qui la sua inclusione nel WEOG, il gruppo dei Paesi dell’Europa Occidentale ed Altri Paesi alle Nazioni Unite) e quindi come uno Stato esentato dalle indagini da parte della CPI. Il fatto di non rispettare questo “dato di fatto” può comprensibilmente essere visto come un ostacolo per un futuro impiego.

Il presupposto non esplicitato della procuratrice è di importanza fondamentale. Ci sono fattori nella sua storia personale, in particolare in Gambia, che potrebbero fornire qualche indicazione sulle ragioni inespresse della sua decisione di proteggere Israele dalle indagini?

Tra il 1987 e il 2000 Fatou Bensouda è stata consigliera principale dello Stato, vice direttrice dei pubblici ministeri, avvocatessa generale, ministra della Giustizia e capo dei consiglieri giuridici del presidente e del governo della repubblica del Gambia. Dal 1994 al 2016 il Gambia è stato sottomesso alla brutale dittatura di Yahya Jammeh. La repressione era all’ordine del giorno, mentre i diritti umani vennero duramente eliminati. La ministra della Giustizia non poteva rimanere indifferente a ciò. Che lei fosse coinvolta in questo processo di repressione è diventato chiaro dalle prove di fronte alla Commissione Gambiana per la Verità, la Riconciliazione e il Risarcimento (TRRC). Due uomini, Batch Samba Jallow e Sainey Faye, recentemente hanno testimoniato che fu complice della loro brutale tortura, lunga detenzione senza processo e negazione di una difesa legale (5). Ciò ha portato due avvocati venezuelani a presentare una denuncia al capo del Meccanismo Indipendente di Supervisione (IOM) della CPI in cui si afferma che lei è inadeguata a ricoprire l’incarico di procuratrice. Non risulta che Fatou Bensouda abbia criticato o preso le distanze da Yahya Jammeh.

Queste denunce richiedono un’indagine seria e urgente sull’adeguatezza della procuratrice a ricoprire il suo incarico. E il timore che da parte di Israele possano essere rivelati ulteriori abusi se avviasse un’inchiesta potrebbe benissimo essere il fattore non esplicitato della sua decisione di non aprire un procedimento su Israele.

Durante il periodo dell’apartheid, in Sudafrica i giuristi invocavano i metodi dei realisti giuridici americani per denunciare le premesse sottaciute dei giudici bianchi che regolarmente emanavano sentenze razziste e a favore del governo (7). Ciò portò a un’accentuata consapevolezza da parte dei giudici sulla natura delle sentenze e diede come risultato decisioni più corrette e indipendenti. Il realismo giuridico americano è un potente antidoto in un sistema ingiusto e corrotto. Potrebbe essere proficuamente utilizzato nell’esame del lavoro dell’Ufficio della Procura della CPI.

L’intenzione del mio intervento di stanotte è di rendere consapevoli la procuratrice e la sua équipe dei pericoli di essere guidate dai loro presupposti non esplicitati, che hanno portato al fatto di non garantire giustizia per il popolo palestinese. Ho cercato di evidenziare il tipo di fattori extragiudiziari che probabilmente hanno portato la procuratrice e il suo staff a dimostrarsi di parte a favore di Israele. Spero che facciano un serio esame di coscienza e mettano in discussione i loro motivi nascosti per non aver fatto giustizia a favore del popolo palestinese.

Questo testo è stato presentato da John Dugard ad un evento parallelo dell’assemblea degli Stati membri dello Statuto di Roma, l’Aia, 5 dicembre 2019. Dugard è membro del consiglio consultivo di The Right Forum [una rete di ex- ministri e docenti di diritto internazionale che intendono promuovere una soluzione giusta e durevole al conflitto israelo-palestinese, ndtr.].

John Dugard è professore emerito di Diritto presso le università di Leida e Witwatersrand, relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 2001 al 2008, ex giudice speciale della Corte Internazionale di Giustizia e membro del comitato consultivo di The Right Forum.

(1) J-M Henkaerts e L Doswald-Beck, Customary International Humanitarian Law [Diritto Internazionale Umanitario Consuetudinario], Vol I: Rules, ICRC, CUP, 2005, Rule 130, p. 462.

(2) Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory [Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati] , 2004 ICJ Reports 136, paras 78, 122.

(3) Articolo 53(1)(a) dello Statuto di Roma.

(4) Ibid, para 120. Il giudice statunitense Buergenthal ha contribuito a questi dati.

(5) Thierry Cruvellier e Mustapha K Darboe, ‘Will Fatou Bensouda Face the Truth Commission in Gambia?’ [Fatou Bensouda affronterà la commissione per la verità in Gambia?], JusticeInfo.Net, Fondation Hirondelle, https://www.justiceinfo.net/en/truth-commission/4/1906-will-fatou-bensouda-face-the-truth- commission-trrc-gambia.html

(6) Carlos Ramirez Lopez e Walter Marquez, ex deputato dell’Assemblea Nazionale del Venezuela e presidente della Fondazione Amparo IAP. Denuncia del 2 agosto 2019.

[7] Vedi J. Dugard, Human Rights and the South African Legal Order [Diritti umani e sistema giudiziario sudafricano], Princeton University Press, 1978, pp 366-388; J Dugard, ‘The Judicial Process, Positivism and Civil Liberty’ (1971) [Il processo giudiziario, positivismo e libertà civili], South African Law Journal 181; J Dugard, Confronting Apartheid. A Personal History of South Africa, Namibia and Palestine [Paragonare l’aprtheid. Una storia personale del Sudafrica, della Namibia e della Palestina], Jacana 2019, pp 52-53.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 26 novembre – 9 dicembre 2019

Nella Striscia di Gaza, ad est di Khan Yunis, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese 16enne e ferendo altri otto palestinesi, tra cui sei minori.

L’episodio è avvenuto venerdì 29 novembre, quando un gruppo di giovani si è avvicinato alla recinzione perimetrale israeliana che circonda Gaza, scontrandosi con le forze israeliane. Secondo fonti israeliane, i giovani avevano bruciato pneumatici e lanciato pietre ed ordigni esplosivi contro i soldati israeliani.

Sempre nei pressi della recinzione perimetrale che circonda Gaza, altri 90 palestinesi, tra cui 36 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante le dimostrazioni della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR); queste sono riprese il 6 dicembre, dopo una pausa di tre settimane. Secondo il Ministero della Salute Palestinese di Gaza, quarantaquattro [dei 90] feriti sono stati ricoverati in ospedale. Fonti israeliane hanno riferito che, in diverse occasioni, i manifestanti si sono avvicinati alla recinzione ed hanno lanciato contro le forze israeliane ordigni esplosivi e bottiglie incendiarie; nessun israeliano è rimasto ferito. Dal 30 marzo 2018, data di inizio della GMR, durante le proteste le forze israeliane hanno ucciso 213 palestinesi (tra cui 47 minori).

Il cessate il fuoco, concordato a metà novembre, è stato generalmente rispettato ma, in alcune occasioni, le fazioni armate di Gaza hanno lanciato missili contro la regione meridionale di Israele che, a sua volta, ha effettuato attacchi aerei su Gaza, colpendo siti militari e aree aperte e provocando il ferimento di due palestinesi, tra cui una donna. Nelle città di Gaza e Rafah numerosi siti militari, case e strutture civili hanno subito danni. Il 29 novembre, un membro di un gruppo armato è deceduto in conseguenza delle ferite riportate durante l’ultimo confronto armato; sale quindi a 36 il numero di vittime palestinesi degli scontri del 12-14 novembre (nella cifra sono inclusi almeno 14 civili, di cui otto minori).

In almeno 13 occasioni, non riferibili a proteste e scontri, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento allo scopo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [imposte da Israele] sulle aree di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale ed al largo della costa. Non sono stati segnalati feriti. Vicino alla recinzione perimetrale le forze israeliane hanno arrestato due uomini; secondo quanto riferito, stavano tentando di entrare in Israele.

Il 30 novembre, nel villaggio di Beit ‘Awwa (Hebron), le forze israeliane hanno sparato e colpito mortalmente un giovane palestinese di 18 anni; secondo quanto riferito, aveva lanciato una bottiglia incendiaria contro una pattuglia militare israeliana; il cadavere è stato trattenuto dalle autorità israeliane. Durante lo stesso episodio sono stati arrestati altri due palestinesi, tra cui un minore.

In Cisgiordania, durante molteplici proteste e scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 181 palestinesi, tra cui almeno 18 minori. Oltre la metà dei [181] ferimenti è stata registrata il 26 novembre, durante le proteste contro una recente dichiarazione del Segretario di Stato americano, attestante la legalità degli insediamenti israeliani. Le proteste erano anche connesse alla morte di un prigioniero palestinese, malato di cancro e detenuto in un carcere israeliano, oltre che in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane. Funzionari palestinesi hanno attribuito la morte del detenuto a negligenza medica. La maggior parte dei rimanenti ferimenti è stata registrata durante operazioni di ricerca-arresto, durante le ricorrenti dimostrazioni tenute nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) contro le restrizioni di accesso, e nel corso di altri scontri scoppiati localmente. Di tutti i ferimenti, circa il 76% è da attribuire ad inalazione di gas lacrimogeni richiedenti cure mediche e il 19% a proiettili di gomma.

A Hebron City, le tensioni sono aumentate dopo che, il 1° dicembre, le autorità israeliane hanno annunciato la loro intenzione di abbattere un ex mercato palestinese, chiuso nel 1994 per ordine militare israeliano; l’area sarebbe destinata alla costruzione di un nuovo insediamento colonico israeliano. In risposta, il 9 dicembre, i palestinesi hanno messo in atto uno sciopero generale (negozi e scuole compresi) ed hanno effettuato una protesta cittadina che si è evoluta in scontri con le forze israeliane e conseguente ferimento di tre palestinesi. Per diverse ore l’accesso dei palestinesi all’area della città in cui si trovano gli insediamenti israeliani è stato soggetto a restrizioni. In tale area le politiche e le pratiche israeliane hanno comportato lo sfollamento forzato di palestinesi dalle loro case e un peggioramento delle condizioni di vita di coloro che vi rimangono.

Nel corso di 11 distinti episodi, oltre 800 alberi e 200 veicoli di proprietà palestinese sono stati vandalizzati; si ritiene ad opera di coloni israeliani. Non sono stati riportati ferimenti di palestinesi. In concomitanza con la fine della stagione dell’annuale raccolta delle olive, sono stati registrati danneggiamenti di alberi (soprattutto ulivi) nei villaggi di Sebastiya (Nablus), Al Khadr (Betlemme) e As Sawiya (Nablus). In quest’ultimo villaggio (attaccato due volte in tre giorni), coloni israeliani hanno installato una tenda vicino al terreno preso di mira. Dall’inizio del 2019, oltre 7.500 alberi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati, secondo quanto riferito, da coloni israeliani. Il 9 dicembre, nel quartiere Shu’fat di Gerusalemme Est, aggressori hanno tagliato le gomme di 189 auto palestinesi ed hanno imbrattato i muri di diversi edifici con scritte, in ebraico, tipo “questo è il prezzo”. Altri veicoli sono stati vandalizzati o incendiati nei villaggi di Khallet Sakariya (Betlemme), Deir Ammar e At Tayba (entrambi a Ramallah).

Citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 22 strutture di proprietà palestinese in Area C ed una in Gerusalemme Est, sfollando 49 persone e creando ripercussioni su altre 800. La metà delle strutture demolite in Area C era stata precedentemente fornita come assistenza umanitaria. Quattro delle località, colpite dalla demolizione di dieci strutture, sono Comunità beduine palestinesi situate all’interno, o nel circondario, di un’area destinata [da Israele] all’espansione degli insediamenti colonici (piano “E1”); sono pertanto a rischio di trasferimento forzato. Altre otto delle strutture demolite erano localizzate in aree [da Israele] dichiarate chiuse e destinate all’addestramento militare israeliano (“zone per esercitazioni a fuoco”); oltre il 20% di tutte le strutture prese di mira finora nel 2019 erano situate in zone “per esercitazioni a fuoco”; esse coprono circa il 30% dell’area C.

Il 28 novembre, nel villaggio di Beit Kahil (Hebron), in Area B, [amministrazione palestinese e controllo militare israeliano] le forze israeliane hanno demolito “per punizione” quattro case e tre cisterne d’acqua, sfollando 15 persone, tra cui sei minori. Le strutture appartengono alle famiglie di quattro palestinesi accusati del rapimento e uccisione, nell’agosto 2019, di un soldato israeliano non in servizio. L’episodio ha innescato scontri con le forze israeliane: sei palestinesi, tra cui due minori, sono stati feriti. Finora, quest’anno, questo è il settimo caso di demolizione “punitiva” giustificato da “necessità di deterrenza”. Le demolizioni punitive sono illegali ai sensi del Diritto internazionale.

Secondo media israeliani, almeno sei veicoli israeliani sono stati colpiti con pietre e danneggiati da palestinesi. Gli episodi sono avvenuti su strade vicino ai villaggi di Tuqu’, Al Khader (entrambi a Betlemme), Beit Ummar (Hebron) e Huwwara (Nablus) e al Campo [profughi] di Al Aroub (Hebron).




Cisgiordania. Colonie e disastro ambientale

Francesca Merz

27 novembre 2019 Nena News

Oltre all’utilizzo massiccio di acqua per le coltivazioni e l’allevamento, non è da sottovalutare l’ingente uso di risorse idriche del territorio da parte dei coloni israeliani nelle unità abitative

All’interno delle colonie ci sono tutti i servizi necessari, e il panorama è quello tipico di un outlet all’aperto, con piante, architetture e stili di vita che possono ricordare da vicino la Florida. I centri commerciali all’interno hanno prezzi molto bassi, riforniti secondo economie di scala e fornitori che lavorano per tutte le colonie. Le casette a schiera costruite sono in netto contrasto con il panorama e la vita che si trova all’esterno, fatta ancora di piccoli insediamenti rurali, e case sparse dei pochi beduini che ancora non sono stati cacciati da quelle terre. Superati i controlli, le sbarre e l’esercito entrando in questi grandi set cinematografici costruiti nel deserto, i nostri occhi evidenzieranno la contrapposizione tra il benessere e la presunta povertà degli allevatori (palestinesi) che pascolano le loro pecore, dovremo invece valutare il terrificante impatto culturale, ambientale ed economico delle colonie sul territorio, e provare a recuperare la storia di quelle terre, ricche di risorse e in perfetto equilibrio fino ad un secolo fa.

In questo panorama occorre fare un brevissimo passo indietro, e parlare anche delle diverse tipologie di coloni presenti sul territorio, tralasciando di sottolineare la grande quantità di colonie illegali, la necessità è provare a focalizzarsi sullo stato dei fatti e sulla sostenibilità dei sistemi produttivi di questi insediamenti.

I coloni vengono solitamente distinti in alcune categorie: business man investors, uomini d’affari, gli “economic settlers” ovvero colonie che hanno come scopo fondamentale la produttività economica, e infine gli “ideological settlers”. Gli “economic settlers” sono i coloni che si sono spostati e hanno creato colonie per la produzione (agricola principalmente), gli “ideological settlers” sono coloni che si spostano non per investire in nuovi terreni, né per trovare lavoro, ma per ragioni ideologiche, ovvero per ritornare alla “terra promessa”, sono questi ultimi i gruppi più sostanziosi nelle aree della Cisgiordania o in zone quali Hebron, fondamentalisti pronti a insediarsi in luoghi ancora caldi della resistenza palestinese, con azioni ripetute di disturbo della vita della popolazione, che vanno, stando le denunce palestinesi, dall’uccisione dei capi di bestiame dei beduini, al rogo degli ulivi degli agricoltori palestinesi, fino a forme violentissime come nel caso della terribile condizioni dei bambini di At-Tuani (sud di Hebron), che devono affrontare ogni mattina il passaggio accanto ad alcune colonie abusive israeliane, per andare a scuola, con costanti e ripetuti lanci di pietre contro i bambini, solo per fare uno dei tantissimi esempi quotidiani tramite i quali i coloni esercitano un terrorismo costante nei confronti della popolazione palestinese.

Anche in questo caso, nella comprensione dell’utilizzo delle colonie come metodo di espansione concordato con il governo israeliano, ci viene in soccorso l’ottimo Neve Gordon, nel suo testo “L’occupazione israeliana”, con un’analisi impeccabile che non lascia spazio ai dubbi sulla volontà, sin dagli inizi del governo laburista, di utilizzare i coloni irregolari, fintamente osteggiati, come metodo di espansione dello Stato sionista. “In Lords of the Land, Idith Zartal e Akiva Eldar mostrano che i dirigenti laburisti come Simon Peres, Yitzhak Rabin, Yigal Allon e Moshe Dayan erano in massima parte favorevoli al progetto degli insediamenti. Pertanto, l’idea che il governo laburista e i coloni appartenessero a fazioni ideologiche opposte è vera solo se si è interessati alle differenze tattiche”. “La maggior parte dei resoconti tende a presentare il progetto degli insediamenti come un’impresa extra-governativa condotta dal movimento dei coloni in aperto contrasto con la politica del governo. In realtà la stragrande maggioranza degli insediamenti fu istituita dai diversi governi israeliani, e anche quelli apparentemente costruiti contro la volontà del governo dai circoli ebraici religiosi ottennero in definitiva l’autorizzazione dal governo e il suo supporto finanziario.”

“Dichiarare che Israele intendeva annettere le due regioni o anche pubblicare un piano esplicito sul modo in cui intendeva popolarle di ebrei avrebbe provocato senza dubbio la condanna internazionale e la massiccia resistenza palestinese. Questa è stata una delle ragioni per cui il governo israeliano ha rappresentato spesso i coloni ebrei come cittadini ribelli, anche mentre trasferiva milioni di dollari per sostenere il loro comportamento “ricalcitrante”. Far sembrare di non essere in grado di controllare i coloni ha consentito allo Stato, in caso di critiche, di assolversi dalle responsabilità attribuendo le confische a iniziative illegali compiute da gruppi di cittadini ideologizzati. E’ stato quindi politicamente vantaggioso presentare l’occupazione come temporanea e la creazione d’insediamenti come arbitraria. Per contro, in Cisgiordania, e nella striscia di Gaza, Israele ha eseguito una confisca graduale utilizzando il diritto ottomano e il Mandato britannico, i regolamenti dei sistemi giuridici giordano ed egiziano e le ordinanze militari emanate dai comandanti israeliani. Anche se il diritto internazionale umanitario obbliga il potere occupante a proteggere la proprietà degli abitanti sotto occupazione vietandone l’esproprio, Israele ha utilizzato diversi meccanismi giuridici per confiscare ampie porzioni della Cisgiordania e della Striscia di gaza. La maggior parte dichiarata proprietà di un assente o proprietà appartenente a uno stato o a un agente nemico.

L’Ordinanza Militare 58, emanata già il 23 luglio 1967, definisce “proprietà di un assente” quella “proprietà il cui possessore legale, o chi ne abbia ricevuto il potere di controllo per disposizione di legge, abbia abbandonato l’area prima del 7 giugno 1967 o successivamente”. Un rapporto del controllore di stato israeliano mostra che nei primissimi anni di occupazione le autorità israeliane registrarono circa 430.000 dunam confiscate (43mila ettari), circa il 7,5 % della Cisgiordania, come proprietà degli assenti. L’ordinanza militare 59, emanata il 31 luglio 1967, dichiara che ogni terra o proprietà appartenente a uno stato nemico diventa proprietà di stato. Fu così preso il 13% della Cisgiordania. I governi a guida laburista usarono parte di queste terre per creare quindici insediamenti nella Valle del Giordano. Un terzo metodo di confisca fu l’esproprio di terra per esigenze pubbliche, come osserva Eyal Weizman il “pubblico” che ha goduto dei frutti delle espropriazioni è sempre stato composto solo ed esclusivamente da ebrei”

Utilizzando le confische secondo la “legge della proprietà degli assenti” Israele ha creato 15 colonie nel cuore di Gerusalemme Est, facendovi trasferire 210mila coloni israeliani. L’ultimo rapporto della Coalizione civile per i diritti dei gerosolimitani indica che il 35% delle proprietà palestinesi a Gerusalemme sono state confiscate ricorrendo alla legge in questione e adottando sempre il pretesto dell’ordine pubblico. Il 22% delle proprietà palestinesi così confiscate sono state definite ‘area verde’, su un 30% vige il divieto di pianificazione edilizia e ai palestinesi resta appena il 13%. Israele ha fatto di più, esistono infatti delle tariffe agevolate esclusivamente riservate agli israeliani con incentivi tra i 20 e i 25mila dollari per un appartamento di 100 metri quadrati.

Abbiamo già parlato di come Israele cominciò ad applicare una legge ottomana sulla terra del 1858, al fine di trasformare la terra privata palestinese in terra di Stato. Secondo la legge ottomana, se un proprietario per tre anni consecutivi non coltiva la propria terra per motivi diversi da quelli riconosciuti dalla legge (arruolamento nell’esercito) la terra è allora chiamata makhlul, terra di cui il sovrano può prendere possesso o che può trasferire a un’altra persona. Israele inoltre crea gli insediamenti in stretta prossimità dei villaggi palestinesi per limitarne lo sviluppo e frantumarne le comunità in piccoli gruppi. Al fine di limitare il movimento palestinese ha introdotto un regime di “strade vietate” che ha posto restrizioni all’accesso degli abitanti alle più importanti arterie di traffico in Cisgiordania. Essere obbligati a viaggiare su tali strade alternative ha influito su tutti gli aspetti della vita quotidiana della Cisgiordania, tra questi l’economia e il sistema sanitario ed educativo.

Il 3 giugno ricercatori delle università israeliane di Tel Aviv e Ben Gurion hanno presentato un rapporto, commissionato dall’organizzazione ambientalista ‘EcoPeace Middle East’, in cui avvertono che “il deterioramento delle infrastrutture idriche, elettriche e fognarie nella Striscia di Gaza costituisce un sostanziale pericolo per le acque terrestri e marine, le spiagge e gli impianti di desalinizzazione di Israele”. Ma ciò che adesso Israele ha identificato come un “problema di sicurezza nazionale” è in realtà un disastro causato da proprie responsabilità. In questo momento la situazione ambientale a Gaza è tragica, ma non sono i palestinesi che l’hanno causata, né la “rapida crescita della popolazione”, né l’incuria o l’ignoranza degli abitanti locali, come spesso sentiamo dire dall’opinione pubblica. Innumerevoli rapporti delle Nazioni Unite hanno documentato dettagliatamente come e perché la principale causa del disastro sia l’occupazione israeliana. Il motivo per cui le acque reflue a Gaza vengono smaltite in questo modo definito dagli israeliani “irresponsabile” è che gli impianti per il trattamento delle acque non funzionano; sono stati colpiti nell’attacco israeliano alla Striscia del 2014 [operazione “Margine protettivo, ndtr.] e non sono mai stati ricostruiti perché l’assedio israeliano non consente di importare materiali da costruzione e pezzi di ricambio (vedi articolo sul Protocollo di Parigi).

Poi c’è il problema dell’immondizia, che i palestinesi bruciano e quindi “inquinano l’aria israeliana”; come ha evidenziato l’accademico dell’università di Cambridge Ramy Salemdeeb, Gaza non ha potuto sviluppare un’adeguata gestione dei rifiuti a causa delle restrizioni economiche dovute all’assedio israeliano e di una “limitata disponibilità di terra” per via del suo isolamento dal resto dei territori palestinesi occupati. Ciò che il rapporto israeliano non menziona è che, oltre ai problemi delle acque di scarico e dei rifiuti, Gaza soffre anche di una serie di altri danni ambientali, anch’essi legati all’occupazione israeliana. L’esercito israeliano spruzza sistematicamente erbicidi sui terreni coltivabili palestinesi vicino alla barriera di separazione tra il territorio assediato e Israele; il più delle volte il prodotto chimico utilizzato è il glifosato, che è provato essere cancerogeno. Secondo la Croce Rossa queste attività non solo danneggiano i raccolti palestinesi, ma contaminano il suolo e l’acqua. Più fonti affermano che l’esercito israeliano abbia usato nei suoi attacchi a Gaza uranio impoverito e fosforo bianco, che non solo provocano danni immediati alla popolazione civile, ma costituiscono una fonte di rischio per la salute per molto tempo dopo che il bombardamento è terminato.

L’insostenibilità ecologica e strutturale è dunque un’evidenza, i principali effetti collaterali per ora si sono riverberati sulla sola popolazione palestinese. Israele sembra non aver calcolato, che la stessa terra che ospita liquami non depurati, scorie e materiale ad altissimo impatto ambientale, è la tanto bramata Terra promessa sulla quale, probabilmente, andranno ad abitare prossimamente cittadini ebrei che avranno il compito di costruire nuove colonie, di allontanare il nemico palestinese, vivendo però su cumuli di terra contaminata da oggi e per i secoli a venire.

È stato stimato che circa l’80% dei rifiuti prodotti dalle colonie israeliane viene scaricato in Cisgiordania. Si sa che anche diverse industrie israeliane e l’esercito scaricano rifiuti tossici in terreni oggi palestinesi. Inoltre negli ultimi anni Israele ha sistematicamente trasferito fabbriche inquinanti in Cisgiordania. Lo ha fatto costruendo cosiddette “aree industriali”, che non solo utilizzano manodopera palestinese a buon mercato, ma rilasciano le loro scorie tossiche nell’ambiente. Israele ha anche proseguito la sua decennale pratica di sradicare gli ulivi e gli alberi da frutto palestinesi, questa strategia, mirata a recidere il legame dei palestinesi con la loro terra, ha provocato non solo la perdita delle risorse vitali per migliaia di agricoltori palestinesi, ma anche l’erosione del suolo e l’accelerazione della desertificazione di zone della Palestina occupata.

Secondo uno studio condotto dall’Ufficio dell’Ambiente dell’Amministrazione Civile Israeliana in Cisgiordania, i coloni generano ogni giorno circa 145.000 tonnellate di rifiuti domestici. Non sorprende che gran parte di questi rifiuti, compresi i liquami, siano scaricati su terra palestinese senza alcun riguardo per l’ambiente o per le persone e gli animali che vivono lì. Nel solo 2016, 83 milioni di metri cubi di acque reflue hanno attraversato la Cisgiordania. Quel numero sta aumentando costantemente e rapidamente. La verità è che i palestinesi si sono dimostrati molto più “qualificati” per coesistere con la natura piuttosto che “sfruttarla”. Il costo di questo sfruttamento, tuttavia, non viene pagato solo dal popolo palestinese, ma anche dall’ambiente. Le prove sotto i nostri occhi e accentuano ulteriormente la natura coloniale ed egoista del progetto sionista e dei suoi fondatori, che continuano a dimostrarsi totalmente privi di una visione strategica e sostenibile per il futuro della “Terra Promessa”. Nena News




Ecco chi è Gideon Sa’ar, l’ideologo di destra che piace alla sinistra israeliana

Naomi Niddam

2 dicembre, 2019 + 972

Il membro del Likud Gideon Sa’ar è il volto nuovo della coalizione di sinistra e di centro anti-Netanyahu. Ma, come mostra la sua biografia, è un convinto ideologo di destra.

Negli ultimi due mesi la coalizione di centro sinistra “chiunque tranne Netanyahu” ha acquisito un nuovo volto: quello di Gideon Sa’ar, da tempo membro del Likud [partito di destra al governo, ndtr.] e antico rivale del Primo Ministro, che potrebbe alla fine sfidare Bibi (Netanyahu) per la guida del partito, se il Likud svolgesse le primarie. Per molti Sa’ar è l’antitesi di Netanyahu: ha buoni rapporti coi media, un atteggiamento da uomo di Stato e continua a far andare avanti le cose nonostante le pagliacciate di Netanyahu.

Ma prima di tirare un sospiro di sollievo conviene riconsiderare alcune delle sue scelte politiche e dichiarazioni pubbliche come ministro, per valutare dove potrebbe condurre Israele se fosse eletto Primo Ministro.

Sa’ar, 52 anni, è stato un ideologo della destra sin da quando era un giovane di Tehiya, partito ultranazionalista che protestava contro l’evacuazione delle colonie israeliane nel Sinai nel 1982 in seguito agli Accordi di Camp David. È fermamente contrario ad uno Stato palestinese e appoggia l’annessione della Cisgiordania – soprattutto dell’area C e delle colonie esistenti, avendo sostenuto qualche anno fa che una tale mossa deve essere “una politica ufficiale del Likud” e che il partito ha bisogno di “abbandonare formalmente l’idea dei due Stati”.

Da allora Sa’ar ha chiarito la sua intenzione di compiere passi concreti verso la messa in pratica della sovranità israeliana nei territori occupati, compreso un incremento della costruzione di colonie. Inoltre, secondo una dichiarazione che fece tre anni fa, ritiene che “il compito più urgente ed importante della Nazione è garantire una maggioranza ebraica in una Gerusalemme unita”, aggiungendo che la costruzione di colonie ebraiche nella città era “insufficiente”.

L’esperto di media, laico, ashkenazita che viene da Tel Aviv.

Come Ministro dell’Educazione dal 2009 al 2013, Sa’ar ha inserito la sua personale versione del sionismo nel curriculum scolastico, incluse lezioni sull’eredità ebraica e viaggi a Hebron [dove si trova una delle colonie israeliane più fanatiche e violente, ndtr.]. Ha anche supervisionato personalmente i cambiamenti di personale nei dipartimenti civili del Ministero, inserendovi quattro membri dell’Istituto per le Strategie Sioniste, un gruppo di esperti ideologico.

La professoressa Yuli Tamir, ex politica laburista e Ministro dell’Educazione prima di Sa’ar, rileva che l’educazione civica in Israele è peggiorata dopo il suo incarico. Tuttavia apprezza Sa’ar, dicendo che i ministri che gli sono succeduti “hanno distrutto l’intero sistema”. Benché avesse dei disaccordi con Sa’ar, continua, “lui era molto professionale. Dopo le proteste per la giustizia sociale (del 2011) ha introdotto una riforma che ha inserito l’istruzione gratuita dall’età di tre anni.”

Ogni ministro porta nel sistema la propria visione del mondo”, continua Tamir. “Io ho portato la mia, e lui la sua. Cerchiamo di lasciare un segno. Io non ho sempre approvato ciò che lui ha fatto, ma, a differenza di Naftali Bennett [dirigente della coalizione di estrema destra dei coloni, ndtr.] (Ministro dell’Educazione dal 2015 al 2019), ha agito in modo ragionevole.”

Tamir suggerisce che chi preferisce Sa’ar a Netanyahu forse rimpiange, come lei, un dibattito corretto. “Sa’ar è molto di destra, ma non ha bisogno che tutti siano d’accordo con lui”, continua. “Abbiamo avuto molti scontri, ma lui si è sempre comportato secondo le regole – a differenza di Bibi, che le ha completamente stravolte. È questa l’impressione – non che Sa’ar sia di sinistra, ma che sia un uomo che rispetta le regole.”

Il professor Yossi Dahan, un fondatore del sito web israeliano di sinistra Haokets ed esperto di educazione e giustizia sociale, respinge l’opinione di Tamir. “Sa’ar non si comporta secondo le regole democratiche, se non sono le regole della maggioranza”, dice. “È uno dei più entusiastici sostenitori del gruppo di estrema destra sionista ‘Im Tirtzu’, quindi non capisco come possa essere un democratico. Non ha mai condannato quell’organizzazione, che un giudice ha sentenziato potesse essere definita legalmente un gruppo fascista”, continua Dahan. “Quando mai ha condannato la destra quando essa disprezza la legge e viola i diritti umani? Essere democratico comporta proteggere questi diritti.”

Dahan sostiene che la posizione morbida delle persone di sinistra verso Sa’ar deriva dal loro status sociale – laici, ashkenaziti [ebrei dell’Europa centro-orientale, ndtr.], abitanti di Tel Aviv, che sono “galvanizzati soprattutto dal fatto che lui gli assomiglia da vicino. Non è Miri Regev [ex militare e ministra della Cultura e dello Sport del Likud, che appoggia incondizionatamente Netanyahu, ndtr.] o Bazalel Smotrich [parlamentare della coalizione di estrema destra dei coloni, ndtr.]”.

Sa’ar è anche noto come benvoluto dai media e gode di un rapporto personale con parecchi giornalisti di alto livello in giornali e canali televisivi di tutto lo spettro politico.

Ha una profonda conoscenza dell’ambiente dei media, da quando ha lavorato per breve tempo come giornalista e commentatore”, dice Ronit Vardi, giornalista e commentatore politico.

Se la strategia mediatica di Netanyahu è aggressiva e reazionaria –avendo lanciato il canale 20 di estrema destra, a quanto pare con interventi personali nel modo di dare le notizie del [giornale] ‘Israel Hayom’ e del sito informativo web ‘Walla!’, e dimostrando una costante riluttanza ad essere intervistato – Sa’ar al contrario è riuscito a ingraziarsi giornalisti di sinistra e di destra senza mitigare le proprie opinioni.

Le conversazioni informali con Gideon Sa’ar sono sempre eccellenti”, dice Vardi. “I giornalisti ricavano un sacco di informazioni da lui, e anche la sua manipolazione nei loro confronti è più proficua.”

Continua la guerra ai richiedenti asilo

Un esempio di questa manipolazione sono i precedenti contraddittori di Sa’ar riguardo ai richiedenti asilo in Israele, quando era Ministro dell’Interno dal 2013 al 2014. Da un lato ha garantito un permesso ai richiedenti asilo di spicco perché rimanessero in Israele, un atto che è apparso dare un segno ai leader della lotta [dei richiedenti asilo] che lui prestava attenzione alle loro richieste. D’altro lato ha mantenuto una politica bellicosa che è stata responsabile della creazione del campo di detenzione di Holot, in mezzo al deserto meridionale israeliano. Vi sono stati imprigionati migliaia di richiedenti asilo africani – persone a cui i media non hanno dato né nomi né volti.

Come Ministro dell’Interno Sa’ar ha continuato a promuovere le decisioni del governo prese quando era Ministro dell’Interno Eli Yishai del partito Shas [partito di ebrei sefarditi ultraortodossi, ndtr.]. Holot, per esempio, non è stato un’idea di Sa’ar, ma piuttosto parte di un tira e molla legale tra la Corte Suprema ed il governo. Ma, a differenza dell’attuale Ministro dell’Interno Aryeh Deri, anch’egli dello Shas, Sa’ar ha usato la guerra ai richiedenti asilo come strumento politico e, secondo Yael Agor Orgel, membro del Consiglio del Centro della Comunità Africana di Gerusalemme, si è vantato di farlo. “Deri è più disposto di Sa’ar a considerare i richiedenti asilo come esseri umani”, dice.

Oltre ad applicare formalmente le precedenti decisioni del governo, Saa’ar ha anche introdotto una delle politiche che ha maggiormente danneggiato i richiedenti asilo – la riduzione del numero delle sedi dove potevano rivolgersi per essere riconosciuti come rifugiati e li ha isolati rispetto ad altre procedure burocratiche.

Il suo intento era rendere loro la vita difficile”, dice Agor Orgel. “Invece di passare due ore al mattino per richiedere i servizi, devono passare una giornata intera e fare ore di coda. Ora vi è un dipartimento che è precluso a chiunque non sia un richiedente asilo e che si occupa solo di loro. Vi subiscono trattamenti umilianti, degradanti e verbalmente violenti.”

Alcuni dicono che la preferenza di Sa’ar rispetto a Netanyahu è simile a come la gente si rapporta con Ayelet Shaked [ex Ministra della Giustizia, dirigente della coalizione di estrema destra dei coloni, ndtr.]: entrambi sono di Tel Aviv e sono della giusta classe socioeconomica di destra e del colore giusto. Ma, a parte le dinamiche sociali, è difficile ignorare l’inusuale grado di rispetto che Sa’ar ha ottenuto dai suoi rivali politici.

Non è solo questione di familiarità, ma è anche il fatto che lui è il tipo di politico che può proporre fatti, non solo parole. Sa’ar ha guadagnato consensi perché non si nasconde dietro parole vuote: dichiara apertamente le proprie intenzioni politiche e fa tutto ciò che può per portarle avanti – che si tratti di espandere il territorio israeliano, di rafforzare l’identità ebraica, di calpestare i diritti dei palestinesi o di agire con la forza contro ogni resistenza.

Una versione di questo articolo è stata originariamente pubblicata in ebraico su Local Call.

Naomi Niddam è una giornalista

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Palestina. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi (2a parte)

Francesca Merz

20 novembre 2019 Nena News

Dal 1967 al 1993 Israele ha operato per trasformare i contadini e gli artigiani palestinesi in manodopera a basso costo. Dopo gli Accordi di Oslo la finta unione doganale tra Tel Aviv e Ramallah ha prodotto un annichilimento della capacità produttiva e di esportazione palestinese, separando ulteriormente Gaza e Cisgiordania

Israele ha ostacolato lo sviluppo di un’economia palestinese anche in diversi modi: la costruzione delle infrastrutture e il grande progresso magnificato dello Stato israeliano è avvenuta in gran parte su strutture ben precedenti alla stessa creazione dello Stato di Israele. Ma non solo.

In netto contrasto con il potere mandatario britannico – che aveva eseguito o permesso a soggetti privati di realizzare una serie di progetti di sviluppo, il porto marittimo di Haifa, l’aeroporto di Lydda (oggi Ben Gurion) e diverse linee ferroviarie, che svolsero un ruolo cruciale nella successiva crescita economica della Palestina, e poi di Israele – il regime militare instaurato da Israele come potenza colonizzatrice e occupante, non solo si astenne dall’investire i propri fondi nelle infrastrutture civili necessarie allo sviluppo economico nei Territori Occupati, ma impedì anche ad altri di farlo.

La decisione iniziale israeliana di consentire il libero passaggio delle frontiere a lavoratori non sindacalizzati, forza lavoro a basso costo e senza alcun diritto ma necessaria per la creazione dello Stato di Israele, e la costruzione delle sue case e infrastrutture, svolse una funzione di cui Israele era ben consapevole e che agevolò sotto le mentite spoglie di “aiuto alla popolazione palestinese e tentativo di convivenza” la totale erosione della capacità produttiva della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

La domanda israeliana di manodopera non qualificata non solo condizionò i singoli lavoratori, ma ebbe anche effetti nocivi a lungo termine sull’economia palestinese, poiché la diffusione di lavoro non qualificato contribuì a far stagnare le condizioni economiche di sottosviluppo nei Territori Occupati e ostacolò il processo di professionalizzazione.

Il numero crescente di palestinesi che entravano in Israele per trovare lavoro portò anche a un calo notevole del numero di lavoratori che restarono nei territori a coltivare la terra palestinese. Il fatto di non coltivare più terra fu aggravato dalle quote fisse di acqua, stabilite nei primi anni Settanta e non cambiate per più di dieci anni, e dal fatto che gli agricoltori palestinesi pagavano per l’acqua quattro volte di più degli agricoltori israeliani.

Neve Gordon nel suo testo L’occupazione israeliana sottolinea quelli che vengono definiti errori di Israele nel tentativo di normalizzazione dell’occupazione: nel corso degli anni Settanta Israele permise ai palestinesi di aprire diverse Università nel tentativo di normalizzare l’occupazione. In un periodo relativamente breve queste università produssero una classe professionale piuttosto numerosa composta da laureati.

Tuttavia, a causa di una serie di restrizioni e di vincoli imposti all’economia palestinese, l’industria e il settore dei servizi non potevano svilupparsi e le opportunità di lavoro aperte ai professionisti palestinesi all’interno dei Territori Occupati erano molto limitate. Di conseguenza, molti dei laureati non riuscivano a trovare lavori che riflettevano o impiegavano le loro competenze. Questa frustrazione rappresentò una importante forza di opposizione allo scoppio della prima intifada.

“L’esperienza lavorativa in Israele unita alla realtà della loro vita quotidiana nei Territori Occupati, produsse tra i lavoratori la comune consapevolezza di essere sfruttati e di essere destinati a restare, secondo il sistema economico corrente, in fondo alla scala economica israeliana”. Come nota Neve Gordon, “la mancanza di posti di lavoro nei Territori Occupati era compensata dalle opportunità di occupazione in Israele e si può supporre che Israele abbia ostacolato intenzionalmente lo sviluppo di un’industria indipendente palestinese al fine di mantenere un’offerta costante di manodopera a basso costo”.

Alla vigilia degli Accordi di Oslo (1993), subito prima che la responsabilità delle infrastrutture passasse dalle mani di Israele all’Autorità Palestinese, il 5% dei residenti di Gaza e circa il 26% degli abitanti delle aree rurali in Cisgiordania non avevano accesso all’acqua corrente, a Gaza il 38% della popolazione non aveva accesso al sistema fognario e solo il 69% della popolazione rurale della Cisgiordania aveva accesso all’elettricità per ventiquattrore al giorno.

Dopo più di due decenni e mezzo di occupazione israeliana, dei territori palestinesi solo il 9% della popolazione rurale della Cisgiordania aveva accesso per ventiquattro ore al giorno all’elettricità, alla rete idrica, ai servizi di smaltimento dei rifiuti e alla rete di scarico fognario, considerati primari in Israele anche prima del 1967.

La mancanza di investimenti in infrastrutture serviva a sottolineare il loro stato di popolazione oppressa; invece di costruire nuove aule per affrontare i bisogni crescenti della popolazione, Israele impose un orario di lezione a doppio turno. Il 50% degli studenti di Gaza e della Cisgiordania abbandonava la scuola prima di aver raggiunto la nona classe e non è un caso che, di fatto, nel 1986 gli studenti che avevano abbandonato la scuola costituivano il 40% del totale degli operai palestinesi in Israele.

L’induzione sistematica a lasciare la scuola e la creazione di condizioni insostenibili per studenti ed insegnanti rientrò perfettamente nella strategia per garantire forza lavoro sempre giovane e disponibile e per impoverire culturalmente un popolo che, in assenza di possibilità di accedere all’istruzione, sarebbe certamente diventato più facilmente soggiogabile sia dal punto di vista politico che economico.

L’economia palestinese subì una drastica contrazione dopo il passaggio dell’autorità all’Anp. Negli anni di Oslo Israele impose una politica della chiusura, lo Stato israeliano era ormai forte e costruito, non aveva più così tanto bisogno della manodopera palestinese a basso costo, altra manodopera fu richiamata da paesi come l’Eritrea e le Filippine. Oltre agli effetti diretti sulla forza lavoro, la politica della chiusura ostacolò anche le esportazioni palestinesi in Israele e in altri paesi, infliggendo un colpo mortale alle esportazioni agricole più redditizie, come per esempio i fiori (presenti in abbondanza sul mercato palestinese ben prima della nascita della narrazione israeliana sui fiori nel deserto – vedi articolo I fiori del deserto), e alle nuove fabbriche create dopo il primo fatuo buon umore economico scaturito da Oslo, che producevano beni destinati ai mercati europei.

I nuovi industriali palestinesi non poterono impegnarsi a fornire le merci con puntualità e i contratti che avevano firmato con le aziende e i mercati esteri furono presto annullati. La politica della chiusura creò anche una separazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, riducendo in misura notevole il commercio tra le due regioni e danneggiando l’agricoltura e l’industria impedendo ai palestinesi di sfruttare i rispettivi vantaggi di ogni area. Mentre prima dell’imposizione delle chiusure circa il 50% delle merci prodotte a Gaza era commercializzato in Cisgiordania, nel 1995 questa cifra ammontava al solo 8%. Israele inoltre continuò a controllare il flusso di cassa dell’Anp in modo diretto, bloccandone di fatto gli introiti doganali.

La coercizione e l’imbrigliamento di ogni possibilità di sviluppo economico per la Palestina furono spesso attuate a colpi di ordinanze militari: l’ordinanza militare 363 (dicembre 1969) impose rigide limitazioni all’uso agricolo e pascolativo della terra nelle zone qualificate come riserve naturali. Anche se dichiarare la terra riserva naturale era una misura apparentemente concepita per proteggere l’ambiente, fu ritenuta dalle autorità parte integrante del programma di confisca della terra ed è attualmente una delle principali strategie utilizzate dallo Stato israeliano, nel 1985 erano già stati dichiarati appartenenti a riserve naturali 250mila dunam, circa il 5% del territorio.

La scusa delle riserve naturali e di parchi pubblici, del verde cittadino, è tristemente usata anche attualmente per coprire ben altri intenti, e come sempre salutato dalla comunità internazionale come un segnale di riqualificazione degli spazi e delle periferie degradate.

Dall’occupazione del 1967 e fino alla firma degli Accordi di Oslo, il regime commerciale de facto tra palestinesi e israeliani era paragonabile all’unione doganale. In teoria, l’unione doganale è un accordo commerciale in cui i Paesi coinvolti permettono la libera circolazione delle merci tra loro e concordano una comune tariffa doganale per le importazioni da altri Paesi. Tuttavia, nella relazione di “unità doganale” tra Israele e l’Autorità Palestinese, entrambi applicano la politica commerciale di Israele, cioè le tariffe doganali e altri regolamenti di Israele tranne che per pochi, specifici beni. In altre parole, il Protocollo di Parigi ha formalizzato un’unione doganale in cui la politica commerciale di Israele viene imposta a Cisgiordania e Gaza.

Il prodotto interno lordo dei Territori Occupati (in dollari) ammontava, nel 2016, a 13.397 miliardi, una percentuale minima, circa il 4,2%, di quello di Israele. Il fatto che il protocollo di Parigi non abbia tenuto conto del divario tra le due economie è un grosso problema, visto che la struttura tariffaria che sarebbe stata necessaria per tentare di ricostruire un’economia palestinese indebolita era molto diversa da quella adatta a un’economia industrializzata come quella di Israele. Quindi, anche se l’unione doganale fosse stata applicata alla perfezione, come stabilito dal protocollo, avrebbe avuto un impatto negativo sull’economia palestinese, dato che non risponde ai suoi bisogni.

L’applicazione contraddittoria e a senso unico dell’unione doganale da parte di Israele ha solo peggiorato le cose. Sulla carta, il Protocollo di Parigi ha consentito la circolazione di beni agricoli e industriali tra le due parti e ha permesso ai palestinesi di avere legami commerciali diretti con altri Paesi. Tuttavia, in violazione del Protocollo di Parigi, a partire dagli anni ‘90 Israele ha imposto restrizioni alla circolazione dei beni tra Israele e i Territori: i beni, cioè, potevano circolare liberamente da Israele verso i Territori, ma non viceversa.

Israele ha anche imposto restrizioni alla circolazione di beni all’interno dei Territori Occupati. Dal 1997 ha tentato di isolare la Striscia di Gaza dalla Cisgiordania e l’assedio israeliano decennale su Gaza ha ulteriormente ostacolato le relazioni commerciali tra le due aree. Le politiche israeliane di chiusura hanno distrutto anche le relazioni commerciali all’interno della Cisgiordania. La conseguente frammentazione del sistema economico dei Territori in piccoli mercati disconnessi tra loro ha incrementato i tempi e i costi di trasporto dei beni da una zona all’altra della Cisgiordania.

Inoltre, le politiche di chiusura imposte da Israele e alcuni ostacoli tariffari hanno pesantemente ridotto il commercio con l’estero. Alcuni esempi di tali misure: non riconoscimento da parte di Israele delle certificazioni palestinesi, tempi lunghi per le verifiche di conformità e lista dei “beni a duplice uso”, beni cioè che, secondo Israele, possono essere utilizzati sia per scopi militari che per scopi civili, e che sono quindi vietati o soggetti a interminabili procedure di sicurezza. Questi provvedimenti israeliani violano il Protocollo, che riconosce all’import/export palestinese un trattamento pari a quello dell’import/export israeliano.

Di conseguenza, i Territori Occupati sono diventati un mercato vincolato per le esportazioni da Israele. Secondo un report del 2016 della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (Unctad), Israele ha recentemente beneficiato dell’85% dell’export palestinese e “rappresenta oltre il 70%” dell’import palestinese. I Territori Occupati rappresentano, invece, solo il 3% degli scambi commerciali israeliani”.




PALESTINA.Economia e occupazione:dal Protocollo diParigi ad oggi(Iparte)

Francesca Merz

18 novembre 2019 Nena News

Nel 1994 l’Olp e Israele firmarono il “Protocollo di Parigi” che formalizzava le relazioni economiche per cinque anni tra Tel Aviv e la nascente Autorità Palestinese. L’intesa è però ancora operativa e sancisce di fatto il controllo totale israeliano dell’economia palestinese

Che ogni forma di controllo e repressione, e che ogni forma di colonialismo, aldilà della forza e della violenza, veda la sua espressione più fondamentale negli strumenti di controllo economico, è cosa quanto mai risaputa nonché banale. Questo principio vale ovviamente anche per l’occupazione israeliana della Palestina. Per capire con maggiore consapevolezza quelle che sono le strategie economiche sulla quale si basa questo rapporto tra colonizzati e colonizzatori, e soprattutto per non ricadere nel solito luogo comune secondo il quale gli israeliani sono riusciti a fare miracoli in una terra in cui invece i palestinesi non avevano fatto nulla, bisogna partire dalla morsa mortale del Protocollo di Parigi.

Nel 1994, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il governo di Israele firmarono il Protocollo di Parigi, che era collegato agli Accordi del Cairo e Oslo II. Tale protocollo stabiliva un “accordo contrattuale” volto a formalizzare le relazioni economiche, prima stabilite unilateralmente da Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per un periodo transitorio di 5 anni. Nonostante tale termine sia scaduto da molti anni, il protocollo continua tutt’ora a costituire la base delle relazioni economiche tra le due parti, ed è il quadro di riferimento principale per la condotta economica, monetaria e fiscale dell’Autorità Palestinese.

Il protocollo contiene 11 articoli: due fanno riferimento all’ambito di applicazione, al quadro generale e a un comitato economico congiunto; gli altri nove si riferiscono a commercio, tassazione, importazioni, attività bancarie, organizzazione del lavoro, nonché alle politiche relative ai settori agricolo, industriale e turistico. La scelta dell’unione doganale invece di una zona di libero scambio, come inizialmente chiesto dai palestinesi, non era dettata sostanzialmente dagli interessi economici di Israele, ma piuttosto dall’interesse politico a mantenere una “no-state solution”. Come fa notare Amal Ahmad, l’unione doganale non prevede la delimitazione delle frontiere, né la loro eliminazione, o integrazione. Ciò ha permesso a Israele di rimandare del tutto la questione dei confini, mantenendoli provvisoriamente mentre procede con la colonizzazione e l’isolamento dei Territori Occupati.

Un’analisi di fondamentale importanza sul valore economico dell’occupazione, è stata fatta da Neve Gordon, nel suo testo “L’occupazione israeliana”, Gordon ci aiuta a capire come questa situazione sia stata costruita a tavolino negli anni dagli occupanti israeliani. “Quando si confronta il primo decennio di occupazione con quelli successivi, la caratteristica che emerge come quasi del tutto unica è il tentativo israeliano di gestire la popolazione palestinese mediante la promozione della prosperità. Furono introdotte una serie di pratiche per incrementare l’utilità economica degli abitanti palestinesi, sia per imbrigliare le energie della società palestinese a vantaggio degli interessi economici di Israele, sia anche per elevare il tenore di vita nei Territori Occupati, per agevolare la normalizzazione dell’occupazione. Date tali premesse non sorprende affatto che già durante la guerra Israele fornisse dei servizi agli agricoltori palestinesi per salvare le colture e per impedire la morte del bestiame, anche al fine di monitorare e prevenire la diffusione di epidemie tra il bestiame, suo interesse diretto. Aumentò dunque la produttività degli allevatori palestinesi” .

“Israele – aggiunge Gordon – usò il Dipartimento di ricerca della Banca d’Israele e l’Ufficio centrale di statistica per tenere sotto costante osservazione la forza lavoro palestinese. Si trovano tabelle che descrivono l’età e il sesso degli operai, il numero dei lavoratori in base alla loro occupazione e al settore in cui lavoravano, il numero delle imprese locali, nonché la loro dimensione e ubicazione, il tutto per ridurre il tasso di disoccupazione che il governo militare considerava come causa potenziale di disordini sociali. Nel 1974 in Israele lavoravano 64.900 palestinesi, che costituivano un terzo della forza lavoro. I palestinesi che lavoravano in Israele guadagnavano dal 10 al 100% in più di quanto avrebbero guadagnato lavorando nei territori. Israele aveva già iniziato la sua operazione perfetta di demolizione di ogni possibilità di economia autonoma per la Palestina. Il paniere palestinese aumentava, così come la capacità di acquisto dei palestinesi che vivevano nei territori, facendo aumentare esponenzialmente la produttività in Israele, e lasciando, gioco forza, le terre incolte e tutte le attività nei Territori al totale abbandono, per ostacolare lo sviluppo di un’economia indipendente palestinese.”

Ben prima della firma del Protocollo di Parigi, la chiarezza del rapporto di colonialismo spinto che sottendeva alle relazioni tra israeliani e palestinesi è verificabile dall’infinita serie di ordinanze militari che venivano emanate dallo Stato occupante per regimentare l’economia palestinese eliminando ogni possibilità di autonomia, e trasformando anzi l’economia palestinese in un mercato totalmente vincolato dai produttori israeliani, togliendo ogni possibilità di produzione ai palestinesi. La strategia era quella della creazione invece dei consumatori necessariamente dipendenti dalla produzione israeliana, che gli stessi palestinesi erano costretti a produrre ma in territorio occupato, un vero e proprio sistema di schiavitù economica. Israele inoltre spingeva gli abitanti palestinesi a diventare operai non specializzati così da indirizzare l’utilità economica dei palestinesi in modo ben precisoL’esercito introdusse molteplici norme e restrizioni espressamente mirate a modellare l’economia sotto occupazione secondo gli interessi israeliani.

Una delle prime azioni intraprese dopo la guerra del ‘67 fu la chiusura degli istituti finanziari e monetari arabi, tra i quali tutte le banche, e il conferimento dell’autorità su tutte le questioni monetarie alla Banca d’Israele. La valuta israeliana divenne la moneta legale e nelle due regioni furono applicati i controlli dei cambi israeliani. Come abbiamo già avuto modo di dire, Israele, nello stesso periodo in cui assumeva il controllo di tutte le istituzioni finanziarie e imponeva norme monetarie, aiutava i palestinesi a piantare migliaia di alberi da frutto, offriva ai coltivatori semi migliorati per gli ortaggi e addestrava gli agricoltori alle tecnologie moderne con corsi specifici, non abbiamo però accennato al fatto che cominciava anche a controllare i tipi di frutta e di ortaggi che si potevano piantare e diffondere e introduceva una serie di norme di pianificazione che stabilivano dove si potessero e soprattutto non si potessero piantare. Anche se le restrizioni alla semina sono comuni anche in altri paesi, gli obiettivi di quelle imposte nei Territori Occupati erano quelle di creare dipendenza dall’economia israeliana, minare lo sviluppo e l’indipendenza, e, come vedremo, agevolare la confisca di terre, grazie alla resurrezione di vecchie leggi addirittura dell’impero Ottomano.

Israele limitò la bonifica dei terreni finalizzata a renderli coltivabili, restrinse anche l’accesso della popolazione alla terra e all’acqua, espropriando, fino al 1987, non meno del 40% delle terre e impossessandosi delle principali risorse idriche. Nello stesso tempo rese illegale piantare nuovi alberi di agrumi, sostituire quelli vecchi improduttivi o piantare altri alberi da frutto senza permesso, per la cui approvazione occorrevano dai cinque ai sei anni. Molti generi di frutta e di ortaggi che gli agricoltori palestinesi erano autorizzati a coltivare non potevano essere venduti in Israele, misura tesa a proteggere i produttori israeliani. Per contro, gli agricoltori israeliani avevano accesso illimitato ai mercati dei Territori Occupati e riuscivano a fornire alcuni prodotti a prezzi con cui le controparti palestinesi non potevano competere, portando a una riduzione nella varietà dei prodotti agricoli coltivati nei Territori, e l’assurda situazione per cui i prezzi di alcuni generi erano più alti nei Territori Occupati che in Israele. La strategia nel settore industriale fu analoga a quella usata in agricoltura. Inizialmente Israele fornì un certo sostegno all’industria perché le autorità militari ritenevano che la disoccupazione potesse destabilizzare i Territori Occupati, furono dunque concessi inizialmente piccoli crediti alle fabbriche esistenti così che potessero svilupparsi e dotarsi di nuove attrezzature. L’assenza di istituti finanziari intermediari, di banche per lo sviluppo e di fonti di credito di vario tipo ostacolò lo sviluppo industriale, nello stesso tempo Israele introdusse una serie di restrizioni tese a contrastare lo sviluppo di un’industria ad alta densità di capitale. Gli aiuti governativi sotto forma di agevolazioni fiscali, sovvenzioni all’esportazione, credito agevolato e obbligazioni di sicurezza non furono estesi ai palestinesi.

Le ordinanze militari poi controllavano anche tutto il commercio estero, Israele inserì un complesso sistema di procedure di certificazione sulle merci che ebbero l’ulteriore risultato di separare commercialmente la Palestina anche dai paesi arabi confinanti. “Israele – osserva Gordon – impose inoltre delle limitazioni al tipo e alla quantità di materie prime che si potevano importare nei Territori Occupati. I palestinesi divennero ben presto dipendenti da Israele per l’elettricità, i carburanti, il gas e le comunicazioni. Lo stesso fu per i generi di prima necessità come la farina, il riso, lo zucchero. Israele richiedeva delle licenze per tutte le attività industriali e, eliminando nel frattempo ogni concorrenza palestinese, usò tali licenze per ristrutturare le industrie in base alle sue necessità. Così, mentre si concedevano licenze alle aziende tessili che fornivano dei servizi ai produttori israeliani le si negavano quelle per la produzione della frutta, poiché potevano essere potenziali concorrenti ai produttori israeliani. In altre parole, la creazione di imprese sussidiarie a forte tasso di manodopera e l’esternalizzazione del lavoro a forte tasso di manodopera nelle fabbriche palestinesi fu la fonte principale di investimento industriale israeliano all’interno dell’economia palestinese.”

“Israele inoltre – continua Gordon – emanò numerose ordinanze riguardanti la registrazione delle società, i marchi d’impresa e i nomi commerciali; stabilì le condizioni di commercio, la tipologia e l’importo di tasse, dazi e imposte doganali da pagare; e impose una serie di tributi ai produttori palestinesi, i quali finirono col pagare fra il 35 e il 40 per cento in più di tasse rispetto ai produttori israeliani, va ricordato che un’ampia percentuale di quelle tasse non venne reinvestita nei Territori, ma trasferita direttamente nelle casse israeliane. Secondo alcune stime, queste politiche privarono i Territori Occupati di entrate doganali rilevanti, valutate tra circa 118 e 176 milioni di dollari nel solo 1986. Il mancato gettito complessivo nel periodo 1970-1987 oscillerebbe tra una stima minima di 6 miliardi di dollari e una massima di 11 miliardi di dollari, in teoria questi soldi avrebbero potuto essere investiti nella creazione di un’industria indipendente.




Come le tecnologie dello spionaggio israeliano penetrano in modo molto intrusivo nelle nostre vite

Jonathan Cook

 

Martedì 26 novembre 2019 – Middle East Eye

Israele normalizza nei Paesi occidentali l’uso di tecnologie invasive e oppressive di cui i palestinesi sono vittime da decine di anni

Le armi dell’era digitale sviluppate da Israele per opprimere i palestinesi sono rapidamente riutilizzate in un campo di applicazione molto più ampio, e ciò contro le popolazioni occidentali che considerano tuttavia le loro libertà come acquisite.

Se a Israele già da parecchi anni è stato concesso lo status di “Nazione delle start up”, la sua reputazione nel campo delle innovazioni di tecnologia avanzata si è sempre basata su un aspetto oscuro che è vieppiù difficile nascondere.

Qualche anno fa l’analista israeliano Jeff Halper avvertì che Israele aveva giocato un ruolo centrale sulla scena internazionale nella fusione tra le nuove tecnologie digitali e dell’industria della sicurezza interna. Secondo lui il pericolo era che saremmo tutti quanti diventati progressivamente dei palestinesi.

Egli notava che Israele ha effettivamente trattato milioni di palestinesi sottoposti al suo regime militare come delle cavie in laboratori a cielo aperto – e ciò senza doverne rendere conto. I territori palestinesi occupati sono serviti come banco di prova per la messa a punto non solo dei nuovi sistemi d’arma convenzionali, ma anche di nuovi strumenti per la sorveglianza ed il controllo di massa.

Come ha recentemente osservato un giornalista di Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.], l’operazione di sorveglianza condotta da Israele contro i palestinesi figura “tra le più vaste di questo tipo al mondo. Include la sorveglianza dei media, delle reti sociali e della popolazione nel suo insieme.”

 

Il Grande Fratello fa affari

Tuttavia quello che è iniziato nei territori occupati non doveva affatto essere limitato alla Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza. C’erano semplicemente troppo denaro e influenza da guadagnare commercializzando queste nuove forme ibride di tecnologia digitale offensiva.

Per quanto piccolo sia, Israele è da molto tempo uno dei leader mondiali sul mercato estremamente lucrativo degli armamenti e vende a regimi autoritari i suoi sistemi d’arma “testati sul campo di battaglia”, cioè sui palestinesi.

Ora, questo commercio di materiale militare è sempre più eclissato dal mercato dei programmi digitali bellici, cioè gli strumenti che servono a condurre guerre informatiche.

Queste armi di nuova generazione sono molto richieste dagli Stati, che possono utilizzarle non solo contro nemici esterni, ma anche contro dissidenti interni, che siano difensori dei diritti umani o semplici cittadini. Israele può presentarsi a giusto titolo come un’autorità mondiale in questa materia, nella misura in cui controlla ed opprime le popolazioni che vivono sotto il suo dominio. Ma il Paese ha fatto attenzione a non lasciare le sue impronte digitali su gran parte di questa nuova tecnologia degna del Grande Fratello, scegliendo di esternalizzare lo sviluppo di questi strumenti informatici affidandoli agli ufficiali di alto rango delle sue tristemente celebri unità per la sicurezza e l’intelligence militare.

Tuttavia Israele approva implicitamente queste attività fornendo licenze d’esportazione alle imprese che le gestiscono. D’altro canto i maggiori responsabili della sicurezza del Paese sono spesso strettamente legati al lavoro di queste aziende.

 

Tensioni con la Silicon Valley

Una volta smessa l’uniforme, questi israeliani possono trarre profitto dai loro anni d’esperienza nel campo dello spionaggio a danno dei palestinesi, creando società il cui obiettivo è sviluppare dei programmi informatici per delle applicazioni più generali.

Queste app, che utilizzano una tecnologia di sorveglianza sofisticata di origine israeliana, sono sempre più frequenti nelle nostre vite digitali. Alcune sono state utilizzate in modo relativamente innocuo. “Waze”, che sorveglia gli ingorghi del traffico, permette ai conducenti di raggiungere la propria destinazione più rapidamente, mentre “Gett” attraverso il loro telefono mette i clienti in contatto con i taxi che si trovano nei dintorni.

Ma alcune delle tecnologie più segrete prodotte dagli sviluppatori israeliani rimangono molto più vicine al loro format militare originario.

Questi programmi offensivi sono venduti ai Paesi che desiderano spiare i loro stessi cittadini o Stati nemici, come anche a società private che sperano così di conquistarsi un notevole vantaggio sui concorrenti o di manipolare e sfruttare meglio dal punto di vista commerciale i loro clienti.

Una volta integrati nelle piattaforme delle reti sociali, che contano miliardi di utenti, questi programmi spionistici offrono ai servizi statali della sicurezza un raggio d’azione potenziale quasi universale. Ciò implica una relazione a volte tesa tra le società israeliane e la Silicon Valley [centro di ideazione e produzione delle innovazioni digitali negli USA, ndtr.], con quest’ultima che lotta per prendere il controllo di questi programmi “malintenzionati” – come dimostrano due esempi diversi dell’attualità recente.

 

“Sistema di spionaggio” per telefonini

Indice di queste tensioni, WhatsApp, una piattaforma di reti sociali appartenente a Facebook, molto di recente ha intentato il primo processo di questo tipo davanti a un tribunale californiano contro NSO, la più grande impresa di sorveglianza israeliana.

WhatsApp accusa NSO di attacchi informatici. Nel lasso di tempo di sole due settimane fino all’inizio di maggio esaminato da WhatsApp, NSO avrebbe preso di mira i telefonini di più di 1.400 utenti in 20 Paesi.

Il programma di spionaggio digitale di NSO, chiamato “Pegasus”, è stato utilizzato contro difensori dei diritti umani, avvocati, responsabili religiosi, giornalisti e operatori umanitari. La Reuter [agenzia di stampa inglese, ndtr.] ha rivelato alla fine di ottobre che alti responsabili di Paesi alleati degli Stati Uniti sarebbero stati anche loro presi di mira da NSO.

Dopo aver preso il controllo del telefono di un utente a sua insaputa, “Pegasus” ne copia i dati e attiva il microfono dell’apparecchio al fine di controllarlo. La rivista “Forbes” [rivista USA di economia, ndtr.] lo ha descritto come “il sistema di spionaggio mobile più invasivo al mondo”.

NSO ha concesso la licenza di utilizzazione del programma a decine di governi, in particolare a regimi noti per le violazioni dei diritti umani come l’Arabia Saudita, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, il Kazakistan, il Messico e il Marocco. Amnesty International si è lamentata che i suoi funzionari figurano tra le persone prese di mira dal programma spia di NSO. L’Ong per la difesa dei diritti dell’uomo attualmente sostiene un’azione legale contro il governo israeliano perché ha concesso alla società una licenza d’esportazione.

 

Rapporti con i servizi di sicurezza israeliani

NSO è stata fondata nel 2010 da Omri Lavie e Shalev Hulio, entrambi ufficiali della famosa Unità 8200 di intelligence militare israeliana. Nel 2014 degli informatori che hanno lanciato l’allarme hanno rivelato che l’unità spiava regolarmente i palestinesi, cercando nei loro telefoni e computer delle prove di comportamenti sessuali devianti, di problemi di salute o di difficoltà finanziarie che potevano essere utilizzate per spingerli a collaborare con le autorità militari israeliane.

I soldati hanno scritto che i palestinesi erano “totalmente esposti allo spionaggio e alla sorveglianza dei servizi di intelligence israeliani. Questi sono utilizzati per perseguitare gli avversari politici e per creare divisioni all’interno della società palestinese reclutando collaboratori e spingendo le diverse componenti della società palestinese le une contro le altre.”

Benché le autorità abbiano concesso a NSO delle licenze d’esportazione, Ze’ev Elkin [del partito di destra Likud, ndtr.], ministro israeliano per la Protezione dell’Ambiente, per Gerusalemme e per l’Integrazione, ha negato “il coinvolgimento del governo israeliano” nello spionaggio di WhatsApp. “Tutti capiscono che non si tratta dello Stato d’Israele,” ha dichiarato a una radio israeliana all’inizio di novembre.

 

Inseguiti dalle telecamere

La settimana in cui WhatsApp ha lanciato la sua azione legale, la catena televisiva americana NBC ha rivelato che la Silicon Valley intende comunque lavorare con delle start-up israeliane profondamente coinvolte negli abusi legati all’occupazione.

Microsoft ha investito parecchio in AnyVision, una società che sviluppa una sofisticata tecnologia di riconoscimento facciale usata dall’esercito israeliano per opprimere i palestinesi.

I rapporti tra AnyVision e i servizi di sicurezza israeliani sono a malapena nascosti. Il consiglio consultivo della società conta tra i suoi membri Tamir Pardo, ex-capo del Mossad, l’agenzia di spionaggio israeliana. Il suo presidente, Amir Kain, era in precedenza alla testa del “Malmab”, il dipartimento del ministero della Difesa israeliano incaricato della sicurezza.

Il principale programma di AnyVision, “Better Tomorrow” [Futuro Migliore], è stato soprannominato “Google dell’Occupazione”, perché la società sostiene che può identificare e seguire qualunque palestinese grazie alle immagini prodotte dalla vasta rete di telecamere di sorveglianza sistemate dall’esercito israeliano nei territori occupati.

A dispetto degli evidenti problemi etici, l’investimento di Microsoft suggerisce che il suo obiettivo potrebbe essere integrare questo programma all’interno dei suoi. Ciò ha provocato viva preoccupazione tra i gruppi di difesa dei diritti umani.

Shankar Narayan, dell’American Civil Liberties Union [ACLU, ong Usa per la difesa dei diritti e delle libertà individuali, ndtr.], ha messo in guardia in particolare contro un avvenire fin troppo familiare ai palestinesi che vivono sotto il controllo di Israele: “L’uso generalizzato della sorveglianza facciale sovverte il principio di libertà e genera una società in cui tutti sono seguiti in continuazione, indipendentemente da quello che fanno,” ha dichiarato alla NBC.

“Il riconoscimento facciale è forse lo strumento più perfetto per il controllo totale del governo nei luoghi pubblici.”

Secondo Yael Berda, ricercatore dell’università di Harvard, Israele dispone di una lista di circa 200.000 palestinesi in Cisgiordania che desidera sorvegliare 24 ore al giorno. Le tecnologie come AvyVision sono considerate essenziali per mantenere questo vasto gruppo sotto una sorveglianza continua.

Un ex dipendente di AvyVision ha dichiarato alla NBC che i palestinesi sono stati trattati come cavie. “La tecnologia è stata testata sul terreno in uno dei contesti della sicurezza più esigenti al mondo, e ora noi la utilizziamo sul resto del mercato,” ha dichiarato.

Il 15 novembre Microsoft ha annunciato il lancio di un’indagine sulle accuse secondo cui la tecnologia di riconoscimento facciale messa a punto da AnyVision violerebbe il suo codice etico a causa del suo utilizzo in operazioni di sorveglianza nella Cisgiordania occupata.

 

Interferenza nelle elezioni

Utilizzare queste tecnologie di spionaggio negli Stati Uniti e in Europa interessa sempre di più il governo israeliano stesso, nella misura in cui l’occupazione dei territori palestinesi è ormai oggetto di una polemica e di un controllo minuzioso nel discorso politico prevalente.

In gran Bretagna i cambiamenti di clima politico sono stati messi in evidenza dall’elezione alla testa del partito Laburista di Jeremy Corbyn, militante di lunga data per i diritti dei palestinesi. Negli Stati Uniti un piccolo gruppo di parlamentari che appoggiano in modo palese la causa palestinese ha di recente fatto il suo ingresso al Congresso, in particolare Rashida Tlaib, la prima donna americana-palestinese a occupare tale ruolo.

Più in generale Israele teme il BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), movimento di solidarietà internazionale che chiede un boicottaggio di Israele, sul modello del boicottaggio contro il Sud Africa durante l’apartheid, finché non cesserà la repressione del popolo palestinese. Il BDS è in piena espansione, soprattutto negli Stati Uniti, dove si è notevolmente sviluppato in molti campus universitari.

Di conseguenza le imprese informatiche israeliane sono state coinvolte sempre di più nei tentativi intesi a manipolare il discorso pubblico su Israele, in particolare interferendo nelle elezioni all’estero.

Due esempi noti sono per breve tempo finiti sulle prime pagine. Psy-Group, che si presentava come un “Mossad privato in affitto”, è stato chiuso l’anno scorso dopo che l’FBI ha aperto un’inchiesta su di esso per aver interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016. Secondo il New Yorker [prestigiosa rivista USA, ndtr.], il suo “Project Butterfly” [Progetto Farfalla] intendeva “destabilizzare e sconvolgere i movimenti antisraeliani dall’interno.”

E l’anno scorso la società “Black Cube” [Cubo Nero] è stata accusata di controllo ostile su importanti membri della precedente amministrazione americana guidata da Barack Obama. “Black Cube” sembra essere strettamente legata alle aziende della sicurezza e per un certo periodo i suoi uffici sono stati dislocati in una base militare israeliana.

 

Vietato da Apple

Un certo numero di altre aziende israeliane cerca di attenuare la distinzione tra spazio privato e spazio pubblico.

“Onavo”, una società israeliana di raccolta dati creata da due veterani dell’Unità 8200, è stata acquistata da Facebook nel 2013. L’anno dopo Apple ha vietato la sua applicazione VPN dopo che è stato rivelato che offriva un accesso illimitato ai dati degli utenti.

Secondo un articolo di Haaretz, l’anno scorso il ministro israeliano degli Affari Strategici, Gilad Erdan, che dirige una campagna segreta intesa a demonizzare i militanti del BDS all’estero, ha tenuto regolarmente riunioni con un’altra società, “Concert”. Questo gruppo segreto, esentato dalle leggi israeliane sulla libertà d’informazione, ha ricevuto circa 36 milioni di dollari di finanziamenti da parte del governo israeliano. I suoi dirigenti e i suoi azionisti sono “la crema” dell’élite israeliana per la sicurezza e l’intelligence.

Un’altra società israeliana di primo piano, “Candiru” – che deve il suo nome a un piccolo pesce amazzonico famoso per infiltrarsi segretamente nel corpo umano, dove diventa un parassita – vende principalmente i propri strumenti di pirateria informatica ai governi occidentali, anche se le sue operazioni sono circondate dal segreto.

Il suo personale proviene quasi esclusivamente dall’Unità 8200. A prova dello stretto rapporto tra le tecnologie pubbliche e segrete sviluppate dalle aziende israeliane, il direttore generale di “Candiru”, Eitan Achlow, dirigeva in precedenza “Gett”, l’applicazione dei servizi per i taxi.

L’élite della sicurezza israeliana trae profitto da questo nuovo mercato della guerra informatica, sfruttando – come ha fatto per il commercio di armamenti convenzionali – una popolazione palestinese a sua disposizione e prigioniera su cui può testare la sua tecnologia.

Non è sorprendente che Israele renda progressivamente normale nei Paesi occidentali l’uso di tecnologie invasive e oppressive, di cui i palestinesi sono le vittime da decine di anni.

I programmi di riconoscimento facciale permettono una profilazione razziale e politica sempre più sofisticata. Le operazioni segrete e la raccolta dati e di sorveglianza cancellano le tradizionali frontiere tra gli spazi privati e quelli pubblici. E le campagne di raccolta di informazioni che ne sono il risultato permettono d’intimidire, minacciare e screditare gli oppositori o chi, come la comunità dei difensori dei diritti umani, cerca di mettere i potenti di fronte alle loro responsabilità.

Se questo avvenire distopico continua a svilupparsi, New York, Londra, Berlino e Parigi assomiglieranno sempre di più a Nablus, Hebron, Gerusalemme est e Gaza. E noi finiremo tutti col capire cosa significhi vivere in uno Stato di polizia impegnato in una guerra informatica contro quelli che domina.

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. Ha scritto tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 (traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)