Israele approva una nuova colonia e ordina di demolire un mercato a Hebron

Kaamil Ahmed

1 dicembre 2019 – Middle East Eye

I palestinesi accusano il cambiamento di politica degli USA sulle colonie illegali

Israele ha approvato una nuova colonia sul luogo in cui si trova un mercato palestinese a Hebron, nella Cisgiordania occupata, provocando rabbia tra i palestinesi che accusano [per questa decisione] il recente cambiamento di politica degli USA. Domenica il ministro della Difesa Naftali Bennett ha dato il via libera alla nuova colonia, che implicherebbe la distruzione dell’antico mercato all’ingrosso e potrebbe a quanto si dice raddoppiare la popolazione dei coloni.

Ciò fa seguito alla decisione degli USA in novembre di non considerare più illegali in base alle leggi internazionali le colonie israeliane nei territori palestinesi occupati.

La decisione israeliana di costruire una nuova colonia illegale nella Hebron occupata è il primo risultato tangibile della decisione USA di legittimare la colonizzazione; essa non deve essere decontestualizzata,” ha detto Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Il mercato palestinese destinato ad essere coinvolto è chiuso dal 1994, quando il colono israeliano Baruch Goldstein uccise 29 palestinesi all’interno della moschea di Abramo, che gli ebrei conoscono come la Tomba dei Patriarchi, e Israele rispose accentuando la sua presenza militare attorno alla Città Vecchia.

Circa 800 coloni israeliani vivono nei pressi della Città Vecchia di Hebron, molto vicino ai suoi abitanti palestinesi, e sono accompagnati da una pesante presenza militare che secondo i palestinesi impone loro un sistema simile all’apartheid.

La colonia a Hebron è il volto peggiore del controllo israeliano nei territori occupati,” hanno affermato in un comunicato gli attivisti di Peace Now [organizzazione israeliana contraria all’occupazione israeliana della Cisgiordania, ndtr.] contro le colonie.

Per mantenere la presenza di 800 coloni in mezzo a 250.000 palestinesi, intere vie di Hebron sono chiuse ai palestinesi, negando loro la libertà di movimento e con gravi ripercussioni sulle loro condizioni di vita.”

Il portavoce della comunità di coloni di Hebron Yishai Fleischer ha ringraziato Bennett per la decisione ed ha affermato che il terreno su cui sorge il mercato è stato di proprietà di ebrei dal 1807.

Tuttavia secondo Peace Now la terra appartiene legalmente al Comune di Hebron e i suoi abitanti hanno goduto di un affitto tutelato che non ha consentito che venissero espulsi senza basi legali, benché ciò sia stato ignorato dai tribunali israeliani, che hanno aperto la strada alla nuova colonia.

Ayman Odeh, capo della Lista Unita, coalizione parlamentare di cittadini palestinesi di Israele, ha affermato che la decisione è parte di una “guerra contro la pace”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le proteste della Grande marcia del Ritorno sono state controproducenti?

Motasem Dalloul

2 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Le proteste della Grande marcia del Ritorno sono state controproducenti?

Motasem Dalloul

2 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Lo scorso è stato il terzo venerdì consecutivo in cui nella Striscia di Gaza non ci si sono state le proteste della Grande Marcia del Ritorno e la Rottura dell’Assedio che, fino a questa interruzione, si erano svolte ogni settimana dal 30 marzo 2018.

Il Comitato per la Grande Marcia del Ritorno ha detto che lo scorso venerdì le proteste sono state annullate per motivi di sicurezza per non dare alle forze di occupazione israeliane l’opportunità di uccidere altri manifestanti. Questa è praticamente la stessa dichiarazione, parola per parola, che era stata rilasciata il venerdì precedente. Tutte le fazioni palestinesi che fanno parte del Comitato sostengono che le proteste avrebbero potuto ricominciare in qualsiasi momento se necessario.

Secondo un membro di Hamas, il movimento palestinese di resistenza islamica, che è la fazione più presente nelle proteste, il loro obiettivo principale è stato quasi raggiunto. “Guardate all’assedio imposto a Gaza” ha spiegato Khalil Al-Hayya “Israele ha aperto i varchi, ha annullato molte restrizioni commerciali, aumentato l’approvvigionamento elettrico, permesso gli scambi con l’Egitto, ha consentito che arrivassero i finanziamenti del Qatar, esteso la zona di pesca e molte altre cose.”

Ha aggiunto che, come conseguenza delle proteste che hanno dimostrato che Israele osteggia quella legittima rivendicazione, la questione del diritto al ritorno dei palestinesi è di nuovo all’ordine del giorno a livello internazionale. “Abbiamo anche raggiunto altri risultati, come il rafforzamento dell’unità nazionale che si è concretizzata con il Centro di coordinamento militare che include l’ala militare di tutte le fazioni palestinesi.”

Il periodo di calma relativa delle passate tre settimane fa pensare che le fazioni di Gaza vogliano un accordo con Israele grazie al quale i palestinesi possano godere di una certa stabilità economica e sociale. Si dice che i funzionari israeliani a ogni livello condividano questa idea.

La dirigenza di Hamas a Gaza, guidata da Yahya Sinwar, sta mostrando grande interesse nel raggiungere un accordo a lungo termine con Israele” ha scritto Amos Harel su Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] l’altra settimana. “Lo Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] appoggia ampie misure di aiuto a Gaza in cambio di garanzie di pace … [ma] la decisione finale spetta ai politici.”

Harel sembrava temere che Israele possa perdere questa opportunità quando ha spiegato che i politici israeliani sono al momento “impelagati in una crisi legale e politica incentrata sui tre atti di accusa contro il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, e anche sulle gravi difficoltà nel formare un nuovo governo.“La rapida conclusione delle ultime consultazioni durate due giorni (e durante le quali 36 palestinesi sono stati uccisi negli attacchi israeliani), ha offerto a Israele la rara opportunità di fare dei progressi e forse di sfruttare la possibilità che era stata persa cinque anni fa dopo il conflitto del 2014.”

Sabato l’emittente israeliana Channel 12 ha dichiarato che il Ministro della Difesa Naftali Bennett [del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] ha ordinato all’esercito israeliano di condurre uno studio di fattibilità per un porto su un’isola artificiale sulla costa di Gaza per facilitare i commerci dentro e fuori l’enclave. Secondo il Times of Israel [giornale israeliano indipendente in lingua inglese, ndtr.] Bennett ha anche dato ordine al Capo di stato maggiore di effettuare uno studio di sicurezza per esaminare la possibilità di avere, sulla stessa isola, anche un aeroporto.

Questa idea è partita da Yisrael Katz [del partito di destra Likud, ndtr.] nel 2017, quando era Ministro dei Trasporti e dei Servizi Segreti, ma è stata osteggiata da altri ministri e non ha raggiunto il livello di discussioni governative. Oggi Katz è il Ministro degli Esteri israeliano e il Times of Israel ha riferito che ha detto di aver avuto il via libera per stabilire dei gruppi di lavoro congiunti fra il suo ministero, quello della Difesa e il Consiglio di Sicurezza Nazionale. “Per anni ho promosso l’iniziativa dell’isola galleggiante” ha twittato sabato. Ha sostenuto che questa è l’unica soluzione per Gaza.

Questa settimana ho incontrato il Ministro della Difesa Bennett che, a differenza del suo predecessore (Avigdor Lieberman [di un partito di estrema destra nazionalista, ndtr.] che era fra i ministri che si erano opposti all’idea nel 2017), ha dato il suo sostegno per promuovere l’iniziativa. Ho aggiornato il Primo Ministro Netanyahu e spero si possa iniziare presto.”

Il capogruppo di Fatah nel parlamento palestinese, Azzam Al-Ahmad, ha criticato l’idea del porto e dell’aeroporto e si è anche opposto a tutte le altre misure per alleggerire l’assedio imposto a Gaza da Israele, a meno che non siano coordinate dall’Autorità Nazionale Palestinese dominata dal suo partito. Se non ci fosse tale coordinamento, ha detto sabato ai media palestinesi, “si rafforzerebbe la divisione fra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, che sono le due parti del futuro Stato indipendente di Palestina.”

Rifqaa Abdul-Kader, una ricercatrice che vive a Gaza, ha criticato le affermazioni del funzionario di Fatah. “Ogni misura per migliorare la vita dei palestinesi a Gaza è ben accolta, inclusi un eventuale porto e aeroporto. L’ANP deve tacere quando ci sono informazioni su tali soluzioni.”

Parlando a MEMO, ha detto che la gente a Gaza è stata sottoposta a un duro assedio israeliano e ha subito molti attacchi dell’esercito israeliano con migliaia di morti e feriti. “Nessuno Stato o ente ufficiale al mondo, inclusa l’ANP, ha fatto qualcosa per aiutarli o per fermare le misure israeliane contro di loro” ha spiegato. “Invece di respingere le soluzioni per Gaza, l’ANP dovrebbe togliere le sanzioni imposte all’enclave assediata e pagare i salari a migliaia di dipendenti pubblici, pagare i costi amministrativi e operativi dei ministeri, inclusi i ministeri dell’Istruzione e della Salute, sbloccare i pagamenti annuali delle istituzioni educative a Gaza e accordarsi per indire le elezioni.”

Tuttavia Fawzi Mansour, un analista politico, insinua che Israele non ha delle “intenzioni innocenti” a proposito delle “possibili” misure relative ad alleggerire il blocco imposto a Gaza. “Tramite il porto e l’aeroporto Israele potrebbe progettare di rinforzare la completa separazione fra Gaza e la Cisgiordania” afferma.

Un risultato delle proteste della Grande Marcia del Ritorno che le fazioni palestinesi descrivono come una conquista è il futuro insediamento dell’ospedale americano nel nord della Striscia di Gaza. L’ospedale avrà due ingressi: uno per dare accesso dal lato israeliano del confine nominale, controllato dai servizi di sicurezza israeliani, e l’altro sul lato di Gaza, controllato dai servizi di sicurezza palestinesi del territorio.

Secondo Hussein Al-Sheikh, il Ministro degli Affari Civili dell’ANP, questo ospedale è “una base americana che verrà costruita a Gaza e Hamas non ha il diritto di raggiungere un accordo con nessuna delle parti in relazione all’insediamento di tale struttura.” Ha sostenuto che questa è una delle conseguenze negative delle proteste a Gaza. Invece Mai Kila, il Ministro della Salute dell’ANP, ha accettato che ci sia un ospedale ma ha detto che dovrebbe essere gestito dal suo ministero.

Hazim Qasim, il portavoce di Hamas, ha detto a MEMO che le affermazioni dell’ANP sono completamente false. L’ospedale non è stato accettato solo da Hamas, ha spiegato, ma da tutte le fazioni palestinesi. Ha aggiunto che le fazioni, e non solo Hamas, dirigeranno insieme l’attività di questo ospedale e ciò garantirà che “non ci sia un costo politico.” Il rappresentante di Hamas ha anche chiesto all’ANP di togliere le sanzioni da essa imposte a Gaza invece di “demonizzare ogni conquista che la resistenza ha ottenuto per i palestinesi assediati a Gaza.”

Pur facendo notare che le affermazioni critiche sulle caratteristiche dell’ospedale americano potrebbero non essere completamente false, Hossam Al-Dajani, accademico palestinese e analista politico, ha confutato l’affermazione che sarà altro che una base delle forze di sicurezza USA per aiutare Israele. “Sono sicuro che è solo un ospedale,” ha detto sabato sera a Al Jazeera in arabo, “ma se ha altri scopi, la resistenza palestinese di Gaza terrà d’occhio i lavori per garantire che non svolga altro che attività umanitarie.”

E quindi, se uno dei risultati della Grande Marcia del Ritorno sarà la presenza americana a Gaza, significa che le proteste si sono ritorte contro i palestinesi? Hamas crede di no.

Le proteste hanno dimostrato che la resistenza popolare controllata da fazioni palestinesi forti e unite, a questo stadio, è più efficace e meno costosa di altre forme di resistenza” ha detto il portavoce del movimento. “Resteranno uno strumento nelle mani della resistenza palestinese da usare quando necessario.”

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Dirigente di un gruppo suprematista ebraico imputato di incitamento all’odio contro i palestinesi

Natasha Roth-Rowland

27 Novembre 2019 – +972

Come Benjamin Netanyahu, Benzi Gopstein deve affrontare un procedimento penale atteso da tempo. Ma l’incriminazione di entrambi non cambia niente riguardo al sistema razzista ed espansionista che li ha prodotti

Martedì [26 novembre] un tribunale di Gerusalemme ha incriminato Benzi Gopstein, capo del gruppo razzista anti-assimilazionista “Lehava”, ed ha bandito il candidato alla Knesset del partito Otzma Yehudit [Potere Ebraico] per incitamento alla violenza, al razzismo e al terrorismo e per essersi pronunciato in favore del massacro alla Grotta dei Patriarchi di Hebron da parte di Baruch Goldstein nel 1994. Il suo rinvio a giudizio rappresenta il culmine di una campagna durata otto anni da parte dell’“Israel Reform Action Center” [Centro di Azione Israeliano per la Riforma, ndtr.] (IRAC), braccio giuridico dell’ebraismo riformato, per far sì che Gopstein e Lehava rendano conto [della loro posizione politica].

L’incriminazione di Gopstein cita, tra le altre cose, video in cui egli ha giustificato l’uso della violenza contro i palestinesi che sono in rapporto con donne ebree; ha definito i “nemici tra noi” (cioè i palestinesi) un “cancro”, ha proposto che la soluzione sia togliere di mezzo la Cupola della Roccia e la moschea di al-Aqsa ed ha affermato che ogni palestinese che egli dovesse vedere ad un matrimonio ebraico finirebbe nel “più vicino ospedale”.

Gopstein, allievo del fondatore della “Lega per la Difesa Ebraica” e demagogo razzista Meir Kahane ed ex-attivista del Kach, movimento politico israeliano di quest’ultimo, ha una lunga e storica carriera di razzismo violento. Da giovane ha avuto a che fare con la giustizia, in particolare quando è stato arrestato (e in seguito rilasciato per mancanza di prove) nel novembre 1990 in quanto sospettato di essere coinvolto nell’uccisione di due palestinesi, a quanto pare come rappresaglia per l’assassinio di Kahane a New York all’inizio di quel mese.

Di tutti i discepoli di Kahane che occupano ancora un posto sulla ribalta, Gopstein si è forse impegnato in modo più assiduo per portare avanti la principale ossessione del suo mentore: evitare rapporti tra ebrei e palestinesi, soprattutto tra donne ebree e uomini palestinesi. Come fondatore e capo di “Lehava” (il cui nome in ebraico è un acronimo per “Evitare l’Assimilazione nella Terra Santa”), Gopstein ha progettato di persona accaniti e spesso violenti tentativi di distruggere rapporti misti [tra israeliani e palestinesi, ndtr.] – sia tramite l’istituzione di un “telefono rosso” in stile Stasi [polizia segreta della Repubblica Democratica Tedesca, ndtr.], in cui israeliani preoccupati possono dare informazioni su cittadini che sospettano avere rapporti misti, fino a violente proteste durante matrimoni musulmani in cui la moglie si sia convertita dall’ebraismo.

Questi incidenti hanno fatto di “Lehava” un parafulmine per le critiche all’estrema destra nel discorso pubblico israeliano. Ed è facile capire perché: l’organizzazione e le sue azioni sono emblematiche dei fenomeni che israeliani progressisti (e non tanto progressisti) evidenziano come i mali della loro società, in un modo che consente loro di evitare di approfondire i più profondi problemi strutturali in cui essi stessi sono coinvolti.

Come Kahane prima di lui, Gopstein ha cercato di reclutare intorno alla sua causa giovani disadattati e svantaggiati dal punto di vista socio-economico, portando nell’organizzazione mizrahim (ebrei originari dei Paesi arabi o musulmani) della periferia sociale e geografica di Israele. La sua orchestrazione di proteste molto visibili – sia durante i matrimoni summenzionati o quelle del sabato notte in piazza Zion a Gerusalemme – garantisce che i media e i politici israeliani abbiano un archivio di immagini da condannare quando insistono che nel Paese la violenza della destra è esclusivamente un problema “mizrahi” (cioè: marginale e non istituzionale), invece che sistematico o “ampiamente diffuso” (cioè: ashkenazita [ebrei di origine europea, che dominano nella vita economica, politica e sociale di Israele, ndtr.]).

Analogamente lo stesso Gopstein – insieme al resto della sua coorte di “Otzma Yehudit”: Itamar Ben-Gvir, Baruch Marzel e Michael Ben-Ari — è liquidato come un fanatico religioso marginale, la cui ortodossia gli israeliani stentano ad evidenziare quando si scagliano contro la sua ideologia. Quindi, per esempio, durante un dibattito alla Knesset sulla messa fuori legge di “Lehava” nel 2015, il parlamentare laburista Itzik Shmuli denunciò trionfalmente Gopstein come “Isis con la kippah [il tradizionale copricapo ebraico, soprattutto degli ebrei praticanti, ndtr.]”.

Tali tentativi di definire come “diversi” i terroristi ebrei – siano Kahane, Yigal Amir [l’assassino di Rabin, ndtr.], Baruch Goldstein [autore della strage di 29 fedeli palestinesi nella tomba dei Patriarchi a Hebron, ndtr.], gli assassini di Muhammad Abu Khdeir [ragazzino palestinese bruciato vivo per vendicare la morte di tre giovani coloni uccisi da palestinesi nel 2014, ndtr.] o la “gioventù della cima delle colline” [gruppo informale di coloni estemisti, ndtr.] che incendia chiese, case e scuole [palestinesi] – è molto utile all’establishment israeliano. La condanna e l’occasionale incriminazione di questi personaggi consente al governo e ai suoi sostenitori interni ed internazionali di evidenziare un sistema giudiziario che funziona e un codice morale che rifiuta questa ideologia e queste azioni razziste. È lo stesso meccanismo che seleziona sporadicamente e in apparenza (anche se non realmente) in modo arbitrario soldati e poliziotti israeliani da punire per la continua serie di uccisioni extragiudiziarie di palestinesi, tra gli altri violenti misfatti.

In entrambi i processi, il sistema che produce violenza politica e abusi dell’esercito e li ricompensa con un’impunità quasi totale sfugge a una verifica.

Vale la pena di notare il tempismo dell’incriminazione di Gopstein: cinque giorni dopo l’incriminazione di Benjamin Netanyahu e nel bel mezzo dell’ultimo picco di violenza dei coloni in Cisgiordania durato sette giorni, compresa l’ultima fiammata dello scorso fine settimana a Hebron in cui circa una decina di palestinesi sono rimasti feriti, tra cui un bimbo di 18 mesi.

L’incriminazione di Netanyahu è stata sbandierata come la prova decisiva di una democrazia israeliana in ottima salute – un sistema talmente sicuro da mettere sotto processo il suo stesso primo ministro. Tali analisi hanno misteriosamente ignorato il fatto che Netanyahu finora non ha dovuto affrontare alcuna conseguenza per il fatto di aver infranto ripetutamente la legge relativa alla campagna elettorale e alle elezioni, né per i suoi tentativi razzisti di sopprimere il diritto di voto [dei palestinesi] – azioni che, si potrebbe pensare, rivelano molto più dello stato della democrazia israeliana di quanto questi osservatori evidenzino. Non dimentichiamoci neppure che Netanyahu ha conferito una legittimazione senza precedenti a Gopstein e ai suoi colleghi di “Otzma Yehudit” intervenendo personalmente in loro favore prima delle elezioni dell’aprile 2019.

Né la squadra di quelli che dicono che “la corruzione rafforza la democrazia” segnala l’altro, più fondamentale ostacolo per le loro analisi, cioè che il sistema giudiziario che ha indagato e incriminato Netanyahu è lo stesso che appoggia l’occupazione della Cisgiordania e l’assedio contro Gaza; che consente l’espulsione di palestinesi dalle loro case e la loro demolizione; che gestisce un apparato giudiziario separato su base etnica nei territori occupati, uno per i palestinesi e l’altro per gli ebrei. Ed è lo stesso sistema giudiziario che costantemente omette di considerare responsabili i propri soldati e civili per aver commesso soprusi, per aver aggredito e ucciso palestinesi ed ebrei etiopi, perché fa parte di uno Stato che, lasciando mano libera ai coloni violenti che agiscono in qualità di civili, ha rinunciato al proprio monopolio sull’uso legittimo della violenza.

In altre parole il sistema giudiziario che ha messo sotto processo Netanyahu e Gopstein in questo stesso momento sta anche consentendo ai coloni di aggirarsi per la Cisgiordania vandalizzando e incendiando proprietà palestinesi e aggredendo i proprietari. Queste due incriminazioni di alto livello non intaccano minimamente i progetti di espansione delle colonie, di esclusione su base etnica e di occupazione militare, azioni promosse dagli individui incriminati: la violenza nella relazione con i palestinesi continuerà anche se Gopstein verrà condannato, e la formalizzazione dell’annessione della Cisgiordania, insieme alla devastazione di Gaza che dura da molto tempo, sopravvivrà alla destituzione di Netanyahu.

Il sistema giudiziario che li ha messi sotto processo, per quanto possa essere disturbato dai loro quasi indistinguibili attacchi contro di esso come quinta colonna all’interno della società israeliana, continuerà ad approvare questi progetti.

È positivo che questi due uomini stiano affrontando le conseguenze attese da tempo per (alcune delle) loro azioni. L’ Israeli Religious Action Center, in particolare, deve essere elogiato per una battaglia quasi decennale per chiamare Gopstein a rispondere delle sue azioni. Ma non dobbiamo neppure fare di questa serie di avvenimenti altro che quello che sono: una foglia di fico che, puntando il dito contro due facili bersagli, rafforza piuttosto che indebolire il sistema che li ha prodotti.

Natasha Roth-Rowland è una dottoranda in storia all’università della Virginia, dove fa ricerca e scrive sull’estrema destra ebraica israeliana in Israele-Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come scrittrice, redattrice e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast, the London Review of Books Blog, Haaretz, The Forward e Protocols. Scrive sotto lo pseudonimo del suo vero cognome in memoria di suo nonno, Kurt, che venne obbligato a cambiare il proprio cognome in ‘Rowland’ quando cercò di rifugiarsi in Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 12-25 novembre 2019 (due settimane)

Il 12 novembre, le forze aeree israeliane hanno preso di mira e ucciso un alto funzionario dell’ala armata della Jihad islamica palestinese di Gaza. Ne sono scaturiti due giorni di intense ostilità, che hanno provocato pesanti perdite di vite umane e danni alle proprietà palestinesi.

Nelle prime ore del 14 novembre è entrato in vigore un cessate il fuoco che, nonostante il lancio sporadico di alcuni missili e colpi di mortaio sparati da Gaza, ha complessivamente tenuto.

Secondo il Ministero della Salute di Gaza, l’inasprimento delle ostilità [di cui sopra] ha provocato l’uccisione di 35 palestinesi (16 dei quali si ritiene siano civili) tra cui otto minori e tre donne; i feriti sono stati 106, tra cui 51 minori e 11 donne. Secondo quanto riferito, uno dei [35] decessi ed alcuni dei [106] ferimenti (il numero esatto non è stato confermato) sono da attribuire a missili palestinesi ricaduti su Gaza, mentre i rimanenti sono stati causati dagli attacchi aerei israeliani. Nove delle vittime, tra cui cinque minori, erano membri della stessa famiglia; sono rimasti uccisi a Deir El-Balah, nel corso di un attacco aereo che, successivamente, è stato riconosciuto dall’esercito israeliano come un errore. Secondo quanto riferito, l’esercito ha avviato un’indagine sull’episodio.

Nel corso delle ostilità di cui sopra, le fazioni palestinesi hanno lanciato contro Israele centinaia tra razzi e colpi di mortaio: 78 israeliani, inclusi minori e donne, sono stati curati per ferite leggere o per stati di shock. La stragrande maggioranza dei missili e dei colpi di mortaio sono caduti in aree aperte o sono stati intercettati prima di cadere.

Secondo una prima inchiesta condotta da Shelter Cluster [Organismo internazionale di coordinamento di Agenzie che sostengono le persone colpite da catastrofi naturali e/o conflitti], nella Striscia di Gaza, durante le ostilità, sono state distrutte o gravemente danneggiate 24 abitazioni, provocando lo sfollamento di circa 130 persone. Altre 480 unità abitative, insieme ad un numero imprecisato di strutture non residenziali, hanno subito danni tra il moderato ed il lieve. Anche nel sud di Israele sono state danneggiate diverse case.

Le manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno”, che dal marzo 2018 si sono svolte per la maggior parte dei venerdì in Gaza, vicino alla recinzione israeliana, sono state cancellate durante il periodo di riferimento. Ciononostante, vicino alla recinzione sono stati registrati numerosi scontri tra manifestanti palestinesi e forze israeliane; 12 palestinesi sono rimasti feriti.

In almeno 28 occasioni, allo scopo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle aree della Striscia di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa; non sono stati segnalati feriti. Le forze israeliane hanno compiuto due incursioni [nella Striscia] ed effettuato operazioni di spianatura del terreno vicino alla recinzione. In un caso separato, le forze israeliane hanno arrestato un palestinese al valico di Erez.

In Cisgiordania, nel villaggio di Surif (Hebron), un giornalista palestinese che documentava una manifestazione è stato colpito ad un occhio da un proiettile di gomma sparato dalle forze israeliane ed ha perso l’occhio. La manifestazione, che si è tenuta il 15 novembre in segno di protesta contro la confisca delle terre, si è evoluta in scontri con le forze israeliane, provocando il ferimento con arma da fuoco di un altro palestinese. Una successiva manifestazione, tenutasi nella città di Betlemme, in solidarietà con il giornalista ferito, si è conclusa con 18 giornalisti e due membri di una equipe medica trattati per inalazione di gas lacrimogeno, mentre un giornalista è stato colpito alla testa da una bomboletta di gas lacrimogeno sparata dalle forze israeliane.

Sempre in Cisgiordania, durante proteste e scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane 63 palestinesi, tra cui almeno quattro minori [segue dettaglio]. Dei 63 ferimenti, 18 sono avvenuti il 15 e 16 novembre, vicino al checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah) e presso l’Università Tecnica Palestinese, nella città di Tulkarm; gli scontri sono scoppiati nel corso di manifestazioni tenute in solidarietà con Gaza. Altri tre distinti episodi si sono verificati vicino alle porte della Barriera in Nazlat ‘Isa (Tulkarm) e Dhaher al ‘Abed (Jenin), dove le forze israeliane hanno sparato e ferito due palestinesi e aggredito un terzo che aveva tentato di attraversare la Barriera senza permesso. Due ragazzi palestinesi, di 12 e 13 anni, sono stati feriti con armi da fuoco il 17 novembre, durante scontri scoppiati all’ingresso del Campo di Al Jalazun (Ramallah). Successivamente sono stati trasferiti in ospedale per cure mediche. I rimanenti 43 ferimenti sono stati registrati durante scontri scoppiati all’ingresso del Campo profughi di Al ‘Arroub, a Bab Az Zawiya (nell’area H1 della città di Hebron) e vicino alla tomba di Rachele (Betlemme).

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 135 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 157 palestinesi, tra cui 18 minori. La maggior parte delle operazioni ha interessato il governatorato di Hebron (46), seguito dai governatorati di Gerusalemme (25) e Ramallah (22).

Citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 39 strutture, sfollando 63 palestinesi mentre altri 380 hanno subìto ripercussioni e/o danni di diverse entità [segue dettaglio]. Trentacinque (35) delle strutture colpite, di cui due precedentemente fornite come aiuti umanitari, si trovavano in Area C. L’episodio più importante si è verificato nei pressi del villaggio di Za’tara (Betlemme), in un’area designata [da Israele] come “zona chiusa” riservata all’addestramento militare a fuoco; qui le autorità hanno demolito 13 strutture, tra cui case, rifugi per animali, serbatoi d’acqua e pannelli solari. Le restanti quattro strutture demolite si trovavano a Gerusalemme Est. Il 23 novembre, le forze israeliane hanno sequestrato le attrezzature e le piastrelle utilizzate per ristrutturare una strada e un marciapiede che collegano la Comunità di Jabal al Baba con la vicina città di Al ‘Eizariya (Gerusalemme). L’infrastruttura era stata smantellata dalle forze israeliane il 18 novembre, mentre il sequestro di materiale è il secondo messo in atto dall’inizio della costruzione della strada, nell’agosto 2019. Finora, quest’anno, in Cisgiordania, sono stati sfollati circa 800 palestinesi a causa di demolizioni; un numero quasi doppio rispetto al corrispondente periodo del 2018.

Coloni israeliani hanno effettuato dodici (12) attacchi che hanno provocato il ferimento di 30 palestinesi ed hanno danneggiato almeno 100 alberi di ulivo e 48 veicoli [segue dettaglio]. Due di questi attacchi, oltre ad ulteriori episodi di intimidazione e scontri, hanno avuto luogo il 22 e 23 novembre nell’area H2 della città di Hebron, controllata da Israele, dove migliaia di coloni e altri visitatori israeliani hanno partecipato ad una celebrazione religiosa. L’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani ha espresso preoccupazione per il fatto che in molti casi le forze israeliane presenti nell’area “sembrano non agire per prevenire gli attacchi o proteggere la popolazione”. Nell’area H2 di Hebron, da gennaio 2019, data della fine del mandato della Presenza Internazionale Temporanea a Hebron, la frequenza e l’intensità degli attacchi di coloni sono notevolmente aumentate. In altri otto casi, accaduti in Cisgiordania, coloni israeliani sono entrati nei villaggi di Urif, Majdal Bani Fadil, Qabalan e Beit Dajan (tutti a Nablus), Sarta e Kafr ad Dik (Salfit) ed hanno vandalizzato un totale di 48 veicoli di proprietà palestinese ed hanno imbrattato con scritte i muri di cinque case e di una scuola. Ancora: palestinesi del villaggio di Awarta (Nablus) hanno riferito di un episodio in cui coloni hanno rubato il raccolto di 100 ulivi in terreni vicini all’insediamento colonico di Itamar (Nablus). L’accesso [da parte dei palestinesi] a tale area richiede un preventivo coordinamento con le autorità israeliane.

Secondo i media israeliani, in due occasioni verificatesi nell’area di Betlemme ed Hebron, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani, causando lesioni a un colono e danni a un’auto israeliana.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




La Giornata della collera palestinese contro lo “Stato dei coloni”

Umberto De Giovannangeli

26 novembre 2019 Huffington Post

Negozi chiusi, come le scuole e gli uffici pubblici. Manifestazioni e scontri a Gerusalemme Est e in varie località della Cisgiordania (decine i feriti). È la “Giornata della rabbia” dei palestinesi. Una rabbia indirizzata contro le dichiarazioni del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, sulla legalità degli insediamenti palestinesi.

 

Fine dalle prime ore dell’alba, le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno rafforzato la loro presenza nella Cisgiordania e lungo la barriera difensiva con la Striscia di Gaza. “Abbiamo dichiarato una Giornata della rabbia per rifiutare questa dichiarazione del segretario di Stato – afferma Wasel Abu Yousef, membro della Commissione politica dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) – Condanniamo completamente questo sforzo statunitense di legittimare gli insediamenti”.

Gran parte della comunità internazionale considera illegali gli insediamenti, sulla base della Quarta convenzione di Ginevra, che impedisce a una potenza occupante di trasferire parte della propria popolazione civile nei territori occupati. Da parte sua, Israele non considera la Cisgiordania un territorio occupato, ma conteso a causa dell’esito della guerra del 1967, quando fu sottratta al Giordania. Mahmoud al-Aloul, vice presidente di Fatah – la maggiore delle componenti dell’Olp – citato dalla Wafa, ha attaccato l’amministrazione Usa guidata da Trump ed Israele responsabili di “molti crimini” contro il popolo palestinese. Stanno veramente sbattendo le porte in faccia al diritto internazionale e spalancando quelle dell’estremismo, del terrorismo, della violenza, della corruzione, dello spargimento di sangue – ribadisce ad HuffPost il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat – Costringono i popoli a convincersi che l’unico modo di risolvere i problemi sia attraverso la violenza e non con i mezzi pacifici”. E aggiunge: “La comunità internazionale deve prendere tutte le misure necessarie per rispondere a fare da deterrente a questo comportamento irresponsabile degli Usa che rappresenta una minaccia alla sicurezza globale e alla pace”.

Durissima è anche la presa di posizione dei partiti arabi israeliani: “Netanyahu usa l’improvvida sortita americana per riproporre una visione colonialista ed etnocentrica d’Israele – ci dice Ayman Odeh, presidente della Joint List (La Lista araba unita, 13 seggi, terza forza parlamentare, ndr), incluso dalla Rivista Time tra le 100 ‘stelle nascenti’ a livello mondale della politica – Per Netanyahu annettere la Giudea e Samaria (i nomi biblici della West Bank, ndr) è come realizzare una missione divina, oltre che una spregiudicata manovra politica per garantirsi il sostegno dei falchi legati al movimento dei coloni. Siamo al fondamentalismo che si fa politica. E costui pretenderebbe di continuare a fare danni in un nuovo governo!”

In una nota, diffusa ieri, il Comitato esecutivo del Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc) riafferma “la sua opposizione alla creazione e all’espansione degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi occupati dal 1967″. In risposta alla decisione del Governo Usa, del 18 novembre scorso, di considerare “non illegali” gli insediamenti civili israeliani in Cisgiordania, il Wcc ribadisce che “tale annuncio ribalta la politica statunitense finora applicata e si pone in netta contrapposizione con quella della comunità internazionale e delle Nazioni Unite”. Il Wcc “respinge questa posizione sbagliata nella legge e contraria al perseguimento di una pace giusta sia per i palestinesi che per gli israeliani” e “riafferma il diritto dello Stato di Israele di vivere in pace e sicurezza all’interno dei confini riconosciuti dalla comunità internazionale, e allo stesso tempo riconosce e sostiene lo stesso diritto per il popolo palestinese”.

“Siamo alla legalizzazione dello ‘Stato dei coloni’, in spregio alla legalità internazionale e alle risoluzioni delle Nazioni Unite”, incalza Hanan Ashrawi, già portavoce della delegazione palestinese ai negoziati di Washington, più volte ministra palestinese.

In questo clima di odio e di rabbia che crescono le giovani generazioni palestinesi. E nella “Giornata della rabbia”, vale come testimonianza diretta di una situazione drammatica, quanto scrive su Internazionale Amira Hass, firma storica di Haaretz, la giornalista israeliana che meglio conosce, avendola raccontata da anni, la realtà palestinese: “Vivo in Cisgiordania da abbastanza tempo per capire l’odio e il disgusto dei palestinesi, che assume contorni sempre più personali man mano che si allontana la speranza di ottenere la libertà. Negli ultimi venticinque anni Israele ha fatto tutto quello che era in suo potere per dimostrare le proprie ambizioni colonialiste, sfruttando nel modo più astuto il processo di negoziazione per strappare sempre più terre ai palestinesi e per smembrare ancora di più la loro collettività. Per contrastare questa politica sono stati usati tutti i mezzi possibili: manifestazioni individuali e di massa, post su Facebook e video, lancio di pietre, ordigni esplosivi e razzi da Gaza, appelli alle star della musica statunitense affinché non si esibissero in Israele, petizioni sui giornali, concerti di raccolta fondi e votazioni all’Onu.  Tutti questi mezzi hanno fallito. Lo Stato israeliano va avanti per la sua strada. Il mondo gli permette di comportarsi come se fosse al di sopra della legge, mentre i palestinesi vengono vivisezionati per ogni parola e ogni slogan che pronunciano, per ogni colpo che sparano…”. Due pesi e due misure. La speranza di pace si spegne anche così.




Rovesciamento della politica di Obama? La dichiarazione di Pompeo sulle colonie israeliane è un fatto già noto

Dania Akkad

19 novembre 2019 – Middle East Eye

Middle East Eye prende in esame le affermazioni del Segretario di Stato USA per separare i fatti dalle interpretazioni

Lunedì il Segretario di Stato USA Mike Pompeo ha annunciato che, dopo quello che ha descritto come un’analisi accurata, l’amministrazione Trump ritiene che le colonie israeliane costruite nella Cisgiordania occupata non siano una violazione delle leggi internazionali.

Come hanno rilevato gli osservatori, non è mai stato precisato chi abbia effettuato lo studio, quanto tempo ci sia voluto e se ci siano stati dissensi; né lo è stata l’esatta motivazione dei tempi dell’annuncio – solo due giorni prima del termine ultimo entro il quale il premier israeliano incaricato Benny Gantz doveva formare una coalizione di governo.

Nella dichiarazione durata 15 minuti, Pompeo ha proceduto a esporre il nuovo corso della politica USA riguardo alle colonie israeliane, che, ha affermato, è “il rovesciamento dell’approccio dell’amministrazione Obama” e l’allineamento a quello dell’amministrazione di Ronald Reagan.

Ma è vero? Middle East Eye riflette su questi punti ed una serie di altri presentati dal Segretario per separare i fatti dalle interpretazioni.

L’amministrazione Trump sta invertendo l’approccio di quella di Obama nei confronti delle colonie israeliane.”

Pompeo ha dato il via alla sua dichiarazione affermando che l’amministrazione Trump sta “invertendo” l’approccio dell’amministrazione Obama nei confronti delle colonie, una linea che molte agenzie di stampa USA hanno preso per buona ed hanno accolto. Ma qual è stato esattamente il punto di vista di Obama sulle colonie?

Verso la fine della sua presidenza, poche settimane prima che Trump assumesse l’incarico, la sua [di Obama, ndtr.] amministrazione si astenne – tra molti applausi – su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva il blocco di tutti gli insediamenti israeliani nei territori occupati. Come dissero i suoi collaboratori al Washington Post, Obama non doveva più presentarsi alle elezioni, e non aveva quindi niente da perdere.

Cinque anni prima, ha raccontato martedì a Democracy Now [rete di notizie e commenti progressista USA, ndtr.] Noura Erakat, avvocato per i diritti umani e giurista palestinese, la storia era stata diversa. Nel febbraio 2011 l’amministrazione Obama fece uso del suo primo veto al Consiglio di Sicurezza ONU contro una risoluzione che condannava le colonie israeliane.

Sì, disse all’epoca l’ambasciatrice all’ONU Susan Rice, gli USA rifiutano “nei termini più decisi” la legittimità della continua costruzione di colonie israeliane, ma la risoluzione rischiava di “rendere più intransigenti le posizioni di entrambe le parti.”

Sicuramente l’amministrazione Obama fece sì che Israele ci pensasse due volte prima di costruire colonie. Basta vedere l’incremento nell’edificazione dopo che Trump ha assunto la presidenza, descritto come potenzialmente “la maggior valanga di costruzioni da anni.”

Ma, come evidenzia Erakat, come tutte le amministrazioni USA negli ultimi 50 anni, quella di Obama ha detto cose contraddittorie. Mentre si è astenuto sulla risoluzione del 2016, solo pochi mesi prima Obama ha accettato di concedere a Israele una cifra record di 3,8 miliardi di dollari di aiuti all’anno per dieci anni – il più grande accordo di questo tipo tra gli Usa e qualunque altro Paese.

Quindi quello che ora stiamo vedendo non è un radicale stravolgimento della politica estera USA sulla questione delle colonie e sulla Palestina, ma piuttosto il suo culmine,” ha detto Erakat martedì.

Tuttavia nel 1981 il presidente Reagan dissentì da questa conclusione e affermò di non credere che le colonie fossero intrinsecamente illegali…Dopo aver attentamente studiato ogni aspetto del dibattito giuridico, questa amministrazione è d’accordo con il presidente Reagan.”

Durante un’intervista con il New York Times nel febbraio 1981, in effetti Ronald Reagan disse di non credere che le colonie fossero illegali, ma affermò anche qualcosa di più in seguito – e le azioni della sua amministrazione furono qualcosa di completamente diverso.

Un giornalista disse che sembrava ci fosse un’accelerazione nella costruzione di colonie in Cisgiordania: “Lei è d’accordo? E, in secondo luogo, la vostra è una politica equilibrata in Medio Oriente?”, chiese il giornalista a Reagan.

Reagan disse che, mentre era in disaccordo quando l’amministrazione del suo predecessore Jimmy Carter aveva definito le colonie come illegali perché, in base a una risoluzione ONU che lasciava la Cisgiordania aperta a tutti, “non sono illegali”, egli riteneva che costruirle fosse “una pessima idea”.

Venne così citato: “Penso che forse ora con questa corsa a edificarle e il fatto di spostarsi all’interno [della Cisgiordania] nel modo in cui lo fanno sia una pessima idea, perché, se continuiamo con lo spirito di Camp David per cercare di arrivare a una pace, forse questo, in questo momento, è inutilmente provocatorio.”

Martedì un ex- consigliere giuridico del ministero degli Esteri israeliano ha detto a Times of Israel [giornale israeliano indipendente in lingua inglese, ndtr.] che, nonostante le sue considerazioni e altre dichiarazioni pubbliche di fonti ufficiali, che si rifiutarono di prendere posizioni giuridiche sulle colonie, durante la sua [di Reagan, ndtr.] amministrazione a porte chiuse i funzionari USA continuarono a dire che le colonie erano illegali.

La stessa proposta di pace di Reagan nel 1982 chiedeva il congelamento [delle costruzioni] sia nelle colonie esistenti che di nuove colonie. La proposta – presentata in una lettera – venne subito respinta da una risoluzione adottata all’unanimità dal governo del primo ministro israeliano Menachem Begin. Begin disse alla radio israeliana che era il suo “giorno più triste come primo ministro”.

La costruzione di colonie civili israeliane in Cisgiordania non è di per sé incompatibile con le leggi internazionali.”

Mentre Pompeo insiste che la legalità delle colonie israeliane è stata attentamente studiata e che, dopo aver esaminato “tutti gli aspetti della discussione giuridica”, l’amministrazione ha concluso che le colonie non sono “incompatibili con le leggi internazionali”, egli non spiega mai davvero esattamente come.

Evidenzia le differenze tra le posizioni dell’amministrazione Trump e le precedenti presidenze, sostiene che il sistema legale israeliano “offre la possibilità di opporsi alle attività di colonizzazione” (asserzioni che un palestinese potrebbe trovare gravemente fuorvianti) e afferma che prendersela con le colonie non ha contribuito agli sforzi per la pace. Ma nelle dichiarazioni di Pompeo non viene mai pienamente chiarito in che modo le colonie non violerebbero più le leggi internazionali, soprattutto le Convenzioni di Ginevra – definite dopo la Seconda Guerra Mondiale per garantire un trattamento umano ai civili durante un conflitto.

In particolare, secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, una potenza occupante “non deve deportare o trasferire parti della propria popolazione civile nel territorio che occupa.” L’Assemblea Generale dell’ONU, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e la Corte Internazionale di Giustizia hanno affermato che le colonie israeliane violano la convenzione che sia gli USA che Israele hanno ratificato. Quindi, cos’è cambiato ora?

E quali sono le conseguenze se le leggi internazionali non contano più? Martedì il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha affermato che il “farsesco annuncio” di Pompeo darà via libera non solo al progetto di colonizzazione illegale di Israele, ma aprirà la via ad altre violazioni dei diritti umani in tutto il mondo.

E infine – in conclusione – definire la costruzione di insediamenti civili incompatibile con le leggi internazionali non ha funzionato. Non ha fatto progredire la causa della pace.”

Forse, come ha detto Pompeo, definire le colonie come illegali non ha fatto avanzare la causa della pace. Ma indiscutibilmente non lo hanno fatto neppure il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e la sovranità israeliana sulle Alture del Golan; il taglio ai fondi destinati all’agenzia delle Nazioni Unite per l’Aiuto e il Lavoro (UNRWA), l’ente dell’ONU che fornisce aiuto a più di cinque milioni di rifugiati palestinesi; la chiusura dell’ufficio dell’OLP a Washington; il sostegno a un “accordo del secolo” che marginalizza una delle due parti per la quale è stata pensata come una soluzione.

Nel solo giorno in cui l’amministrazione Trump ha aperto la sua nuova ambasciata a Gerusalemme, il 14 maggio 2018, 68 persone di Gaza sono state uccise o hanno subito ferite letali a causa delle quali sono in seguito morte, mentre protestavano contro l’iniziativa durante la Grande Marcia del Ritorno.

È stata una giornata nera nel ricordo dei palestinesi,” ha detto a Middle East Eye il direttore dell’ospedale Al-Shifa di Gaza City, il dottor Medhat Abbas, che quel giorno ha curato circa 500 feriti.

In che modo le iniziative che l’amministrazione Trump ha preso dal giorno del suo insediamento abbiano protetto “la sicurezza e il benessere di palestinesi e israeliani,” come Pompeo invita le due parti a fare, è un’altra delle cose che non ha chiarito.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele e il dio delle colonie

22 novembre 2019 Volere la Luna

In questi giorni convulsi, in cui l’Italia è seriamente preoccupata per le vicende dell’ex ILVA di Taranto che mettono a nudo la difficoltà di sciogliere un conflitto fra due principi forti – le ragioni dell’industria e dell’occupazione e le ragioni della tutela della salute – è passata quasi inosservata una notizia estremamente grave, che spiana la strada al caos nelle relazioni internazionali.

Giorni fa, Mike Pompeo, Segretario di Stato USA, ha dichiarato che gli Stati Uniti non considerano più le colonie israeliane in Cisgiordania illegittime, ossia contrarie al diritto internazionale. Qualche ora dopo il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ha approvato il disegno di legge che permetterà a Israele di annettersi la Valle del Giordano, adempiendo a una promessa già manifestata durante la recente campagna elettorale.

Il conflitto israeliano Palestinese, com’è noto, è il conflitto internazionale che più profondamente ha intersecato la responsabilità della Comunità internazionale attraverso l’Organizzazione delle Nazioni Unite, a cominciare dall’ormai lontano 1947, quando l’Assemblea Generale, con la Risoluzione n. 181 del 29 novembre, decretò la divisione della Palestina soggetta al Mandato Britannico in due Stati, prevedendo uno status speciale per la città di Gerusalemme. Da allora le Nazioni Unite sono intervenute in tutte le maniere possibili per arginare la violenza, dare una prospettiva ai profughi, tracciare un quadro di regole condivise dalla Comunità internazionale e indicare una prospettiva per la costruzione di una soluzione pacifica e definitiva del conflitto, impegnando tutte le loro risorse. L’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza hanno esaminato tutti gli aspetti del conflitto. In particolare quest’ultimo ha pronunziato numerose e importanti Risoluzioni, come quelle n. 242 del 22 novembre 1967, n. 338 del 22 ottobre 1973 e n. 465 del 1° marzo 1980, che ancora oggi costituiscono i capisaldi, la via maestra per ogni possibile percorso di pace.

Infine è intervenuta la Corte Internazionale di Giustizia che ha pronunciato delle parole definitive sullo status giuridico dei territori occupati da Israele a seguito della guerra dei sei giorni (1967). La Corte è la bocca del diritto internazionale: essa ci dice cosa è legale e cosa è illegale nell’ordinamento internazionale. Con la sua sentenza del 9 luglio 2004 la Corte ha ribadito che tutti i territori che si trovano al di là della linea verde (la linea di armistizio del 1949), ivi compresa la zona Est di Gerusalemme, sono territori occupati a seguito di un conflitto bellico e che Israele è una Potenza occupante, come tale vincolata, nell’amministrazione dei territori occupati, al rispetto delle obbligazioni derivanti dal diritto dei conflitti armati.

Due sono le conseguenze fondamentali che emergono dal riconoscimento dello statuto giuridico dei territori occupati. La prima è che il popolo palestinese è titolare di un diritto all’autodeterminazione, che deve essere attuato, ovviamente, con mezzi pacifici, ma non deve essere pregiudicato con modifiche del territorio e della sua composizione demografica, realizzate attraverso la politica dei “fatti compiuti”. La seconda è che, nell’amministrazione dei territori occupati, la Potenza occupante deve rispettare le Convenzioni internazionali, ivi compresa la IV Convenzione di Ginevra, che esplicitamente vieta alla Potenza occupante di trasferire una parte della propria popolazione nei territori occupati (art. 49). La Corte quindi riconosce che gli insediamenti dei coloni nei territori occupati sono illegali in quanto costituiscono una “flagrante violazione” della IV Convenzione di Ginevra.

Allorché il portavoce di Trump dichiara che le colonie non sono più illegali, in realtà demolisce il diritto internazionale e legittima la legge della giungla nelle relazioni internazionali, mandando in esilio il diritto.

La questione va al di là del caso specifico: attraverso queste condotte si rinnega l’ordine giuridico costruito dopo la seconda guerra mondiale fondato sul presupposto che la pace si raggiunge attraverso il diritto. Demolire la trama, pur esile, del diritto e delle Convenzioni che regolano le relazioni internazionali significa precipitare l’umanità intera in una condizione di conflitto perenne.

Se i coloni israeliani si appropriano delle terre palestinesi di cui si considerano titolari per diritto divino, è il caso di rispolverare il secondo comandamento: non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio.

Domenico Gallo, magistrato è presidente di sezione della Corte di cassazione. Da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace, è stato senatore della Repubblica per una legislatura ed è componente del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale. Tra i suoi ultimi libri Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013)



I palestinesi hanno il diritto legale alla lotta armata *

Stanley L. Cohen

20 luglio 2017 – Al Jazeera

È tempo che Israele accetti che, come popolo sotto occupazione, i palestinesi hanno il diritto di resistere – in ogni modo possibile.

*Nota redazionale: riteniamo significativo proporre ai lettori questo articolo che risale al luglio 2017 in quanto ogniqualvolta avvengono attacchi armati da parte dei palestinesi, in particolare recentemente da Gaza, i media vengono inondati da commenti aspramente critici nei confronti dei gruppi della resistenza palestinese. Indipendentemente dalla condivisione riguardo all’utilità politica di queste azioni, riteniamo sia importante ricordare, come fa l’autore di questo articolo con abbondanza di riferimenti storici, che esse sono legittimate dalle leggi internazionali che riconoscono il diritto di un popolo oppresso ad utilizzare tutti i mezzi necessari, compresa la violenza, per resistere ai propri oppressori. Ed anche che i primi ad utilizzare il terrorismo sistematico in Palestina contro inglesi e palestinesi furono i gruppi armati sionisti.

È stato da tempo stabilito che la resistenza e persino la lotta armata contro una forza di occupazione coloniale non siano solo riconosciute come legittime in base alle leggi internazionali, ma specificamente approvate.

Sulla base del diritto internazionale umanitario, le guerre di liberazione nazionale sono state espressamente riconosciute ovunque, attraverso l’adozione del primo protocollo aggiuntivo [relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, n.d.tr.] alle Convenzioni di Ginevra del 1949 come un diritto protetto e imprescindibile dei popoli sotto occupazione.

  Individuando la vitalità in sviluppo del diritto umanitario, per decenni l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (AG dell’ONU) – una volta descritta come la coscienza collettiva del mondo – ha evidenziato il diritto dei popoli all’autodeterminazione, all’indipendenza e ai diritti umani.

In effetti già nel 1974 la risoluzione 3314 dell’AG dell’ONU proibiva agli Stati “qualsiasi occupazione militare, per quanto temporanea”.

Nella sua parte relativa a questo diritto, la risoluzione non solo continuava ad affermare il diritto “all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza […] dei popoli privati con la forza di quel diritto, […] in particolare dei popoli sotto regime coloniale e razzista o altre forme di dominio straniero”, ma evidenziava anche il diritto di chi si trovi sotto occupazione, di ” lottare … e di chiedere e ricevere appoggio” per quel tentativo [di liberarsi].

Il termine “lotta armata” era implicito [pur] senza una citazione precisa in quella e in molte altre risoluzioni precedenti che sostenevano il diritto dei [popoli] autoctoni di cacciare gli occupanti.

Questa imprecisione sarebbe stata corretta il 3 dicembre 1982. A quel tempo la risoluzione 37/43 dell’AG dell’ONU rimosse qualsiasi dubbio o dibattito sul legittimo diritto dei popoli sotto occupazione a resistere alle forze di occupazione con qualsiasi mezzo legittimo. La risoluzione ribadiva “la legittimità della lotta dei popoli per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dal dominio coloniale e straniero e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.

Un evidente inganno

Sebbene Israele abbia tentato, periodicamente, di reinterpretare l’intento inequivocabile di questa precisa risoluzione – e quindi di considerare l’occupazione, durata ormai mezzo secolo, di Cisgiordania e Gaza esclusa dalla sua applicazione – si tratta di uno sforzo profondamente logorato fino allo stato di evidente inganno dalle parole esatte della stessa dichiarazione. Nella parte pertinente, la sezione 21 della risoluzione condanna fermamente “le attività espansionistiche di Israele in Medio Oriente e i continui bombardamenti di civili palestinesi, che rappresentano un grave ostacolo alla realizzazione dell’autodeterminazione e dell’indipendenza del popolo palestinese”.

I sionisti europei, coloro che non hanno mai avuto esitazioni nel riscrivere la storia, molto prima dell’istituzione delle Nazioni Unite, si considerarono un popolo sotto occupazione quando emigrarono in Palestina – una terra nei confronti della quale erano cessati, in seguito a migrazioni in gran parte volontarie, tutti i legami storici che avevano avuto molto tempo prima.

In effetti, ben 50 anni prima che le Nazioni Unite parlassero del diritto alla lotta armata come strumento di liberazione autoctona, i sionisti europei hanno fatto proprio il concetto in modo illegale, dal momento in cui l’Irgun [abbreviazione di Irgun Tzvai Leumi, “Organizzazione Militare Nazionale”, è stato un gruppo paramilitare sionista, giudicato terrorista dal Regno Unito, che operò nel corso del Mandato britannico sulla Palestina dal 1931 al 1948, n.d.tr.], il Lehi [Combattenti per la Libertà d’Israele, meglio nota come Banda Stern, fu un’altra organizzazione paramilitare sionista, n.d.tr.] e altri gruppi terroristici intrapresero un lungo periodo di dieci anni di caos mortale.

Durante questo periodo, massacrarono non solo migliaia di palestinesi autoctoni, ma presero anche di mira la polizia britannica e il personale militare che da tempo vi aveva mantenuto una presenza colonizzatrice.

Una storia di attacchi sionisti

Mentre gli israeliani si siedono a piangere la perdita di due dei loro soldati che sono stati uccisi a Gerusalemme la scorsa settimana a colpi di arma da fuoco [il 14/07/2017 due poliziotti appartenenti alla minoranza drusa israeliana vennero uccisi nel corso di un attentato sulla spianata delle moschee, n.d.tr.]- in quello che molti considerano un legittimo atto di resistenza – un viaggio nel percorso della memoria potrebbe forse ricollocare gli eventi nel loro giusto contesto storico.

Molto tempo fa, descrivendo gli inglesi come una forza di occupazione nella “loro patria”, i sionisti presero di mira la polizia e le unità militari britanniche con foga spietata in tutta la Palestina e altrove.

Il 12 aprile 1938, l’Irgun uccise due poliziotti britannici ad Haifa in un attentato dinamitardo contro un treno. Il 26 agosto 1939, due ufficiali britannici furono uccisi da una mina antiuomo dell’Irgun a Gerusalemme. Il 14 febbraio 1944, due poliziotti britannici furono uccisi a colpi di arma da fuoco mentre tentavano di arrestare delle persone per aver affisso dei manifesti ad Haifa. Il 27 settembre 1944, più di 100 membri dell’Irgun attaccarono quattro stazioni della polizia britannica, ferendo centinaia di ufficiali. Due giorni dopo un alto ufficiale di polizia britannico del dipartimento di intelligence criminale fu assassinato a Gerusalemme.

Il 1 ° novembre 1945 un altro ufficiale di polizia fu ucciso mentre cinque treni venivano attaccati con bombe. Il 27 dicembre 1945, sette ufficiali britannici persero la vita in un attentato dinamitardo al quartier generale della polizia a Gerusalemme. Tra il 9 e il 13 novembre 1946 ebrei facenti parte di un movimento clandestino lanciarono una serie di attacchi con mine e bombe nascoste all’interno di valigie in stazioni ferroviarie, treni e tram, uccidendo 11 soldati e poliziotti britannici e otto poliziotti arabi.

Altri quattro ufficiali furono uccisi in un altro attacco contro un quartier generale della polizia il 12 gennaio 1947. Nove mesi dopo, quattro poliziotti britannici furono assassinati durante una rapina in banca da parte dell’Irgun e tre giorni dopo, il 26 settembre 1947, altri 13 agenti vennero uccisi in un altro attacco terroristico contro una stazione di polizia britannica.

Questi sono solo alcuni dei molti attacchi diretti dai terroristi sionisti contro la polizia britannica che furono visti da molti ebrei in Europa come obiettivi legittimi di ciò che descrivevano come una lotta di liberazione contro una forza di occupazione.

Durante tutto questo periodo, i terroristi ebrei si impegnarono anche in innumerevoli attacchi che non risparmiarono nessuna delle infrastrutture britanniche e palestinesi. Assalirono installazioni militari e di polizia britanniche, uffici governativi e navi, spesso con bombe. Sabotarono ferrovie, ponti e installazioni petrolifere. Vennero attaccate decine di obiettivi economici, tra cui 20 treni danneggiati o deragliati e cinque stazioni ferroviarie. Vennero effettuati numerosi attacchi contro l’industria petrolifera, tra cui uno, nel marzo 1947, contro una raffineria di petrolio Shell ad Haifa che distrusse circa 16.000 tonnellate di petrolio.

I terroristi sionisti uccisero soldati britannici in tutta la Palestina, usando trappole esplosive, agguati, cecchini e esplosioni di veicoli.

Un attacco in particolare riassume il terrorismo di coloro che, all’epoca senza alcun supporto da parte del diritto internazionale, non vedevano alcun limite ai loro tentativi di “liberare” una terra in cui erano, in gran parte, immigrati solo di recente.

Nel 1947, l’Irgun rapì due sottufficiali delle truppe dell’intelligence britannica e minacciò di impiccarli se fossero state eseguite le condanne a morte nei confronti di tre dei loro membri. Quando questi tre membri dell’Irgun furono giustiziati per impiccagione, i due sergenti britannici furono impiccati per rappresaglia e i loro corpi furono lasciati in un boschetto di eucalipti con delle trappole esplosive.

Nell’annunciare la loro esecuzione, l’Irgun affermò che i due soldati britannici erano stati impiccati in seguito alla loro condanna per “attività criminali anti-ebraiche” che consistevano in: ingresso illegale nella patria ebraica e appartenenza a un’organizzazione criminale britannica – noto come esercito d’occupazione – “responsabile di tortura, omicidio, deportazione e negazione del diritto alla vita nei confronti del popolo ebraico”. I soldati furono anche accusati di possesso illegale di armi, spionaggio antiebraico in abiti civili e premeditazione di progetti ostili contro l’organizzazione clandestina.

Ben oltre i confini territoriali della Palestina, tra la fine del 1946 e il 1947 fu lanciata una prolungata campagna di terrorismo contro gli inglesi. Atti di sabotaggio furono compiuti contro vie di comunicazione militare britanniche in Germania. Il Lehi tentò anche, senza successo, di sganciare una bomba sulla Camera dei Comuni con un aereo decollato dalla Francia e, nell’ottobre del 1946, mise una bomba all’ambasciata britannica a Roma. Numerosi altri ordigni furono fatti esplodere dentro e intorno a obiettivi strategici a Londra. Circa 21 lettere esplosive furono inviate, in varie occasioni, a personaggi politici britannici di alto livello. Molte furono intercettate, mentre altre raggiunsero i loro obiettivi, ma furono scoperte prima che potessero esplodere.

Il prezzo salato dell’autodeterminazione

L’autodeterminazione è un percorso difficile e costoso per chi si trova sotto occupazione. In Palestina, indipendentemente dall’arma che scegli – la voce, la penna o una pistola – esiste un prezzo elevato da pagare per il suo utilizzo.

Oggi, “dire la verità al potere” è diventato un mantra molto popolare della resistenza nei circoli e nelle associazioni neo-progressisti. In Palestina, tuttavia, per chi è sotto occupazione e sotto l’oppressione, ciò rappresenta un percorso quasi scontato verso la prigione o la morte. Tuttavia, per generazioni di palestinesi derubati persino dell’anelito alla libertà, la storia insegna che semplicemente non c’è altra scelta.

Il silenzio è la resa. Tacere significa tradire tutti coloro che sono venuti prima e tutti quelli che ancora devono seguire.

Per coloro che non hanno mai provato il giogo assillante dell’oppressione o non l’hanno visto da vicino, è un’ immagine [che va] oltre la comprensione. L’occupazione è pesante per chi la subisce, ogni giorno in ogni modo, creando limiti alla propria esistenza e alla propria possibilità di crescita.

Le ferite continue [provocate] dai blocchi, dalle armi, dagli ordini, dalla prigione e dalla morte sono compagne di viaggio per chi si trova sotto occupazione, che si tratti di bambini, ragazzi nella primavera della vita, anziani o di chi si trovi intrappolato dai confini artificiali di barriere sulle quali non si possiede alcun controllo.

Alle famiglie dei due poliziotti drusi israeliani che hanno perso la vita mentre cercavano di controllare un luogo che non spettava a loro presidiare, porgo le mie condoglianze. Questi giovani uomini, tuttavia, non hanno perso la vita nella lotta della resistenza, ma sono stati sacrificati intenzionalmente da un’occupazione malvagia che non possiede nessuna legittimità.

Alla fine, se c’è da addolorarsi, deve essere per gli 11 milioni di persone sotto occupazione, sia in Palestina che fuori, come tanti rifugiati apolidi, privati di una voce e di opportunità significative, mentre il mondo porge delle scuse soprattutto sotto forma di una confezione regalo finanziaria contrassegnata dalla stella di David.

Non passa giorno senza i gemiti agghiaccianti di una Nazione che veglia su un bambino palestinese avvolto in un sudario, privato della vita perché l’elettricità o il transito sono diventati un privilegio perverso che tiene milioni [di persone] ostaggio dei capricci politici di pochi. Che si tratti di israeliani, di egiziani o di coloro che si ammantano della leadership politica sui palestinesi, la responsabilità dell’infanticidio a Gaza è esclusivamente loro.

“Senza lotta, non esiste progresso”

I tre giovani cugini che hanno sacrificato volontariamente la propria vita nell’attacco ai due ufficiali israeliani a Gerusalemme non lo hanno fatto come un gesto vuoto nato dalla disperazione, ma piuttosto come una propria dichiarazione di orgoglio nazionale che fa seguito ad una lunga serie di altri che hanno ben compreso che il prezzo della libertà può, a volte, significare tutto.

Per 70 anni, non è passato un giorno senza la perdita di giovani donne e uomini palestinesi che, tragicamente, hanno trovato maggiore dignità e libertà nel martirio piuttosto che in una vita passiva, obbediente, sotto il controllo di coloro che hanno osato dettare i parametri della loro vita.

Milioni di noi in tutto il mondo sognano un momento e un posto migliori per i palestinesi … liberi di spalancare le ali, di librarsi, di scoprire chi sono e cosa desiderano diventare. Fino ad allora, non piango per la perdita di coloro che interrompono il loro volo. Invece applaudo coloro che hanno il coraggio di lottare, il coraggio di vincere – con ogni mezzo necessario.

Non c’è niente di straordinario nella resistenza e nella lotta. Esse trascendono il tempo e il luogo e derivano il loro più grande significato e il loro ardore dall’inclinazione naturale, anzi, spingono tutti noi a essere liberi – a essere liberi di scegliere il ruolo della nostra vita.

In Palestina non esiste tale libertà. In Palestina, il diritto internazionale riconosce i diritti fondamentali all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza di chi si trova sotto occupazione. Ciò, in Palestina, comprende il diritto alla lotta armata, se necessario.

Molto tempo fa, il famoso abolizionista Frederick Douglass [politico, scrittore, sostenitore del diritto al voto per le donne negli Stati Uniti, nel 1882 fu il primo afro-americano ad essere candidato alla vicepresidenza negli USA, n.d.tr.], egli stesso ex schiavo, scrisse a proposito della lotta. Queste parole riecheggiano oggi non meno di allora, in Palestina, rispetto a 150 anni fa, nel cuore del sud ante-guerra degli Stati Uniti:

“Se non c’è lotta, non c’è progresso. Coloro che professano di favorire la libertà, eppure deprecano la mobilitazione, sono uomini che vogliono coltivare senza arare il terreno. Vogliono la pioggia senza tuoni e fulmini. Vogliono l’oceano senza il terribile ruggito delle sue possenti acque. Questa lotta può essere morale; o può essere fisica; o può essere sia morale che fisica; ma deve essere una lotta. Il potere non concede nulla senza che gli venga chiesto. Non lo ha mai fatto e mai lo farà.”

Stanley L Cohen è un avvocato e un attivista per i diritti umani che ha svolto un ampio lavoro in Medio Oriente e Africa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Secondo gli USA le colonie non violano le leggi

Le colonie israeliane non violano le leggi internazionali, dice Pompeo

L’annuncio del Segretario di Stato Usa è stato criticato dai gruppi di diritti umani come un sostegno alle illegali colonie israeliane

Redazione di MEE e agenzie

18 novembre 2019 – Middle East Eye

 

Le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata non sono ” in contraddizione con le leggi internazionali, ” ha annunciato Mike Pompeo con una decisione che annulla decenni di decisioni di Washington e che è stata immediatamente condannata dai portavoce palestinesi.

Il Segretario di Stato Usa ha detto lunedì che l’amministrazione Trump crede “che quello che abbiamo fatto oggi sia un riconoscimento della realtà così com’è sul terreno”. “La creazione di insediamenti civili israeliani non è, in sé, in contraddizione con il diritto internazionale” ha detto Pompeo ai reporter.

La decisione annulla un parere legale del Dipartimento di Stato risalente al 1978, che affermava che gli insediamenti civili violano le leggi internazionali. Redatta da Hebert Hansell, l’allora consigliere legale del Dipartimento di Stato, l’opinione giuridica vecchia di 41 anni è stata a lungo la base delle decisioni degli USA sulle colonie israeliane.

All’epoca Hansell aveva detto che Israele era un “occupante belligerante” della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, così come della penisola egiziana del Sinai e delle Alture del Golan.

L’annuncio di Pompeo viene dopo una serie di provvedimenti decisamente filo-israeliani presi dal presidente Usa Donald Trump dal momento del suo insediamento, inclusa la controversa decisione di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

Trump a marzo ha anche riconosciuto la sovranità israeliana sulle Alture del Golan siriane occupate, una mossa che ha attirato critiche a livello internazionale e ha aumentato il timore che l’amministrazione Usa voglia dare il via libera all’annessione dei territori palestinesi occupati da parte di Israele.

Secondo la quarta Convenzione di Ginevra, di cui Washington è firmataria, una potenza occupante non può spostare la sua popolazione civile nel territorio che occupa.

Secondo l’ong israeliana per i diritti umani B’Tselem ci sono circa 200 insediamenti israeliani ufficiali nella Cisgiordania occupata, includendo Gerusalemme Est, con circa 620.000 residenti.

Lunedì l’associazione ha detto che l’amministrazione Trump con il suo “farsesco annuncio dà l’ok non solo al progetto israeliano degli insediamenti illegali, ma anche ad altre violazioni dei diritti umani in altre parti del mondo, annullando i principi delle leggi internazionali “.

Inoltre la mossa riporta “il mondo indietro di oltre 70 anni “, commenta B’Tselem.

‘Irresponsabile’

I palestinesi hanno inoltre attaccato l’annuncio dell’amministrazione Trump, per voce di Saeb Erekat, parlamentare e diplomatico di lungo corso, che ha definito la mossa “irresponsabile” e “una minaccia alla stabilità, sicurezza e pace globali “.

“Ancora una volta, con questo annuncio l’amministrazione Trump sta dimostrando la portata della sua [minaccia] al sistema internazionale,” ha dichiarato Erekat.

Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch, ong israeliana e palestinese, ha twittato che comunque la decisione “non cambia niente.”

“Trump non può spazzare via decenni di diritto internazionale con un decreto” ha detto Shakir.

Che gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati siano una violazione di leggi umanitarie internazionali è stato ampiamente documentato dalle organizzazioni di diritti umani.

Anche Amnesty International ha detto: “La decisione di Israele che dura da tempo di insediare i civili nei territori occupati è considerata un crimine di guerra in base allo statuto della Corte Penale Internazionale”

“Che fosse prevedibile non la rende meno provocatoria” ha aggiunto Omar Baddar, il vice-direttore dell’Arab American Institute, un’associazione di difesa con sede a Washington.

Baddar ha detto “che sarebbe stato più onesto” se l’amministrazione Trump “avesse annunciato che si considera Israele al di sopra della legge e di finirla qui”.

Anche il senatore americano Bernie Sanders, in corsa per la diventare candidato a presidente per il partito democratico nel 2020, si è espresso contro la decisione di lunedì. “Le colonie israeliane nei territori occupati sono illegali” ha twittato.

“Questo è chiaro in base al diritto internazionale e alle molte risoluzioni dell’Onu. Ancora una volta Trump sta isolando gli Stati Uniti e minando la diplomazia per assecondare la sua base [elettorale] estremista”.

Israele accoglie positivamente la decisione

Non sorprende che le autorità israeliane abbiano accolto positivamente l’annuncio Usa, e l’ufficio del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu l’ha definita “una decisione importante che corregge un errore storico”.

Il ministro degli esteri Israel Katz ha anche detto che la decisione ha chiarito che “non ci può essere alcun dibattito sul diritto del popolo ebraico alla Terra d’Israele”.

“Io vorrei ringraziare l’amministrazione Trump per il suo sostegno coerente e deciso a Israele e il suo impegno a incoraggiare le relazioni fra i popoli della regione per creare un Medio Oriente prospero e stabile” ha detto Katz.

Netanyahu non è riuscito a formare un governo di maggioranza in seguito alle elezioni di settembre in Israele, e ha dovuto permettere al rivale Benny Gantz di tentare di mettere insieme una coalizione. Se Gantz ci riuscisse, Netanyahu dovrebbe dimettersi dal suo incarico di primo ministro.

La rabbina Alissa Wise, vice-direttrice esecutiva di Jewish Voice for Peace [organizzazione di ebrei USA antisionisti, ndtr.], ha detto che l’annuncio Usa sugli insediamenti mira a fornire un sostegno politico sia a Netanyahu che a Trump, in vista della rielezione nel 2020.

“L’amministrazione Trump non si è mai dedicata alla promozione della pace, ma ha invece sostenuto le carriere politiche di Netanyahu e di Trump, perpetuando ad ogni costo il controllo e dominio israeliani sulla terra e sulle vite palestinesi ” ha dichiarato Wise.

“Pompeo e l’amministrazione Trump non possono riscrivere le leggi internazionali.”

Anche l’Unione Europea ha risposto agli Usa dichiarando che la sua posizione sulle colonie israeliane “è chiara e non è cambiata”. “Tutta l’attività di colonizzazione è illegale secondo il diritto internazionale ed erode la possibilità di una soluzione a due Stati e le possibilità di una pace durevole”. L’Unione ha anche richiesto a Israele di “porre fine a tutte le attività degli insediamenti, in linea con i suoi obblighi di potenza occupante”.

Il comunicato di lunedì giunge a meno di una settimana da quando il Dipartimento di Stato aveva condannato l’Alta Corte europea per aver dimostrato un “pregiudizio anti-israeliano” dopo che aveva deciso che i prodotti degli insediamenti israeliani devono essere chiaramente etichettati come tali.

Il Dipartimento ha avvertito che la decisione della Corte Europea di Giustizia “avrebbe incoraggiato, facilitato e promosso” il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi.

 

( Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




I palestinesi condannano il ribaltamento della politica USA sulle colonie israeliane

Al Jazeera e agenzie di informazione

19 novembre 2019 – Al Jazeera

Gli USA dicono di non considerare più illegali le colonie israeliane, provocando aspre critiche da parte dei palestinesi e delle associazioni per i diritti

Palestinesi, associazioni per i diritti, politici ed altri hanno aspramente criticato l’amministrazione Trump dopo l’annuncio che gli Stati Uniti non considerano più le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata come “incompatibili” con il diritto internazionale.

Dopo aver studiato attentamente tutti gli aspetti del dibattito legale, questa amministrazione concorda ….che l’insediamento di colonie civili israeliane in Cisgiordania non è di per sé in contrasto con il diritto internazionale”, ha detto lunedì il Segretario di Stato USA Mike Pompeo quando ha dato l’annuncio.

Ha detto che l’amministrazione del presidente USA Donald Trump non si atterrà più all’opinione legale del Dipartimento di Stato del 1978 che affermava che le colonie erano “contrarie al diritto internazionale”.

Secondo diverse Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, la più recente nel 2016, le colonie israeliane sono illegali in base al diritto internazionale, in quanto violano la Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta ad una potenza occupante di trasferire la propria popolazione nell’area da essa occupata.

L’annuncio USA, l’ultimo di una serie di iniziative dell’amministrazione Trump a favore di Israele, ha sollevato critiche immediate da parte di palestinesi, associazioni per i diritti e politici in tutto il mondo.

Un portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che la decisione degli USA “è totalmente contraria al diritto internazionale.”

Washington “non è qualificata né autorizzata ad annullare le risoluzioni del diritto internazionale e non ha il diritto di concedere legittimità ad alcuna colonia israeliana”, ha dichiarato il portavoce della presidenza palestinese Nabil Abu Rudeinah.

Hanan Ashrawi, una importante negoziatrice palestinese e membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha scritto su Twitter, di fronte alla dichiarazione di Pompeo, che l’iniziativa rappresenta un altro colpo “al diritto internazionale, alla giustizia e alla pace.”

Il Ministro degli Esteri della Giordania, Ayman Safadi, ha avvertito che il cambiamento di posizione degli USA potrebbe comportare “pericolose conseguenze” sulle prospettive di riavviare il processo di pace in Medio Oriente.

Safadi ha detto in un tweet che le colonie israeliane nel territorio sono illegali ed annientano la prospettiva di una soluzione con due Stati, in cui uno Stato palestinese dovrebbe esistere a fianco di Israele, cosa che i Paesi arabi ritengono essere l’unica via per risolvere il pluridecennale conflitto arabo-israeliano.

‘Un regalo a Netanyahu’

Più di 600.000 israeliani vivono attualmente in colonie nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est occupata. Vi risiedono circa 3 milioni di palestinesi.

Le colonie sono state considerate per molto tempo un gravissimo ostacolo ad un accordo di pace israelo-palestinese.

Gruppi di monitoraggio hanno detto che, da quando Trump è diventato presidente, Israele ha accelerato la creazione di colonie.

L’annuncio di lunedì ha segnato un’altra significativa tappa in cui l’amministrazione Trump si è schierata a favore di Israele e contro le posizioni dei palestinesi e degli Stati arabi ancor prima di svelare il suo piano di pace israelo-palestinese a lungo rinviato.

Nel 2017 Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele e nel 2018 gli USA hanno aperto ufficialmente un’ambasciata nella città. La posizione politica USA precedentemente era stata che lo status di Gerusalemme doveva essere definito dalle parti in conflitto.

Nel 2018 gli USA hanno anche annunciato la cancellazione dei finanziamenti all’UN Relief and Works Agency [Agenzia ONU per l’Aiuto e il Lavoro] (UNRWA), l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

E in marzo Trump ha riconosciuto l’annessione israeliana delle Alture del Golan occupate nel 1981, facendo un favore al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, cosa che ha provocato una dura risposta da parte della Siria, che un tempo deteneva lo strategico territorio.

Lunedì Netanyahu ha plaudito al cambio di politica, dicendo che la mossa degli USA “corregge uno storico errore”.

Yousef Munayyer, direttore esecutivo della Campagna per i diritti dei palestinesi, ha definito l’annuncio di Pompeo “un altro regalo a Netanyahu e un semaforo verde ai leader israeliani per accelerare la costruzione di colonie e anticipare un’ annessione formale.”

Attualmente Netanyahu sta subendo pressioni interne su due fronti, dopo che all’inizio dell’anno in Israele si sono svolte elezioni inconcludenti. Il suo principale rivale politico, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, ha due giorni per cercare di formare un governo per sostituire Netanyahu, che sta anche affrontando una possibile incriminazione in tre casi di corruzione.

Nell’ultima campagna elettorale Netanyahu ha promesso di annettere ampie parti della Cisgiordania, una mossa che metterebbe ulteriormente a rischio una soluzione con due Stati.

Gantz ha accolto positivamente l’iniziativa statunitense, dicendo in un tweet che “il destino delle colonie dovrebbe essere deciso da accordi che rispettino le esigenze di sicurezza e promuovano la pace.”

Pompeo ha negato la volontà di dare sostegno a Netanyahu, dicendo: “La tempistica di questo (annuncio) non è collegata a niente che abbia a che fare con politiche interne in Israele o altrove.”

Reazioni

Un portavoce dell’Ufficio ONU per i Diritti Umani (OHCHR) ha detto di “condividere la posizione da tempo adottata dall’ONU sulla questione che le colonie israeliane violano il diritto internazionale.”

Rupert Colville ha detto anche che ci sono diverse risoluzioni ONU, come anche sentenze della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) che si riferiscono alla questione.

Il 9 luglio 2004 la CIG nel suo parere consultivo ha affermato che la costruzione da parte di Israele del muro di separazione e l’espansione delle colonie sono illegali ed alterano la composizione demografica dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), compromettendo in tal modo gravemente la possibilità per i palestinesi di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione”, ha detto martedì ai giornalisti.

Al contempo l’Unione Europea ha detto di continuare a credere che l’attività di colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati sia illegale in base al diritto internazionale e vanifichi le prospettive di una pace duratura.

La UE chiede ad Israele di porre fine all’attività di colonizzazione, in conformità con i suoi obblighi in quanto potenza occupante”, ha detto il capo della politica estera europea Federica Mogherini in una dichiarazione in seguito all’iniziativa USA.

Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, ha tweettato: “La fittizia dichiarazione di Pompeo non cambia niente. Trump non può spazzare via con questo annuncio decenni di diritto internazionale consolidato secondo cui le colonie israeliane sono un crimine di guerra.”

Anche il senatore USA Bernie Sanders, uno dei più importanti candidati democratici alle elezioni presidenziali USA, , ha detto la sua su Twitter: “Le colonie israeliane nei territori occupati sono illegali.

Risulta chiaro dal diritto internazionale e da molte risoluzioni delle Nazioni Unite. Ancora una volta il signor Trump sta isolando gli Stati Uniti e compromettendo la diplomazia per assecondare la propria base [elettorale] estremista”, ha detto Sanders.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)