Khan al-Ahmar: come stanno veramente le cose.

Angela Godfrey-Goldstein

+972 Magazine, 18 dicembre 2018

Negli ultimi mesi i media hanno raccontato mille volte la storia di Khan al-Ahmar. Ma il modo in cui è stata raccontata è pieno zeppo di equivoci. Ecco la vera storia del tormentato villaggio.

Il villaggio di Khan al-Ahmar, che ospita 193 Beduini palestinesi e una scuola, è sotto la minaccia molto seria e imminente di demolizione e di trasferimento forzato da parte delle autorità israeliane. Israele vuole toglier di mezzo Khan al-Ahmar per facilitare il suo piano di sviluppo “E-1”, che prevede 3.910 unità abitative per Israeliani e oltre 2.000 camere d’albergo e che dovrebbe collegare la colonia israeliana di Ma’ale Adumim con Gerusalemme Est. Intorno a questo blocco sarebbe poi costruito il muro di separazione, completando la “giudeizzazione” di tutta Gerusalemme e compromettendo la fattibilità di uno stato palestinese.

Negli ultimi mesi i media hanno raccontato mille volte la storia di Khan al-Ahmar, da quando la Corte Suprema israeliana ha dato il permesso di demolizione. Da quel momento, gli attivisti si sono preparati a dar battaglia contro quella che sembrava una demolizione imminente. Poi, col montare della pressione internazionale, il governo israeliano ha sospeso la demolizione. Ma il modo in cui questa storia è stata raccontata è pieno zeppo di equivoci.

Equivoco n° 1: La Corte Suprema ha ordinato l’evacuazione e la demolizione.

Questa falsa notizia è stata diffusa dal primo ministro Netanyahu che ha detto: “Questa è una decisione della Corte, questa evacuazione e demolizione è la nostra linea e sarà messa in atto.” In realtà, la Corte Suprema israeliana ha dichiarato che, poiché quelle strutture non hanno i dovuti permessi, possono essere demolite se così decide il governo, mentre i Beduini non possono essere trasferiti con la forza se decidono di non spostarsi.

Fino ad ora, i Beduini hanno respinto ogni “offerta” di essere trasferiti vicino a una discarica di rifiuti oppure vicino a un impianto di trattamento dei liquami. La vicenda non interessa soltanto i pochi Beduini di Khan al-Ahmar, poiché decine di migliaia di Palestinesi sono ora minacciati di demolizioni nell’Area C della Cisgiordania (che è totalmente sotto il controllo militare di Israele) e la decisione a Khan al-Ahmar potrebbe avere conseguenze negative per loro.

Equivoco n° 2: I Beduini di Khan al-Ahmar hanno costruito illegalmente su terreni dello Stato.

La frequente affermazione che i Beduini avrebbero costruito illegalmente su terreni dello stato (a partire dagli anni 1950) ignora il fatto che quelle terre sono proprietà privata di Palestinesi che stanno ad Anata. Questo equivoco è stato favorito dall’esercito israeliano che, all’inizio dell’anno, ha emesso nei confronti di questi stessi proprietari delle ordinanze provvisorie di esproprio per la costruzione di strade di servizio che dovevano agevolare la demolizione di Khan al-Ahmar. L’avvocato dei Beduini, Tawfiq Jabareen, ha detto alla Corte che la procedura di esproprio per quei terreni era stata avviata negli anni 1970, ma non era mai stata formalizzata, deducendo quindi che la proprietà era rimasta ai Palestinesi.

Quanto alle abitudini dei Beduini, malgrado un comune pregiudizio, si deve sapere che non sono nomadi. I Beduini del Negev erano tradizionalmente dei proprietari terrieri che si spostavano in modo quasi-nomade sulle loro terre deserte, ma fu loro impedito di conferire i loro terreni alla “Israel Land Authority” il 95% del territorio di Israele è di pubblico dominio; essere “proprietario” significa affittarne una parte da questa Authority per periodi di 49 o 98 anni, NdT. Sono stati quindi accusati di occupare abusivamente le loro stesse terre e sono soggetti ad esserne rimossi, in ossequio al mito di una terra senza popolo. L’avvocato Jabareen, inoltre, ha presentato al comitato per il piano edilizio dell’esercito una mappa giordana in cui la destinazione d’uso della zona è descritta come “terra deserta,” ciò che –secondo le leggi territoriali dell’area– non richiederebbe permessi di costruzione.

Equivoco n° 3: I residenti di Khan al-Ahmar si mostrano irragionevoli.

Niente di più falso. I Beduini di Khan al-Ahmar hanno presentato un progetto di massima in cui propongono di spostarsi più lontano dall’autostrada, ma le autorità israeliane si sono rifiutate di esaminarlo. Una delle motivazioni secondo cui Khan al-Ahmar dovrebbe essere distrutto è proprio il fatto che si trova troppo vicino all’autostrada.

Dopo la costruzione della scuola nel 2009, nel 2012 i Beduini di Khan al-Ahmar hanno spontaneamente trasferito il campo giochi e il blocco dei bagni in concomitanza con la costruzione dell’autostrada: un ingegnere stradale aveva promesso di spostare la strada in modo che non fosse troppo vicina alla scuola, cosa che non è mai avvenuta.

Secondo molti resoconti, i residenti di Khan al-Ahmar si dimostrano “irragionevoli” perché rifiutano di spostarsi di solo 200 metri, ma in realtà questa è un’offerta che non è mai stata fatta. I Beduini hanno studiato la possibilità di spostare il villaggio con tutte le sue case di 500 metri, ma un’autostrada pianificata da Israele impedisce questo spostamento, oltre al fatto che la proprietà dei terreni in cui spostarsi sarebbe problematica.

La presenza dei Beduini a Khan al-Ahmar garantisce attualmente la continuità tra Gerusalemme Est e il resto della Cisgiordania, rendendo–a parere di molti­– gli stessi Beduini i guardiani della soluzione a due stati. La demolizione del villaggio e il trasferimento forzato degli abitanti in un’area di sviluppo urbano configurerebbe non solo dei potenziali crimini di guerra (un’ipotesi che è attentamente seguita dal procuratore della Corte Penale Internazionale), ma metterebbe anche a forte rischio di estinzione la cultura del deserto dei residenti.

Angela Godfrey-Goldstein è la condirettrice di Jahalin Solidarity.

https://972mag.com/khan-al-ahmar-setting-record-straight/139270/

Traduzione di Donato Cioli

A cura di AssopacePalestina




Il dibattito fra destra e sinistra in Israele è sulla velocità della colonizzazione, non su come concluderla

Jonathan Ofir

13 dicembre 2018 Mondoweiss

Bibi, è tempo di divorziare dai palestinesi” dice uno striscione dell’organizzazione dei sionisti liberali Comandanti per la Sicurezza di Israele, ora anche nella loro home page sul web, dopo essere stato sui manifesti di tutta Israele.

L’organizzazione, sostenuta dall’ex primo ministro Ehud Barak, ha promosso una campagna simile l’anno scorso, con cartelloni pubblicitari in arabo con i colori palestinesi e con dei palestinesi che dicono “saremo presto la maggioranza”.

Manifestano un gusto davvero particolare, o piuttosto la mancanza di esso, per essere gli espedienti che dovrebbero avere presa sui cervelli nazionalisti israeliani – ed è molto importante sottolineare che questo non è il sionismo di destra, questi sono la sinistra e il centro.

L’organizzazione, che sostiene la “separazione” unilaterale dai palestinesi, ha iniziato la recente campagna la scorsa settimana con video trasmessi da un canale Youtube, “Israele israeliano”, presumibilmente un’etichetta privata, intesa a sottolineare una tendenza sionista ultra-nazionalista. Il logo presenta la parodia di una foto di matrimonio, strappata a metà. La serie di video contiene clip (ebraiche) di mezzo minuto di persone che si suppone parlino delle loro vite private. Ad esempio uno recente (di ieri), riprende un uomo intorno ai 30 anni, che dice:

“Sto cercando di ricordare quando è stata l’ultima volta che siamo stati bene insieme. Cerco, cerco, cerco e non ci riesco. Penso al nostro futuro e vedo solo nero, e sono stanco di tutto questo … stanco! Questa non è la vita che voglio. Non voglio la mediazione, non voglio consulenze, non c’è nessuno a cui parlare! Voglio la libertà, voglio vivere, e non voglio più aspettare – voglio divorziare “.

Poi appare una diapositiva che dice “è ora di divorziare e separarsi da milioni di palestinesi”, rivelando il nome dell’organizzazione (Comandanti per la Sicurezza di Israele) e invitando a visitare il sito web.

Tutti i video seguono fondamentalmente questo schema, con l’ultima frase “Voglio divorziare” e la promozione della campagna.

La visione – Bantustan, con un appaltatore

In una recente intervista con il conduttore televisivo Avri Gilad, uno dei leader dell’organizzazione, Uzi Arad, ex capo dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, ha esposto la visione del gruppo e ha detto che sperano che la campagna possa “risvegliare la consapevolezza” delle persone. L’idea è che il concetto di uno Stato “ebraico e democratico” sia minacciato – una minaccia demografica. L’intera discussione è centrata sull’ipotesi di annessione dell’area C della Cisgiordania, che comprende oltre il 60% dell’area e circonda 165 enclave palestinesi in un arcipelago bantustanizzato. La zona C sotto pieno controllo israeliano è un progetto degli accordi di Oslo della metà degli anni ’90. I sostenitori principali della sua immediata annessione sono persone come il ministro della Giustizia Ayelet Shaked e il ministro dell’Istruzione Naftali Bennett (entrambi ebrei), a destra di Netanyahu. Queste aree ospitavano circa 300.000 palestinesi in un conteggio ONU del 2014, probabilmente oggi vicini a 350.000. Shaked dice che Israele può permettersi di “assorbire” questa popolazione.

Nell’intervista con Gilad, Arad afferma che l’annessione dell’area C avrà implicazioni disastrose. Fa menzione di diverse questioni che ritiene centrali in questo “divorzio”, e del perché l’annessione danneggerebbe Israele:

1) Il “tasso di natalità” dei palestinesi (2:58).

2) Le “tensioni continue”, perché “la parte palestinese ‘si agiterà’ in seguito all’annessione”.

Gilad risolve l’ultimo argomento suggerendo che forse, quando quei palestinesi avranno la cittadinanza israeliana, si “calmeranno”. Arad risponde che “allora Israele sarà meno ebreo”.

Questo è ciò che circola. È una preoccupazione centrale dei sionisti: il massimo di territorio, ma con il minimo di palestinesi – proprio come dice Yair Lapid, un parlamentare “liberale di centro”.

Quindi Gilad presenta scenari spaventosi, confutando la presunta “soluzione a due Stati”:

“Qual è l’opzione? Dare loro uno Stato in quella zona, nelle loro zone, e allora le masse vi si precipitano, tutti i possibili profughi palestinesi e simili, Hamas prende il sopravvento, i razzi sull’aeroporto – questa è più o meno la sceneggiatura, no?”

Contro simili teorie da giorno del giudizio, a cui sono molto inclini Gilad e i sionisti in generale, Arad sembra disperatamente in cerca di un confortante messaggio di “sicurezza”. Così assicura:

“È chiaro che Israele ha bisogno di mantenere un controllo di sicurezza su tutta l’area, e una situazione come quella che suggerite non si può realizzare”.

Arad sta suggerendo che a causa di questa “separazione”, l’Autorità Nazionale Palestinese “fiorirà e prospererà”. In altre parole, la Bantustanizzazione continuerà, con un appaltatore.

“Separare il bianco dal tuorlo”

“Separazione” è ora una parola chiave per i sionisti liberali. Recentemente, il leader dell’opposizione centrista Tzipi Livni ha paragonato la separazione tra israeliani e palestinesi alla “separazione tra il tuorlo e il bianco” di un uovo, per fare “una buona torta”.

Le persone che fanno parte del cartello di Comandanti per la Sicurezza di Israele hanno sostenuto questa “separazione” anche per “salvare la Gerusalemme ebraica”. Due anni fa, in un video islamofobico e spaventosamente razzista, il Movimento per la Salvezza di Gerusalemme Ebraica ha suggerito uno scenario in cui i residenti palestinesi di Gerusalemme est vanno a votare in massa ed eleggono un sindaco palestinese. Questo è essenzialmente lo stesso allarme di Netanyahu, “gli arabi stanno andando a votare in massa”, alla vigilia delle ultime elezioni, però è pronunciato da persone che generalmente si identificano come il “campo della pace”. Il concetto della clip è che i terroristi arabi useranno la democrazia israeliana come un’arma. La soluzione è quindi di isolare i 28 villaggi palestinesi della Cisgiordania che Israele ha annesso come parte di Gerusalemme est (espandendo i confini municipali di dieci volte dal 1967), mantenendo però tutti gli insediamenti ebraici nell’area, al fine di migliorare la “giudaizzazione” della Grande Gerusalemme. Il gruppo comprende Shaul Arieli, uno dei principali negoziatori dei Colloqui di Ginevra, e Ami Ayalon, ex capo dello Shin Bet [servizi segreti israeliani, ndtr.] e parlamentare del Partito Laburista che con Sari Nusseibeh ha lanciato nel 2003 un’iniziativa di pace a due stati. Entrambi sono stati importanti nella costituzione di Comandanti per la Sicurezza di Israele.

In altre parole, più o meno tutto ciò che viene dai sionisti, di destra e di sinistra, riguarda sempre l’apartheid, ed è sempre spaventosamente razzista.

Il “campo della pace” sionista non può catturare l’attenzione di coloro che stanno nel loro gruppo o più a destra, con altro mezzo che la volgarità, per “risvegliare la consapevolezza” – la consapevolezza sionista, che una massa di arabi stia minacciando lo Stato ebraico. Il sionismo non ha una soluzione per questo, perché i suoi aderenti non riescono a trovare in se stessi nemmeno la capacità di concepire una separazione dal sionismo. I discorsi sul “divorzio dai palestinesi” sono ipocriti fin dall’inizio, tanto per cominciare perché non è che Israele li abbia “sposati”. Allo stesso modo, la soluzione del “divorzio” non è una vera e propria separazione in cui ognuno va per la propria strada, ma una separazione in cui Israele continua il controllo coloniale e la sottomissione dei palestinesi “divorziati”. L’intrinseco squilibrio razzista non viene mai preso in considerazione.

La “piaga” dei matrimoni misti

Si potrebbe anche avere l’impressione che la campagna sul “divorzio” sia solo un eufemismo per un problema schiettamente nazionale e impersonale. Eppure echeggia una generale vena isolazionista sionista che entra fin nell’intimo della vita privata degli individui, e questo da sinistra e dal centro del sionismo.

All’inizio di quest’anno, l’ex leader della sinistra e dell’opposizione, Isaac Herzog, ha ammonito che i matrimoni misti, specialmente negli Stati Uniti, sono una “piaga”. Come reazione a un recente matrimonio tra ebrei e musulmani famosi, Tzahi Halevy e Lucy Aharish, il menzionato “centrista-liberale” Yair Lapid si è lamentato solo del fatto che le condanne del matrimonio (dei principali ministri israeliani) non fossero state riservate a una settimana dopo il matrimonio; nel 2014, Lapid ha risposto ad un altro presunto “matrimonio misto” (supposto, perché la donna si era convertita all’Islam e l’uomo era musulmano), dicendo:

“Mi darebbe fastidio se mio figlio sposasse un non ebreo … Mi darebbe molto fastidio.”

Dunque c’è qui un aspetto personale molto concreto, di isolazionismo fondamentalista, molto sionista. I “pacifisti” usano la nozione privata di “divorzio” come metafora, perché sanno che “risveglierà la consapevolezza” degli israeliani (leggi = in maggioranza ebrei), visto che li immaginano come fossero, Dio non voglia, sposati ai palestinesi (leggi = i non ebrei).

In questo atteggiamento mentale i palestinesi sono considerati con intrinseca e istituzionale ripugnanza da parte dello Stato colonialista di Israele. E nessuno di quei sionisti illuminati si preoccupa davvero di come questo rappresenti i palestinesi, perché tutto è per il sacro ideale del sionismo: la “separazione”. Perché abbiamo bisogno di essere una nazione a sé, nella “nostra terra”, come dice l’inno nazionale.

Il dibattito sulla velocità dell’ espansione

Alla fine, non c’è proprio niente di nuovo. Tutto ciò è molto in stile Barak, come quando nel 2000 Ehud Barak fece una “offerta (apparentemente) generosa” ai palestinesi, che era poi quella dei bantustan. Storicamente le lotte tra il sionismo di destra e quello di sinistra sono sempre state non tanto su uno Stato palestinese accanto a Israele, ma sulla velocità e il ritmo con cui l’espansionismo debba procedere. Un fattore essenziale è sempre la demografia ebraica, esistenzialmente importante per i sionisti, perché l’ambita e presunta natura “ebraica e democratica” dello Stato avrebbe potuto essere raggiunta solo attraverso l’espulsione e le varie forme di apartheid. Anche il “processo di pace” ha avuto un ruolo fondamentale. Come Ben White riassume nel suo recente articolo su The Arab Weekly:

“Perciò, mentre il decennio di potere del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha visto il consolidamento di uno Stato di fatto unico tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, sono stati gli accordi di Oslo e la visione di Rabin sulla separazione a gettare le basi per l’ attuale status quo di apartheid ”.

Mentre Comandanti per la Sicurezza di Israele sta ammonendo sulle terribili conseguenze dell’annessione dell’Area C, Israele è impegnato in una lenta e continua pulizia etnica di quell’area. B’tselem, l’ONG israeliana che vigila sui diritti umani, ha una pagina dedicata permanente, con un blog dal vivo chiamato “affrontare l’espulsione”:

“Migliaia di persone – residenti in decine di comunità palestinesi situate nell’Area C, in Cisgiordania – si trovano ad affrontare un’imminente espulsione da parte delle autorità israeliane in base a un mucchio di pretesti”.

E’ così che Israele si impegna attivamente a “risolvere il problema demografico”. Mentre il centrosinistra dice che l’annessione non è una soluzione, non è così per quel che riguarda la destra e la logica sionista nel suo complesso. Anche le “non soluzioni” dei sionisti fanno parte della strategia sionista. Sulla scia della guerra del 1967, il ministro della Difesa Moshe Dayan propose di dire ai palestinesi:

“Non abbiamo una soluzione, continuerete a vivere come cani, chi vuole se ne andrà, e vediamo come funziona questa procedura”.

Questo è essenzialmente il modo di fare di Israele, che sposta i palestinesi, li espropria e crea insediamenti come “dati di fatto sul campo” per “giudaizzare” i territori in cui si espande. Tutto questo è “Sionismo 101” [programma di brevi video documentari che spiegano il sionismo, ndtr.]. La preoccupazione “liberale-sionista” riguarda sempre la velocità a cui si dovrebbe procedere, e quali soluzioni, o non soluzioni, siano accettabili in un dato momento.

Ecco perché ho divorziato dal sionismo.

Mille grazie a Ofer Neiman

Jonathan Ofir è un musicista, conduttore e blogger / scrittore israeliano che vive in Danimarca.

(Traduzione di Luciana Galliano)




Israele reso furioso dal premio francese per i diritti umani

Adri Nieuwhof

14 dicembre 2018, Electronic Intifada

La Francia ha insignito Al-Haq e B’Tselem [due organizzazioni per i diritti umani, una palestinese e l’altra israeliana, ndtr.] con il prestigioso “Premio della Repubblica Francese per i Diritti Umani”.

Ciò è avvenuto nonostante le pesanti pressioni da parte di Israele sul governo francese perché togliesse il riconoscimento alle due associazioni che documentano i crimini di guerra e i soprusi israeliani contro i palestinesi.

Tuttavia la ministra della Giustizia francese Nicole Belloubet ha ceduto alle pressioni e si è rifiutata di partecipare alla cerimonia di premiazione a Parigi lo scorso lunedì [10 dicembre, ndtr.].

Il gruppo della lobby franco-israeliana CRIF ha scritto a Belloubet sostenendo che i due vincitori “chiedono il boicottaggio di Israele,” ed ha affermato che per il ministero della Giustizia francese dare loro il premio “anche in assenza della ministra è un insulto alla giustizia.”

Nel suo discorso di ringraziamento il direttore esecutivo di B’Tselem Hagai El-Ad ha definito “isterica” la risposta del governo israeliano.

El-Ad ha detto che il tentativo israeliano di esercitare pressioni su dirigenti francesi “dimostra la situazione in cui lavoriamo: propaganda, menzogne e minacce da parte di un governo che crede che far tacere e nascondere consentirà ulteriori violazioni dei diritti umani.”

Il direttore di Al-Haq, Shawan Jabarin, ha detto ad Electronic Intifada che il premio è un riconoscimento per il lavoro del suo gruppo in un periodo in cui l’organizzazione è presa di mira da una campagna di calunnie da parte di Israele.

La cerimonia di premiazione del 10 dicembre ha coinciso con il settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e il ventesimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti umani.

Risposta furiosa

Israele ha risposto con ira all’annuncio che la Francia stava per assegnare il prestigioso premio alle due associazioni.

“La Francia consegna il suo riconoscimento più prestigioso a B’Tselem e Al-Haq, che accusano Israele di apartheid, ci delegittimano a livello internazionale, difendono il terrorismo e sostengono il BDS,” ha affermato Michael Oren, vice ministro israeliano per i rapporti diplomatici.

BDS sta per Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni – una campagna palestinese non-violenta per rendere Israele responsabile delle violazioni dei diritti dei palestinesi, sul modello del vincente movimento internazionale di solidarietà che contribuì a porre fine all’apartheid in Sud Africa.

L’ambasciata di Israele in Francia ha twittato di essere “scioccata” per il premio ed ha asserito che Al-Haq sarebbe legata al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un partito politico e un’organizzazione di resistenza che Israele definisce gruppo “terroristico”.

La ministra della Cultura di Israele Miri Regev ha detto che B’Tselem e i suoi membri dovrebbero “vergognarsi”, descrivendo il premio come un “simbolo di disonore”.

La viceministra degli Esteri israeliana Tzipi Hotovely ha definito il premio “deplorevole” ed ha chiesto al governo francese di ripensarci.

Hotovely ha sostenuto che anche il primo ministro Benjamin Netanyahu ha manifestato la sua opposizione durante un incontro con il presidente francese Emmanuel Macron.

Chiudere spazi

Il direttore di Al-Haq Shawan Jabarin ha parlato con Electronic Intifada all’Aia, pochi giorni prima di recarsi a Parigi per la cerimonia di premiazione.

Ha detto che il premio arriva in un momento in cui Israele sta “cercando di chiudere gli spazi” per il lavoro a favore dei diritti umani.

Il riconoscimento francese, ha detto, significa per Al-Haq ancor di più perché “giunge nello stesso giorno del settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.”

Jabarin ha affermato che il premio è stato assegnato “alle vittime in Palestina” ed è “un riconoscimento dei loro diritti.”

Ma ha ammonito che le vittime hanno bisogno di molto più di un riconoscimento simbolico.

“La Francia deve agire in base ai propri impegni,” ha detto, in riferimento ai trattati internazionali sui diritti umani che ha firmato.

Momento di agire

A settant’anni dalla Nakba – l’espulsione dei palestinesi – e dopo 51 anni di occupazione militare della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ha detto Jabarin, “niente è cambiato, la situazione si sta aggravando, l’occupazione si sta approfondendo, come le sofferenze.”

Il messaggio di Jabarin al governo francese è che “se vuole davvero la pace in Palestina e altrove, deve agire.”

Jabarin ha affermato che, per cambiare la situazione, ci devono essere sanzioni contro Israele, compreso il divieto di commercio dei prodotti delle colonie e un embargo sulle armi.

Gli europei non dovrebbero “lasciare che i criminali viaggino nei loro Paesi,” ha aggiunto Jabarin.

“Se i criminali non pagano il prezzo dei loro crimini, non c’è modo che ripensino o cambino le loro azioni e le loro politiche.”

La CPI propende per la narrazione israeliana?

Jabarin ha anche manifestato delusione nei confronti della Corte Penale Internazionale, che dal 2015 sta portando avanti un “esame preliminare” dei possibili crimini di guerra israeliani contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

“È passato molto tempo,” ha detto Jabarin.

Un esame preliminare è il primo passo nel procedimento della Corte per decidere se aprire un’inchiesta formale, che può poi portare a imputazioni e a un processo.

Ma mentre un esame preliminare è portato avanti ogni volta che viene presentata una richiesta di deferimento, esso è a tempo indefinito e può continuare per anni, a discrezione del procuratore generale.

Benché la procuratrice generale, Fatou Bensouda, lo scorso aprile abbia messo in guardia i dirigenti israeliani che potrebbero dover affrontare un processo per l’uccisione di palestinesi disarmati nella Striscia di Gaza durante la Grande Marcia del Ritorno, la Corte non ha iniziato un’inchiesta formale.

Le “vittime, il popolo che sta soffrendo, non possono più attendere,” ha detto Jabarin. “Questa istituzione deve agire in base al suo mandato e non occuparsi della questione da un punto di vista politico.”

Jabarin ha definito deludente l’ultimo rapporto annuale sullo stato di avanzamento.

Il rapporto afferma che “la procura intende completare l’esame preliminare il prima possibile,” ma non fornisce nessuna data limite.

Jabarin ha descritto il rapporto come “confuso” nell’uso di terminologia e concetti giuridici. Teme che la procuratrice si sia spostata “verso la narrazione israeliana.”

Ma vede “qui e là segnali positivi.”

Spera che la procuratrice si muova rapidamente per aprire un’inchiesta formale e “persegua i criminali e successivamente emetta mandati di arresto.”

“Confido nella professionalità e nell’indipendenza della procuratrice,” ha detto Jabarin. “Il mio messaggio a lei è che il tempo passa e le sofferenze continuano. È il momento di intervenire.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Gli israeliani non vogliono ascoltare ciò che ho da dire’

Edo Konrad

14 dicembre 2018, +972

Nei mesi scorsi le autorità israeliane, insieme ai coloni estremisti, hanno trasformato Guy Hirschfeld in una specie di nemico pubblico a causa del suo attivismo nella Valle del Giordano. In un’intervista Hirschfeld parla della costruzione della solidarietà con i palestinesi, del perché il suo atteggiamento sfrontato lo ha trasformato in un obbiettivo e se le cose stanno peggiorando per gli attivisti di sinistra.

Che cosa si prova ad essere un bersaglio? Gli ebrei israeliani dissidenti e gli attivisti contro l’occupazione, in gran parte, sono stati abbastanza fortunati da evitare questa domanda per anni. Mentre le autorità israeliane hanno avuto pochi scrupoli a reprimere i palestinesi che sfidano apertamente la dittatura militare israeliana nei territori occupati, agli ebrei israeliani la loro ira è stata ampiamente risparmiata.

Questo sta cominciando a cambiare. Dagli interrogatori dello Shin Bet [servizi israeliani per la sicurezza interna, ndtr.] alla frontiera, agli attacchi coordinati a danno di importanti attivisti contro l’occupazione, alla delegittimazione delle Ong di sinistra, le autorità stanno rendendo sempre più difficile la vita degli ebrei israeliani che si espongono. Per gli attivisti più conosciuti, gli attacchi personali sono esibiti come medaglie: la prova che mettere a nudo le crudeltà dell’occupazione serve davvero a qualcosa.

Poi ci sono attivisti come Guy Hirschfeld, che hanno poco da guadagnare a diventare un obiettivo. Nei mesi scorsi a volte si è avuta la sensazione che il quarantanovenne Hirschfeld fosse il nemico pubblico n. 1 per le autorità israeliane in Cisgiordania – e in particolare per i coloni. Hirschfeld, a lungo membro di Ta’ayush – un’associazione israelo-palestinese di volontari di base creata durante la seconda Intifada, ed uno dei pochi gruppi di israeliani che mettono sistematicamente a rischio la vita in solidarietà con i palestinesi – passa molte giornate ad accompagnare i pastori palestinesi nella Valle del Giordano, dove vengono regolarmente aggrediti dai coloni o dall’esercito.

Se l’orientamento ideologico di Hirschfeld lo ha reso un bersaglio, il suo atteggiamento sfrontato, spesso scioccante, non gioca a suo favore. Le sue abituali critiche ai soldati, che spesso sfociano in insulti personali, unite ad un’irriverenza provocatoria verso le norme convenzionali (si riferisce normalmente ai coloni ideologici negli avamposti come a “terroristi”) hanno fatto sì che venisse preso di mira. Da quando nel 2009 si è unito a Ta’ayush, Hirschfeld è stato arrestato o detenuto 60 o 70 volte – 25 solo quest’anno.

Hirschfeld è un facile bersaglio, ma il suo caso è esemplare di una più vasta repressione contro attivisti israeliani di base, che lottano accanto ai palestinesi nei territori occupati. Quella repressione si è manifestata due anni fa, quando un gruppo di estrema destra ha tentato di distruggere il veterano di Ta’ayush, e mentore di Hirschfeld, Ezra Nawi. Oggi che Nawi è decisamente meno attivo, Hirschfeld è diventato il principale obbiettivo della destra.

Invece di intimidirlo, le tattiche intimidatorie non hanno fatto che renderlo ancor più senza remore. Negli ultimi due anni i suoi followers su Facebook sono arrivati a 4.000, compresi alcuni dei soldati e dei poliziotti israeliani che lo affrontano sulle aride colline della Valle del Giordano. Lui tiene un’accurata documentazione di ogni sua interazione con le autorità e i coloni e, a parte tre arresti per possesso di marijuana (Hirschfeld è autorizzato a usare cannabis a scopo medico), le sue continue riprese video hanno fatto sì che i suoi persecutori non lo abbiano mai potuto accusare di aver commesso reati. È anche un modo efficace per mostrare al mondo ciò che succede ai palestinesi nel nord della Cisgiordania.

Nei mesi scorsi le autorità hanno incominciato a vessarlo in modi nuovi e con maggiore frequenza. Lo scorso mese i funzionari gli hanno revocato la patente e sequestrato l’automobile per possesso di marijuana (un giudice gli ha restituito la patente e la macchina ed ha redarguito la polizia per averlo preso di mira unicamente a causa delle sue idee politiche). Alcune settimane prima, Hirschfeld ha ricevuto una telefonata minacciosa da un agente perché aveva chiesto alle forze di sicurezza di non partecipare alla demolizione del villaggio di Khan al-Ahmar. All’inizio di dicembre è stato costretto a scusarsi pubblicamente dopo che un video lo aveva ripreso mentre arringava un soldato etiope-israeliano, nei confronti del quale è stato accusato di atteggiamento razzista.

“Voglio chiarire tutto”, ha detto Hirschfeld la settimana scorsa in un’intervista nel suo appartamento, che si trova in un moshav [comunità agricola cooperativa, ndtr.] appena ad ovest di Gerusalemme. “L’esercito mente. Io dico la verità. Se fosse il contrario, sarei stato mandato in prigione molto tempo fa. Ecco perché hanno bisogno di inventarsi le cose e trovare dei modi per fermarmi.”

L’esercito e i coloni la definiscono un criminale e un anarchico.

“Eppure vado ancora in giro liberamente. Com’è possibile? Non avete idea di quante volte sono stato arrestato ingiustamente da soldati o poliziotti. Durante gli interrogatori gli mostro le prove video che contraddicono il motivo del mio arresto – e mi lasciano andare.”

“Questo fa sì che alcuni soldati comincino a fare domande. Quando lo fanno – è l’ultima volta che li vedo. L’esercito si assicura che non ci siano contatti tra di noi da quel momento in poi. Non vogliono che facciano domande.”

Hirschfeld dice di non aver nulla da nascondere. Al contrario: dice che più è trasparente, meno ha di che preoccuparsi. “Credo nella legge e nell’ordine. Per questo faccio sempre in modo di non violare alcuna legge. Questo fa infuriare l’esercito.”

Non ha paura di essere il prossimo Ezra Nawi?

“Questo è il loro scopo. Ai loro occhi, io sono il nuovo Ezra.”

Hirschfeld ritiene che siano le sue relazioni con i palestinesi della Valle del Giordano, come anche il suo atteggiamento sfrontato, a fare infuriare soldati e poliziotti. Se si parla con lui abbastanza a lungo, si ha l’impressione che la solidarietà con i palestinesi sia solo uno dei suoi obiettivi. La quantità di tempo che impiega parlando – o urlando – ai membri delle forze di sicurezza israeliane trasmette un diverso messaggio: lui vuole tentare di educarli. “Io dico in faccia ai soldati la verità, che sono sfruttati e fregati. La verità dà fastidio.”

È stato il confronto con il soldato etiope all’inizio di questo mese che ha portato Hirschfeld a concludere che era il caso di cambiare atteggiamento. Nel video si vede Hirschfeld schernire il soldato che era in servizio in Cisgiordania, chiedendogli in modo retorico se scaricava la sua rabbia sui palestinesi a causa del razzismo che subiva in Israele. “Quell’esperienza mi ha insegnato che devo fare molta attenzione a come mi esprimo, ma la grande maggioranza dei soldati che portano avanti quotidianamente l’occupazione non provengono dai livelli più alti della società”, dice.

A volte lei esagera, forse è questo che fa arrabbiare tanta gente.

“Mi sono scusato per quel che ho detto, ma voglio chiarire una cosa: questa è la realtà in Israele. Qui non sono io quello che applica politiche razziste contro gli etiopi.”

“Voglio continuare a dimostrare a questi soldati che vengono usati da un sistema a cui non importa niente di loro. La realtà è che questi soldati sono burattini dei coloni radicali negli avamposti, che non sono niente altro che terroristi”, aggiunge. “La loro forma di terrorismo non ha bisogno di essere violenta; la loro semplice presenza è sufficiente per terrorizzare i palestinesi. Quando arriviamo noi, è più probabile che i coloni se ne vadano.”

La Valle del Giordano è spesso trascurata nelle discussioni sul destino dei territori occupati. La maggior parte degli israeliani non sa nemmeno che quella zona è sotto il governo militare -probabilmente in conseguenza del fatto che è scarsamente popolata, ha un numero relativamente piccolo di coloni, e dell’affermazione, tra i politici sionisti di entrambi gli schieramenti politici, che Israele non rinuncerà mai al controllo per la sicurezza su di essa.

Hirschfeld è convinto che la presenza di attivisti israeliani per i diritti umani nella Valle del Giordano non sia meno importante che nelle colline a sud di Hebron, dove Ta’ayush è attiva dai primi anni 2000. Nel 2016, dopo avere accompagnato per anni i palestinesi là, ha deciso che l’associazione doveva essere presente nella Valle del Giordano, una zona che lui dice stia subendo una pulizia etnica.

“Durante e dopo la guerra del 1967, Israele espulse decine di migliaia di palestinesi dall’area”, dice. “Oggi Israele sta cercando di rendere la vita insopportabile alla gente che è rimasta – per indurla ad andarsene.”

L’esercito israeliano distrugge sistematicamente le case ed altre strutture delle comunità di pastori palestinesi. Come dovunque nelle zone della Cisgiordania designate come area C, sotto pieno controllo militare israeliano [in base agli accordi di Oslo del 1993, ndtr.], è praticamente impossibile per i palestinesi ottenere permessi di costruzione. L’esercito ha dichiarato enormi appezzamenti di terreno “zone di addestramento”, quindi interdette ai pastori. I palestinesi sono privi di infrastrutture indispensabili come acqua corrente ed elettricità, mentre le vicine colonie sono collegate a tutti i servizi di base. Gli abitanti palestinesi subiscono arresti arbitrari e le loro attrezzature vengono spesso confiscate.

“Fanno di tutto per cacciarli via. Noi stiamo semplicemente cercando di aiutare queste comunità a sopravvivere.”

In che modo lo fate?

“Li accompagniamo ai loro terreni, li mettiamo in contatto con organizzazioni internazionali e per i diritti umani. Ci assicuriamo che l’esercito o i coloni non li disturbino quando portano le greggi al pascolo. Documentiamo tutto. Vogliamo dimostrare loro che esistono altri israeliani.”

“Ci sono anche situazioni più spinose. Per esempio, ci sono casi in cui l’esercito chiede a queste comunità di lasciare la zona in modo che (i soldati) possano fare addestramento. A volte lo fa senza dare il dovuto preavviso. Appena si presentano gli attivisti israeliani, tutto finisce. Dovete ricordare che l’occupazione è un’impresa criminale; nel momento in cui vi si fa luce, le autorità fanno molta più fatica a gestirla.”

Nonostante il suo disprezzo per le forze di sicurezza, Hirschfeld sa che spesso l’unico modo per garantire che le comunità palestinesi possano esercitare senza pericoli la pastorizia sta nel collaborare con l’esercito israeliano. “Non molto tempo fa ho ricevuto una telefonata da un comandante di battaglione che mi ha detto: ‘Stai facendo impazzire i miei soldati. Incontriamoci e parliamo.’ Allora ci siamo incontrati, dopodiché c’è stata una relativa tranquillità per alcuni mesi, almeno fino a quando si è insediato un nuovo comandante di divisione.”

I palestinesi che lavorano con Ta’ayush spesso si trovano a dover affrontare maggiori pressioni da parte delle autorità israeliane. Lei come si rapporta a ciò?

“Noi non ci rechiamo mai nelle comunità. Loro vengono da noi dopo che l’esercito, la polizia o i coloni iniziano ad angariarli. Cominciamo con qualche discorso di introduzione in cui io dico loro che le autorità cercheranno di convincerli a non lavorare con noi, specialmente all’inizio. Dico loro di dire all’esercito: ‘Noi saremmo felici che Ta’ayush non dovesse intervenire, ma abbiamo bisogno di un posto per pascolare.’ Noi diciamo loro che se riescono a superare quelle prime settimane, le molestie finiranno. A volte ci chiedono di smettere di intervenire. A volte insistono e alla fine hanno una possibilità di vincere. Al momento stiamo affrontando una situazione in cui le cose stanno peggiorando.”

Le aggressioni e le pressioni avvengono per lo più da parte dei coloni o delle autorità?

“Da tutti insieme. Recentemente abbiamo notato maggior collaborazione tra coloni, esercito e polizia. L’anno scorso è decisamente peggiorato.”

Le colonie israeliane nella Valle del Giordano risalgono agli anni ’70, ma recentemente vi sono più avamposti illegali popolati da coloni più giovani e più radicali.

“Attualmente vi sono circa 6.000 israeliani che vivono nella Valle del Giordano, per la maggior parte in colonie costruite negli anni ’70. Il governo intende incoraggiare la gente a spostarsi là per arrivare ad averne 10.000.”

“Non sappiamo chi sostiene finanziariamente questi avamposti (illegali persino in base alla legge israeliana), ma è chiaro che servono migliaia e migliaia di shekel [unità monetaria israeliana, corrispondente a un quarto di euro, ndtr.] per mantenerli e parte di quel denaro probabilmente proviene dai contribuenti israeliani. Scelgono la collocazione dell’avamposto in modo molto strategico, perché sanno che, dovunque decidano di stanziarsi, influenzeranno le comunità palestinesi intorno a loro.”

Lei li definisce terroristi. Perché sceglie questo termine?

“Impediscono agli allevatori di pascolare. Usano la violenza, uccidono il bestiame. Sono terroristi e l’esercito li protegge. Noi monitoriamo quegli avamposti fin dal giorno in cui sono stati creati.”

Ta’ayush è rimasta fedele ad un modello classico di organizzazione di base. Che cosa ha permesso al gruppo di rimanere attivo per così tanti anni?

“La dedizione, la fede nella giustezza della nostra strada e il fatto che siamo un po’ matti (ride). Siamo poche decine di persone che hanno fatto attivismo nelle colline del sud di Hebron e adesso nella Valle del Giordano. Lavoriamo entro i confini della legge e siamo decisi a proteggere la gente che ha bisogno del nostro aiuto. Se i palestinesi hanno bisogno di noi, molliamo tutto e andiamo.”

Vi sembra di essere in grado di spiegare la realtà che vedete in Cisgiordania all’israeliano medio?

“Io non ho più nessuna voglia di parlare agli israeliani. Loro non vogliono ascoltare quello che ho da dire. Non vogliono vederlo.”

Perché?

“Non sono capaci di fare i conti con la realtà. Gli israeliani non porranno fine all’occupazione. Probabilmente dovremo assistere a boicottaggi e pressioni internazionali perché essa finisca. In questo Paese c’è una mentalità da gregge e l’unico modo per superarla è attraverso la pressione dall’esterno.”

Le cose stanno andando peggio per gli attivisti di sinistra?

“Assolutamente. Oggi i coloni ideologici hanno preso il controllo dei corpi militari, stanno prendendo il controllo della polizia. Oggi sono loro che comandano, la loro ideologia è la legge del Paese.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Forze israeliane uccidono un adolescente durante scontri in Cisigordania

Maureen Clare Murphy

14 dicembre 2018, Electronic Intifada

Forze israeliane hanno sparato uccidendo un adolescente nel campo di rifugiati di Jalazone mentre l’esercito ha usato il pugno di ferro nella zona di Ramallah nella Cisgiordania occupata dopo 24 ore di violenza in cui due soldati e quattro palestinesi sono rimasti uccisi.

L’adolescente ucciso è stato identificato come Mahmoud Yousif Nakhla. Il ministero della Sanità della Cisgiordania ha detto che aveva 16 anni, ma secondo alcuni mezzi di informazione ne aveva 18.

L’agenzia di notizie palestinese Ma’an News ha affermato che l’adolescente è stato colpito da una distanza inferiore ai 10 metri e che alcuni soldati hanno cercato di nascondere il suo corpo. Secondo Ma’an paramedici palestinesi sono riusciti a recuperare il corpo di Nakhla solo dopo aver discusso con i soldati per più di 30 minuti.

Alcuni filmati della scena montati insieme mostrano soldati che trascinano e poi trasportano Nakhla, dopo di che fanno la guardia intorno a lui. Il video non sembra mostrare soldati che prestino le prime cure all’adolescente.

Nell’ultimo filmato del montaggio delle immagini Nakhla appare ancora vivo quando i medici palestinesi lo mettono su una barella e lo caricano su un’ambulanza. I media informano che Nakhla era in condizioni critiche quando è arrivato all’ospedale, dove è stato infine dichiarato morto.

Il campo profughi di Jalazone

Il campo profughi di Jalazone, nella parte centrale della Cisgiordania, si trova a soli 200 metri dalla colonia di Beit El, costruita da Israele in violazione delle leggi internazionali, che vietano a una potenza occupante di trasferire la propria popolazione civile nei territori che occupa.

I soldati di guardia alla colonia, finanziata da David Friedman, l’ambasciatore USA in Israele, vessano costantemente i minori del campo.

Negli ultimi anni le forze israeliane che sorvegliano Beit El hanno ucciso e ferito gravemente parecchi ragazzini palestinesi del campo di Jalazone.

Lo scorso anno soldati di una torre di guardia nei pressi di Beit El hanno ferito a morte Jassim Nakhla, 15 anni, e Muhammad Khattab, 17 anni, sparando contro una macchina che trasportava quattro minori ed era ferma sulla strada. Al momento della pubblicazione di questo articolo non è chiaro se Jassim Nakhla fosse un parente diretto di Mahmoud Nakhla.

Venerdì ci sarebbero stati altri due feriti da proiettili veri durante scontri tra le forze israeliane e i palestinesi nei pressi di Ramallah.

Secondo alcune notizie, venerdì pomeriggio un ragazzo palestinese di 17 anni sarebbe stato ferito in modo non grave dopo essere stato colpito al volto da un proiettile d’acciaio ricoperto di gomma durante scontri nel nord della Cisgiordania.

Venerdì le forze israeliane hanno anche aperto il fuoco contro un’ambulanza palestinese ad al-Bireh, nei pressi di Ramallah, la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania.

L’agenzia di notizie Ma’an ha informato che il soccorso medico stava portando un paziente all’ospedale quando i soldati israeliani del checkpoint di Beit El hanno aperto il fuoco contro l’ambulanza.

Sempre venerdì un soldato israeliano sarebbe stato gravemente ferito nell’avamposto militare nei pressi di Beit El dopo essere stato attaccato con una pietra e un coltello da un palestinese che poi è fuggito.

Secondo il “Palestine Prisoners Club” [Associazione dei Prigionieri della Palestina] anche gli uomini armati che hanno ucciso due soldati e ne hanno feriti altri due giovedì sono in fuga mentre l’esercito li ha cercati per il secondo giorno, e giovedì e nelle prime ore di venerdì ha arrestato più di 100 palestinesi in Cisgiordania.

La città di Ramallah è stata chiusa dall’esercito il giorno prima e lo è rimasta anche venerdì.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese venerdì 25 palestinesi sono rimasti feriti durante scontri con le forze israeliane ad al-Bireh, vicino a Ramallah.

Violenza dell’Autorità Nazionale Palestinese

Nel contempo venerdì, che ha segnato il 31mo anniversario della fondazione del partito avversario, Hamas, le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno aggredito dimostranti che protestavano contro i crimini israeliani e ne avrebbero feriti 5 e arrestati 15.

Il “coordinamento per la sicurezza” tra Israele e le forze dell’ANP gioca un ruolo fondamentale nel reprimere la resistenza palestinese contro l’occupazione militare israeliana.

Le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese si sono anche schierate per disperdere con la forza proteste seguite all’uccisione di Mahmoud Nakhla.

Le forze di sicurezza dell’ANP avrebbero anche arrestato il giornalista Abd al-Karim Museitaf mentre stava informando sulle proteste a Ramallah.

I coloni israeliani hanno continuato ad attaccare palestinesi sulle strade della Cisgiordania, compreso un padre che ha reagito con rabbia e frustrazione dopo che il veicolo su cui stava viaggiando con i suoi figli piccoli è stato colpito da una pietra.

L’uomo ha espresso il suo sdegno per il fatto che i suoi figli non hanno un futuro sotto l’occupazione e potrebbero essere uccisi in qualunque momento dagli israeliani.

Una madre palestinese è stata ferita a morte all’inizio di quest’anno in un attacco simile.

Giovedì notte un autista di autobus palestinese ha avuto il bulbo oculare rotto dopo essere stato picchiato da coloni che hanno usato tirapugni mentre stava lavorando nei pressi di Gerusalemme. Il fratello dell’uomo ha detto ai mezzi di comunicazione che l’autista, che lavora per una compagnia israeliana, “è stato aggredito in un incidente simile lo scorso anno, ma ha continuato a lavorare per mantenere la sua famiglia.”

Nel contempo venerdì almeno 60 manifestanti sono rimasti feriti da proiettili veri in quanto Israele ha continuato a utilizzare mezzi letali contro le dimostrazioni della Grande Marcia del Ritorno lungo il confine orientale di Gaza. Sette paramedici e un giornalista sarebbero rimasti feriti durante le proteste.

Finora quest’anno circa 300 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane.

Secondo il gruppo per i diritti umani “Al Mezan”, a Gaza, durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, 175 palestinesi sono stati uccisi dal loro inizio il 30 marzo, “compresi 34 minori, una donna, due giornalisti, tre paramedici e sei disabili, tra cui un minore.”

Circa altri 13.000 sono stati feriti durante le proteste, di cui più di 7.200 da proiettili veri.

Quest’anno sono stati uccisi dai palestinesi quindici israeliani.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Calo senza precedenti del numero di ebrei americani nei viaggi del “Diritto al ritorno” in Israele

12 dicembre 2018, Middle East Monitor

Questo inverno si è registrato un evidente calo del numero di ebrei americani partecipanti ai viaggi del “Diritto al ritorno” in Israele. Lo ha riferito Haaretz, definendo “senza precedenti” “una riduzione di questa ampiezza, non correlata alle condizioni di sicurezza”.

Dalla sua istituzione nel 1999, l’Organizzazione del Diritto al ritorno ha portato 500.000 giovani ebrei da tutto il mondo in viaggi gratuiti in Israele.

Secondo il giornale, che cita alcuni operatori che gestiscono il viaggio-tipo del Diritto al ritorno, la riduzione varia dal 20 al 50% – a seconda dell’operatore- rispetto alla stagione invernale (che va da dicembre a marzo).

Una spiegazione di questo calo suggerita dagli operatori turistici è che i numeri “potrebbero riflettere il fatto ben documentato che i giovani ebrei americani stanno diventando sempre più indifferenti nei confronti di Israele e sempre meno interessati a visitare il Paese, nonostante i viaggi siano gratuiti. Haaretz ha osservato come “recenti studi hanno mostrato che gli ebrei nati negli anni 2000, che sono in massima parte progressisti, si sentano meno legati a Israele dei loro genitori e dei loro nonni perché percepiscono le politiche del Paese come antitetiche ai loro valori”.

In particolare -ha aggiunto il giornale- essi citano il trattamento, da parte di Israele, dei Palestinesi e dei richiedenti asilo.

Proprio la settimana scorsa, una petizione “firmata da 1500 studenti ebrei – che chiede che Diritto al ritorno includa nel suo itinerario relatori palestinesi in grado di affrontare la realtà dell’occupazione- è stata consegnata ai direttori della Hillel [organizzazione internazionale che si rivolge agli studenti universitari ebrei, ndtr.] in più di 30 campus in tutti gli Stati Uniti.”

L’esclusione di voci di Palestinesi e di cittadini palestinesi di Israele dal Diritto al ritorno contrasta con i nostri valori fondamentali.” ha detto la petizione.

In un viaggio in Israele, noi dovremmo sperimentare la storia e la cultura del Paese, ma dovremmo anche sapere dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e ascoltare le voci di palestinesi che vivono sotto l’occupazione.”

(traduzione di Laura Forcella )




Da Marc Lamont Hill ai quaccheri, non è permesso criticare Israele

Jonathan Cook

Venerdì 7 dicembre 2018,Middle East Eye

Il licenziamento di Marc Lamont Hill da parte della CNN e l’indignazione nei confronti di Airbnb e dei quaccheri rivela una totale intolleranza verso le critiche

Per trent’anni il 29 novembre le Nazioni Unite hanno celebrato una giornata annuale di solidarietà con il popolo palestinese. Raramente questo avvenimento ha meritato anche solo un timido accenno da parte dei principali mezzi di comunicazione. Fino alla scorsa settimana.

Marc Lamont Hill, un illustre docente universitario statunitense e commentatore politico della CNN, si è ritrovato sommerso da uno tsunami di critiche per un discorso che ha tenuto alla sede ONU di New York. Ha chiesto la fine dello screditato modello di negoziati interminabili e futili di Oslo sul diritto dei palestinesi ad avere uno Stato – una strategia che è già ufficialmente arrivata a scadenza da due decenni.

Ha proposto di sviluppare al suo posto un nuovo modello di pace regionale basato su un solo Stato che offra uguali diritti a israeliani e palestinesi. Sotto una raffica di critiche secondo cui il suo discorso era antisemita, la CNN lo ha licenziato in tronco.

Il suo licenziamento ripropone recenti polemiche, ampiamente create ad arte per fronteggiare i tentativi da parte di alcune organizzazioni di prendere una posizione più concreta ed etica sul conflitto israelo-palestinese. Sia Airbnb, un sito per la prenotazione di alloggi, che il ramo britannico dei quaccheri, un insieme di movimenti religiosi cristiani, sono stati sommersi da grida di indignazione in risposta alle loro modeste iniziative. Lo scorso mese Airbnb ha annunciato che avrebbe tolto dal suo sito tutte le proprietà situate in Cisgiordania in colonie ebraiche illegali su territorio palestinese. Poco dopo, i quaccheri hanno dichiarato che si sarebbero rifiutati di investire in compagnie che traggano profitto dal furto israeliano di risorse palestinesi nei territori occupati.

Entrambe le iniziative sono pienamente in linea con le leggi internazionali, che vedono il trasferimento della popolazione di una potenza occupante in territori occupati – la fondazione di colonie – come un crimine di guerra. Di nuovo, come per Hill, le due organizzazioni sono state duramente colpite da reazioni ostili, comprese accuse di malanimo e antisemitismo, soprattutto da parte di importanti, presunti progressisti, rappresentanti di gruppi dirigenti ebraici negli USA e in Gran Bretagna.

Ciò che questi tre casi dimostrano è come l’antisemitismo si sia rapidamente esteso a comprendere persino forme estremamente limitate di critica contro Israele e di appoggio ai diritti dei palestinesi. Questa ridefinizione avviene nel momento in cui Israele è guidato dal governo più estremista ed ultranazionalista della sua storia.

Queste due tendenze sono collegate tra loro. I casi in questione rivelano anche la crescente aggressività di una politica identitaria emotiva che è stata ribaltata – depoliticizzata per schierarsi con il forte contro il debole.

Esseri umani inferiori

Delle tre “polemiche”, il discorso di Hill ha proposto la maggiore rottura con l’ortodossia occidentale su come risolvere il conflitto israelo-palestinese – o almeno un’ortodossia definita dagli accordi di Oslo a metà degli anni ’90. Quegli accordi disponevano che, se i palestinesi avessero atteso pazientemente, un giorno Israele avrebbe concesso loro uno Stato su meno di un quarto della loro patria. Circa 25 anni dopo, i palestinesi stanno ancora aspettando e nel frattempo la maggior parte del loro previsto Stato è stata divorata da colonie d’insediamento israeliane.

Nel suo discorso Hill ha messo la spoliazione dei palestinesi da parte del movimento sionista nella corretta prospettiva – sempre più riconosciuta da accademici ed esperti – in quanto progetto colonialista di insediamento.

Ha anche correttamente osservato che la possibilità di una soluzione dei due Stati, se mai sia stata realizzabile, è stata usurpata dalla determinazione israeliana a creare un solo Stato, che privilegia gli ebrei, su tutta la Palestina storica. Nella Grande Israele, i palestinesi sono destinati ad essere trattati come esseri umani inferiori. Hill osserva che la storia suggerisce che c’è solo una possibile soluzione etica a tali situazioni: la decolonizzazione, che riconosca la situazione esistente di uno Stato unico, ma insista su uguali diritti per israeliani e palestinesi.

Invece di sfidare Hill sulla logica inattaccabile del suo discorso, le critiche hanno fatto ricorso a dichiarazioni incendiarie. È stato accusato di utilizzare un linguaggio antisemita – quello utilizzato da Hamas – in riferimento ad un’azione internazionale per garantire “una Palestina libera dal fiume al mare.”

Con un doppio salto di falsa logica, Israele e i suoi sostenitori hanno sostenuto che Hamas utilizza la definizione [“dal fiume al mare”] per dichiarare la propria intenzione genocida di sterminare gli ebrei e che Hill ha ripetuto queste opinioni. Dani Dayan, console generale di Israele a New York, ha definito Hill “un razzista, un fanatico, un antisemita”, e ha paragonato le sue considerazioni a una “svastica dipinta di rosso”.

Ben Shapiro, un analista di Fox News, gli ha fatto eco, sostenendo che Hill ha chiesto “l’uccisione di tutti gli ebrei” nella regione. Allo stesso modo Seth Mandel, caporedattore del Washington Examiner [giornale e sito informativo conservatore, ndtr.] ha sostenuto che Hill avrebbe chiesto un “genocidio degli ebrei”.

Anche l’“Anti-Defamation League” [Lega contro la Diffamazione] (ADL), un’importante e teoricamente progressista organizzazione ebraica che sostiene di appoggiare un trattamento uguale per tutti i cittadini USA, ha stigmatizzato Hill sostenendo: “Queste richieste per [il territorio] ‘dal fiume al mare’ sono appelli a favore della fine dello Stato di Israele.”

Lo slogan del Likud “dal fiume al mare”

Di fatto l’espressione “dal fiume al mare” – in riferimento al territorio tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo – ha una lunga genealogia sia nel discorso israeliano che in quello palestinese. È solo un modo diffuso di riferirsi a una regione denominata un tempo Palestina storica.

Lungi dall’essere uno slogan di Hamas, è utilizzato da chiunque rifiuti la partizione della Palestina e sia a favore di uno Stato unico. Ciò include tutti i vari partiti dell’attuale governo israeliano.

In effetti lo statuto di fondazione del partito Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu prevede esplicitamente un Grande Israele che neghi ai palestinesi qualunque speranza di uno Stato. Utilizza esattamente lo stesso linguaggio: “Tra il mare e il Giordano ci sarà solo la sovranità israeliana.”

Persino dopo che lo statuto è stato modificato nel 1999, in seguito agli accordi di Oslo, esso ha continuato a invocare un Grande Israele, dichiarando che “il fiume Giordano sarà il confine orientale permanente dello Stato di Israele.”

Il modello israeliano di apartheid

La differenza tra la posizione di Hamas e del governo israeliano da una parte e di Hill dall’altra è che Hill propone uno Stato unico che tratti tutti i suoi abitanti come uguali, e non che fornisca l’assetto per la dominazione di un gruppo religioso o etnico sull’altro.

In breve, a differenza di Netanyahu e dei dirigenti israeliani, Hill rifiuta un modello di occupazione permanente e di apartheid. A quanto pare ciò, secondo la CNN e l’ADL , è un delitto passibile di licenziamento.

Invece la CNN ha a lungo avuto tra i suoi collaboratori l’ex senatore USA Rick Santorum, benché costui abbia sostenuto che il territorio dal fiume al mare è “tutta terra israeliana” e usi un linguaggio che suggerisce il genocidio dei palestinesi.

L’assurdità degli attacchi contro Hill dovrebbe essere evidente quando si consideri che molti dei recenti attori principali del processo di pace – dall’ex-primo ministro israeliano Ehud Barak all’ex-segretario di Stato USA John Kerry – hanno avvertito che Israele sta per diventare un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi.

Fanno questa previsione proprio perché una serie di governi israeliani ha categoricamente rifiutato di ritirarsi dai territori occupati.

Dato che sotto Donald Trump gli USA hanno abbandonato ogni prospettiva di uno Stato palestinese – realizzabile o meno –, Hill ha semplicemente evidenziato che il re è nudo. Ha descritto una verità che nessuno che possa cambiare la terribile situazione attuale sembra pronto a prendere in considerazione.

Diritto a resistere

Hill è stato anche accusato di antisemitismo perché appoggia metodi di pressione su Israele per porre fine alla sua intransigenza, che ha tenuto i palestinesi sotto occupazione per più di mezzo secolo.

Hill ha messo in evidenza il diritto di un popolo occupato a resistere al proprio oppressore, un diritto che tutte le capitali occidentali hanno ignorato e ora invariabilmente definiscono come terrorismo, persino quando gli attacchi dei palestinesi sono contro soldati israeliani armati che attuano un’occupazione militare.

Ma lo stesso Hill ha sostenuto una resistenza diversa, gandhiana, non violenta e una solidarietà con i palestinesi nella forma del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) – precisamente il tipo di proteste internazionali che contribuì alla decolonizzazione del Sudafrica.

Il boicottaggio trasformato in orco

Negli ultimi anni e sotto la pressione del governo israeliano, i sostenitori dell’occupazione israeliana e gli Stati occidentali hanno trasformato il BDS in orco. La sua fondatezza non viene più dibattuta. Non è presentato come strategia per porre fine all’occupazione e neppure come mezzo per fare pressione su Israele per rendere più liberale un’ideologia che sostiene la supremazia etnica della maggioranza ebraica sul quinto della popolazione israeliana che è palestinese.

Invece si dice che sia una prova di antisemitismo e sempre più, di conseguenza, di volontà genocida. Il fatto che il movimento BDS stia prendendo piede nelle università occidentali e sia stato accettato da un notevole numero di giovani ebrei antisionisti è semplicemente ignorato. Invece la tendenza crescente è di dichiararlo fuorilegge e di trattarlo come preludio al terrorismo.

Quindi il discorso di Hill è stato un attacco diretto ai confini silenziosi del dibattito pubblico, fermamente sorvegliati dai sostenitori di Israele e dagli Stati occidentali per evitare discussioni sensate su come porre fine all’occupazione israeliana e ribadire il diritto dei palestinesi alla dignità e all’autodeterminazione.

La ragione per cui è così importante per i sostenitori di Israele far tacere qualcuno come Hill è che fa riferimento a una palese contraddizione.

Il suo discorso si riferisce precisamente al fatto che il sionismo, l’ideologia dello Stato di Israele, è incompatibile con uguali diritti per i palestinesi nella loro patria storica. Implica che l’occupazione non sia un’aberrazione che ha bisogno di aggiustamenti, ma parte integrante della visione del movimento sionista di “ebraicizzare” la Palestina, della cancellazione della presenza palestinese in accordo con altri progetti di colonialismo di insediamento.

La prova che proteggere le aggressive ambizioni territoriali di Israele da esami più attenti sia il vero obiettivo delle critiche contro Hill – e non le preoccupazioni per una presunta ascesa di un “antisemitismo di sinistra” – è confermata dallo scalpore simile che ha circondato le iniziative veramente modeste prese dei quaccheri del Regno Unito e da Airbnb.

I quaccheri e gli investimenti etici

Alla fine dello scorso mese i quaccheri hanno annunciato che non investiranno più in nessuna impresa che tragga profitto dall’occupazione. L’iniziativa è parte della loro politica di “investimenti etici”, simile al loro rifiuto di investire nelle industrie degli armamenti e dei carburanti fossili.

I quaccheri rappresentano un piccolo gruppo di movimenti cristiani che ha storicamente aperto la strada in ogni epoca all’identificazione delle violazioni dell’etica.

Sono stati importanti nell’opposizione allo schiavismo negli USA e contro l’apartheid in Sudafrica, e hanno vinto il premio Nobel per la pace per il loro lavoro nel salvare ebrei e cristiani dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Ciò ha incluso l’organizzazione del” Kindertransport” [lett.: trasporto di bambini, ndtr.] che portò 10.000 minori, per lo più ebrei, in Gran Bretagna.

Quindi non c’è da stupirsi che prendano l’iniziativa – che altre chiese inglesi sono state troppo timorose ad adottare – di penalizzare le imprese che traggono profitto dalla sottomissione e oppressione dei palestinesi nei territori occupati.

In effetti, invece di criticare i quaccheri inglesi per il boicottaggio di queste industrie, ci si potrebbe giustamente stupire perché ci abbiano messo tanto tempo per agire. Dopotutto l’occupazione militare israeliana esiste – così come cresce la sua progenie maledetta, le colonie, – da più di cinquant’anni. Le sue terribili violazioni sono ben documentate.

Importare divisione

Ma neppure il fatto che i quaccheri abbiano più volte dimostrato di essere dalla parte giusta della storia ha scosso le certezze delle organizzazioni ebraiche britanniche nel denunciare la congregazione. La più importante è stato il Board of Deputies [Consiglio dei Deputati], che rivendica a gran voce per se stesso lo status di rappresentante della comunità ebraica in Gran Bretagna.

Proprio per questa ragione i suoi continui attacchi contro il leader del partito Laburista Jeremy Corbyn, accusato di antisemitismo, sono stati considerati attendibili dai mezzi di comunicazione britannici.

Ma il Board ha dimostrato la sua vera natura con la denuncia contro i quaccheri, insinuando che la loro posizione sia stata motivata non dall’etica ma dall’antisemitismo. Ignorando la lunga storia dei quaccheri nel prendere posizioni etiche, il nuovo presidente eletto Marie van der Zyl ha sostenuto che Israele è stato “preso espressamente di mira” e che la dirigenza dei quaccheri ha un approccio “ossessivo e con i paraocchi.”

Paradossalmente ha accusato i quaccheri di rifiutarsi di “affrontare i pregiudizi e di promuovere la pace nella regione.” Invece i leader dei quaccheri hanno “scelto di importare un conflitto divisivo nel nostro Paese.” Di fatto sono il Board e altre importanti organizzazioni ebraiche che hanno importato questa stessa divisione in Gran Bretagna e negli USA, legando esplicitamente la loro identità ebraica alle azioni del terribile colonialismo di insediamento israeliano. I quaccheri stanno mettendo in evidenza che in un conflitto in cui una parte, Israele, è notevolmente più forte, non ci può essere una soluzione finché la parte più forte non dovrà far fronte a una pressione concreta.

D’altra parte il Board vuole intimidire e mettere a tacere i quaccheri proprio perché Israele possa così continuare ad essere libero di opprimere i palestinesi e rubare la loro terra attraverso l’espansione delle colonie. Non sono i quaccheri che sono antisemiti. Sono le principali organizzazioni ebraiche come il Board of Deputies che sono indifferenti – o addirittura tifose– di fronte a decenni di brutalità israeliana verso i palestinesi.

Il ruolo di Airbnb nell’aiutare i coloni

Allo stesso modo Airbnb è stato bombardato da critiche quando ha promesso il passo ancora più limitato di togliere dal suo sito circa 200 proprietà che si trovano nelle colonie in Cisgiordania che violano le leggi internazionali. Anzi, alcune di queste sono costruite in violazione anche delle leggi israeliane, benché Israele non faccia assolutamente alcun tentativo di applicare tali leggi contro i coloni.

Fino a poco tempo fa era ampiamente ammesso che le colonie sono un ostacolo insuperabile nel risolvere il conflitto israelo-palestinese attraverso una soluzione dei due Stati. Oltretutto le colonie, era sottinteso, per garantirne la protezione ed espansione, richiedevano una violenza ancora maggiore contro la popolazione nativa palestinese.

In fin dei conti questa è proprio la ragione per cui le leggi internazionali vietano di trasferire la popolazione di una potenza occupante nei territori occupati.

Airbnb stava chiaramente aiutando questi coloni illegali, creando una maggiore convenienza economica per gli ebrei a vivere su terra palestinese rubata. Questa motivazione economica è stata fondamento secondario di un’azione legale presentata negli USA la scorsa settimana da famiglie di coloni che sostengono si tratti di “una discriminazione religiosa.”

In realtà la decisione dell’impresa di abbandonare la Cisgiordania è stata il minimo che ci si potesse aspettare da loro. Malgrado ciò, anche così hanno fatto in modo di escludere dalla cancellazione le colonie ebraiche nella Gerusalemme est occupata, benché costituiscano la maggior parte della popolazione di coloni ebrei che utilizzano Airbnb.

Il doppio standard dell’ADL

Nonostante la mossa di Airbnb sia stata debole e molto in ritardo, essa è stata ancora una volta definita antisemita da importanti organizzazioni ebraiche negli USA, non ultima l’ADL.

L’ADL sostiene di “garantire la giustizia e un trattamento equo per tutti i cittadini,” una delle ragioni per cui ha avuto un ruolo attivo nel lottare per i diritti civili dei neri americani nell’epoca delle leggi Jim Crow [regole che imponevano la segregazione razziale negli Stati del Sud, ndtr.]. Ma come molte altre importanti organizzazioni ebraiche, le sue azioni dimostrano che, quando si tratta di Israele, essa è in realtà guidata da un progetto tribale, etnico, piuttosto che universale e basato sui diritti umani.

Invece di accogliere positivamente l’azione di Airbnb, ancora una volta ha sfruttato e degradato il significato di antisemitismo per proteggere Israele dalla pressione affinché ponga fine ai continui soprusi nei confronti dei palestinesi e al furto delle loro risorse.

Ha accusato l’impresa di “doppio standard” per non aver applicato la stessa politica a “Cipro settentrionale, in Tibet, nella regione del Sahara occidentale e in altri territori in cui un popolo è stato espulso.” Come ha evidenziato il commentatore di Forward [storico giornale della comunità ebraica americana, ndtr.] Peter Beinart, questo argomento è quantomeno ipocrita: “Non è stato colpevole l’ADL di ‘doppio standard’ quando i suoi dirigenti hanno marciato per i diritti civili degli afroamericani ma non per gli indiani americani, i cui diritti civili non sono stati garantiti dalle leggi federali fino al 1968?”

Israele costantemente sotto esame

Ciò che questi tre casi evidenziano è che, proprio quando le pessime intenzioni di Israele verso i palestinesi sono diventate ancor più esplicite e trasparenti, lo spazio ufficialmente consentito per criticare Israele ed appoggiare la causa palestinese viene deliberatamente e aggressivamente ridotto.

In un’epoca di telefoni con la telecamera, notizie che scorrono per 24 ore e reti sociali, Israele si trova sottoposto come mai prima a un controllo accurato e quotidiano. La sua dipendenza di lunga data dall’appoggio colonialista, la sua fondazione basata sul peccato della pulizia etnica, il razzismo istituzionalizzato che la minoranza di cittadini palestinesi deve affrontare, la sfrontata brutalità e la violenza strutturale della sua occupazione durata 51 anni sono largamente comprese, più di quanto fosse possibile anche solo un decennio fa.

Ciò è avvenuto nello stesso momento in cui altre gravissime ingiustizie storiche – contro le donne, le persone di colore, i popoli indigeni e la comunità LGBT – sono state messe in evidenza con l’adozione di un nuovo tipo di politiche identitarie popolari.

Negare ciò che è lampante

Israele dovrebbe essere chiaramente messo dalla parte di chi sbaglia in questa storia, eppure i governi occidentali e le principali organizzazioni ebraiche lo stanno risolutamente aiutando a negare ciò che è lampante, ribaltando quindi la realtà.

Pochi anni fa solo i più fanatici sostenitori di Israele sostenevano apertamente che l’antisionismo equivalesse ad antisemitismo. Ora gli antisionisti e i movimenti di solidarietà come il BDS sono acriticamente identificati nel discorso generale non solo come antisemiti, ma anche implicitamente come forma di terrorismo contro gli ebrei.

Il diritto dei palestinesi alla dignità e alla liberazione dal dominio oppressivo di Israele è di nuovo subordinato al diritto di Israele a perseguire incontrastato il suo progetto di colonialismo di insediamento – di espellere e sostituirsi alla popolazione nativa palestinese.

Non solo questo, ma ogni forma di solidarietà con i palestinesi oppressi è identificata come antisemitismo, solo perché i dirigenti ebrei negli USA e in GB hanno un asso nella manica: il diritto superiore a identificarsi con il progetto di colonialismo di insediamento israeliano e a essere al riparo da ogni critica alla loro posizione.

In questa forma profondamente perversa di politica identitaria, i diritti dello Stato di Israele, che possiede armi nucleari, e dei suoi sostenitori all’estero sono diventati armi a danno dei diritti della debole, dispersa, colonizzata e marginalizzata comunità palestinese.

Per decenni i sostenitori di Israele hanno ammesso che Israele avrebbe potuto essere oggetto di quelle che hanno definito “critiche legittime”.

Ma le reazioni a Hill, ai quaccheri e ad Airbnb rivelano che in pratica non ci sono critiche a Israele che siano considerate legittime e che, quando si tratta delle sofferenze dei palestinesi, le uniche posizioni accettabili sono rassegnazione e silenzio.

Jonathan Cook, giornalista inglese che vive a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il “Martha Gellhorn Special Prize for Journalism”.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Spari mortali a Tulkarem: soldati israeliani feriscono mortalmente con un colpo alla testa da 80 metri di distanza Muhammad Habali (22 anni)

B’Tselem

11 dicembre

Martedì 4 dicembre 2018 verso mezzanotte circa 100 soldati israeliani hanno invaso la città di Tulkarem, in Cisgiordania. Alcuni di loro sono entrati in quattro case in zone diverse della città ed hanno fatto una breve perquisizione. Pochi giovani palestinesi si sono recati dove c’erano i soldati e gli hanno lanciato pietre. Le truppe hanno risposto con proiettili ricoperti di gomma e lacrimogeni.

A un certo punto durante la notte circa 30 soldati sono arrivati nella zona di via a-Nuzha, una strada che va da est a ovest nella parte occidentale di Tulkarem. Alcuni di loro si sono distribuiti lungo la strada a gruppi di tre o quattro. Gli altri sono entrati nel vicolo che si trova di fronte alla scuola superiore maschile “al-Fadiliyah” e hanno fatto irruzione in una casa. Più in là lungo la via, a circa 50 metri dai soldati, alcuni abitanti stavano fermi all’ingresso del ristorante a-Sabah e sulla strada adiacente. Uno di loro era Muhammad Habali, un ventiduenne del campo di rifugiati di Tulkarem con problemi mentali. Habali camminava avanti e indietro attraversando da un lato all’altro la strada.

Le riprese di quattro videocamere di sicurezza sistemate su tre diversi edifici lungo la strada mostrano che quella zona era assolutamente tranquilla e che non erano in corso scontri con i soldati.

https://www.btselem.org/video/20181211_killing_of_muhammad_habali_in_tulkarm#full

Presi insieme l’inchiesta di B’Tselem e questi video indicano che alle 2.25 del mattino un ufficiale e due soldati si sono diretti verso il ristorante a-Sabah e si sono fermati a circa 80 metri di distanza. Pochi secondi dopo i soldati hanno sparato quattro o cinque colpi verso i giovani che si trovavano davanti al ristorante e questi sono scappati. Habali, che nel video si vede mentre impugna un lungo bastone di legno – che aveva raccolto pochi minuti prima degli spari –, è stato l’ultimo ad andarsene. Dopo che aveva fatto alcuni passi, è stato colpito alla nuca da una distanza di circa 80 metri. Un altro proiettile ha colpito a una gamba M.H., di Tulkarem. Circa un minuto dopo gli spari, si vedono i tre soldati che si riuniscono agli altri nella zona e se ne vanno, senza fornire ad Habali o a M.H. una qualunque assistenza medica. Poi si sentono altri spari. Habali è stato portato all’ospedale a Tulkarem, dove è arrivato in stato di incoscienza, senza respirare e senza pulsazioni. I tentativi di rianimarlo sono falliti e poco dopo è stato dichiarato morto. M.H. è stato portato in ospedale su un’altra macchina e la radiografia ha mostrato un proiettile nella sua gamba sinistra.

K.A. (25 anni), un abitante di Tulkarem, si trovava nel vicolo di fronte al ristorante a-Sabah e stava guardando la scena. In una testimonianza rilasciata il 9 dicembre 2018 ha raccontato:

Stavo lì in piedi con altri ragazzi, compreso Muhammad Habali. Lo conoscevo. Aveva un bastone di legno in mano. Sapevamo che c’erano soldati nella zona. Poi, verso le 2.20, abbiamo visto tre soldati venire verso di noi. Abbiamo chiesto a Muhammad, che tutti chiamavano Za’atar, di tornare indietro perché avevamo paura per lui, di quello che sarebbe potuto succedere con i soldati lì. Ha fatto quello che gli abbiamo chiesto e ha cominciato ad andarsene. Improvvisamente abbiamo sentito uno sparo. I soldati che stavano venendo verso di noi avevano sparato.

Quando gli spari sono iniziati, ero all’inizio del vicolo di fronte al ristorante a-Sabah. Ci sono stati quattro o cinque spari, e uno di questi ha colpito Muhammad Habali. L’ho visto cadere in avanti e allora sono corso nel vicolo insieme ad altre persone. Poi i colpi sono cessati.

Sono corso fuori sulla strada ed ho gridato agli altri ragazzi di andare a prendere una macchina per poter portare via Habali. Sono stato il primo ad arrivare da lui. La sua testa stava sanguinando molto. L’ho preso per le spalle e l’ho trascinato per tre o quattro metri nel vicolo – facendo in modo che la sua testa non strisciasse per terra – perché avevo paura che i soldati gli sparassero di nuovo.

Dopo i colpi che hanno colpito Habali, ho sentito che sparavano in aria, ma non ho visto i soldati che hanno sparato.”

M.H., colpito a una gamba, ha ricordato in una testimonianza che ha concesso al ricercatore sul campo di B’Tselem Abulkarim Sadi il 4 dicembre:

Circa alle 2.30 ho visto tre soldati dirigersi a est dall’ingresso della scuola ‘al-Fadiliyah’ verso il posto in cui stavo con alcuni ragazzi. Hanno aperto il fuoco ed io ed altri ragazzi che stavano nei pressi dei caffè e del ristorante a-Sabah abbiamo cercato di scappare verso est.

Ho corso per circa 10 o 15 metri e improvvisamente ho sentito che qualcosa aveva colpito la mia gamba sinistra. Ho cominciato a sanguinare e ad avere una sensazione di formicolio. Ho cercato di nascondermi in una traversa per non essere colpito di nuovo. Ho chiamato alcuni ragazzi che erano lì vicino e uno di loro è arrivato e mi ha aiutato ad andare fino a una piazza vicina. Un uomo che stava passando con la sua macchina mi ha preso e portato al pronto soccorso dell’ospedale Thabet Thabet. Mi hanno fatto una radiografia alla gamba ed hanno trovato un foro d’entrata di un proiettile, ma non quello d’uscita, sotto il mio ginocchio sinistro. Ora sto aspettando in ospedale che mi tolgano la pallottola.

H.F., abitante di Tulkarem, è arrivato al ristorante per mangiare un boccone attorno alle 2.15. In una testimonianza rilasciata al ricercatore di B’Tselem Abdulkarim Sadi il 6 dicembre 2018 ha ricordato quello che è avvenuto dopo:

Stavo fuori sulla strada insieme ad altre persone a guardare i soldati. A un certo punto sono entrato al ristorante per ordinare del cibo. L’ho fatto andando fino all’ingresso quando ho sentito colpi di arma da fuoco. Mi sono girato e ho visto Muhammad Habali, noto come Za’atar, steso con la faccia a terra. Doveva essere stato colpito alla testa da un proiettile. L’ho filmato con il mio cellulare ed ho iniziato a chiamare gli altri ragazzi perché mi aiutassero a toglierlo dalla strada e a portarlo nel vicolo di fronte al ristorante, perché avevo paura che gli spari continuassero o che un’auto di passaggio potesse investirlo.

Quando ho osato fare un passo fuori, ho guardato verso i soldati che erano di fronte alla scuola “al-Fadiliyah” e li ho visti retrocedere verso piazza Khaduri. Ho sentito una serie di spari in aria. Dopo che i ragazzi si sono assicurati che i soldati se n’erano andati, hanno messo Muhammad Habali su una macchina. Sono andato in ospedale con lui, e in pochi minuti abbiamo raggiunto il pronto soccorso. I medici hanno cercato di dargli i primi soccorsi e di rianimarlo, ma era morto.

Dal posto in cui mi trovavo non ho visto nessun lancio di pietre prima che iniziassero a sparare. La gente stava solo lì in piedi a guardare i soldati che erano nei pressi della scuola “al-Fadiliyah”. Non so cosa stesse succedendo in altre parti della strada. Per quanto ne so là dei giovani potrebbero aver lanciato pietre o gridato contro i soldati.

Quando l’incidente è stato reso pubblico, l’esercito ha risposto sostenendo che nella zona “si erano determinati violenti disordini”, che “decine di palestinesi stavano lanciando pietre” e che i soldati “hanno risposto con mezzi per il controllo della folla e poi con proiettili veri.” Le riprese e le testimonianze dirette raccolte da B’Tselem da parte di persone che si trovavano nei pressi di Habali non mostrano assolutamente nessun indizio di una qualche manifestazione violenta, del lancio di pietre o dell’uso di mezzi per controllare la folla. Al contrario: si vedono i soldati camminare senza fretta, i palestinesi che parlano tra loro e poi i soldati che colpiscono a morte Habali alla testa da una distanza considerevole. Il colpo mortale non è stato preceduto da avvertimenti, non era giustificato e costituisce una violazione della legge.

I mezzi di comunicazione hanno anche informato che l’esercito ha iniziato un’inchiesta dell’Unità Investigativa della Polizia Militare (MPIU) riguardo a quanto avvenuto. Però, nonostante il suo nome, il “sistema di applicazione delle leggi militari” non fa indagini su avvenimenti in cui i soldati abbiano ucciso palestinesi, con l’obiettivo di nascondere la verità. Non lavora in modo da chiedere conto alla catena di comando responsabile delle uccisioni o per evitare che questi casi si ripetano. Il sistema intende principalmente salvare le apparenze e far tacere le critiche, in modo che i soldati possano continuare ad usare una forza letale senza pagare nessun prezzo per le loro azioni.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Esternalizzare l’occupazione

Rod Such

29 Novembre 2018, The Electronic Intifada

The Privatization of Israeli Security by Shir Hever, Pluto Press (2017)

[“La privatizzazione della sicurezza in Israele”] di Shir Hever, Pluto Press (2017)

“La privatizzazione della sicurezza in Israele” di Shir Hever è uno studio sullo sviluppo di imprese private militari e per la sicurezza iniziato in Israele negli anni ’90 e che continua tuttora. Questa tendenza presenta implicazioni per il futuro sia riguardo all’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza che al movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni.

Ricercatore di economia e autore di The Political Economy of Israel’s Occupation [“L’economia politica dell’occupazione israeliana] (2010), Hever si basa sul lavoro del politologo Neve Gordon, soprattutto sul libro di Gordon Israel’s Occupation (2008) [“L’occupazione israeliana”, Diabasis, Parma, 2016] e sulla più recente analisi del complesso militare industriale di Israele dell’antropologo Jeff Halper nel suo libro War Against the People (2015) [“La guerra contro il popolo”, Ed. Epoké, Novi Ligure, 2017]. Tuttavia, a differenza di questi studi, Hever si concentra in particolare sulla privatizzazione.

Tra il 1994 e il 2006 cinque grandi industrie belliche di proprietà del governo israeliano vennero vendute a imprenditori privati. Durante lo stesso periodo gli strateghi del governo svilupparono il concetto di “centro versus periferia”, in cui immaginavano che il governo conservasse il possesso delle funzioni fondamentali dell’esercito esternalizzando al contempo le responsabilità considerate marginali, come l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza.

Hever ammette che la sua conclusione più discutibile è che, in seguito agli accordi di Oslo del 1993, la dirigenza politica israeliana abbia esternalizzato all’Autorità Nazionale Palestinese l’occupazione, che è stata una funzione centrale dell’esercito israeliano. Riconosce la difficoltà di definire l’ANP come un’impresa privata. Oltretutto nota che l’esercito israeliano inizialmente si oppose all’esternalizzazione dell’occupazione all’ANP ed ha sistematicamente tentato di screditarla come alleato di Israele in materia di sicurezza.

Forze delegate

Hever sostiene che la creazione dell’Esercito del Libano del Sud nel 1979, poco dopo l’invasione israeliana del 1978 e la successiva occupazione del Libano meridionale, ha posto le basi per la successiva decisione di “esternalizzare l’occupazione” in Palestina. L’ELS era una forza delegata da Israele destinata a far apparire che la popolazione libanese appoggiasse l’occupazione israeliana. Israele addestrava, armava e pagava segretamente i soldati e gli ufficiali dell’ELS.

Benché Hever noti che l’ELS non era ufficialmente un’impresa, esso era come una compagnia privata militare e della sicurezza nella misura in cui i soldati al livello più basso dell’ELS “erano motivati dalle opportunità di lavoro piuttosto che dall’ideologia.”

L’ELS ha preparato la strada alla seconda fase dell’esternalizzazione della sicurezza da parte di Israele, rappresentata dalla creazione dell’ANP come parte degli accordi di Oslo e dall’assenso a dare all’ANP il ruolo limitato del mantenimento della sicurezza in alcune delle principali città della Cisgiordania.

Hever ammette che ci sono sostanziali differenze tra l’ELS e l’ANP, soprattutto che l’ELS mancava di legittimazione all’interno del Libano. Israele non ha finanziato l’ANP, né ha addestrato le forze della sicurezza palestinese; pertanto l’ANP ha goduto di un certo grado di legittimazione tra i palestinesi.

Tuttavia, essendo priva di potere sovrano, l’ANP è diventata inevitabilmente uno strumento dell’occupazione israeliana. Hever sostiene che questo era l’obiettivo originario dei dirigenti politici israeliani.

Però l’esercito israeliano non sopportava questa decisione politica ed ha resistito alla cessione della sua autorità su alcune città della Cisgiordania. Peccato che Hever non fornisca nessuna documentazione della sua affermazione, se non citando uno studio di Kobi Michael pubblicato in Militarism and Israeli Society [“Militarismo e società israeliana”] (2010).

Minacciato dall’esternalizzazione, scrive Hever, l’esercito israeliano “ha utilizzato la propria autorità professionale e le proprie capacità di produrre rapporti di intelligence per attaccare la legittimità dell’ANP agli occhi del governo israeliano ed esercitare pressioni sul governo israeliano per autorizzare l’uso di mezzi letali contro le forze dell’ANP.”

Di conseguenza l’ANP non è stata “completamente soggetta agli interessi israeliani e l’ANP ha perseguito politiche che configgevano direttamente con gli interessi israeliani,” scrive Hever, citando gli esempi dell’ANP che persegue il riconoscimento come Stato da parte delle Nazioni Unite e la sua decisione del 2009 di appoggiare il boicottaggio dei prodotti delle colonie israeliane.

Ciononostante Hever afferma che in Cisgiordania l’ANP svolge ancora per Israele funzioni relative alla sicurezza. E poiché l’ANP non ha né sovranità né deve dar conto al popolo palestinese, ha finito per giocare un ruolo di subappaltatore.

Occasionalmente questo ruolo è stato evidente, come quando prigionieri politici rilasciati da Israele sono finiti come prigionieri politici detenuti dall’ANP, portando al fatto che l’organizzazione sia vista da molti palestinesi come fornitrice di “servizi carcerari al governo di occupazione israeliano.”

Occupazione israelo-statunitense

Nel suo capitolo “Esternalizzare l’occupazione” Hever dimostra che l’esempio più ovvio della privatizzazione dell’occupazione è stato quando Israele ha contrattato compagnie private per gestire posti di blocco nella “zona di congiunzione”, le aree adiacenti alle colonie illegali israeliane o ai confini dell’armistizio del 1949 noti come Linea Verde.

Benché i posti di blocco a Gerusalemme continuino ad essere gestiti dalla polizia di frontiera israeliana e quelli provvisori – noti anche come “posti di blocco volanti” – continuino ad essere gestiti dall’esercito, la maggior parte dei checkpoint della zona di congiunzione è stata privatizzata.

La ragione di questa privatizzazione, afferma Hever, è proteggere il governo israeliano dalle critiche per ogni violazione dei diritti umani commessa ai posti di blocco privatizzati. Tuttavia questo argomento non è documentato da esempi.

Se questo è stato il motivo di Israele per evitare di essere considerato responsabile, lo scopo non è stato raggiunto. Molte delle più note uccisioni di palestinesi ai checkpoint continuano ad essere causate dai soldati e dalla polizia di frontiera e sono state rese pubbliche da osservatori di associazioni per i diritti umani.

Gli attivisti del BDS faranno tesoro delle informazioni nel capitolo “Dimensioni Globali della Privatizzazione della Sicurezza in Israele”, che include studi di caso dettagliati sui servizi di sicurezza privatizzati offerti a Israele da G4S e HP, entrambe imprese boicottate dal movimento.

Oltretutto Hever mostra come il crescente aiuto militare USA ad Israele abbia agito come incentivo per la privatizzazione.

La tendenza alla privatizzazione all’interno degli stessi USA, diventata lampante durante le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, ha influenzato anche i dirigenti israeliani.

Come gli USA, dove membri dell’esercito e dello spionaggio lasciano il lavoro nel settore statale e poi si spostano verso incarichi ben remunerati nelle imprese della sicurezza, la creazione di tali compagnie secondo Hever ha contribuito ad arricchire alti ufficiali dell’esercito israeliano che “hanno iniziato a passare in gran numero dagli enti della sicurezza statale a compagnie della sicurezza privata.”

La ricerca di Hever sottolinea la necessità di ulteriori campagne BDS che prendano di mira chi rende più facile l’occupazione e i finanziamenti da parte degli USA che arricchiscono così tante persone in quella che di fatto è l’occupazione congiunta israelo-statunitense della Palestina. Per gli attivisti che monitorano lo sviluppo di società che traggono profitti dall’occupazione il libro di Hever è una risorsa preziosa.

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Book” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 20 novembre – 3 dicembre 2018

Per la 36a settimana consecutiva sono continuate le dimostrazioni collegate alla “Grande Marcia di Ritorno”; 272 palestinesi sono rimasti feriti ad opera delle forze israeliane, ma non sono stati segnalati morti. Dei 272 feriti, 79 si sono avuti nella zona a nord di Beit Lahiya, durante manifestazioni di protesta contro le restrizioni imposte sulle zone di pesca. Fonti israeliane hanno affermato che in nessuna manifestazione sono stati lanciati aquiloni o palloncini incendiari e che non è stato fatto alcun tentativo di violare la recinzione.

Ancora in Gaza, al di fuori delle manifestazioni di cui sopra, in Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in almeno 31 casi, ferendo un minore che si era avvicinato alla recinzione perimetrale. Tre pescatori sono stati arrestati e il lavoro di sussistenza di contadini e pescatori palestinesi è stato interrotto. In due occasioni, le forze israeliane hanno effettuato lavori di spianatura del terreno e di scavo lungo la recinzione perimetrale, all’interno di Gaza.

Il 26 novembre, sulla strada principale prossima al villaggio di Beit Ummar (Hebron), un palestinese di 32 anni è stato colpito mortalmente dalle forze israeliane dopo che, a quanto riferito, aveva guidato il suo veicolo contro un gruppo di soldati dislocati sulla strada, ferendone tre. Il suo corpo è trattenuto dalle autorità israeliane. Secondo testimoni oculari palestinesi, si sarebbe trattato di un incidente automobilistico, mentre, secondo le fonti dei media israeliani, si sarebbe trattato di un attacco intenzionale. In Cisgiordania, dall’inizio del 2018, tredici palestinesi sono stati uccisi durante attacchi o presunti attacchi contro israeliani.

Sempre in Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, 41 palestinesi, tra cui otto minori, sono stati feriti da forze israeliane nel corso di numerose proteste e scontri. Di questi ferimenti, 34 sono stati registrati vicino al checkpoint di Huwwara (Nablus), durante le proteste contro la detenzione, da parte israeliana, del Governatore di Gerusalemme, membro dell’Autorità Palestinese, ed a Kafr Qaddum (Qalqiliya), nel contesto della protesta settimanale contro le restrizioni di accesso e contro l’espansione degli insediamenti colonici. Altri sette feriti si sono avuti durante gli scontri scoppiati in seguito a due operazioni di ricerca-arresto; durante il periodo di riferimento, sono state effettuate 176 di tali operazioni. Di tutti i ferimenti, 16 sono stati causati da proiettili di gomma e 21 da inalazione di gas lacrimogeno necessitante trattamento medico, o causati direttamente da bombolette lacrimogene.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 33 strutture di proprietà palestinese, incluse due strutture fornite come assistenza umanitaria. Di conseguenza, 16 persone, tra cui sei minori, sono state sfollate e altre 226 persone hanno subìto danno economico. Ventiquattro delle strutture prese di mira erano a Gerusalemme Est e nove in Area C. L’episodio più grave si è verificato nel Campo Profughi di Shu’fat (Gerusalemme Est) dove, in un’area destinata [da Israele] alla costruzione di una strada, sono state demolite 19 strutture per mancanza di permessi edilizi, colpendo i mezzi di sostentamento di 179 persone. Nel quartiere di Jabal al Mukabbir (Gerusalemme Est), le autorità israeliane hanno demolito un appartamento costruito sul tetto di una struttura residenziale, sfollando una famiglia di quattro persone. In area C, nella Comunità di Suba (Hebron), due delle strutture demolite erano cisterne per l’acqua; erano state finanziate da donatori e fornite come assistenza umanitaria in risposta a una precedente demolizione. Sempre in Area C, altre tre strutture abitative sono state demolite, sfollando tredici persone.

Il 28 novembre, l’impianto di trattamento delle acque reflue di Gaza ha parzialmente ripreso a funzionare; per i danni causati da un raid aereo israeliano del 12 novembre si era verificata una completa interruzione della fornitura di acqua a diversi quartieri. Il personale municipale di Gaza è riuscito a riparare parte del danno e a riprendere la fornitura di acqua per centinaia di famiglie. Dall’inizio di novembre, grazie ai finanziamenti del governo del Qatar destinati all’acquisto di combustibile per la Centrale Elettrica, l’erogazione di energia elettrica è stata portata ad almeno undici ore al giorno, migliorando la fornitura di servizi di base, comprese le strutture igienico-sanitarie.

Sono stati segnalati almeno undici attacchi da parte di coloni israeliani con danni a proprietà palestinesi. Nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah), secondo fonti del Consiglio del villaggio, sono stati vandalizzati da coloni israeliani circa 85 alberi di proprietà palestinese. In altri cinque episodi avvenuti ad Al Mughayyir (Ramallah), Al Jab’a (Betlemme), Beit Iksa (Gerusalemme) e Asira al Qibliya e Huwwara (questi ultimi in Nablus), coloni israeliani hanno forato le gomme di 52 veicoli ed hanno spruzzato scritte offensive su alcuni veicoli e sui muri di una scuola, di una moschea e di diverse abitazioni. Coloni ed altri gruppi israeliani sono entrati in vari siti religiosi della Cisgiordania, provocando alterchi e scontri con palestinesi, conclusi senza feriti. I siti interessati sono il complesso di Al Haram ash Sharif / Monte del Tempio a Gerusalemme Est ed un santuario nel villaggio di Sabastiya (Nablus). Dall’inizio del 2018, la violenza dei coloni e il vandalismo sono andati aumentando: la media settimanale di attacchi con feriti o danni è salita a cinque, rispetto a tre nel 2017 ed a due nel 2016.

In Cisgiordania vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah, in almeno nove occasioni, secondo fonti israeliane, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani causando danni ad almeno otto veicoli privati; a Ramallah, in uno di questi episodi, un colono israeliano è rimasto ferito.

Il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è stato aperto in entrambe le direzioni per tutto il periodo di riferimento, ad eccezione di cinque giorni. Un totale di 1.280 persone sono entrate a Gaza e 2.611 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è rimasto aperto, quasi continuativamente, cinque giorni a settimana.

¡

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 4 dicembre, nella città di Tulkarm, nel corso di scontri conseguenti ad una operazione di ricerca e arresto, un disabile palestinese di 22 anni è morto, colpito con arma da fuoco da forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it