Guardate Hebron e vedrete l’occupazione nel suo complesso

Eyal Hareuveni

29 settembre 2019 +972 Magazine

Le colonie, i checkpoint ed i muri che sono la realtà della popolazione palestinese di Hebron vengono ora replicati ovunque in tutta la Cisgiordania.

Chi visita per la prima volta la colonia ebraica nel centro della città vecchia di Hebron potrebbe avere l’impressione di essere finito nel cuore dell’oscurità. È qui che le politiche di occupazione militare israeliana hanno toccato il picco della barbarie: reggimenti di soldati sono dispiegati per proteggere 700 coloni ebrei che vivono in un’enclave che è diventata un luogo di degrado urbano in conseguenza delle misure di sicurezza dell’esercito. I 200.000 palestinesi residenti della città non possono fare nulla per contrastare le misure oppressive che rendono insopportabili le loro vite.

A Hebron l’esercito ha distrutto o sigillato le case dell’epoca mamelucca [regno egiziano durato dalla metà del XIII alla metà del XVI secolo, ndtr.] che costeggiano il cosiddetto Cammino dei Fedeli, un sentiero riservato esclusivamente ai coloni ebrei in quanto è il loro percorso verso la Tomba dei Patriarchi [la moschea di Ibrahim per i musulmani, ndtr.]. Shuhada Street, un tempo vivace fulcro commerciale dell’intera Cisgiordania meridionale, è immersa nel silenzio; i commercianti hanno abbandonato i loro negozi e quasi tutti gli abitanti se ne sono andati. Né è possibile ignorare le decine di checkpoint attrezzati con tecnologie avanzate di riconoscimento facciale. Queste riproposizioni nel XXI secolo delle fortezze medievali mantengono la colonia ebraica separata dal resto di Hebron.

Alcuni palestinesi sono rimasti, anche se le loro vite sono controllate e gestite dalle forze di sicurezza israeliane. Quasi tutti dicono che, se solo avessero potuto, avrebbero lasciato la città fantasma in cui da tempo Israele li ha intrappolati. Ogni attività quotidiana – andare a scuola o al lavoro, fare o ricevere visite dai famigliari, partecipare a feste di famiglia, addirittura andare a fare la spesa – comporta stare in fila ai checkpoint e subire un trattamento umiliante.

Quasi ogni giorno, nella pressoché totale impunità, soldati, poliziotti e coloni commettono violenze contro i palestinesi. I soldati li sottopongono a perquisizioni umilianti, fanno incursione nelle loro case nel cuore della notte ed eseguono finti arresti. Tutti questi sono normali aspetti dell’occupazione in generale, ma ad Hebron sono molto più continui.

Nel 2007 Hagai Alon, allora collaboratore dell’ex Ministro della Difesa Amir Peretz [dirigente del partito Laburista israeliano, ndtr.], disse che lo scopo di queste politiche era di “svuotare Hebron dagli arabi” – in altri termini, scacciare la popolazione civile con la forza. In base al diritto umanitario internazionale, il trasferimento forzato di popolazione civile è un crimine di guerra.

Il modello di Hebron non è unico. Le forze di occupazione usano le stesse tattiche in tutta la Cisgiordania, in modi differenti ma con lo stesso scopo – la sempre più violenta espulsione dei palestinesi dalle loro case e dalle loro terre. Insediamenti, checkpoint e muri circondano i principali centri urbani palestinesi, ed anche villaggi come Susiya e Khan al-Ahmar. Gli abitanti di questi due villaggi devono anche affrontare la minaccia di espulsione nel tentativo di spingerli a forza in enclave più grandi. Lo stesso avviene nella Valle di Shiloh, nel blocco di colonie di Talmonim, in tutta la Valle del Giordano dove sono sorti gli avamposti, a Gerusalemme est, intorno a Betlemme e nel sud della Cisgiordania. In altre parole, avviene ovunque.

Il meglio di Israele ha preso parte a questa ingiustizia: i giudici della Corte Suprema, gli alti ufficiali dell’esercito e degli apparati di sicurezza, i membri dell’Avvocatura Generale dell’esercito, l’ufficio della Procura di Stato e, ovviamente, politici di destra e di sinistra. Tutti hanno tollerato la violenza, a Hebron e dovunque in Cisgiordania. Tutti hanno legittimato l’espulsione dei palestinesi e il furto delle loro proprietà – e non solo ad Hebron. Tutti hanno appoggiato la continua oppressione dei palestinesi, anche dopo che gli atroci effetti di questa politica sono diventati evidenti.

I coloni amano dire: “Hebron: infine e per sempre”. Ma Hebron è molto più di ciò: è qui, là e dovunque. Guardate Hebron e vedrete tutti i territori occupati.

Eyal Hareuveni è un ricercatore di B’Tselem. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su ‘Local Call’.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Palestinese ricoverato in ospedale in condizioni critiche dopo essere stato interrogato dagli israeliani

Shatha Hammad da Ramallah, Cisgiordania occupata

29 settembre 2019 – Middle East Eye

Gli avvocati e la famiglia di Samir Arbeed accusano lo Shin Bet israeliano di torture in seguito a percosse e a metodi di interrogatorio “eccezionali”

Gli avvocati e la famiglia dicono che un detenuto palestinese è stato ricoverato in ospedale e si trova in condizioni critiche dopo essere stato torturato e duramente percosso durante l’arresto e l’interrogatorio.

Secondo i suoi legali Samir Arbeed, di 44 anni, accusato di essere responsabile di un attacco nella Cisgiordania occupata, era in buone condizioni di salute prima di essere preso in custodia da Israele mercoledì. Tuttavia, dopo essere stato sottoposto a un interrogatorio da parte del servizio di intelligence interno di Israele Shin Bet è stato trasferito all’ospitale Hadassah di Gerusalemme.

Le autorità israeliane hanno accusato Arbeed di essere la mente della cellula che in agosto ha effettuato un attentato dinamitardo, che ha ucciso una diciassettenne israeliana, nei pressi della colonia illegale di Dolev, nella Cisgiordania occupata a nord est di Ramallah.

Sabato lo Shin Bet ha affermato che i membri della cellula fanno parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), e che tutti e quattro sono stati arrestati. Lo Shin Bet ha anche sostenuto che la cellula stava pianificando un altro attentato.

Secondo mezzi di informazione israeliani un giudice ha concesso al servizio di sicurezza il permesso di “utilizzare mezzi eccezionali per interrogare” Arbeed.

Noura Miselmani, la moglie di Arbeed, ha detto a Middle East Eye di aver visto forze speciali israeliane colpire suo marito mentre veniva arrestato mercoledì di fronte al suo posto di lavoro nella città di al-Bireh. Afferma che giovedì, quando ha detto al giudice di essere sofferente e non in condizioni di mangiare per i colpi subiti, Arbeed è comparso davanti al tribunale con evidenti lividi.

Nonostante le sue difficili condizioni, il giudice ha adottato la decisione di consentire un interrogatorio militare e l’uso della forza per ricavare informazioni da lui,” ha detto.

Condizioni critiche

Sabato le autorità israeliane hanno detto a un avvocato di “Addameer”, un gruppo per i diritti dei detenuti palestinesi, che Arbeed era stato trasferito in ospedale.

Tuttavia Miselmani sostiene che in realtà Arbeed era stato ricoverato da venerdì.

Prima di essere arrestato era in buone condizioni. Mio marito non aveva nessuna malattia e la sua salute è peggiorata a causa delle torture subite,” afferma.

Sabato lo Shin Bet ha rilasciato una dichiarazione in cui dice: “Durante l’interrogatorio del capo della cellula terroristica responsabile dell’attacco nei pressi della sorgente Ein Buvin che ha ucciso Rina Shnerb, chi lo ha interrogato ha rilevato che egli non si sentiva bene. In base alla procedura è stato trasferito all’ospedale per esami e cure mediche. Non può essere fornito nessun altro particolare.”

Gli avvocati di Arbeed hanno detto che a loro è stato concesso di vederlo solo alle 22,30 di domenica, quando hanno scoperto che era arrivato in stato di incoscienza, con fratture alla cassa toracica, lividi, segni di percosse su tutto il corpo e grave insufficienza renale.

La sua famiglia afferma che a loro è stato impedito di vederlo e che lo Shin Bet ha rifiutato di fornire ogni ulteriore informazione sul caso.

Miselmani afferma che solo sabato lo Shin Bet ha emanato un comunicato nel tentativo di evitare ogni responsabilità legale nel caso Arbeed fosse morto.

Chiediamo a tutte le organizzazioni internazionali per i diritti umani di intervenire rapidamente per salvare mio marito Samir e di contribuire a garantire il suo immediato rilascio,” afferma.

Sahar Francis, direttrice di “Addameer”, sottolinea che la tortura di detenuti è illegale e che ogni confessione ottenuta in simili circostanze è inattendibile e dovrebbe essere ignorata.

In base allo Statuto di Roma quello che Samir ha subito è un crimine, soprattutto in quanto è entrato in condizioni critiche entro le 48 ore in conseguenza del fatto di essere stato torturato,” dice a MEE, aggiungendo che il suo ricovero in ospedale “conferma che è stato sottoposto a violenza e a gravissime torture.”

Francis sostiene che durante gli interrogatori militari di detenuti palestinesi le autorità israeliane usano normalmente metodi che costituiscono torture.

Ci sono decisioni della Corte Suprema israeliana che consentono allo Shin Bet di utilizzare la tortura come mezzo per estorcere confessioni,” afferma.

Estesa caccia all’uomo

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, Arbeed è stato arrestato per la prima volta due settimane fa in quanto sospettato di altri delitti, ma è stato rilasciato.

Nuove informazioni secondo cui sarebbe stato in possesso di esplosivi, lo hanno visto di nuovo in arresto mercoledì, informa Haaretz.

Le forze israeliane hanno condotto una vasta caccia all’uomo in seguito all’attacco nei pressi di Dolev il 23 agosto. Anche il padre e il fratello della diciassettenne Shnerb sono rimasti feriti nell’esplosione.

Domenica il FPLP ha affermato che le forze israeliane hanno arrestato decine di suoi membri in varie località della Cisgiordania, aggiungendo che non si farà intimidire dagli arresti.

Siamo impegnati in un percorso di resistenza e ciò continuerà ad aumentare finché il vulcano palestinese erutterà in faccia all’occupazione e ai coloni,” afferma il FPLP in un comunicato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Alcune donne palestinesi che manifestavano contro la violenza domestica sono state aggredite dalla polizia israeliana

Shatha Hammad

26 settembre 2019– Middle East Eye

Il gruppo ‘Free Homeland, Free Women’ ha tenuto proteste contro la violenza domestica in tutta la Cisgiordania occupata, a Gaza e in Israele

Giovedì, davanti alle mura del castello turrito che per secoli ha difeso la Città Vecchia di Gerusalemme, centinaia di donne si sono riunite per protestare e chiedere la fine della violenza domestica per poi essere affrontate e, nel caso di alcune di loro, aggredite dalle forze di sicurezza israeliane.

Il gruppo “Free Homeland, Free Women” [Patria Libera, Donne Libere] si è radunato per denunciare che, secondo i dati stilati dal Women’s Centre for Legal Aid and Counselling [Centro per il Sostegno Legale e di Ascolto delle Donne] (WCLAC), lo scorso anno almeno 23 donne palestinesi sono state uccise durante liti domestiche.

Le manifestanti sono state anche motivate dalla recente morte in un ospedale di Betlemme di Israa Ghrayeb, una ‘makeup artist’ diciannovenne, in seguito a quello che i suoi amici e sostenitori hanno descritto come un “delitto d’onore”. Eppure le forze israeliane avevano in mente qualcos’altro. Hanno represso con violenza la protesta pacifica attaccando alcune delle donne mentre marciavano verso il centro della Città Vecchia.

Immagini postate su Facebook mostrano una fila di poliziotti che spingono le dimostranti su per la scalinata e lontano dall’entrata della Porta di Damasco verso la Città Vecchia.

Poi si possono vedere parecchi poliziotti che urtano violentemente le manifestanti gettando a terra alcune di loro.

Nimir al-Mughrabi, un’attivista del gruppo di donne, racconta a Middle East Eye che le forze israeliane hanno colpito molte manifestanti, ferendo una donna a un occhio e un’altra a una mano.

Forze israeliane a cavallo hanno anche inseguito le dimostranti, cercando di procedere ad arresti, dice al-Mughrabi. Uno degli arrestati è un tredicenne identificato come Majdi Abu al-Arabi.

Al-Mughrabi ha raccontato a MEE che le forze israeliane hanno iniziato a usare tattiche intimidatorie quando le donne hanno cominciato a riunirsi in strada dalla Città Vecchia, aggiungendo che le bandiere palestinesi sono state confiscate, mentre le forze israeliane cercavano di sbarrare la strada alla manifestazione.

Un portavoce della polizia israeliana ha detto a MEE che la protesta è stata consentita a patto che non disturbasse l’ordine pubblico.

Ma, ha affermato, alcune manifestanti hanno sventolato bandiere palestinesi, il che rappresenta una violazione dell’ordine pubblico.

Le dimostranti hanno iniziato ad affrontare la polizia ed hanno anche lanciato lattine contro di essa. Ciò ha obbligato la polizia a disperdere il raduno per mantenere l’ordine pubblico,” ha detto il portavoce.

Proteste simili, organizzate da gruppi per i diritti delle donne, si sono tenute durante il giorno nelle città palestinesi di Ramallah, Gaza, Arrabeh,Taybeh, al-Jish, Nazaret, Giaffa e Haifa le ultime 4 località si trovano in Israele, ndtr.], ed anche a Berlino e a Beirut.

https://twitter.com/i/status/1177269621109534720

Il gruppo si definisce un collettivo di donne palestinesi indipendenti che chiedono la fine di ogni forma di violenza contro le donne palestinesi ovunque.

Si è formato dopo che lo scorso mese Israa Ghrayeb è stata uccisa da membri della sua famiglia, scatenando una piccola ondata di proteste nelle comunità palestinesi.

Alcune componenti del gruppo hanno detto di essere particolarmente preoccupate per il “temporeggiamento” da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese nel denunciare il crimine e nel farne pagare le conseguenze ai responsabili.

“Noi (donne) rifiutiamo il fatto di essere una priorità che è rinviata a dopo la liberazione nazionale,” dice a MEE Razan Hazim, un’aderente a “Free Homeland, Free Women” che ha partecipato alla protesta di Ramallah. “Rifiutiamo la parola ‘dopo’,” afferma. “Intendiamo ridefinire la liberazione nazionale sulla base della libertà, della giustizia e della dignità sociale.”

Sottolinea che il gruppo intende espandersi progressivamente e continuare il movimento finché la violenza contro le donne palestinesi verrà bloccata.

A Ramallah le manifestanti hanno terminato il corteo davanti al Complesso Medico Palestinese, il principale ospedale pubblico della città, in cui una donna di 39 anni di Jenin viene curata per le percosse che ha subito.

La donna sarebbe stata picchiata dalla sua famiglia ed ha sofferto fratture alle gambe talmente gravi che, secondo i media locali, i medici potrebbero doverle amputare.

Ma, pur dicendo che la protesta del gruppo è concentrata sulle donne uccise durante litigi domestici, Hazim sottolinea anche che l’occupazione israeliana ha solo reso più grave questa violenza.

Le donne che vivono nelle zone controllate da Israele sono più vulnerabili di quelle della Cisgiordania e di Gaza, dice Hazim, dato che sanno di non poter ricorrere all’applicazione della leggi israeliane.

Le manifestazioni oggi rappresentano una garanzia per noi come palestinesi che possiamo sconfiggere la situazione imposta dal colonialismo, la divisione della Palestina e la nostra espulsione,” dice Hazim a MEE.

Le dimostranti hanno sollevato anche un’altra questione nazionale, includendo le pretese da parte di Israele di una Gerusalemme indivisa come sua capitale e i continui arresti di migliaia di prigionieri politici palestinesi.

La marcia di oggi è parte del tentativo di recuperare spazi pubblici confiscati dall’occupazione a Gerusalemme,” dice Hazim, aggiungendo che il suo gruppo appoggia la liberazione di “tutta la Palestina occupata, dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo].”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’appoggio a Benny Gantz da parte della Joint Arab List è stato un errore

Haidar Eid

24 settembre 2019 – Al Jazeera

I politici palestinesi non avranno niente da guadagnare dall’ appoggio a un generale accusato di crimini di guerra perché diventi primo ministro

Una delle più gravi conseguenze dei disastrosi accordi di Oslo è stata che hanno ridisegnato il popolo palestinese come se fosse composto solo da chi vive nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate. Il 1,8 milione di cittadini palestinesi di seconda classe in Israele e i 6 milioni di rifugiati palestinesi che vivono nella diaspora sono stati quindi relegati in fondo all’agenda di qualunque discussione, dato che non hanno rappresentanti al tavolo negoziale.

In seguito a ciò ogni componente del popolo palestinese sta perseguendo il proprio personale progetto e la propria soluzione finale – che si tratti di uno Stato indipendente per quanti vivono in Cisgiordania e a Gaza, di una maggiore allocazione di fondi pubblici per i palestinesi cittadini di Israele o di più diritti civili per i rifugiati che vivono nel mondo arabo.

Solo all’interno di questo contesto si può comprendere la catastrofica iniziativa di tre dei quattro partiti che fanno parte della Joint Arab List [Lista Araba Unita] di appoggiare Benny Gantz – un uomo che ha progettato crimini di guerra durante l’attacco israeliano del 2014 contro Gaza, che ha ucciso più di 2.200 palestinesi, e che non ha dimostrato nessun pentimento per questo – per la carica di prossimo primo ministro israeliano. La ragione per cui la Joint Arab List, con l’eccezione di tre membri del partito Balad, ha deciso di proporre il nome di Gantz è “perché vogliamo porre fine all’era di Netanyahu”, come ha spiegato il suo presidente Ayman Odeh.

In uno dei suoi tweet egli ha aggiunto che “vogliamo vivere in un luogo pacifico basato sulla fine dell’occupazione, la fondazione di uno Stato palestinese accanto allo Stato di Israele, reale uguaglianza a livello civile e nazionale, giustizia sociale e una democrazia garantita per tutti,” senza spiegare come ciò giustifichi il sostegno a Gantz, che ha già respinto in anticipo tutte queste richieste e che durante la campagna elettorale si è vantato, di fatto, di aver ucciso palestinesi.

Questa iniziativa senza precedenti da parte di politici palestinesi in Israele, che giunge nel momento in cui ogni venerdì cecchini israeliani stanno uccidendo e mutilando manifestanti palestinesi nei pressi della barriera di Gaza, ha provocato forti ripercussioni in tutta la Palestina storica. Ciò non solo perché l’appoggio legittima un criminale di guerra che sostiene la legge razzista dello Stato-Nazione in Israele, che relega i palestinesi come cittadini di seconda classe, ma anche perché come primo ministro egli sicuramente continuerà a commettere crimini contro il popolo palestinese.  Egli ricomincerà da dove ha finito Netanyahu e continuerà a promuovere e rafforzare l’apartheid, l’uccisione di civili palestinesi innocenti, a mantenere la Cisgiordania sotto occupazione militare, ad assediare e strangolare la Striscia di Gaza con un atto di punizione collettiva, ad annettere terra palestinese e ad espandere le colonie ebraiche illegali in Cisgiordania.

Questa decisione della Joint Arab List riflette la miopia e l’opportunismo politico di parte dell’élite politica palestinese in Israele. Ciò riduce la lotta da parte dei cittadini palestinesi di Israele per una vera uguaglianza ed anche la comune lotta dei palestinesi per la libertà e la giustizia ad “averne semplicemente abbastanza di Netanyahu” e a sostituirlo con un altro criminale di guerra.

Invece di chiedere i loro pieni diritti, sono pronti a raccogliere “briciole di compassione buttate dal tavolo di qualcuno che si considera il (loro) padrone,” come direbbe l’arcivescovo Desmond Tutu [premio Nobel sudafricano che ha lottato contro l’apartheid, ndtr.].

Le ripercussioni della decisione presa dalla Joint Arab List ci perseguiteranno a lungo. È una forma di normalizzazione, in cui il colonizzato, accecato dall’ammirazione nei confronti della falsa democrazia etnica liberale del colonizzatore, non riesce a comprendere i meccanismi di potere in uno Stato colonialista d’insediamento.

Come hanno sottolineato molte forze politiche palestinesi, di sinistra e di destra, il fatto di partecipare alle elezioni israeliane è in sé una cosa molto problematica. Legittima le strutture politiche israeliane, come la Knesset israeliana, in cui si legifera continuamente a favore dell’oppressione del popolo palestinese e la si legalizza.

Appoggiare queste strutture non può in alcun modo aiutare i palestinesi a ottenere i diritti umani fondamentali, la giustizia o l’uguaglianza. Dato che il fulcro del potere è l’apartheid, lavorare al suo interno non può portare né porterà mai alla liberazione del popolo palestinese, in quanto si fonda sulla segregazione, sull’oppressione e sull’occupazione.

Questo sistema dev’essere boicottato, per mettere in discussione la legittimità del suo ordine razzista e per preparare la strada ad alternative. Perché ciò avvenga, tuttavia, è evidente che ci sia bisogno di decolonizzare la mente dei palestinesi in Israele, in modo che i dirigenti dei partiti arabi in Israele comprendano che opporsi alla tendenziosità politica ed ideologica del sistema implica rifiutare tutte le sue strutture di potere.

Finché ciò non avverrà, la Joint Arab List continuerà a giocare il suo gioco politico, che non solo esclude le altre due componenti del popolo palestinese, ma gioca anche d’azzardo con i diritti fondamentali del suo stesso elettorato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Haidar Eid è docente associato dell’università Al-Aqsa di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




ISRAELE. Gantz, nemico di Netanyahu non delle sue politiche

Michele Giorgio

20 settembre Nena News

Il vincitore, di misura, delle elezioni del 17 settembre, in politica estera e nei confronti di Iran e dei palestinesi non è lontano dalle posizioni del premier sconfitto.

Benyamin “Benny” Gantz in politica interna prenderà, in parte, le distanze dalla linea di Benyamin Netanyahu e promuoverà la «serenità sociale» tra ebrei laici e religiosi. Ma non farà alcuna rivoluzione nei rapporti tra gli israeliani ebrei e i cittadini di serie B, gli arabi, i palestinesi d’Israele. E in politica estera non marcherà una differenza sostanziale da quella svolta dal leader della che ha sconfitto il 17 settembre. Userà il pugno di ferro, come Netanyahu, con l’Iran e i suoi alleati – che alla Conferenza di sicurezza di Monaco dello scorso febbraio ha indicato Tehran come una delle principali sfide all’Occidente – e non rinuncerà all’abbraccio di Donald Trump. Il presidente Usa mercoledì sera ha segnalato che lui ha rapporti non solo con Netanyahu ma con tutto lo Stato di Israele. Se Netanyahu è, come sembra, avviato sul viale del tramonto, ciò non vuole dire che la fine della sua lunga era politica genererà una svolta.

Nato 60 anni fa, sposato, quattro figli, una vita trascorsa nelle forze armate, conclusa con il grado di generale e l’incarico di capo di stato maggiore, Gantz solo in apparenza è un uomo di centro. Il programma del suo partito “Resilienza” – che ha fondato lo scorso dicembre e ha poi unito ad altre formazioni dando vita a “Blu e Bianco” – si avvicina molto a quello della destra quando sul tavolo ci sono questioni come l’Iran, il mondo arabo e i territori palestinesi occupati. Gantz non rientra nel solco del sionismo religioso, che ha ispirato Netanyahu e ora domina nella società israeliana, ma non è riconducibile ideologicamente neppure al sionismo di marca laburista (tramontato da tempo). Semplicemente è un sionista laico fautore delle politiche israeliane di sicurezza e di mantenimento dell’ occupazione.

In questa campagna elettorale, e in quella per il voto del 9 aprile, l’ex capo di stato maggiore non ha fatto mai riferimento alla soluzione a “Due Stati”, Israele e Palestina. Il sito progressista, +972, sostiene che a Gantz piace lo status quo, l’occupazione, con Israele che controlla tutto il territorio della Palestina storica senza però annettere ufficialmente la Cisgiordania come vorrebbe fare Netanyahu. Gantz si era recato a fine luglio nella Valle del Giordano dichiarando che quel territorio palestinese rimarrà sotto Israele in qualsiasi futuro accordo. Pochi giorni dopo, il 6 agosto, si presentò nelle comunità israeliane di confine di Gaza promettendo «azioni incisive per abbattere i leader di Hamas». In pratica una nuova guerra. D’altronde da comandante delle forze armate ha guidato due offensive contro Gaza, nel 2012 e nel 2014, che hanno provocato oltre duemila morti palestinesi, migliaia di feriti e distruzioni immense. La scorsa primavera Gantz, per recuperare voti a destra, si vantava di aver ridotto in macerie Gaza. Nena News




Nuovo sondaggio: più del 60% dei palestinesi vuole che Abbas lasci

The Palestine Chronicle – 18 settembre 2019

Secondo un sondaggio, il 60% dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza vuole che il Presidente Mahmoud Abbas si dimetta.
Felesteen.ps riferisce che, da una ricerca condotta dal Centro Palestinese di Ricerca Politica e Sondaggi tra l’11 e il 14 settembre, emerge che il 50% dei palestinesi vorrebbe tornare all’Intifada armata, data la mancanza di passi avanti nel processo di pace, mentre il 40% chiede lo scioglimento dell’Autorità Palestinese.

Tra il 32 e il 50% degli intervistati ritiene che i risultati del governo siano peggiori di quelli del suo predecessore.
Il 56% è contrario alla soluzione dei due Stati, con il 37% che preferisce la resistenza armata e il 32% a favore di una soluzione nonviolenta della questione palestinese.

I contrari all’accordo di pace USA, l’“Accordo del Secolo”, raggiungono il 69% e il 72% boccia il coinvolgimento americano nella risoluzione della crisi dei rifugiati palestinesi.


Circa i tre quarti – il 72% – chiedono che si tengano elezioni legislative e presidenziali e vogliono che l’Autorità Palestinese tolga le sanzioni che ha imposto alla Striscia di Gaza sotto assedio.
Il sondaggio ha rilevato che il 63% dei palestinesi di Gaza si sente al sicuro, rispetto al 52% della Cisgiordania; a Gaza, il 43% ha dichiarato di sentirsi libero di criticare Hamas, mentre in Cisgiordania è il 36% che si sente libero di criticare Fatah.

(Middle East Monitor, PC, Social Media)

 

(Traduzione di Elena Bellini)




Le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso una donna palestinese a un checkpoint in Cisgiordania

 Shatha Hammad a  Ramallah, Cisgiordania occupata

 18 settembre 2019 – Middle East Eye

Testimoni hanno riferito a Middle East Eye che la donna è stata uccisa dopo aver sbagliato corsia pedonale al checkpoint di Qalandia.

La polizia israeliana e testimoni palestinesi riferiscono che mercoledì mattina le forze di sicurezza israeliano hanno sparato e ucciso una donna palestinese al checkpoint di Qalandia, nella Cisgiordania occupata.

Un video che circola sui social, ritenuto autentico da Middle East Eye, mostra degli uomini che, con le uniformi del personale di sicurezza privato e armati di fucili, affrontano una donna a parecchi metri di distanza da loro. Si sente uno sparo e subito dopo lei crolla a terra, lasciando cadere un oggetto che una delle guardie sembra colpire con un calcio e mandare fuori dalla portata della donna.

Testimoni hanno riportato a Middle East Eye che la donna è stata colpita quattro volte, dopo aver sbagliato corsia pedonale a Qalandia, il più importante checkpoint israeliano che separa Gerusalemme est dalla Cisgiordania centrale.

Mohammed Hammad Jaradat, un abitante di Gerusalemme, ha riferito a MEE che apparentemente la donna era entrata a piedi nel settore sbagliato del posto di blocco e stava cercando di raggiungere la zona degli autobus.

Le forze di sicurezza israeliane hanno quindi cominciato a urlare e inseguirla e, a questo punto, secondo Jaradat, lei ha tirato fuori un piccolo coltello.

 “Avrebbero potuto tenerla sotto controllo” ha detto Jadarat. “Erano cinque soldati e lei era a circa sette metri di distanza. L’hanno uccisa deliberatamente, hanno voluto non solo uccidere lei, ma anche spaventare noi palestinesi che attraversiamo il posto di blocco ogni giorno tra Ramallah e Gerusalemme.”.

Il ministero della Sanità dell’Autorità Palestinese ha confermato che la donna, non ancora identificata, è morta in un ospedale israeliano a Gerusalemme est a causa delle ferite. La Mezzaluna Rossa palestinese ha detto in un comunicato che le forze israeliane hanno impedito ai suoi medici di raggiungere la donna e prestarle i primi soccorsi.

Un portavoce della polizia israeliana ha dichiarato che “una terrorista ha cercato di compiere un attacco con un coltello” al posto di blocco di Qalandia, ed è stata pubblicata una foto di un coltello sull’asfalto.

Alaa Rimawi, il direttore del Center for Jerusalem Studies [Centro per gli Studi su Gerusalemme, programma di studi dell’università palestinese Al Quds, ndtr.], ha riferito a MEE che uno studio effettuato dal centro ha stimato che il 56% dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme dal 2015 è stato ucciso ai checkpoint, aggiungendo che Qalandia è un punto critico per tali sparatorie mortali.

Dopo la sparatoria, le forze israeliane hanno attaccato i civili palestinesi presenti nell’area con gas lacrimogeni e hanno bloccato l’accesso dei lavoratori al checkpoint, che poi è stato chiuso in entrambe le direzioni.

Secondo fonti ufficiali palestinesi la Cisgiordania era già stata blindata martedì per le elezioni generali in Israele, impedendo a circa 150.000 palestinesi con un permesso di lavoro israeliano di attraversare i checkpoint.

Rimawi ha denunciato procedure scorrette, come la mancanza di avvertimento da parte dei soldati prima di sparare, l’uso di cartucce vere e l’inosservanza delle regole dell’esercito che prevedono che si spari agli arti inferiori di un presunto aggressore onde evitare perdite di vite umane.

Ha anche aggiunto che la sua organizzazione ha documentato dal 2015 almeno 36 casi in cui dei palestinesi sono stati uccisi nonostante “mancasse la prova che fossero in possesso di un oggetto che costituisse una minaccia per le vite dei soldati”.

Documentare le uccisioni

Secondo Helmi al-Araj, il direttore del Centre for Defense of Liberties and Civil Rights [Centro per la Difesa delle Libertà e dei Diritti Civili, Ong palestinese per la difesa dei diritti umani e politici dei palestinesi, ndtr]  foto e video di uccisioni da parte delle forze israeliane costituiscono un’utile prova per rendere nota una prassi corrente nei territori palestinesi occupati indipendentemente dal fatto che si tenga conto se i palestinesi costituiscano una minaccia reale o meno.

 “Tutta la documentazione è molto importante da usare contro i soldati israeliani e i coloni e per procedere contro di loro per crimini di guerra e continuo incitamento a uccidere i palestinesi” riferisce Araj al MEE, citando l’uccisione del palestinese Abd al-Fattah al-Sharif a Hebron nel 2016.

Il video dell’uccisione di Sharif, una vera e propria esecuzione, ha suscitato la condanna internazionale e ha portato a un processo ampiamente pubblicizzato in cui Elor Azarya è stato uno dei pochi soldati israeliani a essere condannato al carcere, seppure per un breve periodo, per aver ucciso un palestinese.

Secondo l’United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari; OCHA), quest’anno, fino al 2 settembre, le forze israeliane hanno ucciso in Cisgiordania 20 palestinesi.

Si stima che, fra il 2015 and 2016, un’ondata di violenza abbia causato la morte di 236 palestinesi e circa 34 israeliani, con un numero significativo di palestinesi uccisi dalle forze israeliane nella Gerusalemme est annessa  e nella Cisgiordania occupata.

(traduzione di Mirella Alessio)




Il piano di annessione di Netanyahu ucciderà Israele

David Hearst

17 settembre 2019    Middle East Eye

L’annessione elimina tutti i muri accuratamente eretti da Israele per dividere i palestinesi, distruggendo dall’interno il sogno sionista di uno Stato a maggioranza ebraica.

Questa doveva essere la promessa elettorale più importante. Benjamin Netanyahu, l’uomo che governa Israele da quasi 30 anni, aveva previsto di assestare così il colpo di grazia ai suoi rivali politici della destra colonizzatrice. Avigdor Lieberman, l’ago della bilancia? Ora non più.

Tuttavia l’annuncio di Netanyahu che, se sarà rieletto, annetterà la Valle del Giordano e con essa quasi un terzo della Cisgiordania, non ha avuto l’effetto previsto.

Netanyahu si è vantato di essere in grado di annettere tutte le colonie  al centro della sua patria, grazie alla “sua relazione personale con il presidente Trump”.

Ma il presidente americano Donald Trump questa volta non è stato al gioco.

Bolton licenziato

La Casa Bianca ha emesso un comunicato che afferma che la politica americana al momento non è cambiata e per rafforzare il concetto Trump ha licenziato il suo consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, a lungo considerato dai dirigenti israeliani il proprio uomo a Washington.

Ben Caspit, corrispondente di Maariv (quotidiano israeliano, ndtr.), ha affermato che Netanyahu aveva chiesto a Trump un riconoscimento per l’annessione della Valle del Giordano simile a quello dato per le Alture del Golan. Bolton era d’accordo, ma Trump si è rifiutato.

Caspit ed altri corrispondenti hanno sottolineato che Netanyahu non aveva neppure bisogno di chiedere il permesso di Trump per annettere la Valle del Giordano, che ha una storia giuridica molto diversa da quella delle Alture del Golan, che sono state sottratte alla Siria.

Netanyahu ha bisogno soltanto di una maggioranza semplice alla Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] per annettere la Valle del Giordano, perché la legge che glielo permette esiste già. Questa legge, adottata dai deputati di sinistra nel 1967, perfezionava un’ordinanza risalente al mandato britannico, che autorizzava il governo ad emanare un decreto che enunciava in quali regioni della Palestina si dovevano applicare la giurisdizione e l’amministrazione dello Stato di Israele. È questa legge che ha permesso a Levy Eshkol [all’epoca primo ministro israeliano, ndtr.] di annettere Gerusalemme est nel 1967.

Poco importa. Questa defezione sensazionale è stata seguita da un’altra : la sua.

Netanyahu ha dovuto essere portato via dal palco dalle guardie del corpo nel mezzo di un discorso  della campagna elettorale a Ashdod, nel sud di Israele, quando dei razzi lanciati da Gaza hanno fatto suonare le sirene di allarme che annunciavano un attacco dal cielo. Era un avvertimento indirizzato a Netanyahu e a tutti i coloni israeliani dalla terra sulla quale si sono insediati.

La finzione ANP

Nessuna annessione, per quanto ampia, porrà fine a questo conflitto. I palestinesi se ne infischiano di sapere in che modo le loro terre sono occupate, o se effettivamente un ulteriore 33% sarà sottratto al 20% della Palestina storica che rimane loro.

Sapere in quale enclave, in quale bantustan o in quale prigione sono detenuti, o se l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è davvero dissolta, o se il presidente Mahmoud Abbas consegna le chiavi della Cisgiordania al più vicino comandante dell’esercito israeliano, tutti questi sono sofismi per loro. Allo stato attuale delle cose, Abbas deve chiedere il permesso all’esercito israeliano per ogni suo atto.

L’ANP non esiste veramente, non è che uno strumento con cui Israele obbliga i poliziotti palestinesi a liberare le strade prima che le sue forze armate entrino in tutta la Cisgiordania con incursioni notturne.

L’autonomia della zona A [in base agli accordi di Oslo sotto totale controllo palestinese, ndtr.] è in gran parte fittizia. Se l’ANP dovesse essere sciolta, l’unica preoccupazione di Israele sarebbero le circa 100.000 armi detenute dalle forze di sicurezza palestinesi.

A causa della loro natura priva di sostanza, tutte le istituzioni e le strutture palestinesi sono diventate ampiamente irrilevanti – tranne che come fonte di reddito – per gli stessi palestinesi. Poco importa sapere chi gestisce l’occupazione, né quante leggi vengono adottate per privarli della loro identità nazionale, dei loro diritti di proprietà e del loro Stato.

Qualunque cosa accada e qualunque sia il numero delle enclave create per i palestinesi, il nodo demografico di questo conflitto resterà lo stesso: oggi ci sono più palestinesi che ebrei israeliani tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo].

Apartheid israeliano

Il vice capo dell’Amministrazione civile israeliana [ente che governa sui territori palestinesi occupati, ndtr.], generale Haim Mendes, ha presentato i seguenti dati alla Commissione affari esteri e difesa della Knesset lo scorso dicembre : vi sono attualmente 6,8 milioni di palestinesi tra il fiume e il mare (5 milioni a Gaza e in Cisgiordania, 1,8 milioni all’interno di Israele e di Gerusalemme est). Di contro, secondo l’Ufficio Centrale di Statistica, gli ebrei in Israele sono 6,6 milioni.

Il solo modo di cambiare il cuore del conflitto è sapere se, o quando, Israele procederà ad un’altra espulsione di massa o ad un’azione di pulizia etnica, come è avvenuto nel 1948 e nel 1967.

Diversamente, la vita dei palestinesi non cambierà. Questo significa che, qualunque siano le dichiarazioni fatte durante le campagne elettorali, gli ebrei israeliani stanno diventando una minoranza su quella che affermano essere la propria terra e non possono imporre la loro supremazia che attraverso l’apartheid.

Anche se ciò non modifica niente rispetto alla situazione di sudditanza imposta ai palestinesi nel loro Paese, modifica però la narrativa di Israele tra le elite politiche in Europa e negli Stati Uniti, alle quali Israele ha devoluto miliardi di shekel [valuta israeliana] per ingraziarsele.

Prima dell’annessione, e quando il principio “terra in cambio di pace” era ancora la narrazione dominante del processo di Oslo, la classe politica di sinistra e di destra in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in tutta Europa poteva aderire simultaneamente a interpretazioni che si escludevano l’un l’altra  per una soluzione del conflitto.

Potevano impegnarsi ad essere “sostenitori di Israele”, approvando al tempo stesso il diritto all’autodeterminazione palestinese in un Stato palestinese ipotetico – però mai realizzabile.

Perdita di legittimità internazionale

Per quanto riguardava Israele, il mito che ribadivano era che c’era qualcosa chiamato “Israele propriamente detto”, che è stato riconosciuto a livello internazionale – e poi, ahimè (grosso sospiro) c’erano cose chiamate colonie, che erano illegali, ma (altro grosso sospiro) che cosa ci si può fare? L’idea era che se soltanto le due parti fossero riuscite a fare dei compromessi, si sarebbe potuta trovare una soluzione territoriale.

Con l’annessione come politica ufficiale, tutto questo cambierebbe. Il momento in cui lo Stato di Israele consideri le colonie come facenti parte del proprio territorio,  sarà il momento in cui “Israele propriamente detto” cesserà di esistere. Tutto Israele diventerebbe una colonia. Lo Stato israeliano perderebbe la sua legittimità internazionale.

Se l’annessione è letale per l’immagine internazionale di Israele come Stato europeo avanzato in un deserto di arabi selvaggi, irragionevoli e agitati, lo è ancor di più nella prospettiva di costruire e mantenere uno Stato ebraico all’interno.

La concessione più deleteria che Yasser Arafat e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) hanno fatto nel corso del processo di Oslo non è stato il riconoscimento dello Stato di Israele, ma l’abbandono dei palestinesi – il 20% della popolazione – che ci vivono.

Lotta per la sovranità

Questo ha creato ogni sorta di anomalie. Gerusalemme era il cuore del conflitto e la capitale dello Stato palestinese, ma l’ANP, in quanto tale, non esercitava alcuna autorità sugli abitanti di Gerusalemme che là vivono.

Per una gran parte del processo di pace i “palestinesi del 1948” – quelli che sono stati autorizzati a restare, o che sono stati spostati all’interno del Paese al momento della creazione dello Stato di Israele – non hanno preso parte alla lotta contro l’occupazione. Avevano la cittadinanza israeliana e sono stati chiamati dai loro padroni “arabi israeliani”.

L’annessione cambia tutto ciò. Elimina in un colpo solo tutti i muri accuratamente eretti che Israele ha costruito per dividere i palestinesi, creando una gamma di blocchi carcerari sotto sorveglianza. Gaza, la Cisgiordania, i “palestinesi del 1948” e quelli della diaspora diventano un solo popolo che lotta per la sovranità nel proprio Paese.

Inconsapevolmente, l’annessione distrugge dall’interno il sogno sionista di uno Stato a maggioranza ebraica.

I dirigenti palestinesi che non sono stati assassinati o imprigionati da Israele erano essenziali per il mantenimento dello status quo, grazie al quale aree come la Valle del Giordano sono state annesse di fatto, se non ufficialmente.

Non è come se i palestinesi potessero realmente utilizzare e coltivare la Valle del Giordano, la loro terra più fertile. Essa si estende su circa 160.000 ettari e rappresenta quasi il 30% della Cisgiordania. Israele sfrutta la quasi totalità della Valle del Giordano per le proprie necessità e impedisce ai palestinesi di entrare o di utilizzare circa l’85% dell’area, sia per edilizia che per infrastrutture, per scopi agricoli o abitativi.

Nel 2016 ci vivevano 65.000 palestinesi e 11.000 coloni. Ciò significa che una minoranza della popolazione è autorizzata a spostarsi nell’85% della terra.

Una morte lenta

Israele non ha bisogno di annettere la Valle del Giordano. In realtà lo ha già fatto.

Dato che i dirigenti palestinesi sono moribondi, le future generazioni di palestinesi andranno alla ricerca di una prospettiva molto diversa. Saranno obbligati a riformulare la loro strategia, a correggere gli errori del passato e a considerarsi nuovamente come parte di un popolo espulso da un Paese.

L’annessione è la morte dell’Israele del 1948, uno Stato a maggioranza ebraica.

E’ la nascita di uno Stato ebraico minoritario che non può sopravvivere se non eliminando e controllando la sua maggioranza palestinese. Fare questo, in un continente a maggioranza araba e musulmana, equivale a votarsi ad una morte lenta e costante.

Quale che sia il numero di dirigenti palestinesi che compra, Israele suscita continuamente l’ira degli arabi e dei musulmani, dovunque vivano. Nessun muro, nessun esercito, nessuna flotta di droni, nessun arsenale nucleare, nessun presidente americano proteggeranno a lungo termine uno Stato con una minoranza ebraica.

 

David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. Quando ha lasciato The Guardian, era capo editorialista della rubrica Esteri del giornale. Durante i suoi 29 anni di carriera, si è occupato dell’attentato con una bomba a Brighton, dello sciopero dei minatori, della reazione lealista in seguito all’accordo anglo-irlandese in Irlanda del nord, dei primi conflitti scoppiati in Slovenia e Croazia al momento della dissoluzione della ex-Yugoslavia, della fine dell’Unione Sovietica, della Cecenia e delle guerre che hanno contraddistinto l’epoca a lui contemporanea. Ha seguito il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le circostanze che hanno permesso l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente europeo per la rubrica Europa del Guardian, prima di trasferirsi nel 1992 all’ufficio di Mosca, assumendone la direzione nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per andare all’ufficio Esteri, prima di diventare redattore capo della rubrica Europa e poi vice redattore capo della rubrica Esteri. Prima di lavorare al Guardian, David Hearst è stato corrispondente per la rubrica Educazione nel giornale The Scotsman.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 3 – 16 settembre 2019 (due settimane)

Nel corso delle dimostrazioni palestinesi della “Grande Marcia di Ritorno” (GMR), svolte nella Striscia di Gaza in prossimità della recinzione israeliana che la delimita, le forze israeliane hanno ucciso due minori e ferito altri 437 palestinesi, tra cui 200 minori.

I due ragazzi uccisi, di 14 e 17 anni, sono stati colpiti il 6 settembre, in due manifestazioni ad est di Jabaliya e di Gaza City. Il coordinatore speciale delle Nazioni Unite Nickolay Mladenov ha condannato le uccisioni, affermando che Israele deve “usare la forza letale solo come ultima risorsa, e solo in risposta alla minaccia imminente di morte o lesioni gravi”. Questi episodi portano a 46 il numero di minori uccisi durante le proteste della GMR, dal loro inizio nel marzo 2018. Ottantuno (81) delle persone ferite durante il periodo di riferimento, tra cui 31 minori, sono state colpite con proiettili di arma da fuoco. Secondo fonti israeliane, alcuni dimostranti hanno raggiunto la recinzione e lanciato ordigni esplosivi contro le forze israeliane, senza provocare vittime.

In diverse occasioni, i palestinesi hanno lanciato razzi verso il sud di Israele; in seguito a tali lanci le forze israeliane hanno compiuto una serie di bombardamenti con carri armati e attacchi aerei, prendendo di mira basi militari di Gaza. Non sono state segnalate vittime da entrambe le parti. Secondo fonti israeliane, uno dei razzi ha causato danni a una casa in una comunità nel sud di Israele.

In almeno 20 occasioni le forze israeliane, per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi], hanno aperto il fuoco di avvertimento in aree adiacenti alla recinzione perimetrale [lato Gaza] e al largo della costa di Gaza; nessuna vittima è stata segnalata. Le forze israeliane hanno effettuato tre incursioni [nella Striscia] ed hanno svolto operazioni di spianatura del terreno vicino alla recinzione. In separati episodi, le forze israeliane hanno arrestato sei palestinesi mentre, a quanto riferito, tentavano di violare la recinzione.

L’8 settembre è morto un 47enne palestinese di Nablus che stava scontando una pena in una prigione israeliana. Nel periodo di riferimento si sono svolte diverse manifestazioni di protesta per questa morte ed in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame. Secondo l’Associazione dei prigionieri palestinesi, l’uomo, che soffriva di cancro, è morto a causa di negligenza medica. Era stato condannato nel 2015 per l’uccisione di due coloni israeliani.

In numerosi scontri in tutta la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno ferito un totale di 187 palestinesi, tra cui 89 minori [segue dettaglio]. La maggior parte delle lesioni (120) sono state riportate nel corso di due episodi in cui le forze israeliane, a seguito del lancio di pietre da parte di palestinesi, hanno sparato bombolette di gas lacrimogeno in un quartiere della zona H2 (a controllo israeliano) di Hebron. Altri 58 palestinesi, tra cui un bambino di sei anni colpito alla testa da una bombola di gas lacrimogeno, sono rimasti feriti in vari scontri nella città di Al ‘Eizariya (Gerusalemme); alcuni degli scontri sono scoppiati durante le proteste a sostegno dei prigionieri palestinesi. A Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno fatto irruzione in una moschea nel quartiere di Al ‘Isawiya e si sono scontrate con i fedeli; nonostante un’intesa raggiunta all’inizio di settembre tra la polizia israeliana ed i leader della comunità, la situazione nel quartiere è rimasta tesa. Inoltre, cinque palestinesi sono rimasti feriti nella manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e a Kafr Malik (Ramallah), nel corso di una protesta a sostegno dei prigionieri [palestinesi].

Il 7 settembre, un ragazzo palestinese di 15 anni ha accoltellato e ferito due israeliani nel villaggio di ‘Azzun (Qalqiliya). A quanto riferito, i due, padre e figlio 17enne, erano entrati nel villaggio per un appuntamento dal dentista. [A seguito dell’aggressione] le forze israeliane hanno chiuso il cancello che controlla l’accesso principale al villaggio ed hanno avviato un’operazione di ricerca dell’assalitore che, più tardi, si è consegnato alle forze di sicurezza palestinesi; il cancello è stato poi riaperto il giorno seguente.

In tutta la Cisgiordania, le forze israeliane hanno compiuto un totale di 128 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 90 palestinesi. La maggior parte delle operazioni è stata effettuata nei governatorati di Gerusalemme (35 operazioni, di cui almeno 13 nel quartiere di Al ‘Isawiya di Gerusalemme Est) e di Ramallah (29 operazioni).

Nel mezzo dei preparativi per la raccolta delle olive, coloni israeliani hanno effettuato otto attacchi che hanno provocato due feriti e danni a proprietà palestinesi. In tre episodi separati, coloni che si ritiene provenienti dall’insediamento di Yitzhar e dagli avamposti circostanti, hanno compiuto incursioni nei vicini villaggi di Madama, ‘Einabus e ‘Asira al Qibliya (Nablus): hanno tagliato circa 100 ulivi, scagliato pietre contro case, vandalizzato veicoli e si sono scontrati con i residenti. Le forze israeliane, intervenute durante gli scontri scoppiati nel villaggio di Madama, hanno sparato bombolette di gas lacrimogeno: una di esse ha colpito un ragazzo palestinese in faccia. Finora quest’anno, oltre 4.870 ulivi sono stati vandalizzati da assalitori che si ritiene siano coloni. In un altro incidente, coloni israeliani hanno assaltato fisicamente una famiglia palestinese che stava facendo un pasto all’aperto vicino al villaggio di Jibya (Ramallah), ferendo il padre. Coloni, a quanto riferito, provenienti dall’ex insediamento di Homesh (Nablus), evacuato nel 2005, hanno aperto il fuoco verso venditori palestinesi vicino al villaggio di Burqa; non sono state segnalate vittime. In altri quattro episodi, coloni hanno lanciato pietre, danneggiando case e automobili palestinesi nella zona H2 della città di Hebron, nel villaggio di Beitin e vicino agli insediamenti colonici di Beit El (Ramallah) e Ariel (Salfit).

A motivo della mancanza di permessi rilasciati da Israele, un totale di 23 strutture di proprietà palestinese sono state demolite in Area C ed in Gerusalemme Est, sfollando 29 persone [segue dettaglio]. La maggior parte degli sfollamenti sono stati causati dalla demolizione di quattro ricoveri abitativi; i ricoveri erano stati forniti come assistenza umanitaria a Umm Fagarah, una comunità situata  nel sud di Hebron, in un’area designata [da Israele] come “zona per esercitazioni a fuoco” dedicata all’addestramento dei militari [israeliani]. A Khirbet ‘Atuf (Tubas), una comunità situata in un’area designata [da Israele] come riserva naturale, le autorità israeliane hanno demolito cinque cisterne d’acqua che erano state donate alla Comunità come aiuto umanitario: oltre 250 residenti subiscono ripercussioni per la demolizione che ha anche causato il danneggiamento di oltre 470 alberi. A Gerusalemme Est, otto strutture, tra cui due edifici in costruzione, sono state demolite in un’area vicina alla Barriera. Le forze israeliane hanno anche sequestrato materiali per il ripristino di strutture abitative, forniti come assistenza alla comunità di As Safeer (Hebron), situata nell’area chiusa dietro la Barriera.

Secondo fonti israeliane, in tre occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani che percorrevano strade nella zona di Betlemme, causando danni a un numero imprecisato di automobili. Palestinesi hanno anche lanciato una bottiglia incendiaria contro l’insediamento colonico israeliano di Ofra (Ramallah), senza causare vittime o danni.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 18 settembre, al checkpoint di Qalandiya, che controlla l’accesso a Gerusalemme Est dal nord, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo una donna che, a quanto riferito, aveva tentato una aggressione con un coltello.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

ð  sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina:  https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2:  Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO;  e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Rapporto ONU su crisi economica in Palestina

L’Onu segnala il gravissimo collasso dell’economia palestinese

11 settembre 2019 – Middle East Monitor

 

Ieri la conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) ha avvertito riguardo al gravissimo collasso dell’economia palestinese a causa delle misure distruttive dell’occupazione israeliana.

In un rapporto l’UNCTAD afferma che le prestazioni dell’economia palestinese e le condizioni umanitarie hanno raggiunto nel 2018 e all’inizio del 2019 il livello minimo da sempre.  Aggiunge: “Nel territorio palestinese occupato, nel 2018 il livello di crisi dovuto al tasso di disoccupazione ha continuato ad aumentare, arrivando al 31%: al 52% a Gaza e al 18% in Cisgiordania.”

Afferma anche: “Il salario reale e la produttività del lavoro sono diminuiti. Nel 2017 il salario reale e la produttività per singolo lavoratore sono stati rispettivamente inferiori del 7% e del 9% rispetto ai livelli del 1995.”

Il reddito pro capite si è ridotto, la disoccupazione di massa è aumentata, la povertà si è accentuata e sia nella Striscia di Gaza che in Cisgiordania è aumentato il degrado ambientale causato dall’occupazione.

In conseguenza delle misure dell’occupazione israeliana, “l’economia di Gaza ha subito una contrazione del 7% ed è aumentata la povertà, gli investimenti sono praticamente scomparsi, scendendo al 3% del PIL, di cui l’88% è stato destinato alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte durante varie pesanti operazioni militari negli ultimi 10 anni.”

Secondo la UNCTAD il rallentamento dell’economia in Cisgiordania “si spiega con la diminuzione dell’appoggio da parte dei donatori, la contrazione del settore pubblico e il deterioramento generale della sicurezza, il che ha scoraggiato le attività del settore privato.”

“La partecipazione complessiva della produzione nel valore aggiunto totale si è ridotta dal 20% all’11% del PIL tra il 1994 e il 2018, mentre la partecipazione dell’agricoltura e della pesca è diminuita da più del 12% a meno del 3%.”

“Al popolo palestinese viene negato il diritto di sfruttare le risorse di petrolio e gas naturale e pertanto lo si priva di migliaia di milioni di dollari di entrate”, aggiunge.

La UNCTAD ha ancora aggiunto: “La comunità internazionale deve aiutare il popolo palestinese a garantire il proprio diritto al petrolio e al gas nel territorio palestinese occupato e stabilire la sua legittima partecipazione alle risorse naturali, che sono proprietà collettiva di diversi Stati vicini nella regione.”

Nel contempo l’organizzazione sostiene: “Nel marzo 2019 il governo di Israele ha iniziato a ridurre di 11,5 milioni di dollari al mese le entrate di liquidità palestinese [si riferisce alle tasse che Israele riscuote e che dovrebbe poi girare all’ANP, ndtr.] … Questo impatto fiscale è aggravato dalla diminuzione dell’appoggio dei donatori.”

 

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)