Nakba nella Valle del Giordano: le esercitazioni dell’esercito israeliano gettano il caos tra i palestinesi

Shatha Hammad da Khirbet Humsa al-Fawqa, Cisgiordania occupata

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Cacciati dalle loro case perché Israele testa le proprie armi, la commemorazione di quest’anno degli avvenimenti del 1948 vede nuove espulsioni.

A Khirbet Humsa al-Fawqa, sul pavimento di una tenda abitata giacciono giocattoli sparpagliati. Per i bambini del villaggio i giochi sono finiti quando l’esercito israeliano ha dichiarato l’area zona militare proibita e nelle prime ore di domenica ha obbligato la comunità palestinese ad andarsene dalle proprie abitazioni.

In seguito a un ordine di espulsione di quattro giorni prima, ai 98 abitanti è stato vietato l’accesso alle loro abitazioni per tre giorni. L’esercito li ha informati che tra maggio e giugno verranno cacciati 12 volte per tre giorni ciascuna.

Ai palestinesi è stato detto che le abitazioni sarebbero state nel raggio di gittata dei proiettili dei carri armati poiché l’esercito israeliano utilizza l’area per effettuare esercitazioni militari.

La mattina dell’espulsione Mohammed Sulaiman Abu Qabbash, padre di cinque figli, li ha accompagnati in una vicina comunità ed è corso indietro nel tentativo di proteggere le tende e le pecore. Il trentacinquenne è andato avanti e indietro controllando ansiosamente la zona. Ha aspettato che i soldati israeliani arrivassero e lo buttassero fuori.

Nei prossimi tre giorni dormiremo all’aperto. Non abbiamo alternative, non possiamo opporci a una potenza simile,” ha detto Mohammed a Middle East Eye.

Se la comunità rifiuta di andarsene quando gli viene ordinato rischia l’espulsione con la forza, l’esproprio delle greggi e una multa retroattiva.

In base alle leggi internazionali cacciare dalle proprie case gli abitanti di un territorio occupato è considerato trasferimento forzato di persone protette, il che costituisce un crimine di guerra. Ma gli abitanti delle comunità palestinesi nella Valle del Giordano conoscono bene tali devastanti politiche israeliane.

La valle, una striscia di terra fertile che corre a ovest lungo il fiume Giordano, è abitata da circa 65.000 palestinesi.

Dal 1967, quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, Israele ha trasferito almeno 11.000 suoi cittadini ebrei nella Valle del Giordano. Alcune delle colonie in cui vivono sono state interamente costruite su terre palestinesi di proprietà privata.

Da quando è iniziata l’occupazione, circa il 46% della Valle del Giordano è stata dichiarata dall’esercito israeliano zona militare proibita.

Circa 6.200 palestinesi risiedono in 38 comunità in luoghi destinati a usi militari e devono ottenere un permesso delle autorità israeliane per entrare e vivere nelle loro comunità.

In violazione del diritto internazionale l’esercito israeliano non solo scaccia regolarmente in modo temporaneo le comunità, ma a volte demolisce anche case e infrastrutture.

Oltre a subire espulsioni temporanee, le famiglie palestinesi che vi vivono devono affrontare una miriade di limitazioni nell’accesso a risorse e servizi. Nel contempo la confisca di terre da parte di Israele ha espropriato risorse naturali a favore dei coloni.

Vivere la Nakba

Il digiuno durante l’espulsione e le temperature che hanno raggiunto i 40° hanno raddoppiato le difficoltà di questo Ramadan, dice Khadija Abu Qabbash mentre si prepara ad andarsene. La donna incinta, madre di cinque figli, la mattina ha lavato a mano una pila di vestiti. La sua figlia di 15 anni, Deema, l’ha aiutata a stendere in gran fretta i panni ad asciugare prima che arrivassero i soldati israeliani.

Questa mattina abbiamo accompagnato fuori i bambini ed ora la macchina è tornata a prenderci,” dice a MEE mentre piange. “Non potrò cucinare niente per iftar [pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ci dovremo accontentare di cibo in scatola.”

Le forze israeliane espellono regolarmente le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa. Tuttavia in genere le espulsioni avvengono durante il giorno, mentre agli abitanti è consentito tornare alla sera.

Non so se stanno effettivamente facendo esercitazioni militari. A volte ci cacciano e non fanno niente. Intendono obbligarci ad andarcene per sempre,” dice Khadija.

Le attività di Israele nella Valle del Giordano sono state ben documentate da gruppi per i diritti umani e da Ong locali, che affermano che l’obiettivo di queste misure è cacciare i palestinesi e soffocare il loro sviluppo nella zona.

Essendo assolutamente strategica, i politici israeliani, anche prima delle recenti affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riguardo ai suoi progetti di annettere zone della Cisgiordania occupata, hanno chiarito in varie occasioni che la Valle del Giordano rimarrà in ogni caso sotto il loro controllo.

Nel 2013 negoziati di pace sono stati rifiutati da Israele quando è stata ipotizzaa la cessione di parte del controllo sulla valle.

Commentando l’evacuazione di Khirbet Humsa al-Fawqa di domenica, Walid Assaf, capo della Commissione Nazionale per la Resistenza al Muro e alle Colonie dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto in un comunicato che ci sono stati tentativi con l’intervento di legali per bloccare l’espulsione temporanea, ma non si è potuto mettere in discussione l’ordine militare israeliano.

Proprio come hanno cacciato i palestinesi dale loro case nel 1948, oggi stanno facendo lo stesso. Non cederemo,” ha aggiunto Khadija, riferendosi alla Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste 71 anni fa, che si commemora ogni anno il 15 maggio.

Qui non vogliono palestinesi”

Principalmente composte di pastori, le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa si alzano alle 3 del mattino per mungere le proprie pecore e preparare il formaggio prima di andare ai mercati della vicina cittadina di Tubas.

Harb Abu Qabbash, 40 anni, dice a MEE che ogni famiglia possiede circa 300 pecore. Dato che è difficile spostarle fuori dalla zona, quando i palestinesi vengono evacuati molti degli agnelli rimangono indietro e spesso muoiono di fame senza nessuno che si occupi di loro.

Aggiunge che durante le esercitazioni militari migliaia di ettari di orzo e grano rischiano di essere bruciati. Secondo Harb ciò avviene regolarmente. “Il nostro maggior timore è che una bomba cada su una delle nostre tende. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe e perderemmo tutto,” dice Harb.

Gli israeliani vogliono impossessarsi della zona e svuotarla dei suoi abitanti. Non vogliono palestinesi qui,” aggiunge.

Nel 2005 hanno demolito le nostre tende e infrastrutture con il pretesto che erano state costruite senza permesso. Quando facciamo richiesta di un permesso loro non lo concedono.”

Quando non devono affrontare un’evacuazione, le esercitazioni militari e le demolizioni, i palestinesi della comunità lottano per approvvigionarsi dell’acqua sufficiente per le loro necessità sotto l’occupazione israeliana.

Ogni famiglia con le sue pecore utilizza un totale di due o tre serbatoi d’acqua al giorno,” dice Harb.

Per trasportare il camion cisterna alla comunità ci vogliono due ore. C’è un pozzo d’acqua a cinque minuti da qui, ma l’esercito israeliano ci ha vietato di utilizzarlo e lo ha destinato all’uso esclusivo dei coloni israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Adolescente omicida agli arresti domiciliari

14 maggio 2019 – Middle East Monitor

Oggi l’adolescente che ha ucciso Aisha Al-Rabi, una madre, è stato rilasciato e mandato agli arresti domiciliari.

Ieri il tribunale israeliano del distretto di Lod ha deciso di rilasciare e inviare agli arresti domiciliari il ragazzo, imponendogli di indossare un braccialetto elettronico. È stato rilasciato oggi dopo che lo Stato aveva avuto un giorno di tempo per decidere se ricorrere alla Corte Suprema contro la decisione.

Il sedicenne – di cui non può essere fatto il nome per un ordine di riservatezza imposto dal tribunale – a gennaio è stato accusato di omicidio colposo, lancio di pietre aggravato e danneggiamento intenzionale di un veicolo “nel contesto di un atto terroristico” compiuto per uccidere Al-Rabi in ottobre. In un primo tempo si pensava che il ragazzo avrebbe trascorso “un considerevole periodo di carcerazione” con il massimo di condanna a 20 anni, anche se ha evitato le accuse di omicidio che lo avrebbero condotto a passare la vita in prigione.

Tuttavia all’inizio di questo mese il giudice israeliano Hagai Tarsi ha annunciato che “il Servizio di Libertà Vigilata esaminerà la possibilità di mandare il minore agli arresti domiciliari, con un dispositivo di monitoraggio elettronico, presso la casa dei suoi nonni a Kfar Saba”, a nordest di Tel Aviv. Tarsi ha detto che il sospettato “sarà per 24 ore al giorno sotto la sorveglianza dei genitori, dei nonni e di altri membri della famiglia designati e che gli sarà impedito di contattare altre persone”. Inoltre al momento Haaretz ha riferito che il giudice stabilirà una cauzione per il sospettato di 100.000 shekel (circa 25.000 euro).”

Secondo un rapporto di oggi di Arutz Sheva [rete mediatica israeliana, legata al sionismo religioso, ndtr.], la decisione del tribunale di rilasciare il ragazzo è stata presa in seguito ad un parere inviato dal direttore del Centro Nazionale di Medicina Forense, Dr. Chen Kugel. Egli ha affermato che le ferite riscontrate alla testa di Al-Rabi “non corrispondono ad un colpo procurato da una pietra”, che è il modo in cui sarebbe stata uccisa la 47enne madre di otto figli.

Kugel ha aggiunto: “Due medici mi hanno dato ragione, affermando che le ferite sul cranio della defunta erano compatibili con un danno provocato da una forza molto grande e non da un colpo di pietra. Uno di questi medici ha anche appoggiato la mia tesi secondo cui sembrano esserci almeno due punti di impatto.”

Haaretz ha tuttavia aggiunto che altri professionisti non hanno concordato con l’interpretazione di Kugel, aggiungendo che “hanno ritenuto che una pietra potesse aver provocato questo tipo di ferita.”

Il vedovo di Aisha, Yaqoub Al-Rabi, oggi ha detto a Haaretz di aver appreso degli arresti domiciliari al sospettato dal giornale israeliano e che “nessun funzionario israeliano lo ha aggiornato sugli sviluppi del caso.”

Al-Rabi ha aggiunto: “Tramite voi chiedo agli israeliani: se le cose fossero andate al contrario, pensate che un sospettato palestinese sarebbe stato rilasciato se la vittima fosse stata israeliana? Penso che la risposta per voi sia del tutto chiara, ma per noi palestinesi mi dispiace dire che non c’è nessuna speranza.”

Nell’atto d’accusa presentato contro il ragazzo sono stati rivelati parecchi dettagli sull’uccisione di Al-Rabi. La corte ha potuto apprendere che lui e diversi altri studenti il 12 ottobre sono partiti dalla Pri Haaretz yeshiva (seminario religioso) nella colonia illegale di Rehelim, situata sulla Route 60 a sud di Nablus nella Cisgiordania occupata.

Poi il gruppo è salito sulla collina vicino all’incrocio di Tapuah (Za’atara) della Route 60, dove il ragazzo ha afferrato una grossa pietra del peso di circa due chili e si è preparato a scagliarla contro un veicolo palestinese, ‘per una motivazione ideologica di razzismo e ostilità nei confronti degli arabi ovunque’. Dopo aver identificato la targa palestinese dell’auto di Al-Rabi, ha lanciato la grossa pietra che ha infranto il finestrino del lato del passeggero ed ha colpito alla testa Al-Rabi.

Nel corso dell’indagine che ne è seguita, il DNA del ragazzo è stato trovato sulla pietra che ha ucciso Al-Rabi. Nella sua deposizione il ragazzo ha sostenuto che ciò poteva essere dovuto al fatto che lui “stava passeggiando a lungo in quella zona e potrebbe avere sputato colpendo la pietra.”

Il giovane colono era rappresentato da Adi Keidar, un avvocato appartenente all’associazione di aiuto legale Honenu, che fornisce assistenza legale agli israeliani sospettati di terrorismo. Keidar attualmente rappresenta Amiram Ben-Uliel, uno dei due coloni accusati di aver ucciso la famiglia Dawabsheh nell’ incendio doloso nella loro casa nel villaggio di Duma in Cisgiordania nel luglio 2015. Tre membri della famiglia Dawabsheh – il padre Saad, la madre Riham e il loro figlio Ali di 18 mesi – sono morti nell’incidente, lasciando orfano Ahmed che allora aveva cinque anni.

Mentre Ben-Uliel è ancora sotto indagine, in questo fine settimana il suo giovane complice ha confessato e verrà incriminato per cospirazione nell’appiccare l’incendio avendo commesso un crimine con una motivazione razziale. Ha confessato dopo che è stato raggiunto un patteggiamento, in base al quale “la procura ha acconsentito a non chiedere una condanna a più di cinque anni e mezzo di prigione.”

In aprile si è saputo che attivisti di estrema destra avevano fatto pressione sul ragazzo perché non accettasse il patteggiamento. Shmuel Eliyahu, il rabbino di Safed, nel nord di Israele, sarebbe stato chiamato a mediare tra l’ufficio del Procuratore di Stato, il ragazzo e gli attivisti di destra.

Eliyahu è un personaggio controverso, che ha detto ai ragazzi sospettati dell’uccisione di Al-Rabi che non dovevano temere la prigione perché “è lì che inizia la strada per il potere politico”. Eliyahu sostiene di aver detto ai ragazzi: “Quale è il problema? Di che cosa siete accusati? Avete tirato una pietra. Sapete quante pietre vengono lanciate nella Cisgiordania occupata per le quali l’esercito israeliano non fa niente?”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 23 aprile – 6 maggio 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza e in Israele, tre giorni di intense ostilità hanno provocato l’uccisione di 25 palestinesi (tra cui tre minori e due donne incinte) e quattro civili israeliani. Tra i feriti 153 palestinesi e 123 israeliani.

Lo scontro ha raggiunto il culmine tra il 3 e il 6 maggio, in seguito al ferimento di due soldati israeliani durante le proteste settimanali per la “Grande Marcia di Ritorno” (GMR) del 3 maggio. A quanto riferito, il ferimento sarebbe stato opera di un cecchino palestinese, al quale ha fatto seguito l’attacco dell’aeronautica israeliana contro le postazioni di Hamas e l’uccisione di due suoi membri. Nei giorni successivi, le forze israeliane hanno colpito circa 320 obiettivi in Gaza, mentre gruppi armati palestinesi hanno sparato quasi 700 tra missili e proiettili di mortaio contro Israele. Secondo prime valutazioni, a Gaza sono state distrutte 41 abitazioni e altre 16 sono state gravemente danneggiate e rese inabitabili. Sono state danneggiate anche 13 strutture scolastiche, un centro sanitario e varie reti elettriche. Un accordo informale per il cessate il fuoco, raggiunto attraverso mediazione egiziana e delle Nazioni Unite, è entrato in vigore nella prima mattina del 6 maggio e risulta rispettato al momento della pubblicazione del presente rapporto.

Inoltre, in proteste svolte il 26 aprile ed il 3 maggio vicino alla recinzione israeliana di Gaza nell’ambito delle manifestazioni per la GMR, le forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi, ferendone altri 370 circa. Secondo fonti mediche palestinesi, di tutti i palestinesi feriti durante proteste tenute nel periodo di riferimento [del presente rapporto] , 237 sono stati ricoverati in ospedale; 91 di questi presentavano ferite da armi da fuoco.

Il 30 aprile, in risposta al lancio di missili da Gaza verso il mare, effettuato da gruppi armati palestinesi, le autorità israeliane hanno ridotto da 15 a 6 miglia nautiche la zona di pesca consentita lungo la costa meridionale di Gaza. Il 4 maggio, in un contesto di crescenti ostilità, le autorità israeliane hanno proibito tutte le attività di pesca al largo della costa di Gaza. Inoltre, il valico pedonale di Erez e il valico per le merci di Kerem Shalom, entrambi controllati da Israele, sono stati chiusi al transito di persone e merci; fanno eccezione determinati viaggiatori (internazionali) e l’importazione di carburante per la Centrale Elettrica di Gaza.

Il 20 aprile, al checkpoint di Za’tara (Nablus), le forze israeliane hanno sparato e ferito un 20enne palestinese che, presumibilmente, aveva tentato di pugnalare un soldato israeliano; per le ferite riportate, l’aggressore è deceduto il 27 aprile in un ospedale israeliano e il suo corpo è ancora trattenuto dalle autorità israeliane. Nessun israeliano risulta ferito nell’episodio. Ciò porta a sei, dall’inizio del 2019, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane in attacchi e presunti attacchi. In un altro episodio, avvenuto il 29 aprile, vicino al villaggio di Ya’bad (Jenin), un palestinese è stato colpito e ferito dalle forze israeliane, presumibilmente dopo aver aperto il fuoco contro una postazione militare israeliana.

In aree [di terra, interne alla Striscia e] adiacenti alla recinzione perimetrale ed [in aree di mare,] al largo della costa di Gaza, in circa 30 occasioni estranee alle proteste per la GMR, le forze israeliane, in applicazione delle restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco di avvertimento, provocando il ferimento di tre palestinesi. In uno degli episodi, due pescatori palestinesi sono stati arrestati e le loro imbarcazioni sono state confiscate dalle forze navali israeliane.

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, in numerosi scontri con le forze israeliane, complessivamente sono rimasti feriti 63 palestinesi. Ciò rappresenta una riduzione significativa di circa il 63%, rispetto alla media quindicinale di 170 feriti registrata, fino ad ora, nel 2019. 17 palestinesi [dei 63] sono stati feriti nella città di Nablus, durante scontri con le forze israeliane che stavano accompagnando coloni israeliani in visita alla Tomba di Giuseppe. Altri due palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) durante scontri scoppiati nel corso della protesta settimanale contro le restrizioni all’accesso e l’espansione degli insediamenti. Altri 40 feriti si sono avuti ad Al ‘Eizariya, nella città di Abu Dis, nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme) e nella città di Qalqiliya, in scontri seguiti a cinque operazioni di ricerca-arresto condotte da forze israeliane. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 141 di queste operazioni, il 4% delle quali ha provocato scontri.

A Gerusalemme Est e nella zona C della Cisgiordania, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 41 strutture di proprietà palestinese, sfollando 38 persone e creando danno ad altre 121. 37 strutture [delle 41 citate] erano a Gerusalemme Est e 4 nella Zona C. Nella sola giornata del 29 aprile, le autorità israeliane hanno demolito 31 strutture in diversi quartieri di Gerusalemme Est, segnando il maggior numero di strutture demolite in un solo giorno a Gerusalemme Est da quando, nel 2009, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori palestinesi occupati (OCHAoPt) ha avviato sistematicamente il monitoraggio delle demolizioni. Il 3 maggio, il Coordinatore Umanitario Jamie Mc Goldrick, insieme ai Capi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i Profughi della Palestina nel Vicino Oriente (UNRWA) e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR), hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che invita Israele al rispetto del diritto internazionale e a porre fine alla distruzione di proprietà palestinesi a Gerusalemme Est.

Il 25 aprile, le autorità israeliane hanno demolito una casa nel villaggio di Az Zawiya (Salfit), nella zona B, con motivazione “punitiva”, sfollando una famiglia di sette persone, di cui cinque minori. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese di 19 anni accusato di aver ucciso, il 17 marzo 2019, vicino all’insediamento israeliano di Ariel (Salfit), un soldato israeliano e un colono israeliano, oltre ad aver ferito un altro soldato. Il giovane fu ucciso da forze israeliane in un successivo episodio. Dall’inizio del 2019, questa è la quinta demolizione del genere. Nel 2018 tali demolizioni furono sei e nove nel 2017.

In Cisgiordania sono stati registrati tredici attacchi attribuiti a coloni israeliani, con conseguente ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi. Nel villaggio di Kafr Ni’ma (Ramallah), un gruppo di coloni israeliani, alcuni dei quali armati, hanno aggredito fisicamente e ferito tre palestinesi che stavano misurando terreni. Inoltre, in cinque episodi verificatesi nelle ultime due settimane, coloni israeliani, accompagnati dall’esercito israeliano, hanno vandalizzato proprietà palestinesi nella zona della sorgente di Ein Harrasheh, ed un parco pubblico nella zona B del villaggio Al Mazra’a Al Qibliya (Ramallah); secondo fonti della comunità locale, i coloni hanno lanciato pietre contro due case, hanno molestato palestinesi ed hanno vandalizzato tubature dell’acqua e infrastrutture del parco. Nel villaggio di ‘Urif (Nablus), dopo che coloni avevano lanciato pietre contro una scuola per ragazzi e contro le case circostanti, sono scoppiati scontri che hanno visto palestinesi contrapposti ai coloni ed alle forze israeliane che li accompagnavano. In altri cinque episodi verificatisi a Burqa (Ramallah), Isla (Qalqiliya), Huwwara (Nablus) ), al Ganoub (Hebron) e nella zona H2 della città di Hebron, coloni israeliani hanno vandalizzato 51 ulivi, hanno bucato le gomme di dodici veicoli palestinesi, hanno spruzzato scritte “questo è il prezzo” su quattro case palestinesi e danneggiato un negozio. Dall’inizio del 2019, la media bisettimanale [14 giorni] di attacchi di coloni (con vittime palestinesi o danni alle proprietà) ha registrato un aumento del 40% rispetto alla media bisettimanale [14 giorni] del 2018, e del 133% rispetto al 2017.

Media israeliani hanno riferito di nove episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli di coloni israeliani; una colona israeliana è stata ferita e diversi veicoli sono stati danneggiati.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, controllato dall’Egitto, è rimasto aperto per tre giorni in entrambe le direzioni e quattro giorni in una direzione. Un totale di 2.662 persone, tra cui 1.451 pellegrini, sono entrati a Gaza e 2.466 ne sono usciti, tra cui 1.603 pellegrini.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Rapporto sulla Protezione dei Civili nei Territori Palestinesi occupati

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Una strana simbiosi*

 

 

Perché Israele e Gaza continuano a combattersi in brevi battaglie? Perché è nell’interesse dei loro leader

 

 

Di David M. Halbfinger

6 maggio 2019 – New York Times

 

GERUSALEMME – Più di venti persone sono state uccise, case e negozi distrutti negli scontri del fine settimana tra Israele e Gaza, ma lunedì i leader di entrambe le parti si sono dichiarati soddisfatti dei risultati.

Il ciclo di ripetute violenze e cessate il fuoco che continuano a rasentare una guerra totale può sembrare una distruzione senza senso agli occhi del mondo esterno. Ma gli analisti affermano che ciò è perfettamente funzionale agli interessi dei due principali antagonisti.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riesce a strapazzare Hamas, il gruppo di miliziani che controlla Gaza, rafforzando il suo discorso secondo cui i palestinesi non sono pronti a fare la pace e che la soluzione dei due Stati è impossibile.

Hamas, che a quanto pare cerca e ottiene rinnovate garanzie di un allentamento del blocco israeliano contro Gaza, riesce a dimostrare agli scettici e impoveriti abitanti di Gaza che la sua strategia di resistenza armata sta funzionando.

Il risultato è uno strano tipo di simbiosi.

La relazione tra Hamas e Israele è sicuramente conflittuale: sempre ostile, frequentemente mortale e carica di rischi che possa degenerare in un protratto conflitto terreste, per un razzo vagante che uccide troppe persone o per un cambiamento dei calcoli politici da entrambe le parti.

Potrebbe dimostrarsi un armistizio che procede lentamente – “un negoziato attraverso l’uso delle armi”, come lo ha descritto Ghaith al-Omari, ex-funzionario dell’Autorità Nazionale Palestinese, o forse una forma di tregua in stile mediorientale.

Ma ad ogni ripetizione del ciclo che non porta a uno scoppio, Israele e Hamas sono utili agli scopi l’uno dell’altro e si stanno sempre più abituando ad avere rapporti in questo modo.

Gli scontri del fine settimana, i peggiori dalla guerra di 50 giorni del 2014, sono stati almeno l’ottavo round di brevi lotte tra Israele e Gaza durante lo scorso anno, con battaglie a volte finite in poco più di un giorno. Ognuna è terminata rapidamente con un cessate il fuoco, in genere mediato dall’Egitto e visto come una prova che nessuna delle due parti vuole una guerra vera e propria.

Hamas ha dimostrato la capacità di essere all’altezza dei suoi impegni: un momento importante è stato alla fine di marzo, quando per l’anniversario delle manifestazioni lungo la barriera tra Gaza e Israele, secondo gli analisti Hamas ha schierato agenti con giubbotti dai colori vivaci per ridurre al minimo le violenze, mostrando di poter imporre il cessate il fuoco.

Ma in altri momenti può esprimere la propria impazienza con le armi. La violenza del fine settimana potrebbe essere stata alimentata da un ritardo nell’arrivo dei milioni di dollari in denaro del Qatar per contribuire a pagare i salari dei lavoratori di Gaza e dalla sensazione che Israele non stesse dando seguito abbastanza rapidamente ad altre promesse.

Tuttavia alcuni degli scontri fin dall’ultima estate sono stati interpretati come tentativi da parte dei dirigenti di Hamas di ottenere un accordo migliore.

“Hanno la tendenza a cercare di estendere i termini degli accordi e a migliorare quello che hanno ottenuto mostrando i muscoli,” dice Ehud Yaari, uno studioso residente in Israele del Washington Institute for Near East Policy [Istituto di Washington per la Politica in Medio Oriente, centro studi legato all’AIPAC, il più importante gruppo lobbystico filo-israeliano Usa, ndtr.].

Per il governo israeliano questa gestione dei rapporti con Hamas è piena di contraddizioni e della necessità di un attento bilanciamento. Vedendo Hamas come un gruppo terroristico intenzionato alla distruzione di Israele, il governo israeliano non ha interesse a concedergli legittimità o a consentire ad Hamas di rafforzarsi.

Ma Netanyahu ha anche dimostrato scarso impegno per distruggere Hamas – nonostante le richieste di alcuni politici di destra perché lo faccia – per quello che Aaron David Miller, un esperto negoziatore in Medio Oriente per gli Stati Uniti, ha chiamato “il problema del giorno dopo”. Israele dovrebbe rioccupare Gaza con le sue truppe, prendendosi la totale responsabilità dei suoi due milioni di abitanti. C’è anche il rischio che un gruppo ancora più radicale di Hamas possa prendere il potere, come la Jihad Islamica palestinese, già potente rivale di Hamas a Gaza, o forse elementi dello Stato Islamico che operano nel deserto del Sinai.

Questo problema è la ragione per cui Netanyahu nel suo modo di controllare Gaza sembra avere l’appoggio dell’establishment della sicurezza di Israele. I suoi oppositori politici lo hanno aggredito per aver consentito che la situazione cadesse nell’attuale schema, ma non hanno detto cosa farebbero di diverso.

E gli israeliani sembrano aver mostrato una maggiore tolleranza che in passato per le vittime [israeliane]. Domenica ad Ashkelon i sopravvissuti a un attacco con i razzi che ha ucciso un operaio loro collega in una fabbrica hanno manifestato un incrollabile sostegno a Netanyahu, benché abbiano anche incolpato l’opinione pubblica mondiale perché impedisce all’esercito di dare a Gaza il colpo che merita.

“Dovrebbero colpire duro,” ha detto delle forze armate Menashe Babikov, 42 anni, manager di Ashdod, ma non lo faranno “perché hanno paura di quello che direbbe il resto del mondo.”

Gli analisti dicono che Hamas svolge anche un’altra funzione per il governo di Netanyahu. Con l’Autorità Nazionale Palestinese che governa la Cisgiordania e Hamas a Gaza, non c’è un cammino facile per una soluzione a due Stati del conflitto, a cui si pensa unanimemente che Netanyahu si opponga.

Unificare le due fazioni – cosa che gli Stati Uniti, l’Egitto e altri attori internazionali hanno passato mesi a cercare di fare prima di rinunciarvi lo scorso anno –  inevitabilmente rivitalizzerebbe colloqui per una soluzione dei due Stati al conflitto israelo-palestinese, dice Miller.

“Finché hai una situazione con tre Stati, non ne puoi avere una con due,” afferma. “Hamas è la polizza di assicurazione di Netanyahu.”

Anche qui gli oppositori israeliani alla soluzione dei due Stati condividono gli stessi interessi di Hamas, che vuole uno Stato unico, anche se non lo stesso che desiderano gli israeliani. Per Hamas un negoziato mediato e ufficioso sulla sicurezza, sull’aiuto economico e umanitario è praticabile, ma abbandonare la sua ideologia di resistenza armata per colloqui di pace con Israele è fuori discussione.

“Dal punto di vista di Hamas è meglio un governo come quello che abbiamo piuttosto che uno più moderato che aspiri a progredire nel processo di pace,” dice Celine Touboul, un’esperta di Gaza della “Israel’s Economic Cooperation Foundation” [Fondazione Israeliana per la Cooperazione Economica, gruppo di studiosi israeliani che si occupano dei rapporti con il mondo arabo, ndtr.]. “Perché una volta che lo fai, agevoli l’ANP,” dice, in riferimento all’Autorità Nazionale Palestinese. “E questa è la cosa che in fondo più importa ad Hamas: in questa competizione politica indebolire il più possibile l’ANP.”

Per Hamas più dura il cessate il fuoco a Gaza meglio è, dice Yaari, che per molti anni ha informato sui palestinesi per la televisione israeliana. Deve ricostituire il suo arsenale di razzi e missili e ricostruire o sostituire le molte installazioni militari e di intelligence che Israele ha distrutto.

“Ogni volta per loro è dispendioso,” afferma.

Ma Yaari dice anche che il leader di Hamas a Gaza, Yehya Sinwar, ha voluto concentrare le energie dell’organizzazione sul miglioramento delle condizioni là, in parte per guadagnare tempo, per vedere cosa succederà con l’Autorità Nazionale Palestinese quando l’amministrazione Trump svelerà il suo progetto per l’accordo di pace israelo-palestinese e mentre la salute dell’anziano presidente dell’Autorità, Mahmoud Abbas, peggiora.

“L’approccio di Sinwar è di bloccare il deterioramento delle condizioni a Gaza,” sostiene Yaari. “Il prezzo sarà un prolungato cessate il fuoco, e in due o tre anni vedremo cosa succede.”

Per allora Abbas potrebbe essersene andato, o Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese potrebbero benissimo essere in rotta di collisione, dice, soprattutto se Netanyahu dà seguito alla promessa elettorale di annettere come parte di Israele alcune colonie in Cisgiordania.

Secondo Yaari entrambi gli sviluppi potrebbero creare un’apertura per Hamas, per cercare di avere la meglio contro l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania. “Sinwar sta dicendo: ‘La mia vera priorità è la Cisgiordania,’” afferma.

Per il momento questa dinamica fa di Hamas un avversario affidabile.

Curiosamente, dice Touboul, Netanyahu sta “guardando ad Hamas come un partner più affidabile dell’ANP.”

Isabel Kershner ha contribuito con informazioni da Ashkelon.

*Nota redazionale: pur non condividendo alcune considerazioni presenti nell’articolo e il fatto che vengano citate quasi esclusivamente fonti israeliane, il che evidenza da quale prospettiva il giornale informa i propri lettori. Ad esempio, quelle dei palestinesi di Gaza sono descritte come “sensazioni” e non fatti concreti e facilmente verificabili riguardo al mancato rispetto degli accordi di tregua accettati da Israele. Né nell’articolo si ricorda che la strategia di isolare Cisgiordania da Gaza risale almeno al ritiro unilaterale deciso da Sharon. Tuttavia riteniamo interessante proporre la traduzione di questo articolo sia per l’autorevolezza del New York Times che per la prospettiva che questo editoriale propone per spiegare gli ultimi scontri tra Gaza e Israele.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




No, l’escalation non inizia con i razzi su Israele

Orly Noy

5 maggio 2019 , + 972

Israele può raccontare a sé stesso e al resto del mondo la storia di essere una vittima. In realtà da un decennio sta facendo violenza a due milioni di abitanti di Gaza assediati.

Mentre il numero delle vittime da entrambe le parti del confine di Gaza continua a crescere, i politici israeliani sono impegnati nella loro annosa questione: dobbiamo distruggere Gaza? Cancellarla? Oppure dobbiamo ricacciarla all’età della pietra? Propongo di trarre una lezione diversa dalla terribile violenza che, finora, è già costata la vita a 16 palestinesi e 4 israeliani: noi israeliani dobbiamo imparare l’arabo.

Mi rendo conto che la mia proposta è molto meno allettante per la maggior parte degli israeliani della “soluzione” che comporta più violenza e spargimento di sangue, ma a lungo termine potrebbe essere proprio la più efficace. Dopotutto, imparare l’arabo è l’unico modo per superare la nostra ignoranza riguardo a ciò che accade dall’altra parte tra un’“escalation” e l’altra, che secondo Israele inizia sempre con la prima vittima israeliana.

La prima cosa che si impara in ogni corso introduttivo di storia è che la storia è scritta dai vincitori. Può essere vero, ma questo non cancella il ruolo dei vinti. Forse la storia è scritta dai vincitori, ma è fatta da tutti i soggetti coinvolti.

Israele può raccontare a sé stesso e al mondo la storia che vuole. Può parlare di “escalation” solo quando cadono razzi nel sud, o di terrorismo solo quando i suoi cittadini ne pagano il prezzo. Può cancellare il feroce blocco di Gaza, l’indigenza senza fine della sua popolazione, i cecchini che uccidono manifestanti disarmati, gli spari contro i pescatori, la mancanza di acqua potabile, di elettricità, di infrastrutture, l’economia e la disoccupazione.

Però nulla di tutto ciò cesserà di far parte della storia dell’occupazione e della violenza. Con il dovuto rispetto, una narrazione non può sostituire la realtà e nella realtà Israele ha maltrattato due milioni di gazawi per oltre un decennio. Che cosa pensavamo che sarebbe successo? Che poiché i più forti hanno il potere di raccontare la storia i deboli semplicemente sarebbero scomparsi?

Coloro che seguono le trasmissioni in lingua araba in mezzo ai vari attacchi coi razzi sul sud di Israele scopriranno un universo parallelo che i media ebraici difficilmente prendono in considerazione. Per loro, “escalation” non vuol dire lancio di razzi sul sud (di Israele) – è vita quotidiana. E non solo a Gaza, ovviamente. Aprite qualunque sito di informazioni palestinese durante questi cosiddetti periodi di “calma” e scoprirete che la guerra non finisce mai davvero. I bambini palestinesi continuano a essere arrestati, le case palestinesi continuano ad essere demolite e i palestinesi continuano ad essere espulsi dalla loro terra.

E’ impossibile comprendere la nostra realtà senza comprendere la loro. Se non per umanità basilare, almeno per la consapevolezza che i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania fanno anch’essi parte della storia che stiamo vivendo. Nessuna propaganda israeliana può cambiare questo.

Un’analoga ignoranza ammorba il discorso pubblico nei confronti degli abitanti del sud di Israele, che sono stati pesantemente colpiti dai razzi negli ultimi quindici anni. Non è neppure questione di condiscendenza e ‘schadenfreude’ [dal tedesco: rallegrarsi della sfortuna altrui, ndtr.] (“Hanno votato Netanyahu? Si meritano i razzi”): il problema principale è che questo modo di pensare riduce le loro esperienze all’essere dei bersagli. Ad essere delle vittime.

Questo atteggiamento verso gli abitanti di quella che viene comunemente chiamata “la periferia” nasce non solo nel contesto dei lanci di razzi, ma caratterizza la posizione prevalente in Israele rispetto a tutto ciò che non fa parte dell’area di Tel Aviv. Il ruolo della periferia nel discorso politico israeliano è quello della vittima. Dopotutto, anche Tel Aviv è stata in precedenza colpita da razzi da Gaza, eppure nessuno si aspetta che i suoi abitanti adeguino il proprio modo di votare alla loro nuova situazione. E’ sufficiente sapere che questo non sarebbe avvenuto nemmeno se gli abitanti di Tel Aviv avessero continuato ad essere bombardati.

Personalmente credo che chiunque voti per Netanyahu non solo prende una decisione immorale, ma vota contro i propri interessi personali come cittadino di questo Stato. Capisco anche che agli occhi dei suoi elettori questo non è semplicemente un capriccio. Il primo ministro offre ai suoi sostenitori la promessa di un costante e violento dominio sui palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, incrementando al contempo la supremazia ebraica all’interno di Israele. Non si può ignorare la logica di queste priorità, a prescindere da quanto siano immorali.

Gli abitanti del sud di Israele che hanno votato per Netanyahu non lo hanno fatto a causa del ruolo che l’Israele che conta ha disegnato per “i poveri abitanti di una periferia sotto il tiro dei razzi”. Lo fanno perché sono cittadini ebrei in uno Stato suprematista ebraico.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call.

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Sono un’attivista politica, un tempo all’interno della ‘Coalition for Peace’ e di ‘Mizrahi Democratic Rainbow’, ed attualmente come membro del comitato esecutivo di ‘B’Tselem’, e sono attivista del partito politico Balad [partito arabo ed ebraico israeliano antisionista, ndtr.]. Mi occupo delle linee che attraversano e definiscono la mia identità come mizrahi [ebrei di origine araba o degli altri Paesi del Medio Oriente, ndtr.], femminista di sinistra, donna, migrante temporanea che vive all’interno di una continua migrazione e del costante dialogo tra di esse. Traduco poesia e prosa dal farsi [lingua parlata in Iran, ndtr.] e il mio sogno è di costruire, se non un’intera biblioteca, almeno un semplice scaffale di libri persiani in ebraico, come atto politico nella lotta contro l’emarginazione della cultura mizrahi nel dibattito israeliano.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’esercito israeliano ha ucciso un paramedico palestinese, poi ha distribuito un video ingannevole

Middle East Monitor1 maggio 2019

Le forze di occupazione israeliane hanno colpito e ucciso un volontario paramedico durante un’incursione in un campo di rifugiati, dopo di che l’esercito ha diffuso un ingannevole video di propagandistico.

Secondo un’inchiesta del gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, Sajed Mizher, di 17 anni, è stato colpito all’addome mentre accorreva in aiuto di un abitante ferito. Il 27 marzo, alle 2,30 circa, soldati hanno fatto incursione nel campo profughi di Dheisheh, che si trova a sud di Betlemme, nella parte meridionale della Cisgiordania occupata. I soldati hanno arrestato un abitante, poi si sono ritirati.

Poche ore dopo decine di soldati israeliani hanno di nuovo fatto un raid nel campo e si sono scontrati con abitanti del posto che hanno lanciato pietre contro le forze di occupazione.

Durante questa incursione”, nota B’Tselem, “tre abitanti sono rimasti feriti da proiettili veri – uno alla spalla, un altro a una mano e il terzo a una gamba. Durante entrambe le incursioni era presente un’equipe di paramedici e volontari del campo affiliati alla Palestinian Medical Relief Society [Società Palestinese di Soccorso Medico] (PMRS).”

Mentre i soldati israeliani si stavano ritirando “uno di loro ha sparato a M.J., 20 anni, un abitante del campo, ferendolo a una gamba.” Sajed Mizher, “che portava un giubbotto dell’equipe medica e si trovava poche decine di metri dietro al ferito,” è corso in suo aiuto.

A quel punto un soldato israeliano ha sparato a Sajed all’addome. Portato d’urgenza all’ospedale, un’ora dopo il ricovero Sajed è spirato in conseguenza delle ferite.

Più tardi lo stesso giorno il portavoce dell’esercito israeliano ha reso pubblico un filmato in arabo “che mostrava un paramedico che si toglieva il giubbotto d’identificazione, portava una maglietta bianca e lanciava pietre da un tetto.” Come ha notato B’Tselem, “il video intendeva presumibilmente giustificare il fatto di aver colpito Mizher.”

Tuttavia “l’inchiesta di B’Tselem ha chiaramente scoperto che la persona ripresa nel filmato non era Sajed Mizher, che era stato colpito in un luogo diverso, sulla strada principale del campo di rifugiati.”

Quindi,” aggiunge l’ong, “persino per scopi propagandistici il video che ha pubblicato l’esercito è per lo meno di dubbio valore. Sicuramente non costituisce una spiegazione o una giustificazione per il fatto di aver colpito a morte un volontario paramedico di 17 anni.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele vieta a centinaia di cristiani palestinesi di viaggiare per Pasqua

Henriette Chacar

19 aprile 2019,  +972

Con una decisione senza precedenti le autorità israeliane hanno negate a centinaia di cristiani palestinesi il diritto di andare a Gerusalemme per le feste, bloccando nel contempo ogni movimento tra la Cisgiordania e Gaza.

Per le celebrazioni pasquali si attendono che vadano a Gerusalemme migliaia di pellegrini cristiani da tutto il mondo. Tuttavia per i cristiani palestinesi che vivono a non più di qualche ora dalla Città Santa i progetti per i giorni di festa sono condizionati dai capricci dell’esercito israeliano. Quest’anno, con una decisione senza precedenti, l’esercito sta negando a centinaia di palestinesi gli spostamenti e ha vietato ogni movimento tra la Cisgiordania e Gaza.

L’esercito israeliano ha limitato la quota di viaggi per le festività a 200 cristiani di Gaza che hanno più di 55 anni e solo per spostamenti fuori da Palestina/Israele. Solo 120 dei 1.100 cristiani di Gaza rispondono a questo requisito arbitrario. I palestinesi che stavano pianificando di visitare i luoghi santi o le proprie famiglie in Cisgiordania e in Israele, di per sé un’occasione rara, non potranno farlo.

Ho fatto richiesta per un permesso negli ultimi tre anni, ma senza alcun risultato,” dice Samir Abu Daoud, 65 anni, di Gaza, che ha un figlio e nipoti a Ramallah. Benché rispetti i criteri israeliani per viaggiare, sta ancora aspettando una risposta riguardo alla sua richiesta di un permesso.

Nonostante l’esercito abbia concesso una quota doppia per i palestinesi della Cisgiordania – a cui verrà permesso di recarsi in Israele e a Gerusalemme – ciò consente solo a circa l’1% della popolazione cristiana di viaggiare per la festività. Non possono visitare i parenti a Gaza.

L’imposizione di tali radicali restrizioni agli spostamenti non può essere giustificata da necessità legate alla sicurezza,” dice Miriam Marmur, una coordinatrice per i media di “Gisha”, un gruppo israeliano per i diritti umani che si concentra sulla libertà di movimento in entrata ed in uscita da Gaza. La decisione si basa su considerazioni politiche, aggiunge Marmur, e le restrizioni sono parte della politica israeliana di “separazione”, che intende accentuare la divisione tra comunità palestinesi geograficamente non collegate tra loro.

Israele sta sempre più restringendo gli spostamenti tra Gaza e la Cisgiordania in modo da approfondire la separazione tra palestinesi in parti del territorio palestinese occupato, e così facendo prosegue e legittima l’annessione della Cisgiordania,” ha scritto questa settimana Gisha in una comunicato.

Contattato per avere una spiegazione, il “Coordinator of Government Activities in the Territories” [il Coordinamento delle Attività Governative nei Territori] dell’esercito israeliano (COGAT) – l’ente militare israeliano responsabile di amministrare l’occupazione e l’assedio di Gaza – ha rinviato la rivista +976 all’ufficio del primo ministro, che ha citato indicazioni relative alla sicurezza come la ragione della decisione.

Ci sono circa 400.000 cristiani palestinesi [sparsi]nel mondo, molti dei quali sono rifugiati che sono scappati o sono stati espulsi dalle forze israeliane durante la Nakba [la pulizia etnica che ha consentito la nascita di Israele, ndt.] del 1948 e ora vivono fuori dalla Palestina e da Israele. Circa 123.000 sono cittadini israeliani e 50.000 o poco più vivono nei territori palestinesi occupati.

Mentre ufficialmente Israele si è ritirato da Gaza nel 2005, ha sottoposto la Striscia a un rigido assedio, controllando molti aspetti della vita, compreso lo spostamento delle persone e dei prodotti. I palestinesi possono entrare ed uscire in uno dei due modi seguenti: attraverso il valico di Rafah con l’Egitto o quello di Erez con Israele. Fino a poco tempo fa l’Egitto ha aperto Rafah solo in modo intermittente e in marzo, per la prima volta dal dicembre 2014, ha consentito ai musulmani di Gaza di recarsi alla Mecca per il pellegrinaggio della Umrah attraverso Rafah.

Secondo “Gisha”, già lo scorso mese il COGAT ha ricevuto una lista di persone che desideravano lasciare Gaza per Pasqua. Tuttavia solo pochi giorni fa l’esercito ha annunciato il numero di persone – anche se non chi – a cui avrebbe consentito di viaggiare durante le festività, negando la possibilità di opporsi a questa decisione ricorrendo ai tribunali.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Guerra contro pace: Israele ha deciso ed altrettanto dovremmo fare noi

Ramzy Baroud

17 aprile 2019, Ma’an News

Quindi, cosa abbiamo imparato dalle elezioni politiche israeliane del 9 aprile?

Parecchie cose.

Per iniziare, non facciamoci prendere in giro da una definizione come il “testa a testa” tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyhau e il suo principale rivale, Benny Gantz.

Sì, gli israeliani si dividono su qualche questione specifica della loro composizione sociale ed economica. Ma sono anche risolutamente uniti riguardo al problema che più ci dovrebbe preoccupare: la continua sottomissione del popolo palestinese.

Infatti, “testa a testa” o meno, Israele ha votato per rafforzare l’apartheid, appoggiare la continua annessione della Cisgiordania occupata e proseguire con l’assedio di Gaza.

All’indomani delle elezioni Netanyahu è risultato persino più forte: il suo partito, il Likud, le ha vinte con 36 seggi, seguito da Kahol Lavan (Blu e Bianco) di Gantz con 35 seggi.

Gantz, la stella nascente della politica israeliana, durante tutta la campagna è stato etichettato come un politico di centro, una definizione che ha lanciato un’ancora di salvezza alla “sinistra” israeliana – di cui comunque non è rimasto molto – sconfitta.

Questa definizione ha contribuito a sostenere l’effimera illusione che ci sia un’alternativa israeliana al campo estremista di destra di Netanyahu.

Ma non c’è mai stato nessun indizio che suggerisca che Gantz sarebbe stato meglio al punto di porre fine all’occupazione israeliana, di smantellare il regime di apartheid e di allontanarsi dal discorso prevalentemente razzista del Paese.

In effetti, è vero il contrario.

Gantz ha ripetutamente criticato Netanyahu perché sarebbe stato troppo moderato con Gaza, promettendo di far piovere ancora più morte e distruzione su una zona che, secondo le Nazioni Unite, entro il 2020 diventerà inabitabile.

Nel corso della competizione elettorale, dalla campagna di Gantz è stata diffusa una serie di video, definiti “Solo i forti sopravvivono”. Nei filmati Gantz è stato dipinto come il salvatore della Nazione, che, quando era capo di stato maggiore dell’esercito, tra il 2011 e il 2015 ha ucciso molti palestinesi.

Gantz è particolarmente orgoglioso di essere stato in parte responsabile di aver bombardato Gaza “fino ad averla riportata all’età della pietra”.

A quanto pare ai centristi israeliani e a ciò che rimane della sinistra importa poco che nella guerra israeliana del 2014 contro Gaza, denominata operazione “Margine Protettivo”, siano stati uccisi oltre 2.200 palestinesi e oltre 11.000 siano rimasti feriti. In quella guerra estremamente tragica più di 500 minori palestinesi sono stati uccisi e sono state distrutte molte delle già precarie infrastrutture di Gaza.

Ma d’altra parte, perché votare per Gantz quando Netanyahu e la sua alleanza di estrema destra stanno portando a termine il lavoro?

Purtroppo la futura coalizione di Netanyahu probabilmente sarà ancora più estremista di quella precedente.

Oltretutto, grazie alle nuove possibili alleanze, Netanyahu molto probabilmente si libererà degli alleati più imbarazzanti, del calibro dell’l’ex-ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman.

Un cambiamento significativo nella probabile ridefinizione della destra israeliana è l’assenza di figure dominanti che, oltre a Lieberman, includono anche l’ex-ministro dell’Educazione Naftali Bennett e l’ex-ministra della Giustizia Ayelet Shaked.

Tutto il protagonismo di Bennett e Shaked, che recentemente hanno fondato un nuovo partito chiamato “La Nuova Destra”, non ha neppure raccolto i voti sufficienti per raggiungere la soglia richiesta per vincere almeno un seggio nel parlamento israeliano, la Knesset. Ci voleva il 3,25% dei voti, ma hanno ottenuto solo il 3,22%. Entrambi sono rimasti esclusi.

La sconfitta della coppia infame è decisamente rivelatrice: i simboli dell’estrema destra israeliana non soddisfano più le aspettative dell’elettorato estremista israeliano.

Adesso si è spalancato il sipario ai partiti ultra-ortodossi, lo “Shas”, che ora ha otto seggi, e “United Torah Judaism”, con sette seggi, per contribuire a definire la nuova normalità in Israele.

La sinistra israeliana – se mai ha meritato questo nome – ha ricevuto il colpo definitivo: il partito Laburista, una volta predominante, ha vinto solo sei seggi.

D’altra parte i partiti arabi che hanno partecipato alle elezioni del 2015 sotto l’insegna unitaria della “Lista di coalizione”, si sono ancora una volta frammentati, raggiungendo in totale solo 10 seggi.

La perdita di tre seggi rispetto alle precedenti elezioni può essere in parte attribuita a programmi di fazione o personali. Ma ciò difficilmente spiega in modo esaustivo la massiccia caduta della partecipazione araba al voto nelle elezioni: il 48% rispetto al 68% nel 2015.

Questo record di bassa partecipazione si spiega solo con la legge razzista dello Stato-Nazione, che il 19 luglio 2018 è stata approvata dalla Knesset dominata dalla destra. La nuova legge fondamentale ha dichiarato Israele “lo Stato-Nazione del popolo ebraico” ovunque, relegando i diritti, la storia, la cultura e la lingua del popolo palestinese, mettendo invece in rilievo tutto quello che è ebraico, rendendo l’autodeterminazione nello Stato un diritto esclusivo solo degli ebrei.

È probabile che questa tendenza continui, in quanto le istituzioni politiche israeliane non offrono più neppure un margine simbolico di vera democrazie e di corretta rappresentanza.

Ma forse la lezione più importante che si può trarre all’indomani di queste elezioni è che nell’Israele di oggi l’occupazione militare e l’apartheid sono state interiorizzate e normalizzate come realtà indiscusse, che non meritano neppure un dibattito nazionale. Soprattutto questo dovrebbe ottenere la nostra immediata attenzione.

Durante la campagna elettorale, nessun partito importante ha parlato di pace, tanto meno ha proposto una visione complessiva per raggiungerla. Nessun politico importante ha chiesto lo smantellamento delle colonie ebraiche illegali, edificate su terra palestinese in violazione delle leggi internazionali.

Cosa ancor più importante e significativa, nessuno ha parlato della soluzione dei due Stati.

Per quanto riguarda gli israeliani, la soluzione dei due Stati è morta. Mentre ciò è vero anche per molti palestinesi, l’alternativa israeliana non è certo la coesistenza in uno Stato democratico e secolare. L’alternativa israeliana è l’apartheid.

Netanyahu e il suo futuro governo di coalizione di estremisti che la pensano allo stesso modo sono ora inequivocabilmente in possesso di un mandato popolare per rispettare tutte le loro promesse elettorali, compresa l’annessione della Cisgiordania.

Oltretutto, con una coalizione di destra imbaldanzita e legittimata, probabilmente la prossima estate assisteremo anche ad un notevole aumento della violenza contro Gaza.

Prendendo in considerazione tutto questo, dobbiamo comprendere che le politiche illegali di Israele in Palestina non possono essere e non saranno contrastate all’interno della società israeliana.

La sfida e la fine dell’occupazione israeliana e lo smantellamento dell’apartheid possono avvenire solo attraverso la resistenza palestinese all’interno e la pressione esterna che è centrata sulla strategia del Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).

Spetta ora alla comunità internazionale rompere questo circolo vizioso israeliano ed appoggiare il popolo palestinese nella sua lotta continua contro l’occupazione, il razzismo e l’apartheid israeliani.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, UCSB.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’infinita guerra di Gaza: quel che Netanyahu spera di guadagnare attaccando i prigionieri

Ramzy Baroud

11 aprile 2019, Ma’an News

Le violenze che stanno prendendo di mira i detenuti nelle prigioni israeliane sono iniziate il 2 gennaio. E’ stato allora che il ministro israeliano della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan ha dichiarato che “la festa è finita”.

“Ogni tanto compaiono esasperanti fotografie di detenuti che cucinano nei bracci riservati ai terroristi. Questa festa sta per finire”, questa la citazione di Erdan sul Jerusalem Post.

Quindi la cosiddetta Commissione Erdan ha raccomandato diverse misure volte a porre termine alla presunta “festa”, che hanno incluso la limitazione dell’uso dell’acqua per i prigionieri, il divieto di cucinare nelle celle e l’installazione di dispositivi di disturbo per bloccare il presunto utilizzo di telefoni cellulari fatti entrare illegalmente.

In particolare quest’ultima misura ha suscitato l’indignazione dei detenuti, poiché quei dispositivi sono stati messi in relazione a forti emicranie, svenimenti ed altri sintomi protratti.

Erdan ha fatto seguire alla sua decisione la promessa di “usare tutti i mezzi a disposizione (di Israele)” per controllare qualunque protesta dei prigionieri in risposta alle nuove restrizioni.

Il Sistema Penitenziario Israeliano (SPI) “continuerà ad agire con estrema durezza” contro “sommosse” nelle carceri, ha detto, come riportato dal Times of Israel.

Quella “estrema durezza” è stata dispiegata il 20 gennaio nel carcere militare di Ofer vicino a Ramallah, in Cisgiordania, dove una serie di incursioni israeliane ha provocato il ferimento di oltre 100 prigionieri, molti dei quali mostravano ferite da proiettile.

Anche le prigioni di Nafha e Gilboa sono state bersaglio degli stessi metodi violenti.

I raid sono proseguiti, causando ulteriori violenze nel carcere di Naqab il 24 marzo, questa volta da parte delle forze dell’SPI note come unità Metzada.

Metzada è una squadra dell’SPI “per operazioni speciali di recupero ostaggi” ed è nota per le sue tattiche molto violente contro i prigionieri. Il suo attacco a Naqab ha provocato il ferimento di molti prigionieri, di cui due in condizioni critiche. I prigionieri palestinesi hanno reagito, secondo quanto riferito, pugnalando due agenti penitenziari con oggetti acuminati.

Il 25 marzo sono stati compiuti altri raid simili, sempre da parte di Metzada, che hanno riguardato le prigioni di Ramon, Gilboa, Nafha e Eshel.

In risposta, la leadership dei prigionieri palestinesi ha adottato diverse misure, compreso lo scioglimento dei comitati di regolamentazione e di ogni altra forma di rappresentanza dei detenuti all’interno delle prigioni israeliane.

Il decentramento delle azioni palestinesi nelle prigioni israeliane renderà molto più difficile per Israele controllare la situazione e consentirà ai prigionieri di attuare qualunque forma di resistenza che ritengano adeguata.

Ma perché Israele sta provocando questi scontri, quando i prigionieri palestinesi sono già sottoposti alla più orribile esistenza e a numerose violazioni del diritto internazionale?

E, altrettanto importante, perché adesso?

Il 24 dicembre il primo ministro Benjamin Netanyahu, sotto attacco, ed altri leader del governo israeliano di destra hanno sciolto la Knesset (il parlamento) e indetto elezioni anticipate per il 9 aprile.

Una delle migliori strategie per i politici israeliani in periodi come questo è normalmente aumentare le ostilità contro i palestinesi nei Territori Occupati, compresa la Striscia di Gaza assediata.

E’ senza dubbio esploso un festival dell’odio, che ha coinvolto molti dei principali candidati di Israele, alcuni dei quali hanno invocato la guerra contro Gaza, altri il dare una lezione ai palestinesi annettendo la Cisgiordania, e così via.

Solo una settimana dopo l’annuncio della data delle elezioni sono iniziati i raid nelle prigioni. Per Israele, è stato come un esperimento politico in totale sicurezza e sotto controllo. Le immagini video delle forze israeliane che picchiano sventurati prigionieri, accompagnate da dichiarazioni rabbiose rilasciate da alti ufficiali israeliani, hanno catturato le fantasie di una società militante decisamente di destra.

E questo è esattamente ciò che è inizialmente successo. Tuttavia, il 25 marzo una fiammata di violenza a Gaza ha condotto ad una guerra circoscritta e non dichiarata.

Una vera e propria guerra israeliana contro Gaza sarebbe un grave azzardo in un periodo elettorale, soprattutto perché eventi recenti indicano che il tempo delle guerre facili è finito. Mentre Netanyahu ha vestito i panni del leader decisionista, molto determinato a schiacciare la resistenza di Gaza, in realtà le sue opzioni sul terreno sono molto limitate.

Anche dopo che Israele ha accettato i termini mediati dall’Egitto del cessate il fuoco con le fazioni di Gaza, Netanyahu ha continuato a usare parole dure.

“Posso dirvi che siamo pronti a fare molto di più”, ha detto, riferendosi all’attacco israeliano a Gaza, in un discorso video inviato ai suoi sostenitori a Washington il 26 marzo.

Ma per una volta non ha potuto farlo e questo insuccesso, da un punto di vista israeliano, ha dato fiato agli attacchi verbali dei suoi rivali politici.

Netanyahu ha “perso la presa sulla sicurezza”, ha proclamato il capo del partito ‘Blue and White’ Benny Gantz.

L’accusa di Gantz è stata solo un altro insulto in una montagna di simili attacchi al vetriolo che mettono in dubbio la capacità di Netanyahu di controllare Gaza.

Infatti, un sondaggio condotto dal canale TV israeliano Kan il 27 marzo, ha rilevato che il 53% degli israeliani ritiene che la risposta di Netanyahu alla resistenza di Gaza sia “troppo debole”.

Impossibilitato a contrattaccare con maggiore violenza, almeno per ora, il governo Netanyahu ha reagito aprendo un altro fronte, questa volta nelle prigioni israeliane.

Attaccando i prigionieri, soprattutto quelli legati ad alcune fazioni di Gaza, Netanyahu spera di inviare un messaggio di forza e di rassicurare il suo nervoso elettorato sulla propria prodezza.

Consapevole della strategia israeliana, il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha messo in relazione il cessate il fuoco alla questione dei prigionieri.

“Siamo pronti a qualsiasi scenario”, ha detto Haniyeh in una dichiarazione.

In verità, la guerra di Netanyahu e Erdan contro i prigionieri palestinesi è folle e impossibile da vincere. E’ stata scatenata sul presupposto che una guerra di questo genere avrebbe rischi limitati, dato che i prigionieri sono, per definizione, isolati e incapaci di controffensiva.

Al contrario, i prigionieri palestinesi hanno dimostrato senza alcun dubbio la propria tenacia e capacità di trovare modi di resistenza all’occupante israeliano nel corso degli anni. Ma, cosa ancor più importante, questi prigionieri non sono affatto isolati.

Di fatto, i quasi 6000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane rappresentano una parvenza di unità tra i palestinesi che trascenda le fazioni, le politiche e l’ideologia.

Considerando l’impatto diretto della situazione nelle prigioni israeliane sulla psicologia collettiva di tutti i palestinesi, qualunque ulteriore mossa avventata da parte di Netanyahu, Erdan e dei loro sgherri del Sistema Penitenziario Israeliano avrà come risultato una più ampia resistenza collettiva, una lotta che Israele non può soffocare facilmente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Ma’an News Agency.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, UCSB.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 26 marzo – 8 aprile 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, nel contesto delle manifestazioni della “Grande Marcia di Ritorno” (GMR), quattro palestinesi, tra cui due minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane e altri 1.456 sono rimasti feriti.

Tre dei quattro, tra cui due ragazzi 17enni, sono stati uccisi sabato 30 marzo, giornata anniversario sia del “Giorno della Terra” che dell’inizio, un anno fa, delle manifestazioni [per la GMR]. Il quarto uomo, ferito durante le manifestazioni, è morto tre giorni dopo. La mattina del 30 marzo, in un episodio non collegato alle manifestazioni della GMR, un altro uomo è stato colpito e ucciso vicino alla recinzione perimetrale.

Sempre nella Striscia di Gaza, per imporre [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [stabilite da Israele] sia alle aree lungo la recinzione perimetrale [lato interno a Gaza] che a quelle di mare, le forze israeliane, in almeno 27 occasioni non legate agli eventi della GMR, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori, senza provocare feriti. In altre quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale. In altri due episodi, cinque palestinesi, tra cui tre minori, sono stati arrestati mentre tentavano di infiltrarsi in Israele.

In Cisgiordania, in due operazioni di ricerca e arresto, le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi [di seguito il dettaglio]. Un paramedico volontario palestinese 18enne è stato ucciso dalle forze israeliane il 27 marzo, con arma da fuoco: il giovane era in servizio nel Campo Profughi di Duheisheh, a Betlemme, mentre si svolgeva un’operazione militare. Secondo fonti palestinesi, nell’area interessata all’uccisione non erano in corso scontri. Il secondo palestinese, 24enne, è stato ucciso dai soldati israeliani il 2 aprile, nelle vicinanze del Campo Profughi di Qalandiya; qui erano scoppiati scontri tra palestinesi e l’esercito israeliano durante operazioni di ricerca-arresto. Nel contesto di questi due episodi sono stati feriti, con armi da fuoco, altri quattro palestinesi, tra cui due minori.

Ancora in Cisgiordania, in altri scontri, per lo più conseguenti a operazioni di ricerca-arresto e proteste, sono stati feriti dalle forze israeliane 304 palestinesi, tra cui 239 minori [78,6%]. Nel complesso, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 169 operazioni di ricerca, otto di esse hanno provocato scontri nel corso dei quali sono stati feriti undici palestinesi [dei 304 riportati sopra]. I palestinesi arrestati sono stati 197, tra cui quindici minori. Il governatorato di Gerusalemme ha registrato il maggior numero di tali operazioni. In due distinti episodi, il 7 e l’8 marzo, nell’area a controllo israeliano della città di Hebron (zona H2), le forze israeliane, a quanto riferito facendo seguito al lancio di pietre da parte di minori palestinesi, hanno sparato bombolette lacrimogene all’interno di un complesso scolastico; come risultato 225 studenti e 35 insegnanti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno. Altri otto palestinesi sono rimasti feriti durante scontri scoppiati nel contesto di diverse proteste: in commemorazione del “Giorno della Terra”e durante la protesta settimanale contro la violenza dei coloni e contro l’espansione degli insediamenti colonici nel villaggio di Al Mughayyir (Ramallah) e nell’area della Valle del Giordano. Complessivamente, il 90% delle lesioni sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche (o perché colpiti dalle bombolette contenenti il gas); il 7% da proiettili di gomma; il 2% da armi da fuoco.

Il 3 aprile, vicino al raccordo stradale di Beita (Nablus), un colono israeliano della colonia Elon Moreh ha aperto il fuoco per tre volte, ferendo due palestinesi. Uno dei due, un 23enne, è morto più tardi in ospedale; secondo Organizzazioni per i Diritti Umani, il giovane, quando è stato colpito, stava lanciando pietre contro veicoli israeliani. L’altro ferito palestinese è stato colpito mentre lavorava nella sua bottega situata nella zona. Non sono stati segnalati ferimenti di israeliani.

Altri undici attacchi da parte di coloni israeliani hanno provocato lesioni o danni a proprietà palestinesi. Tre degli episodi hanno visto la vandalizzazione di 35 ulivi nei villaggi di Buring e Yanun (entrambi a Nablus) e 400 alberi e alberelli in terreni privati del villaggio di Deir Jarir (Ramallah). Nel villaggio di Ras Karkar (Ramallah), coloni israeliani hanno distrutto, su terreno di proprietà privata, un edificio parte di un progetto agricolo; il danno causato ricade su nove persone. Un ragazzo palestinese è rimasto ferito e quattro veicoli sono stati vandalizzati in cinque distinti episodi di lancio di pietre da parte di coloni a Ya’bad (Jenin), e nei villaggi di Al Mughayyir, Beitin e An Nabi Salih (tutti a Ramallah). Vicino al villaggio di Jibiya (Ramallah), i componenti di una famiglia di tre persone, tra cui una ragazza di 17 anni, sono stati feriti da coloni mentre si stavano recando sui loro terreni. Nella città di Beit Hanina (Gerusalemme Est), coloni hanno forato le gomme di 15 veicoli ed hanno spruzzato scritte su veicoli e muri delle case; danneggiate 15 famiglie, per un totale di 75 persone. Nel 2019, OCHA [Office for the Coordination of Humanitarian Affairs] ha registrato 104 episodi in cui coloni israeliani hanno ucciso o ferito palestinesi o hanno danneggiato proprietà palestinesi (compresi oltre 2.500 alberi): un incremento del 53% del numero di episodi rispetto al corrispondente periodo del 2018.

I media israeliani hanno riferito di nove episodi di lancio di pietre, da parte di palestinesi, contro veicoli di coloni israeliani; non sono state riportate vittime, ma sono state danneggiati cinque veicoli.

A Gerusalemme Est, in sei diverse località, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite dieci strutture, sfollando nove palestinesi e colpendo i mezzi di sostentamento di altri 83. Delle dieci strutture demolite, cinque erano abitative e sono state autodemolite dagli stessi proprietari che avevano ricevuto ordini definitivi di demolizione; secondo quanto riferito, per evitare di incorrere in ulteriori multe. In Cisgiordania, dall’inizio del 2019, complessivamente, sono state demolite o sequestrate dalle autorità israeliane 145 strutture.

In concomitanza con le elezioni nazionali israeliane, il 9 aprile, le autorità israeliane hanno imposto ai Territori Palestinesi occupati la chiusura di un giorno. Il valico commerciale di Kerem Shalom e il passaggio pedonale di Erez con la Striscia di Gaza sono stati chiusi, fatta eccezione per i casi urgenti autorizzati. In Cisgiordania la chiusura ha comportato il divieto di accesso in Gerusalemme e in Israele per tutti i detentori di documento di identità della Cisgiordania e titolari di regolari permessi di ingresso rilasciati da Israele; è stata fatta eccezione per il personale ONU, delle Ong e per il personale diplomatico.

Il 1° aprile, le autorità israeliane hanno esteso a 15 miglia nautiche la zona di pesca permessa [ai palestinesi] lungo la parte meridionale della costa di Gaza: la più ampia consentita dal 2000 ad oggi. Lungo le aree settentrionale e centrale l’accesso rimane limitato a 6-12 miglia nautiche. Si prevede che l’ampliamento aumenterà il volume e la qualità del pescato.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, controllato dall’Egitto, è stato aperto per sei giorni in entrambe le direzioni e per quattro giorni in una direzione. Sono entrate a Gaza 3.267 persone e ne sono uscite 3.393.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it