Rapporto OCHA del periodo 24 aprile – 7 maggio (due settimane)

La serie di manifestazioni di massa lungo la recinzione perimetrale che separa Gaza da Israele, iniziata il 30 marzo, è proseguita per la settima settimana consecutiva.

Le dimostrazioni si svolgono all’interno della Striscia di Gaza, a partire da cinque tendopoli situate a 600-700 metri dal confine con Israele. Alcune centinaia di manifestanti, su decine di migliaia di persone, hanno tentato di aprire un varco nella recinzione, hanno bruciato pneumatici e lanciato pietre contro le forze israeliane ed hanno fatto volare aquiloni incendiari verso il territorio israeliano. I soldati israeliani hanno sparato proiettili gommati, gas lacrimogeni e proiettili di arma da fuoco, impiegando anche cecchini schierati lungo la recinzione. Il 27 aprile l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha invitato Israele a garantire che le sue forze di sicurezza non ricorrano all’uso eccessivo della forza ed ha anche chiesto che [coloro che ne sono stati] responsabili siano chiamati a renderne conto: nelle proteste svoltesi il 4 maggio è stata rilevata una significativa diminuzione dell’uso di armi da fuoco. Il 30 aprile, l’Alta Corte di Giustizia Israeliana ha tenuto un’audizione in risposta ad una petizione, presentata da due gruppi di Organizzazioni Non Governative, contro le “regole di autorizzazione ad aprire il fuoco” applicate dalle autorità israeliane nel contesto delle attuali manifestazioni palestinesi. Il caso è in corso.

Durante il periodo di riferimento [di questo Rapporto], nel contesto delle manifestazioni sopra menzionate, sei palestinesi, tra cui un minore, sono stati uccisi dalle forze israeliane e 1.216, tra cui 201 minori, sono stati feriti. Le vittime includono un giornalista morto per le ferite riportate durante il precedente periodo di riferimento [10-23 aprile]. Altri sei palestinesi, incluso un minore, sono stati uccisi, a quanto riportato, dopo essere penetrati in Israele attraverso la recinzione; quattro dei corpi sono trattenuti dalle autorità israeliane.

Dall’inizio delle manifestazioni nella Striscia di Gaza, 40 palestinesi, tra cui cinque minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane durante le proteste. Altri 13 palestinesi, tra cui un minore, sono stati uccisi in circostanze diverse all’interno di Gaza e vicino al recinto perimetrale tra Gaza e Israele. A quanto riferito, sei di loro sono stati uccisi mentre tentavano di attraversare la recinzione con Israele, o dopo averla attraversata. I loro corpi sono trattenuti dalle autorità israeliane. In Gaza, secondo il Ministero Palestinese della Salute, 8.536 palestinesi, tra cui almeno 793 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Il 54% dei feriti (4.589 persone) sono stati ricoverati in ospedale; di questi, 2.064 erano stati colpiti con armi da fuoco. Non ci sono invece notizie di feriti israeliani.

Il 5 maggio, in una casa a nord di Deir Al Balah, un ordigno è esploso in circostanze non chiare: sei membri di un gruppo armato palestinese sono rimasti uccisi e altri tre sono rimasti feriti. Diverse altre case hanno subito danni.

Per far rispettare le restrizioni di accesso alle Aree Riservate, sia di terra lungo la recinzione, sia di pesca lungo la costa di Gaza, le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori in almeno 31 occasioni. In due dei casi (a Beit Lahiya e Khan Yunis, lungo la recinzione), due palestinesi sono stati feriti. In diversi episodi, le forze israeliane hanno arrestato 10 persone, di cui cinque minori; a quanto riferito, stavano tentando di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale: cinque di loro sono stati rilasciati. In diverse occasioni, il 27 aprile e il 5 maggio, le forze israeliane hanno lanciato diversi raid aerei e sparato colpi di cannone sulla Striscia di Gaza, a quanto riferito contro siti militari, provocando danni, ma non feriti.

In Cisgiordania, durante proteste e scontri, 230 palestinesi, tra cui 26 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Il 91% di questi ferimenti si sono verificati durante scontri collegati a manifestazioni di solidarietà con i palestinesi di Gaza per la “Grande Marcia del Ritorno”. Il maggior numero di feriti si è avuto negli scontri di Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), seguiti da scontri vicino a Qusra e vicino al DCO di Al Bireh (Ramallah). La metà dei ferimenti sono stati causati da proiettili gommati, seguiti da lesioni derivanti da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche (42%) e da armi da fuoco (4%). In un’altra circostanza, il 26 aprile, le forze israeliane hanno lanciato lacrimogeni e bombe assordanti nel cortile della scuola di Burin (Nablus), durante la pausa pranzo degli studenti, provocando una sospensione delle lezioni per il resto della giornata. Almeno 250 minori sono stati coinvolti. Secondo fonti israeliane, questo episodio ha fatto seguito al lancio di pietre contro veicoli di coloni israeliani.

In due episodi, per consentire esercitazioni militari israeliane, le forze israeliane hanno sfollato, per otto ore ogni volta, cinque famiglie (29 persone, tra cui 17 minori) della comunità di pastori di Humsa al Bqai’a nella Valle del Giordano settentrionale. Questa comunità è, inoltre, costretta ad affrontare periodiche demolizioni e restrizioni di accesso; fatti che destano preoccupazione in merito al rischio del loro trasferimento forzato.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto complessivamente 127 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 151 palestinesi. Nel governatorato di Gerusalemme è stata compiuto il numero più alto di ricerche (31) e di arresti (39). Inoltre, a Gerusalemme, la polizia israeliana ha emesso ordini che, per sei mesi, vietano a tre impiegati palestinesi del Waqf islamico [fondazione pia] di entrare nel Complesso di Haram al Sharif / Monte del Tempio. Nella Striscia di Gaza, in due occasioni, le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale.

Per mancanza dei permessi di costruzione, in nove comunità palestinesi dell’Area C, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 30 strutture, provocando lo sfollamento di 41 persone, tra cui 17 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 90 circa. Quattordici delle strutture prese di mira si trovavano nelle comunità di pastori palestinesi di Massafer Yatta (Hebron), all’interno di un’area chiusa dall’esercito israeliano e da questi riservata all’addestramento militare (“zona 918 per esercitazioni a fuoco”). In questa zona, il contesto coercitivo viene inasprito, creando pressione sui residenti per indurli a partire. Trentacinque persone di queste Comunità, tra cui 14 minori, sono state sfollate: il numero più alto di sfollati registrato in un solo giorno dall’inizio del 2018. Quattro delle strutture erano rifugi residenziali, forniti come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni. Sale così a 19, dall’inizio del 2018, il numero di strutture finanziate da donatori e successivamente distrutte o sequestrate. In un altro caso, nella città di Ya’bad (Jenin), in Area B, citando la violazione delle normative ambientali, le forze israeliane hanno demolito anche una fabbrica di carbone di legna appartenente a tre famiglie palestinesi, colpendo il mezzo di sostentamento di 15 persone.

Ancora sulle demolizioni: a Gerusalemme Est, presso cinque comunità palestinesi, sono state demolite undici strutture; quattro di queste, a Silwan e Qalandiya, sono state autodemolite dai proprietari stessi. Le sette strutture demolite dalle autorità israeliane includevano un edificio di tre piani in Al Isawiya e sei strutture di sussistenza a Beit Safafa e Shu’fat. In totale, otto persone, tra cui due minori, sono state sfollate ed altre 91 sono state economicamente colpite. Dall’inizio del 2018, quasi un quarto delle strutture demolite (ed anche delle persone sfollate o comunque toccate dalle demolizioni) in Gerusalemme Est, si trovavano nel quartiere di Al Isawiya.

In Cisgiordania, in otto episodi di violenza da parte di coloni, due palestinesi, tra cui una giornalista, sono stati feriti e proprietà palestinesi sono state vandalizzate. Il 29 aprile, a Kafr ad Dik (Salfit), coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito una giornalista palestinese mentre stava documentando un caso di confisca di un terreno. Inoltre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un 23enne palestinese. In tre diversi episodi, presunti coloni israeliani hanno forato le gomme di 17 veicoli palestinesi e spruzzato scritte tipo “questo è il prezzo che dovete pagare” sui muri di sei case palestinesi dei villaggi di Jalud (Nablus), di Turmus’aaya e di Deir Ammar (entrambi in Ramallah). Nella zona H2 di Hebron, controllata dagli israeliani, coloni hanno attaccato, con lancio di pietre, tre case palestinesi, scatenando scontri con i residenti. In un altro episodio, verificatosi nel villaggio di Qusra e riportato da fonti della Comunità locale, coloni, a quanto riferito dell’insediamento di Yitzhar, hanno danneggiato 14 alberi e hanno forato le gomme di un trattore agricolo. In quest’area, l’accesso ai terreni da parte dei proprietari palestinesi richiede un’autorizzazione speciale rilasciata dalle autorità israeliane. La violenza dei coloni è in aumento: dall’inizio del 2018, la media settimanale di attacchi che causano lesioni personali o danni materiali è pari a cinque; nel 2017 era stata di tre e nel 2016 di due.

Sono stati segnalati almeno cinque casi di lancio di pietre e due casi di lancio di bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: secondo media israeliani sono stati causati danni a cinque veicoli privati vicino a Hebron, Ramallah, Betlemme e Gerusalemme.

Il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto per tre giorni (dal 28 al 30 aprile) in entrambe le direzioni e un giorno in una direzione, consentendo un totale di 357 ingressi e 1.511 uscite da Gaza. Dall’inizio del 2018, il valico è stato aperto solo per 17 giorni; 11 giorni in entrambe le direzioni e 6 giorni in una sola direzione. Secondo le autorità palestinesi in Gaza, oltre 23.000 persone, compresi casi umanitari prioritari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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Nuove prove di crimini di guerra a Gaza inviate alla CPI

Ali Abunimah

30 aprile 2018, Electronic Intifada

Secondo Tareq Zaqoot, un ricercatore del gruppo per i diritti umani “Al-Haq”, almeno 28 palestinesi hanno perso un arto inferiore in conseguenza del fatto che cecchini israeliani hanno sparato contro i partecipanti alle manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” nei pressi della frontiera di Gaza con Israele.

Zaqoot, che si trova a Gaza, e la sua collega Rania Muhareb nella città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, hanno raccontato a “the Real News” [sito nordamericano indipendente di notizie, ndt.] come stiano documentando i crimini israeliani per ottenere giustizia a favore delle vittime.

Muhareb ha rivelato che “Al-Haq”, insieme al “Centro Palestinese per i Diritti Umani” e ad “Al Mezan”, ha già “presentato una denuncia alla Corte Penale Internazionale in cui indica i nomi delle vittime e delle uccisioni perpetrate dalle forze di occupazione israeliane dal 30 marzo.”

Non solo abbiamo specificato i nomi degli uccisi, abbiamo anche evidenziato l’intenzione di uccidere e di sparare per uccidere manifestanti palestinesi, il che rappresenta un crimine di guerra di omicidio premeditato,” ha aggiunto Muhareb.

Muhareb cita come esempio di tali prove la recente intervista tradotta da “Electronic Intifada” in cui il generale israeliano Zvika Fogel spiega l’accurato processo attraverso il quale i cecchini ricevono l’autorizzazione di sparare al “piccolo corpo” di un bambino.

Questi gruppi per i diritti umani avevano consegnato in precedenza dei dossier di prove alla CPI in cui documentavano crimini contro palestinesi nella Cisgiordania occupata e durante i precedenti attacchi israeliani contro Gaza.

All’inizio di questo mese il procuratore generale della CPI ha emanato un avvertimento pubblico senza precedenti, secondo cui i dirigenti israeliani potrebbero dover affrontare un processo per la violenza contro civili palestinesi disarmati a Gaza. Nelle ultime due settimane durante le proteste lungo il confine le forze di occupazione israeliane hanno ucciso almeno 39 palestinesi, compresi cinque minori e due giornalisti.

I manifestanti chiedono la fine dell’assedio israeliano contro Gaza e il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi ed esclusi dalle loro terre in Israele perché non sono ebrei.

Si ha notizia che domenica altri tre palestinesi sono stati uccisi dalle forze di occupazione in seguito ad incidenti in cui secondo l’esercito israeliano i palestinesi avrebbero cercato di aprire una breccia nella barriera di confine con Gaza.

Parvenza di legalità

Lunedì l’Alta Corte israeliana ha tenuto un’udienza sulle richieste di vari gruppi per i diritti umani che chiedono la revoca delle regole dell’esercito per aprire il fuoco, che hanno portato all’impressionante bilancio di morti e feriti a Gaza.

La politica dell’esercito israeliano che consente di aprire il fuoco contro manifestanti a Gaza è palesemente illegale,” ha affermato Suhad Bishara, avvocatessa di uno di questi gruppi, “Adalah”. “Questa politica concepisce i corpi umani (palestinesi) come un oggetto sacrificabile, senza valore.”

Il gruppo [israeliano] per i diritti umani “B’Tselem” ha invitato i soldati a sfidare questi ordini illegali di sparare per uccidere e mutilare.

Prima dell’udienza, i militari israeliani si sono rifiutati di rendere pubblici gli ordini di aprire il fuoco, sostenendo che sono riservati.

Israele ha cercato di presentare le proteste di massa a Gaza come un complotto orchestrato da Hamas per coprire attività “terroristiche”.

Israele non è stato in grado di mostrare alcuna prova di attività armate durante le proteste e i suoi portavoce hanno fatto ricorso a montature – come false accuse secondo cui un video diffuso in rete mostra una ragazza di Gaza che dice degli israeliani “li vogliamo uccidere.”

Lunedì, durante l’udienza, pubblici ministeri dello Stato di Israele hanno continuato a insistere con questo discorso, sostenendo che “informazioni di intelligence riservate” mostrano che le proteste fanno “parte delle ostilità di Hamas contro Israele.”

La Corte israeliana ha aggiornato la seduta senza prendere una decisione, tuttavia storicamente il suo ruolo è stato quello di fornire una parvenza di legalità alle sistematiche violazioni israeliane dei diritti umani palestinesi e di contribuire a far passare Israele a livello internazionale come uno Stato che rispetta il principio di legalità, nonostante decenni di impunità senza controlli e di comportamenti illegali.

Contro le prove

Durante il fine settimana il quotidiano [israeliano] Haaretz ha citato la dichiarazione di un anonimo ufficiale dell’esercito israeliano secondo cui “la maggior parte delle uccisioni di palestinesi da parte dell’esercito israeliano durante le proteste sul confine di Gaza sono state causate da cecchini che miravano alle gambe dei manifestanti, mentre la morte è stato un risultato non intenzionale perché il manifestante si è chinato, un cecchino ha sbagliato il colpo, un proiettile è rimbalzato o circostanze simili.” Secondo l’ufficiale, ha affermato Haaretz, “gli ordini di aprire il fuoco sul confine consentono ai cecchini di sparare solo alle gambe di persone che si avvicinano alla frontiera, e che il petto di una persona può essere preso di mira solo in presenza di un’evidente volontà dell’altra parte di utilizzare armi e di minacciare la vita di israeliani.”

Ma ciò è in netto contrasto con le prove raccolte da ricercatori per i diritti umani e l’affermazione potrebbe indicare che alcuni ufficiali israeliani sono preoccupati delle conseguenze internazionali della politica di uccisioni e mutilazioni premeditate e calcolate. La scorsa settimana Amnesty International ha dichiarato che nella maggior parte dei casi mortali che ha preso in considerazione “le vittime sono state colpite alla parte superiore del corpo, compresi testa e petto, alcune alle spalle.”

Testimoni oculari, prove video e fotografiche suggeriscono che molti sono stati uccisi o feriti deliberatamente mentre non rappresentavano alcun pericolo immediato per i soldati israeliani,” ha aggiunto Amnesty.

Allo stesso modo “Adalah” ha sostenuto che “il 94% dei feriti a morte sono stati colpiti nella parte superiore del corpo (testa, collo, volto, petto, stomaco e schiena).”

Sono stati feriti più di 5.500 palestinesi, di cui 2.000 da proiettili veri.

Nessun israeliano risulta essere stato ferito in seguito alle proteste a Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Le tappe israeliane del Giro d’Italia saranno un giro di ingiustizie

Flavia Cappellini

Venerdì 4 maggio 2018, Middle East Eye

La più bella corsa al mondo nel più bel Paese del mondo.” Questa è una descrizione popolare del Giro d’Italia, un’epica avventura ciclistica che dura tre settimane attraverso 3.546 km.

Il ciclismo su strada è uno sport unico a livello mondiale, in quanto non ci sono barriere tra atleti e spettatori. Alessandro Baricco, un famoso scrittore italiano, una volta ha scritto: “Andare a vedere il ciclismo è qualcosa che, se ci pensi, non ci credi…Tutti nel paese sono fuori di casa, facendo un picnic con un thermos, una radio, giacche a vento e i programmi aperti per capire chi sia ogni ciclista. Una festa!”

Le prime tre tappe della corsa, quest’anno denominata dagli organizzatori il “Giro della Pace”, saranno in Israele. Per la prima volta, il Giro inizierà fuori dall’Europa, prima di attraversare l’Italia e finire a Roma, collegando lo Stato dove nacque il fascismo e che alla fine gli si oppose e lo Stato nato dopo l’Olocausto. Il Giro d’Italia, uno dei più famosi eventi sportivi italiani, è diventato parte dei festeggiamenti per il 70^ anniversario della fondazione di Israele, e gli organizzatori sperano di lanciare un messaggio di tolleranza. Una bellissima narrazione, ma è probabile che a molti non sfugga che c’è un elefante nella stanza.

Politica inevitabile

Oggi Israele e Palestina sono ancora al centro di tensioni internazionali, dal movimento internazionale per il boicottaggio di Israele alle accuse di antisemitismo. L’organizzazione di un grande evento sportivo nel mezzo di tutto ciò non può evitare la politica – soprattutto perché milioni di persone vedranno la corsa attraversare uno dei territori più accanitamente contesi al mondo.

RCS Sport, l’organizzatore del Giro d’Italia, ha battuto la rivale ASO (che organizza il Tour de France e la Vuelta de España) con uno storico primato, tenendo la grande inaugurazione della corsa al di fuori dei confini europei.

Scegliere Israele ha un senso dal punto di vista logistico. Il volo intercontinentale per portare centinaia di atleti, il personale delle squadre e gli sponsor dalla terza tappa in Israele alla quarta in Sicilia è solo di poche ore sul Mediterraneo. Per sfruttare questa opportunità, RCS Sport era verosimilmente ben cosciente della necessità di evitare polemiche.

Mauro Vegni, il direttore di corsa del Giro d’Italia, ha ribadito che “non mischiamo lo sport con la politica,” e che questo è il “Giro della Pace da Gerusalemme a Roma”. Ha spiegato che le tre tappe israeliane sono state tracciate in base alle raccomandazioni del ministero degli Esteri italiano. Rimangono all’interno dei confini riconosciuti dalle Nazioni Unite – di prima della guerra del 1967. Il Giro evita i territori occupati dove, al momento, lo Stato di Israele sta violando le leggi internazionali.

Questa cautela diplomatica è sufficiente a tener lontano il giro da ogni polemica? Forse vale la pena di prendere in considerazione, tappa per tappa, come questa cooperazione geopolitica si sia sviluppata tra sport e leggi internazionali, in nome della separazione tra sport e politica.

Prima tappa: Gerusalemme

La prima tappa della corsa sarà una gara a cronometro di 9.7 km a Gerusalemme. Secondo la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e le Nazioni Unite, non c’è un’unica sovranità su Gerusalemme; Gerusalemme ovest è amministrata da Israele, ma Gerusalemme est è riconosciuta come parte del territorio della Cisgiordania, illegalmente occupata dalle forze israeliane e rivendicata dai palestinesi come futura capitale di uno Stato autonomo.

Com’era prevedibile, la prima tappa del Giro si svolge rigorosamente nelle strade di Gerusalemme ovest, la zona internazionalmente riconosciuta come parte dello Stato di Israele. Quando il materiale promozionale ufficiale del Giro d’Italia, pubblicato in novembre, l’ha definita come “Gerusalemme ovest”, la reazione del governo israeliano è stata immediata. Con un comunicato congiunto il ministro israeliano della Cultura e dello Sport Miri Regev e il ministro del Turismo Yariv Levin [entrambi del partito di destra Likud, ndt.] hanno dichiarato: “Non ci sono Gerusalemme ovest e Gerusalemme est, ma una sola Gerusalemme, la capitale di Israele…Queste pubblicazioni sono una violazione degli accordi con il governo israeliano, e se non vengono cambiate, Israele non parteciperà all’evento.”

Poche ore dopo, gli organizzatori del Giro hanno tolto la parola “ovest” dal loro materiale pubblicitario, affermando: “RCS Sport vuole chiarire che la partenza del Giro d’Italia avrà luogo nella città di Gerusalemme. Presentando il tracciato della corsa, è stato utilizzato materiale tecnico che contiene le parole “Gerusalemme ovest”, attribuibile al fatto che la corsa si svilupperà logisticamente in quella zona della città. Si sottolinea che questa parola, priva di ogni valutazione politica, è stata immediatamente eliminata da ogni materiale legato al Giro d’Italia.”

Secondo gli organizzatori, ignorare lo status legale internazionale di Gerusalemme – sancito dalla CIG e da cinque risoluzioni ONU – è considerato privo di ogni significato politico, piegandosi alla narrazione israeliana che presenta la Città Santa come la capitale indivisibile di Israele.

Seconda tappa: da Haifa a Tel Aviv

La seconda tappa si corre il 5 maggio da Haifa, il centro mediterraneo della cultura arabo-israeliana, lungo la costa fino a Tel Aviv, l’attuale capitale di fatto di Israele. Israele è stato fondato 70 anni fa e il Giro d’Italia che arriva in città sarà parte dei festeggiamenti per il suo anniversario.

Al contrario ad Haifa gli eventi legati al 70^ anniversario della nascita del Paese sono noti con un altro nome: la Nakba. Ciò si traduce dall’arabo come la “catastrofe”, quando più di 700.000 arabi scapparono o vennero espulsi dalle loro case.

Ogni anno, in occasione dell’anniversario della nascita di Israele, la popolazione araba chiede il riconoscimento della risoluzione 194 dell’ONU, che afferma che i rifugiati che desiderino tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini devono poterlo fare il prima possibile, e che debbano essere pagati indennizzi per le proprietà di quelli che scelgano di non tornare. Haifa è la città simbolo di questo esodo.

Secondo l’Ong israeliana “Zochrot”, un gruppo che intende mantenere viva la memoria storica della Nakba tra la popolazione israeliana, la quantità di abitanti arabi espulsi o uccisi o che scapparono dalla città nel 1948 fece scendere la popolazione di origine palestinese da 75.000 a 3.500. Nel contempo la popolazione ebraica di Haifa salì a più del 90%.

I rifugiati della Nakba e i loro discendenti ora vivono soprattutto a Gaza, in Cisgiordania, in Giordania, in Libano e in Siria. Quest’anno, la popolazione di Gaza ha intrapreso la “Grande Marcia del Ritorno”, proteste simboliche per chiedere il riconoscimento del diritto dei rifugiati del 1948 a tornare nella loro patria. Il 5 maggio, mentre il gruppo di ciclisti del Giro d’Italia attraverserà le strade di Haifa, probabilmente migliaia di persone staranno ancora aspettando di lasciare Gaza per ottenere il diritto al ritorno, come stabilito dall’ONU.

Finora 45 civili sono morti in queste proteste, compresi due giornalisti. Tutti sono stati uccisi dalle forze israeliane lungo il confine tra Gaza e Israele, a meno di 70 km dal traguardo della seconda tapa del Giro. Inoltre tra le migliaia di feriti ci sono stati 30 atleti palestinesi, compreso il ciclista Alaa al-Dali, 21 anni, che ha perso una gamba dopo essere stato colpito dalle forze israeliane.

Terza tappa: da Beer-Sheva a Eilat

Infine, l’ultima tappa avrà luogo il 6 maggio nel deserto del Negev: 229 km dalla capitale della provincia, Beer-Sheva, alla città turistica di Heilat, sul Mar Rosso. A prima vista il deserto del Negev sembra una grande distesa di sole e sabbia, con lunghi tratti segnati sulle mappe come terra demaniale. Di fatto ci sono continui progetti di costruzione per sistemarvi la crescente popolazione di Israele – ma alcune di queste terre sono abitate dall’ultima popolazione nomade rimasta nel Negev, in villaggi che non sono stati subito riconosciuti dallo Stato. Con il tempo, alcuni insediamenti sono stati riconosciuti e altri distrutti. Ci sono ancora 35 villaggi non riconosciuti sotto minaccia di demolizione.

Il percorso del Giro passa nei pressi del più grande villaggio non riconosciuto, Wadi al-Naam, che ospita 13.000 persone ai margini della strada principale che attraversa il deserto. Mentre la corsa ciclistica passerà sulla strada asfaltata, gli abitanti di Wadi al-Naam avranno molte difficoltà a veder passare il gruppo, in quanto il loro villaggio non ha quasi nessuna infrastruttura e manca persino di una strada adeguata che lo colleghi al resto della regione.

Non solo non ci sono strade: il villaggio non è collegato al sistema idrico né alla rete elettrica, e nei pressi è stata fondata un’industria chimica, “Neot Hovav”. Non è quindi sorprendente che vi sia stato registrato uno dei tassi di mortalità infantile più alti di Israele. Human Rights Watch ha denunciato come incostituzionale l’assenza di servizi essenziali in questa zona, in quanto ogni cittadino dello Stato dovrebbe avere gli stessi diritti di proprietà, eguaglianza e dignità.

Dimostrazione di controllo

Quando una corsa ciclistica attraversa un Paese, in genere i suoi cittadini accolgono la competizione nelle strade senza barriere, senza protezioni e senza dover pagare un biglietto. Si può giocare una partita di pallone a porte chiuse, ma non si può controllare una corsa di 200 km lungo strade che per tre settimane attraversano case, popolazioni e infrastrutture locali.

Per riuscirvi, un’importante corsa necessita della cooperazione della popolazione locale. C’è bisogno di sicurezza e del controllo sul territorio. Ospitare un simile evento è, di per sé, sia una forma di promozione turistica che l’affermazione da parte dello Stato del pieno controllo sulla gente che vive sul territorio.

In queste circostanze, è legittimo perlomeno chiedersi se il governo israeliano stia cercando di utilizzare il Giro d’Italia per promuovere una nuova e più accesa narrazione nazionalistica, ad iniziare da Gerusalemme come capitale di Israele. La natura di questo sport pone una sfida nel garantire la sicurezza del territorio per una corsa sicura. Infatti nella presentazione del Giro d’Italia a Gerusalemme, il governo israeliano ha dichiarato che questo avvenimento sarebbe stato la più vasta operazione di sicurezza dalla nascita dello Stato di Israele. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, come sempre, sembra fiducioso.

Flavia Cappellini è una produttrice televisiva che si occupa di media, sport e ciclismo. In precedenza ha lavorato per la RAI e per l’inglese “Press TV” e ha conseguito un titolo di laurea specialistica in “Media dalla città” all’università di Londra.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Giro d’Italia: il ciclista palestinese ferito a Gaza ‘disgustato’ dalla gara a tappe in Israele

Maha Hussaini

Mercoledì 2 maggio 2018, Middle East Eye

Alaa Al-Dali, che ha perso una gamba dopo essere stato colpito mentre protestava vicino alla barriera di confine di Gaza, afferma che la gara a tappe a Gerusalemme è un incoraggiamento agli abusi israeliani.

Un ciclista palestinese, che ha perso una gamba dopo che un cecchino israeliano gli ha sparato mentre manifestava vicino alla barriera di confine di Gaza, ha accusato gli organizzatori e i corridori del Giro d’Italia di incoraggiare la violenza israeliana accettando che la gara si disputi nel Paese.

Alaa al-Dali ha subito otto operazioni ed alla fine gli è stata amputata una gamba dopo essere stato colpito mentre partecipava alle proteste della “Grande Marcia per il Ritorno” il 30 marzo.

Il ventunenne era in lizza per gareggiare per la Palestina nei giochi asiatici a Giakarta in agosto, ed ha detto a Middle East Eye che l’esercito israeliano ha “distrutto il suo sogno”.

Il Giro d’Italia, una delle corse di ciclismo più prestigiose, inizia a Gerusalemme venerdì ed Israele ospiterà altre due tappe prima che la gara ritorni in Italia, suscitando la condanna degli attivisti per i diritti dei palestinesi e dei partecipanti alla campagna di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (BDS).

Al-Dali ha fatto appello alla comunità internazionale perché imponga sanzioni ed un boicottaggio sportivo verso Israele, invece di permettergli l’“onore” di ospitare la gara.

“È molto triste sapere che la gente godrà del mio sport preferito nel Paese il cui l’esercito ha distrutto i miei sogni”, da detto al-Dali. “Non è bello. Sono scioccato e disgustato da questa notizia.”

La gara servirà solo a evidenziare il divario tra “l’occupante e l’occupato”, ha aggiunto.

“Questa è una contraddizione all’ennesima potenza. Simili eventi dovrebbero simboleggiare pace e umanità. Non riesco a vedere nulla di pacifico nello spararmi e rendermi disabile per essermi trovato a circa 200 metri dalla barriera di confine.”

Il fratello maggiore di Al-Dali, il venticinquenne Muhammed, ha detto a MEE che i medici hanno deciso di amputargli la gamba a causa dei danni alle ossa e ai tessuti.

Ma ha detto di credere che ci sarebbe stata una possibilità di salvare la sua gamba se Israele non gli avesse negato il permesso di farsi curare in Cisgiordania.

Il sistema sanitario di Gaza è stato devastato da un blocco di 11 anni imposto da Israele dopo la vittoria di Hamas alle elezioni, che ha gettato l’enclave in una crisi umanitaria.

‘Occhi chiusi di fronte alle nostre sofferenze’

“Gli organizzatori ed i partecipanti non solo chiudono gli occhi sulle nostre sofferenze, in quanto atleti a cui vengono negati i diritti fondamentali, ma stanno anche incoraggiando le autorità israeliane ad imporre ulteriori restrizioni ed a continuare nei loro soprusi contro di noi”, ha detto Alaa al-Dali.

Secondo Ashraf al-Qedra, portavoce del ministero della Sanità palestinese a Gaza, dall’inizio delle proteste della Grande Marcia per il Ritorno, in cui i palestinesi stanno protestando per il loro diritto al ritorno nelle terre e nelle case occupate da Israele nel 1948 e nei successivi conflitti, almeno 44 palestinesi sono stati uccisi ed altri 7.000 feriti, comprese decine di persone rimaste disabili.

Venerdì la prima tappa del Giro d’Italia vedrà gli atleti correre una corsa a cronometro di 9.7 km. a Gerusalemme ovest, che terminerà sotto le mura della Città Vecchia di Gerusalemme, nella Gerusalemme est occupata.

Poi Israele ospiterà tappe da Haifa a Tel Aviv e da Beer Sheva attraverso il deserto del Negev fino al porto di Eilat, sul Mar Rosso.

La gara ospita alcuni dei più famosi ciclisti al mondo, compreso Chris Froome, che cerca di diventare il primo campione, nell’era del ciclismo moderno, a conquistare contemporaneamente tutti e tre i titoli dei grandi tour sportivi, il Tour de France, la Vuelta de España e il Giro d’Italia.

La gara ospita anche squadre sponsorizzate dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrain.

La partenza della gara è particolarmente significativa poiché coincide con le celebrazioni del 70^ anniversario del giorno dell’indipendenza di Israele, e avviene solo pochi giorni prima che i palestinesi celebrino l’anniversario della Nakba, o catastrofe, in cui più di 750.000 persone furono espulse con la forza dalle loro terre nel maggio 1948.

Una mappa illustrata del percorso della gara pubblicata sul Twitter del Giro mostra la Città Vecchia di Gerusalemme e la moschea della Cupola della Roccia.

Il movimento BDS ha condotto una campagna perché la corsa venisse spostata fin da quando è stato annunciato il percorso l’anno scorso, avvertendo che far partire la gara in Israele avrebbe assunto il significato di un “timbro di approvazione” delle “violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani dei palestinesi.”

“Proprio come sarebbe stato inaccettabile per il Giro d’Italia partire dal Sudafrica dell’apartheid negli anni ’80, è ora inaccettabile far partire la gara da Israele, in quanto questo servirà solo come sigillo di approvazione dell’oppressione di Israele sui palestinesi”, ha dichiarato il movimento sul suo sito web ufficiale.

In seguito alla comunicazione del percorso della gara lo scorso novembre, le associazioni per i diritti hanno emesso un comunicato congiunto chiedendo agli organizzatori di RCS Sport di spostare la partenza della gara da Israele, che, secondo loro, “accrescerà il senso di impunità di Israele.”

In risposta, RCS Sport, l’organizzatore del Giro, ha detto che la gara si sarebbe svolta in Israele come parte dell’“internazionalizzazione” dell’evento e come “un mezzo per esportare nel mondo tutto ciò che è italiano”.

A settembre il direttore della gara Mauro Vegni ha detto: “La realtà è che vogliamo che questo sia un evento sportivo e che si tenga lontano da ogni questione politica.”

Saied Timraz, vicepresidente di Palestinian Motorsport, Motorcycle and Bicycle Federation, ha affermato che è “irragionevole” tenere un evento così prestigioso in Israele allo stesso tempo in cui gli atleti palestinesi vengono privati dei loro diritti fondamentali dalle autorità israeliane.

“Israele usa lo sport per mascherare le sue flagranti violazioni contro i palestinesi. Ha un particolare interesse ad ospitare questo evento in quanto esso consente ai partecipanti di ammirare i luoghi e promuovere una immagine civilizzata di Israele”, ha detto Timraz a MEE.

“Benché lo sport e la politica debbano mantenersi separati, nulla può giustificare dare un premio agli oppressori.”

Secondo Timraz, lo scorso novembre le autorità israeliane hanno rifiutato a lui ed altri sei atleti palestinesi i permessi per uscire da Gaza per gareggiare nel campionato arabo di atletica del 2017, organizzato dalla Associazione Atletica Araba in Tunisia.

“Non è la prima volta che ci negano i permessi per partecipare ad eventi internazionali”, ha detto Timraz.

“Le autorità israeliane vogliono imporre severe restrizioni ai palestinesi che intendono partecipare ad eventi che darebbero voce alle loro sofferenze e mostrerebbero il vero volto dell’occupazione.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)





Rapporto OCHA del periodo 10 – 23 aprile 2018 (due settimane)

La serie di dimostrazioni di massa, iniziate il 30 marzo nel contesto della “Grande Marcia del Ritorno”, è continuata a Gaza durante il periodo di riferimento [di questo Rapporto, cioè fino al 23 aprile]

Le manifestazioni hanno avuto luogo in cinque campi di tende situate a circa 600-700 metri dalla recinzione perimetrale con Israele. Alcune centinaia di manifestanti, su decine di migliaia, si sono avvicinati ed hanno tentato di fare una breccia nella recinzione, bruciare pneumatici, gettare pietre e, secondo fonti israeliane, lanciare bombe incendiarie ed altri ordigni esplosivi alle forze israeliane, o di collocarli lungo la recinzione. Queste ultime hanno usato proiettili di gomma, gas lacrimogeni e proiettili di arma da fuoco; un centinaio di cecchini sono stati schierati lungo la recinzione.

Dall’inizio delle proteste, fino al termine del periodo di riferimento, 34 palestinesi, tra cui quattro minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane. Inoltre, cinque palestinesi sono stati uccisi a Gaza in altre circostanze ed altri due, entrati in Israele attraverso la recinzione, sono stati colpiti ed uccisi; i loro corpi sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane. A Gaza, secondo il Ministero Palestinese della Salute, dal 30 marzo un totale di 5.511 palestinesi, tra cui almeno 454 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Di questi, 3.369 persone (il 61%) sono state ricoverate in ospedale; 1.739 dei ricoverati erano stati colpiti da proiettili di arma da fuoco. Non sono stati segnalati ferimenti di israeliani. Il gran numero di vittime tra i manifestanti palestinesi disarmati, e l’alta percentuale di feriti da proiettili di arma da fuoco, ha suscitato preoccupazioni sull’uso eccessivo della forza. I medici dell’ospedale Shifa di Gaza riferiscono di aver curato lesioni non più viste dai tempi delle ostilità del 2014; alcune di tali lesioni possono causare inabilità permanente. Ciò solleva interrogativi sul tipo di munizioni usate dalle forze israeliane.

Per ulteriori informazioni e grafici: https://www.ochaopt.org/content/humanitarian-snapshot-mass-casualties-context-demonstrations-gaza-strip-0

Durante il periodo di riferimento, nove palestinesi, compreso un minore, sono stati uccisi dalle forze israeliane e 1.739 sono stati feriti nel contesto delle dimostrazioni nella Striscia di Gaza (inclusi nel conteggio di cui sopra). I nove morti sono costituiti da otto uomini ed un 14enne che, secondo fonti mediche, è stato colpito alla testa da un proiettile mentre si trovava a circa 50 metri dalla recinzione. Il Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite per il Processo di Pace in Medio Oriente ha espresso indignazione per l’uccisione e ha chiesto un’indagine. L’Esercito Israeliano ha dichiarato che sarà svolta un’inchiesta su questo episodio. Il Coordinatore Umanitario, Jamie McGoldrick, ha chiesto tutela dei manifestanti palestinesi e finanziamenti urgenti per fronteggiare le esigenze umanitarie critiche generate dal massiccio aumento delle vittime a Gaza dal 30 marzo.

In diverse occasioni, nei giorni 12, 17 e 18 aprile, le forze israeliane hanno effettuato molteplici attacchi aerei e sparato colpi di carro armato su Gaza, mirando, a quanto riferito, a siti militari; un membro di un gruppo armato palestinese è stato ucciso e cinque altri sono rimasti feriti. È stato inoltre segnalato il danneggiamento di una casa.

In Cisgiordania, 331 palestinesi, tra cui 49 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante proteste e scontri. Per l’85% circa, queste lesioni si sono verificate durante scontri scoppiati dopo le proteste in solidarietà con la Grande Marcia del Ritorno, svolta a Gaza. Gli scontri a Kafr Qalil (Nablus) hanno fatto contare il più alto numero di feriti; seguono i feriti conteggiati negli scontri avvenuti nei pressi del DCO di Al Bireh (Ramallah) e nella città di Abu Dis (Gerusalemme). La maggior parte delle lesioni (70%) sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno necessitante trattamento medico, seguite da lesioni causate da proiettili di gomma (20%) e da pallottole di arma da fuoco (3%). In altri tre episodi, avvenuti in Cisgiordania, 24 palestinesi, tra cui due minori, sono stati feriti durante scontri con le forze israeliane intervenute a seguito di alterchi e scontri tra residenti palestinesi e coloni entrati in vari siti religiosi.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 183 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 203 palestinesi, di cui 24 minori. Più di un terzo di queste operazioni hanno innescato scontri con i residenti. Nel Governatorato di Hebron è stata effettuato il più alto numero di arresti (55, di cui quattro minori) ed il maggior numero di operazioni (51).

Citando la mancanza di permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 16 strutture in sei località in Area C: non ci sono stati sfollamenti dalle abitazioni, ma le demolizioni/sequestri hanno riguardato i mezzi di sussistenza di 362 persone. Undici delle strutture oggetto dei provvedimenti di cui sopra si trovavano nell’Area C dei villaggi di Shuqba e Jibiya (entrambi in Ramallah), di Al ‘Auja (Jericho) e della comunità beduina palestinese di Sud ‘Anata (Gerusalemme). Quattro delle strutture mirate erano utilizzate come aule e due come servizi igienici di una scuola elementare che serve 24 studenti nella comunità pastorale di Khirbet Zanuta nel sud di Hebron. Una delle strutture interessate dai provvedimenti sopraccitati era utilizzata come aula scolastica dalla comunità beduina di Jabal al Baba, nell’Area C del Governatorato di Gerusalemme, ed era stata fornita come assistenza umanitaria in risposta a demolizioni precedenti. Questa specifica demolizione ha interessato 290 persone, di cui 151 minori. Jabal al Baba è una delle 46 comunità beduina palestinesi nella Cisgiordania centrale ad alto rischio di trasferimento forzato. Le forze israeliane hanno inoltre demolito un autolavaggio ed un parco giochi pubblico per bambini (entrambi situati vicino al checkpoint di Qalandiya e Kafr Aqab), pregiudicando il sostentamento di 86 persone; hanno anche demolito un laboratorio nel villaggio di Beiti Anan, in Gerusalemme (Area B), dove hanno sequestrato computer, stampanti ed altre attrezzature; a quanto riferito il sequestro è stato motivato da attività di incitamento; sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di 17 persone.

Il 23 aprile, nella città di Jenin, le autorità israeliane hanno demolito una casa per motivi punitivi, sfollando sette persone, tra cui due minori. La casa demolita apparteneva alla famiglia del palestinese, attualmente imprigionato, che, nel gennaio 2018, partecipò ad un attacco in cui un colono israeliano venne ucciso. Dall’inizio del 2018, due case sono state demolite o sigillate per motivi punitivi, sfollando sette palestinesi.

Per mancanza di permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno emesso almeno 19 ordini di demolizione o di blocco-lavori contro strutture appartenenti a tre comunità nell’Area C. Le strutture comprendono undici case abitate in Khirbet Ghwein (Hebron), sette strutture di sostentamento in Ni’lin, ed una struttura abitativa nella comunità di Jawaya, nella zona di Yatta (Hebron).

In Cisgiordania tre palestinesi sono stati feriti da coloni israeliani e proprietà palestinesi sono state vandalizzate nel corso di undici episodi di violenza. Il 10 aprile, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un palestinese vicino Tell (Nablus). Secondo fonti della Comunità locale, in tre episodi distinti, circa 140 ulivi su terreni appartenenti a palestinesi dei villaggi di Rujeib, Burin ed ‘Urif (tutti a Nablus) sono stati vandalizzati da coloni israeliani provenienti, a quanto riferito, dagli insediamenti colonici di Yitzhar e Bracha. Inoltre, in altri cinque diversi episodi, coloni israeliani hanno bucato le gomme di 113 veicoli palestinesi, hanno spruzzato scritte del tipo “questo è il prezzo che dovete pagare” sui muri di dieci case palestinesi ed hanno incendiato una moschea nei villaggi di Lubban Ash Sharqiya e Aqraba (entrambi in Nablus), di Rammun e Burqa (entrambi a Ramallah), e di Beit IKSA (Gerusalemme). Due studenti palestinesi (11 e 12 anni) sono stati feriti e il loro scuolabus ed una casa hanno subìto danni in due separati episodi di lancio di pietre e di bottiglie incendiarie da parte di coloni sulle strade nei pressi di Durai (Hebron) e nella zona H2 della città di Hebron. La violenza dei coloni è andata aumentando dall’inizio del 2018, con una media settimanale di cinque attacchi recanti lesioni o danni alla proprietà, rispetto ad una media di tre attacchi nel 2017 e due nel 2016.

Secondo rapporti di media israeliani, quattro coloni israeliani, tra cui una donna, sono rimasti feriti e quattro veicoli sono stati danneggiati su strade vicino a Betlemme, Hebron, e Gerusalemme a seguito del lancio di bottiglie incendiarie e pietre da parte di palestinesi.

In Gaza, per la terza settimana consecutiva, continuano a verificarsi interruzioni di corrente fino a 20 ore al giorno; ciò pregiudica gravemente l’erogazione dei servizi essenziali, tra cui quelli sanitari, l’acqua potabile ed il trattamento delle acque reflue. La Centrale Elettrica di Gaza, a causa della mancanza di carburante, è totalmente inattiva dal 12 aprile, mentre le tre linee dell’elettricità egiziana sono fuori servizio dal 10 febbraio.

Il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto per tre giorni (dal 12 al 14 aprile) in entrambe le direzioni, permettendo il rientro nella Striscia di 400 persone e l’uscita di 2.500. Dall’inizio del 2018, il valico è stato aperto solo tredici giorni; otto giorni in entrambe le direzioni e cinque giorni in una direzione. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, più di 23.000 persone, inclusi casi umanitari ad alta priorità, sono registrate ed in attesa di attraversare il valico.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Le truppe israeliane hanno sparato prima alla gamba sinistra di un giornalista di Gaza, poi alla destra. E non si sono fermate qui.

Gideon Levy e Alex Levac

27 aprile 2018, Haaretz

L’amputazione della gamba sinistra di Yousef Kronz, 19enne fotografo di Gaza, avrebbe potuto essere evitata se Israele gli avesse permesso di ricevere cure mediche tempestive in Cisgiordania.

La sua gamba sinistra è stata amputata nell’ospedale di Shifa nella Striscia di Gaza, e ora sono in corso gli sforzi, nell’Istituto Ospedaliero Arabo Istishari in Cisgiordania, per assicurarsi che la sua gamba destra non subisca lo stesso destino. Più di due settimane sono passate tra l’amputazione della prima gamba – che anch’essa avrebbe potuto essere evitata – e gli sforzi intrapresi per salvare l’altra. Tempo prezioso in cui Israele ha rifiutato a Yousef Kronz, il primo Palestinese gravemente ferito durante le recenti proteste settimanali nella Striscia di Gaza, il permesso di essere trasferito nell’ospedale alla periferia di Ramallah. L’Alta Corte di Giustizia alla fine ha costretto il Ministero della Difesa a porre fine a questa vergognosa condotta e consentire il trasferimento dello studente e giornalista 19enne del campo profughi di Bureij, in quella struttura più attrezzata.

Venerdì 30 marzo, Kronz è stato colpito da un cecchino delle forze di difesa israeliane, prima alla gamba sinistra e poi, pochi secondi dopo, quando ha cercato di alzarsi, alla gamba destra, da un secondo cecchino. Secondo Kronz, i proiettili che gli hanno colpito le gambe e gli hanno frantumato la vita provenivano da due diverse direzioni. In altre parole, è stato colpito da due diversi tiratori, mentre si trovava a 750 metri dal reticolato che segna il confine di Gaza, armato solamente della sua macchina fotografica, con indosso un gilet con su scritto “Stampa”, cercando di documentare il fuoco incessante dei cecchini israeliani contro i manifestanti palestinesi disarmati. Dopo essere stato colpito, ci dice ora, ha visto sempre più persone cadere sulla sabbia, sanguinando, “come uccelli”. L’incidente è avvenuto nella Giornata della Terra, il primo giorno delle Marce del Ritorno di fronte al confine di Gaza.

L’ospedale Istishari è situato in alto nel villaggio di Surda, a nord di Ramallah. È una grande, nuova, sofisticata struttura privata, lussuosa e scintillante. Kronz ha una stanza privata, spaziosa e ben illuminata, con un letto regolabile, un televisore, pareti con pannelli in legno ed una vista mozzafiato. Israele non ha permesso a nessuno della sua famiglia di accompagnare Kronz in Cisgiordania o di badare a lui, eccetto a suo nonno, Mohammed Kronz, che ha 85 anni, e che, dopo pochi giorni, è stato costretto ad andare a casa di parenti nel lontano campo profughi di Aroub, vicino a Betlemme, per riposarsi. Ora Yousef, che soffre di forti dolori al moncone e alla sua gamba rimanente, viene assistito con devozione infinita da un cugino, Ghassan Karnaz, anch’egli di Aroub. The two cou sins had never met before.I due cugini non si erano mai incontrati prima. Come tutti i giovani di Gaza, Kronz non era mai stato fuori dalla Striscia. Ora ha violato l’assedio di Gaza – senza una gamba.

Studente di comunicazione del primo anno all’Università Al-Azhar di Gaza, è di una famiglia originaria di Faluja, nel Negev. Suo padre riceve uno stipendio dall’Autorità Palestinese come funzionario della polizia di Gaza. Kronz era attivo nei social network, dove scriveva sulla situazione nella Striscia. Qualche mese fa, ha acquistato una macchina fotografica Canon 5D per 5.000 dollari, metà dai suoi risparmi e il resto da suo padre, e ha iniziato a lavorare per l’agenzia di stampa locale Bureij.

Kronz è stato il primo giornalista ferito durante il mese delle manifestazioni, anche se non l’ultimo. Conosceva Yaser Murtaja, un giornalista ucciso a sangue freddo da cecchini israeliani il 6 aprile. Come Kronz, anche Murtaja proveniva da un campo profughi di Gaza – Jabalya.

Il 30 marzo, Kronz ha camminato per circa un chilometro e mezzo da casa sua al luogo delle dimostrazioni per fotografarle per la sua agenzia di stampa. Ha recitato le preghiere del mezzogiorno nella tenda dei giornalisti allestita lì. I 25 reporter locali hanno quindi discusso di come avrebbero coperto lo svolgersi delle proteste che stavano documentando. L’atmosfera era tesa, ricorda ora; tutti si aspettavano un numero elevato di vittime.

Pensava che le forze di difesa israeliane avrebbero usato munizioni vere? “Le forze di difesa israeliane usano sempre le munizioni vere.” La sua faccia è contorta dal dolore, ma Kronz è ben curato, nonostante le sue condizioni. Guarda costantemente lo specchio o la telecamera nel suo cellulare, per essere sicuro che il suo taglio di capelli alla moda sia a posto. Dopo le preghiere, continua, la gente inizia a incendiare i pneumatici. Cartelli predisposti dagli organizzatori indicavano la direzione per i servizi igienici e per le varie tende e anche la distanza dal recinto di confine in ogni punto. Così Kronz sapeva di essere a 750 metri dalla barriera. Il giorno prima, le forze di difesa israeliane avevano lanciato dei volantini nella vicina Jabalya, avvertendo che chiunque si fosse avvicinato a più di 300 metri dalla recinzione avrebbe rischiato la vita. Dopo anni di esperienza, gli abitanti di Gaza prendono sul serio questi avvertimenti. Gli organizzatori hanno contrassegnato una zona consentita e una zona rossa proibita e pericolosa. Karnaz dice che era a centinaia di metri fuori dal confine della zona rossa.

Alle 2 del pomeriggio, la situazione si è surriscaldata. Le truppe dell’esercito israeliano hanno iniziato a lanciare granate lacrimogene mentre alcuni giovani si avvicinavano a 100 metri dalla recinzione. Hanno usato fionde per lanciare sassi contro i soldati, ma erano troppo lontani per colpirli. Kronz dice di aver visto alcune dozzine di soldati di fronte a lui dall’altra parte della barriera; tre jeep e la canna di un carro armato stavano sbirciando da dietro un terrapieno. Anche lui ha trovato un piccolo cumulo di terra e si è appollaiato dietro di esso, posizionando il treppiede con la sua fotocamera su di un lato e il suo zaino sull’altro. Si è inginocchiato sulla sabbia, le gambe incrociate davanti a lui. La nuvola di gas lacrimogeni si è fatta più intensa, i soldati hanno iniziato a sparare le granate a raffica e il cielo si è riempito di gas denso e irritante. Il vento portava il gas nella sua direzione; i manifestanti usavano le cipolle per proteggersi.

Kronz ha scattato circa 950 foto.

Ricorda di aver guardato il suo orologio alle 15:00. Più tardi quel pomeriggio, un amico, Bilal Azara, si sarebbe sposato a Bureij; quindi pensò che avrebbe dovuto andare a casa, farsi una doccia e cambiarsi. Kronz prese la sua macchina fotografica e lo zaino e si alzò in piedi. In quel preciso istante, il primo proiettile lo colpì. Non sentì nulla tranne un dolore bruciante. La fotocamera cadde dalle sue mani e lui collassò a terra, quindi cercò immediatamente di alzarsi. In quel momento il secondo proiettile squarciò l’altra gamba. Il primo è entrato cinque centimetri sotto il ginocchio, il secondo a sette centimetri sopra l’altro ginocchio. Paralizzato, cercò di gridare aiuto ma la sua voce lo tradì. Dice di essersi sentito sentirsi come fulminato. La sua macchina fotografica è stata abbandonata nelle sabbie di Gaza.

A pochi metri c’era un giovane della stessa età, Ahmed al-Bahar, un assistente di uno degli altri fotografi. Bahar corse da Kronz e cercò di sollevarlo, ma proprio in quel momento anche lui fu colpito a una gamba e cadde a terra sanguinando.

A questo punto della nostra conversazione, lontani parenti dell’11enne Abed al-Rahman Nufal, che ha perso anche lui una gamba a Gaza ed è ricoverato qui all’Istishari, entrano nella stanza per salutare. Nufal è uno degli unici tre altri abitanti di Gaza feriti che Israele ha permesso di trasportare qui, su 1.500 feriti nelle manifestazioni fino ad oggi. La famiglia, ex abitanti di Gaza che ora vivono in Cisgiordania, è venuta per vedere come sta il ragazzo.

Alcuni giovani hanno trasportato Kronz e Bahar all’unica ambulanza della zona. In breve tempo il veicolo era pieno zeppo di sei feriti distesi l’uno accanto all’altro; Kronz era il ferito più grave. I soldati continuavano a lanciare gas lacrimogeni; Kronz si sentiva come se stesse soffocando nell’ambulanza. Un paramedico gli ha messo una maschera di ossigeno sul viso, ma l’affollamento all’interno gli ha impedito di fermare l’emorragia dalle gambe di Kronz. Semi-incosciente, Kronz è stato portato all’ospedale Al-Aqsa a Dir al-Balah.

All’ospedale ha visto la sua gamba sinistra per la prima volta; era frantumata, l’osso sporgente, la carne lacerata. Alla sua vista è svenuto. È stato anestetizzato e trasferito immediatamente in un ospedale più grande, l’ospedale Shifa di Gaza City, a causa della gravità delle ferite. A Shifa ha subito un intervento chirurgico di sei ore per fermare l’emorragia.

Dopo quattro giorni a Shifa la condizione della gamba sinistra di Kronz si è deteriorata e i medici sono stati costretti ad amputarla sopra il ginocchio. Ha ricevuto 24 trasfusioni di sangue. La richiesta di trasferirlo a Ramallah per il trattamento è stata presentata a Israele poche ore dopo che era stato ferito, ma è stata respinta dalle autorità. Anche la situazione della gamba destra sembrava disperata.

Nove giorni dopo la ferita di Kronz, l’8 aprile, due gruppi per i diritti umani – Adalah, il Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele e il Centro al-Mezan per i Diritti Umani di Gaza – hanno presentato una petizione all’Alta Corte israeliana per consentire a Kronz e a un altro abitante di Gaza ferito, Mohammed Alajuri, di essere trasferiti urgentemente a Ramallah per le cure. A quanto pare il tribunale non ha visto alcuna reale urgenza nel trattare il caso e ha aspettato quattro giorni prima di deliberare sulla petizione, per la quale i giudici avevano richiesto una risposta dallo stato entro quattro giorni.

“Le amputazioni delle membra di entrambi i giovani avrebbero potuto essere evitate se lo stato avesse adempiuto ai propri obblighi secondo il diritto umanitario internazionale”, ha detto Sawsan Zahar, un avvocato di Adalah, ai giudici.

Gli avvocati dello stato, da parte loro, hanno detto alla corte che “Apparentemente, la condizione dei firmatari sembra soddisfare il criterio medico per il rilascio di un permesso [per il trasferimento a Ramallah], ma i funzionari responsabili hanno deciso di non accettare le loro richieste. La motivazione principale del rifiuto deriva dal fatto che la loro condizione sanitaria è il risultato della loro partecipazione alle manifestazioni”.

Il 16 aprile, i giudici Uri Shoham, George Karra e Yael Willner hanno dichiarato di non essere persuasi che il governo avesse pienamente valutato se le circostanze nel caso di Kronz giustificassero una deviazione dalla procedura normale. “Non c’è discussione sul fatto che le cure mediche di cui il firmatario ha bisogno per impedire l’amputazione della sua gamba non siano disponibili nella Striscia di Gaza”, hanno scritto. “Pertanto, il firmatario è incluso tra i casi in cui l’ingresso in Israele deve essere consentito ai fini del passaggio a Ramallah.”

I giudici si sono inoltre degnati di dichiarare che Kronz non rappresenta un rischio per la sicurezza di Israele. Quello stesso giorno fu trasferito all’ospedale Istishari. (Per quanto riguarda Alajuri, prima che la corte arrivasse a emettere una sentenza sul suo caso, i medici a Gaza non hanno avuto altra scelta che amputargli la gamba. Lui rimane a Gaza.)

Yousef Kronz sta attraversando un periodo difficile, adattandosi con difficoltà al suo stato di amputato. Quattro giorni dopo essere stato portato all’ospedale di Ramallah ha subito un intervento chirurgico alla gamba destra, le cui condizioni sembrano essersi stabilizzate. Ora, tuttavia, deve affrontare una lunga riabilitazione, che durerà almeno quattro mesi, in un ospedale di Beit Jala, vicino a Betlemme.

Prima di congedarci, ci chiede se pensiamo che sarà mai in grado di camminare su una gamba sola.

Traduzione di Maurizio Bellotto

su AssopacePalestina

 




Le forze israeliane uccidono tre persone mentre i giovani invitano ad unirsi alle proteste della “Grande Marcia del Ritorno”

Redazione di MEE

venerdì 27 aprile 2018 Middle East Eye

Gli organizzatori dedicano la manifestazione del venerdì alla “gioventù rivoluzionaria” mentre le forze israeliane feriscono almeno sette giornalisti che stavano informando sulle proteste.

Almeno tre palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane mentre migliaia di palestinesi hanno partecipato al quinto venerdì di proteste nella Striscia di Gaza assediata come parte della “Grande Marcia del Ritorno”.

Le proteste continuano e il responsabile per i diritti umani dell’ONU ha attaccato l’esercito israeliano per la “deplorabile” uccisione di almeno 43 palestinesi durante le manifestazioni nelle ultime quattro settimane.

Venerdì il ministero della Sanità di Gaza ha parlato di due palestinesi uccisi, compreso un uomo colpito alla testa a est di Gaza City. Per il momento il ministero non ha potuto identificare i due.

Un terzo palestinese ucciso è stato identificato dal ministero come il ventinovenne Abd al-Salam Bakr, colpito a est di Khuzaa, nella parte meridionale della Striscia.

Il ministero ha anche detto che più di 600 persone sono state ferite, comprese 37 persone colpite dal fuoco israeliano.

Un inviato di MEE ha informato che durante tutto il giorno in tutta la Striscia di Gaza le forze israeliane hanno sparato proiettili veri e una grande quantità di gas lacrimogeni contro i dimostranti.

Secondo fonti sul campo, in diversi incidenti almeno sette giornalisti sono stati feriti dalle forze israeliane mentre stavano informando sulle proteste.

Secondo l’inviato di MEE, il fotoreporter Nabil Derbeih è stato colpito alla testa a est di Jabaliya, nel nord di Gaza, il fotografo Hashem Hamada è stato raggiunto alla testa da un candelotto lacrimogeno a est di Gaza City, mentre nella stessa zona Abd al-Rahman al-Kahlout è stato colpito a un piede.

Il fotografo Mohammed al-Masri ha sofferto le conseguenze dell’eccessiva inalazione di gas lacrimogeno nella zona di Jabaliya, mentre anche i giornalisti Iyad Abu Ghaza e Hassan Youssef sarebbero stati feriti dopo essere stati presi direttamente di mira con candelotti lacrimogeni a est del campo di rifugiati di al-Bureij. Inoltre l’inviata del canale di notizie Al Mayadeen Lana Shaheen sarebbe svenuta dopo aver inalato gas lacrimogeni a est di Gaza City.

Anche una troupe di “Palestine TV” è stata direttamente bersagliata da candelotti lacrimogeni, provocando ai giornalisti conseguenze per l’eccessiva inalazione di gas lacrimogeni.

Testimoni affermano che almeno due minori sono stati colpiti da armi da fuoco a nord di Gaza, compresa una ragazzina ferita a un piede.

Il ministero della Sanità di Gaza ha anche informato che un ambulatorio da campo a est di al-Bureij è stato preso di mira con gas lacrimogeni, colpendo gravemente quattro infermieri.

Secondo il ministero, fino alle 18 ora locale almeno 349 palestinesi erano stati feriti, compresi 19 minorenni, e almeno otto medici e tre giornalisti.

A est di Gaza City e nella cittadina di Jabaliya, nel nord di Gaza, i manifestanti avrebbero rimosso parti del filo spinato sistemato dalle forze israeliane per evitare che i dimostranti arrivassero troppo vicino al confine con Israele.

Un venerdì per la “gioventù rivoluzionaria”

Per quasi un mese manifestanti si sono riuniti ogni giorno ad alcune centinaia di metri dalla barriera che separa Israele da Gaza, dove almeno 1.3 milioni dei due milioni di abitanti del piccolo territorio sono dei rifugiati, per chiedere il diritto al ritornare a quelle che erano le loro case prima del 1948.

Le proteste, programmate per sei settimane, dovrebbero terminare il 15 maggio – il settantesimo anniversario della Nakba (la Catastrofe), in cui più di 750.000 palestinesi sono stati obbligati dalle forze israeliane a lasciare le loro case durante la Guerra arabo-israeliana del 1948.

A Gaza gruppi giovanili hanno risposto all’appello degli organizzatori per dedicare le proteste del venerdì alla “gioventù rivoluzionaria” e hanno incoraggiato i giovani palestinesi a parteciparvi.

Il portavoce in arabo dell’esercito israeliano, Avichay Adraee, ha chiesto ai giovani palestinesi di rimanere a casa venerdì, una richiesta che i dimostranti hanno respinto.

Traduzione: cercano di incantarvi con l’illusione di virilità! No cari, questo non è il venerdì della gioventù rivoluzionaria, questo è il venerdì della gioventù perduta. Non date ad Hamas l’opportunità di rubarvi il futuro. Passate il vostro giorno santo con attività che siano utili al vostro futuro.

Di quale futuro sta parlando Adraee? Hanno distrutto Gaza nel 2014, e privano migliaia di giovani della possibilità di viaggiare per ricevere educazione e cure mediche,” ha detto Bashar Abu Ras, 25 anni, a MEE, ridendo.

Più del 60% della popolazione di Gaza ha meno di 24 anni, mentre il 56% degli abitanti di Gaza tra i 15 e i 29 anni è disoccupato, secondo l’ONU la più alta percentuale di disoccupazione giovanile al mondo.

I palestinesi credono che il blocco di Gaza da parte di Israele – e appoggiato anche dall’Egitto -, durato quasi 11 anni abbia portato al deterioramento delle condizioni economiche e sociali dello stretto territorio costiero.

Siamo assediati, non possiamo viaggiare per completare i nostri studi all’estero a causa del fatto che il valico di Rafah (con l’Egitto) apre solo per casi umanitari e non possiamo attraversare il posto di controllo di Eretz a causa delle misure di sicurezza di Israele,” ha detto a Middle East Eye Youssef Abu Hashish, 25 anni, aggiungendo che, nonostante tutti i tentativi fatti, né lui né due suoi amici che manifestano con lui hanno trovato lavoro da quando si sono laureati all’università due anni fa.

È per questo che io e miei amici abbiamo deciso di protestare,” ha spiegato. “Questo è il modo che abbiamo per parlare apertamente all’occupazione.”

Anwar al-Salhi, 29 anni, ha detto di vivere tra un lavoro precario e l’altro, a volte solo per 7 dollari al giorno, e di essere la principale fonte di reddito della famiglia, in quanto i suoi due fratelli sono disoccupati.

Al-Salhi ha affermato di aver avuto una proposta di lavoro nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania, ma l’ha perso quando Israele gli ha negato il permesso di entrata.

I partiti palestinesi ci hanno delusi perché non sono riusciti a riconciliarsi. Dobbiamo opporci insieme all’occupazione israeliana che ha rubato la nostra terra 70 anni fa, ci assedia, viola i nostri diritti, uccide i nostri figli e ci impedisce di vedere le nostre famiglie in Cisgiordania,” dice al-Salhi a MEE.

L’occupazione è la principale ragione per cui abbiamo perso la speranza. Abbiamo solo le nostre voci per essere ascoltati e per rompere il silenzio del mondo sulle violazioni commesse contro di noi. Ci opponiamo tutti insieme disarmati con una protesta pacifica per il nostro legittimo diritto al ritorno.”

Venerdì l’ufficio di coordinamento per gli affari umanitari dell’ONU ha detto che almeno quattro minori sono stati uccisi e 454 feriti dalle forze israeliano fino al 23 aprile.

Ma l’ambasciatrice USA all’ONU Nikki Haley giovedì ha ripetuto la posizione del governo israeliano che incolpa Hamas, il partito che governa Gaza, di “utilizzare minori come carne da macello”.

Accusa il gruppo – che è uno dei vari partiti politici che appoggiano la marcia – di utilizzare nelle proteste i civili come scudi umani.

Gli organizzatori della marcia hanno ripetutamente negato che Hamas stia coordinando le proteste e hanno sottolineato che le decine di migliaia di manifestanti sono state prevalentemente pacifiche.

Israele criticato per “violenze e massacri”

Secondo il ministero della Sanità di Gaza 43 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane dall’inizio della marcia il 30 marzo, e più di 5.500 sono stati feriti. L’ONU ha contato 42 palestinesi morti, che non includono le vittime di venerdì ma comprendono persone non coinvolte nelle manifestazioni.

Non risulta alcuna vittima israeliana.

Gli inviati di MEE hanno ripetutamente testimoniato che durante le manifestazioni le forze israeliane hanno preso di mira infermieri e giornalisti.

Dal 30 marzo due giornalisti palestinesi – Yasser Murtaja e Ahmad Abu Hussein – sono stati colpiti e uccisi, nonostante portassero giubbotti che indicavano chiaramente “Stampa”.

Il segretario generale dell’associazione della stampa democratica a Gaza, Rami al-Sharafi, ha detto che Israele sta mandando il messaggio che “ogni giornalista che documenti la verità lungo il confine (tra Gaza e Israele) per Israele è un bersaglio.”

L’esercito israeliano ha respinto ripetute richieste da parte della comunità internazionale di usare moderazione e condurre un’inchiesta indipendente sulle morti, continuando con la sua politica di aprire il fuoco indiscriminatamente.

Nel contempo Amnesty International ha chiesto un embargo globale della vendita di armi a Israele, accusando le sue forze di “condurre violenze e massacri” contro i palestinesi nella Striscia di Gaza.

Giovedì il portavoce del sistema sanitario di Gaza, Ashraf al-Qidra, in una dichiarazione ha affermato che a 21 palestinesi feriti sono stati amputati gli arti inferiori.

Il gruppo per i diritti umani “Adalah” ha sostenuto che un certo numero di palestinesi ha subito imputazioni dopo che le autorità israeliane hanno negato loro il permesso di viaggiare nella Cisgiordania occupata per essere curati, in quanto gli ospedali di Gaza assediata lo scorso mese hanno dovuto far fronte al grande numero di feriti.

Nel frattempo l’alto commissario ONU per i diritti umani ha detto che Israele deve interrompere l’eccessivo uso della forza e chiedere ai responsabili delle morti nelle manifestazioni di renderne conto.

Zeid Raad al-Hussein ha affermato: “La perdita di vite è deplorevole, e il numero sconcertante di ferite provocate dalle pallottole vere confermano solo la sensazione che sia stata usata una forza eccessiva contro manifestanti – non una volta, non due, ma ripetutamente.

È difficile vedere come ragazzini, anche quelli che lanciano pietre, possano rappresentare un pericolo immediate di vita o di gravi ferite al personale pesantemente protetto delle forze di sicurezza [israeliane].”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rompendo un tabù politico, alcuni coloni israeliani si schierano con i beduini nella lotta contro le demolizioni

Yotam Berger

26 aprile 2018,  Haaretz

Decenni fa i fondatori di Kfar Adumim dichiararono che il vicino accampamento beduino di Khan al-Ahmar avrebbe dovuto essere demolito, ma ora 15 coloni cercano di unirsi alla battaglia legale a favore dei loro impoveriti vicini.

Già nel documento del 1979 che proponeva la costruzione di Kfar Adumim alcuni dei fondatori della colonia in Cisgiordania individuarono un problema nell’area circostante. “Lo spazio è privo di ogni insediamento permanente, e in particolare di insediamenti ebraici,” afferma il documento.

E prosegue: “Oggi vi si trovano due comunità precarie. Molti beduini lavorano la terra. Dato che la zona è utilizzata dall’esercito e molte delle attività economiche dei dintorni servono al sistema di difesa, l’area deve cessare di essere abitata dai beduini, i quali devono essere evacuati.”

Il documento suggeriva di popolare la zona con colonie attraverso le quali sarebbe stato possibile creare un “corridoio ebraico dalla costa, attraverso Gerusalemme, fino al fiume Giordano. Tale corridoio taglierebbe la continuità territoriale dell’insediamento arabo tra la Giudea e la Samaria [la Cisgiordania, ndt.].”

Il documento è firmato dai membri del cosiddetto consiglio locale di Ma’ale Adumim Bet, che più tardi è diventata Kfar Adumim, a est di Gerusalemme sulla strada principale che porta al Mar Morto (Ma’ale Adumim attualmente è la più grande colonia urbana). Tra i firmatari c’era un abitante di Kfar Adumim che in seguito l’ha resa importante nella politica nazionale: il ministro dell’Agricoltura e dello Sviluppo rurale Uri Ariel, di “Habayit Hayehudi” [“Casa Ebraica” partito di estrema destra dei coloni, ndt.]

Sono passati 39 anni da quando è stato stilato il documento, ma la lotta per eliminare i beduini dalla zona circostante è ancora in corso. La terra della limitrofa area industriale di Mishor Adumim è piena di piccoli accampamenti e villaggi beduini, i cui abitanti si guadagnano stentatamente da vivere allevando pecore e facendo lavoretti, e sono tra le comunità più povere della Cisgiordania.

La maggior parte della zona occupata dai beduini è terra dello Stato, non di proprietà privata – e la maggioranza delle tende e delle baracche di latta in cui vivono non ha permessi di costruzione o l’approvazione del piano regolatore. Perciò, il governo ha tentato di spostarli in costruzioni permanenti lontane dalle colonie ebraiche.

Mercoledì l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] deciderà ancora una volta su una serie di ricorsi relativi all’ultima fase della lotta contro l’evacuazione di comunità beduine non autorizzate nei pressi di Khan al-Ahmar. Si tratta della più grande di queste comunità, con decine di strutture. È diventata un simbolo soprattutto per la sua cosiddetta “scuola di gomme”, costruita nel 2009 con l’aiuto di una ONG italiana. La scuola è una grande struttura ben costruita, piuttosto strana nel paesaggio circostante, ed è stata edificata senza permesso: per qualche tempo lo Stato ha cercato di demolirla e di spostarla.

La “scuola di gomme” è diventata un simbolo non solo per i beduini del posto, ma anche tra i diplomatici stranieri, soprattutto europei, che la visitano regolarmente come parte di una più generale protesta contro l’espulsione dei beduini.

Una delle parti che hanno presentato una petizione all’Alta Corte perché ordini l’ evacuazione si trova nei pressi di Kfar Adumim, la qual cosa ha reso l’incontro dello scorso venerdì di quattro residenti di questa cittadina con gli abitanti di Khan al-Ahmar nient’affatto scontato. I quattro fanno parte di un gruppo di 15 abitanti di Kfar Adumim che recentemente hanno presentato una petizione all’Alta Corte, chiedendo di consentire loro di diventare parte in causa del processo – ma a favore dei beduini. L’Alta Corte mercoledì prenderà in considerazione anche la loro richiesta.

Il gruppo è guidato dal prof. Dan Turner, un medico residente da 20 anni a Kfar Adumim. Turner ha detto ad Haaretz di aver sempre creduto che Kfar Adumim “abbia fatto ogni sorta di offese ai beduini, ma non ho mai saputo i dettagli.” Poi ha sentito del tentativo di demolire la scuola e, poco dopo, dell’intenzione di distruggere tutto Khan al-Ahmar.

Mi sono sentito molto a disagio. Non conoscevo le persone che vivevano qui, persone completamente invisibili che vivono a 300 metri da casa mia,” dice Turner.

Ora sembra che per Turner le cose siano cambiate, e, dopo esserci andato la prima volta un anno fa, ora si sente a casa a Khan al-Ahmar. Alcuni degli abitanti oggi lo riconoscono. Turner abbraccia Eid Hamis Jahalan, uno dei capi della comunità, anche se qualcun altro sembra meno a proprio agio nel farlo. Ma dopo che viene servito il tè sotto al grande albero nei pressi della tenda di Eid, l’atmosfera pare più rilassata.

Seduti sotto quell’albero si può vedere la colonia di Kfar Adumim, le sue case di pietra e i tetti di tegole. Anche se sono poche centinaia di metri, le differenze nel modo e nella qualità di vita tra i coloni e i loro vicini beduini sono quasi inimmaginabili. Quando Noa Meridor, uno dei fondatori di Kfar Adumim, dichiara: “Ci siamo opposti all’idea secondo cui tutto questo spazio debba essere ebraico” – Jahalan ascolta parole che non sono mai state pronunciate dai rappresentanti dei coloni.

Tensione ancora palpabile

Anche durante il recente, inusuale incontro la tensione è palpabile. Gli abitanti di Kfar Adumim sentono che è importante sottolineare che non si ritengono di sinistra. Quando Jahalan afferma che la situazione dei beduini in Cisgiordania ricorda quella degli ebrei nella Germania nazista, i suoi quattro ospiti ebrei rifiutano il paragone. Eppure riescono a rompere una specie di muro di vetro tra i due gruppi che vivono vicini e praticamente non avevano avuto alcun contatto.

Da parte sua Jahalan dice di non essere mai stato criticato per la sua collaborazione con i coloni. Sostiene di essere stato persino elogiato per essere riuscito in quello che organizzazioni affiliate all’Autorità Nazionale Palestinese non sono mai state in grado di fare: portare persone delle comunità vicine ad appoggiare i beduini: “È la prima volta che succede qualcosa del genere. Quelli di sinistra (israeliani) si possono vedere in posti come Nabi Saleh, a Na’alin (villaggi palestinesi della Cisgiordania). Ma coloni che vengano ed appoggino i beduini – è la prima volta.”

Il gruppo di Kfar Adumim che desidera appoggiare i vicini beduini all’Alta Corte è piccolo e marginale, e farvi parte ha delle conseguenze sui rapporti sociali. Hefziba Kelner, un’insegnante, dice che non ne parla con i suoi amici: “È un argomento molto delicato e mi pare che non sai mai chi è con te e chi non lo è. E’ difficile. Devi adeguare le tue risposte, anche ora, e capire che ci sono altre opinioni. Ci penso due volte prima di dire qualcosa in pubblico.”

L’appoggio di un ex-giudice

Il gruppo di Kfar Adumim ha allegato una lettera molto inusuale alla sua richiesta perché gli venga concesso di essere parte in causa a favore dei beduini. È stata scritta da un ex-vicepresidente della Corte Suprema, Elyakim Rubinstein. Con quella che è un’iniziativa molto rara per un giudice appena pensionato, Rubinstein esprime il proprio sostegno alla richiesta del gruppo.

Rubinstein scrive che, poiché durante gli anni ha avuto a che fare con molti casi relativi alla zona, avrebbe difficoltà a prendere parte personalmente a una campagna pubblica sull’argomento, ma “vi (ai coloni) sto scrivendo in segno di rispetto per la vostra umanità, espressa nelle vostre attuali iniziative.”

L’ex giudice scrive che, benché il governo voglia soltanto discutere su come portare avanti i progetti di evacuazione dei beduini, spera ancora che con l’aiuto di Dio e un po’ di buon senso si possa ancora trovare un compromesso condiviso.

Insieme alla lettera di Rubinstein, gli abitanti di Kfar Adumim hanno presentato all’Alta Corte il parere di una serie di famosi vincitori del premio “Israel” [una delle maggiori onorificenze israeliane, ndt.] e di intellettuali israeliani, tra cui gli scrittori David Grossman, A. B. Yehoshua e Amos Oz. Questo appoggio sta aiutando la causa dei beduini e del loro gruppo di avvocati. Shlomo Lecker, l’avvocato che rappresenta la comunità di Khan al-Ahmar, ha detto ad Haaretz che già nel 2009 aveva cercato di coinvolgere intellettuali ed accademici di Kfar Adumim perché stessero dalla parte dei beduini contro il tentativo di demolire la loro scuola – e “sono stato accolto da uno sconfortante silenzio.” Ha aggiunto di essere rimasto sorpreso dal gruppo dei 15 che si sono uniti alla lotta, e spera che il suo impegno ottenga un risultato.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Ufficiale israeliano in carcere per nove mesi per aver ucciso un adolescente palestinese

Chloé Benoist

mercoledì 25 aprile 2018,Middle East Eye

La famiglia di Nadim Nuwara dice che ricorrerà in appello contro Ben Deri, che ha sparato alla schiena al figlio di 17 anni durante la marcia del 2014 per commemorare la Nakba.

Un poliziotto di frontiera israeliano sarebbe stato condannato a nove mesi di prigione e multato con il corrispettivo di 13.955 dollari per aver ucciso nel 2014 il ragazzo palestinese Nadim Nuwara durante una manifestazione in commemorazione della Nakba.

Il giornale israeliano Haaretz ha riportato che mercoledì un giudice della corte distrettuale di Gerusalemme ha condannato Ben Deri, riscontrando un “significativo livello di negligenza” e ne ha chiesto l’incarcerazione, pur specificando che Deri è “un eccellente ufficiale di polizia rispettoso degli ordini.”

Siyam Nuwara, padre di Nadim, ha detto a Middle East Eye che la famiglia stava pensando di presentare appello contro il verdetto e ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire sul caso.

Non c’è giustizia in Israele,” ha detto. “Abbiamo raccolto tutte le prove, ma non c’è giustizia.”

Nuwara aveva 17 anni quando venne colpito alla schiena fuori dalla prigione di Ofer, l’unica prigione israeliana situata all’interno della Cisgiordania occupata, durante una protesta per ricordare il 66° anniversario della Nakba, l’espulsione di 750.000 palestinesi durante la creazione di Israele.

Telecamere di sicurezza e troupe televisive ripresero il momento in cui Nadim fu ucciso.

Quel giorno anche un altro giovane palestinese, Mohammed Odeh Abu al-Thahir, venne colpito ed ucciso, tuttavia le autorità israeliane non hanno aperto nessuna inchiesta giudiziaria sulla sua morte.

Alcuni gruppi per i diritti umani, compreso Human Rights Watch, hanno affermato che il ragazzo non costituiva una minaccia imminente quando è stato ucciso, e HRW ha definito il caso “un evidente crimine di guerra”.

Inizialmente le forze israeliane negarono che quel giorno fossero stati sparati proiettili veri, mentre alcune fonti ufficiali israeliane, tra cui l’allora ambasciatore negli Stati Uniti, Michael Oren, sostennero che le morti di Nuwara e al-Thahir erano una messa in scena.

L’esame autoptico dimostrò che Nuwara era stato colpito al torace. Deri venne arrestato sei mesi dopo e in un primo tempo accusato di omicidio.

La difesa di Deri si è imperniata sulla versione secondo cui un proiettile vero era caduto “accidentalmente” nel caricatore dell’arma dell’ufficiale, mentre lo stava caricando con pallottole di acciaio ricoperto di gomma.

All’inizio del 2017 Deri ha accettato un patteggiamento che ha derubricato l’imputazione contro di lui a omicidio colposo per negligenza.

La famiglia di Nuwara ha contestato il patteggiamento di fronte al tribunale, sostenendo che era stato raggiunto senza che loro ne fossero a conoscenza e che quel giorno Deri aveva usato consapevolmente proiettili veri.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’tselem ha affermato in un comunicato: “Il processo a Ben Deri esemplifica come il sistema investigativo e legale di Israele insabbi le continue uccisioni di palestinesi.”

Persino in questo caso, inusuale in quanto le accuse sono state formulate e si è persino arrivati al processo, l’insabbiamento continua. Il giudizio è finito con una sentenza vergognosamente mite, che serve solo a sottolineare il solito messaggio: le vite dei palestinesi sono a perdere.

Israele sicuramente si vanterà di questo processo come un chiaro esempio della sua capacità di fare giustizia. Al diavolo i fatti, quello che conta è la propaganda.”

L’udienza di mercoledì si è tenuta mentre Israele affronta le critiche per la politica di fuoco indiscriminato nella Striscia di Gaza assediata, dove dal 30 marzo l’esercito israeliano ha ucciso 39 palestinesi e ferito altre migliaia di manifestanti che partecipavano alla “Grande Marcia del Ritorno.”

Le autorità israeliane raramente incriminano soldati che hanno ucciso palestinesi. Quando membri delle forze israeliane sono imputati per queste morti, le condanne sono spesso brevi – creando quello che l’ong israeliana per i diritti umani Yesh Din ha chiamato un contesto di “quasi impunità”.

Hanan Ashrawi, membro direttivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha denunciato il doppio standard del sistema giudiziario israeliano.

È ridicolo che la ragazzina palestinese Ahed Tamimi, che ha affrontato un soldato israeliano che stava invadendo casa sua nella Cisgiordania occupata, sia stata obbligata a scontare otto mesi in una cella di un carcere israeliano,” ha detto.

Nel contempo il poliziotto di frontiera israeliano Ben Deri…ha avuto una sentenza di soli nove mesi.”

Finché la comunità internazionale rimarrà in silenzio, l’ingiustizia e l’oppressione del popolo palestinese continueranno senza sosta. Israele deve essere chiamato a rendere conto della sua violenza incontenibile e delle gravi violazioni contro il popolo palestinese.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




In realtà, Natalie, tu STAI praticando il BDS

Yousef Munayyer

The Forward 21 aprile 2018

Cara Natalie (se me lo consenti),
negli ultimi giorni, ho seguito attentamente la tua decisione di non partecipare a una cerimonia di premiazione in Israele e le tue dichiarazioni in merito. La tua decisione per me è stata importante non solo perché sono palestinese, ma perché mi sono reso conto che abbiamo qualcosa in comune, tu ed io. Sono nato in Israele, a soli 50km. da Gerusalemme, dove sei nata tu; a Lydda, la città della mia famiglia (la mia famiglia non si è trasferita in Israele, è Israele che è venuto da noi). Tu ed io siamo anche quasi coetanei, anche se sicuramente abbiamo vissuto il nostro essere cittadini israeliani in modi molto diversi. Per me, palestinese, ha voluto dire essere etichettato e trattato come “minaccia demografica”, mentre tu hai parlato bene di Israele e sei orgogliosa di esserne cittadina. Abbiamo entrambi lasciato Israele e ci siamo trasferiti negli USA da piccoli, insieme alle nostre famiglie. Chissà, magari abbiamo sorvolato l’Atlantico sullo stesso aereo, anche se sono praticamente certo che la tua esperienza con la polizia aeroportuale sia stata molto diversa dalla mia (anche se probabilmente entrambi abbiamo applaudito quando il pilota ci ha fatto atterrare sani e salvi). Ma se, una volta negli USA, la tua esperienza è stata simile alla mia, allora vuol dire che nemmeno tu ti sei mai sentita completamente a tuo agio né qui né lì, un piede qua e uno là, e un cuore perennemente desideroso di una casa. E arriviamo al punto in cui le nostre strade si separano. Tu hai intrapreso una carriera di attrice, fino a vincere un Oscar. La mia carriera d’attore si è fermata al Mago di Oz, in seconda media: io ero il leone, e forse ho un po’ esagerato con l’accento di Bert Lahr. Penso di aver fatto un buon lavoro, ma la mia passione mi ha portato a seguire un’altra strada, che poi è il motivo per cui oggi ti scrivo. La motivazione che hai dato per il tuo rifiuto del Genesis Prize è che non volevi condividere il palco con Netanyahu e non volevi in alcun modo dare l’impressione di sostenerlo. Penso di andare sul sicuro se ipotizzo che il tuo avercela con Netanyahu non sia un fatto personale. Non riguarda la tinta di capelli che ha scelto o l’uso continuo di patetici giochetti e slogan durante i suoi discorsi, ma ha a che fare con la politica e con le politiche che lui rappresenta, politiche che violano il diritto internazionale e i diritti fondamentali dei palestinesi, ammazzati quotidianamente dallo stato israeliano. E, con il tuo rifiuto di tollerare queste politiche e il loro sostenitore, stai dimostrando di capire che lo stato israeliano non pensa che le proprie politiche siano un problema. Ciò che invece loro credono è che la percezione che il mondo ha delle loro politiche sia diventata il vero problema. Se solo potessero far capire al mondo che, in qualche modo, è accettabile negare perennemente i diritti fondamentali a milioni di persone, a quanto pare per loro tutto andrebbe meglio. Gli sforzi di Israele per convincere il mondo ad accettare questa spoliazione includono il portare persone famose come te su palchi israeliani, mandando il messaggio ai loro fan che quel che Israele fa va bene. Questa è una strategia di pubbliche relazioni particolarmente importante per Israele, appunto perché è rivolta a un target giovane che si sta allontanando dallo stato israeliano. Con la tua decisione, hai mandato un messaggio a Israele: le loro politiche, che violano i diritti umani e civili, sono ingiustificabili. Ecco perché è così importante che tu abbia deciso di non partecipare a questa cerimonia. So che potresti non vederla così. Nel tuo comunicato, hai scritto: “Non faccio parte del movimento BDS e non lo sostengo”. “Come molti israeliani ed ebrei nel mondo, posso criticare la leadership in Israele senza per questo voler boicottare l’intera nazione; considero preziosi i miei amici israeliani e la mia famiglia, il cibo israeliano, i libri, l’arte, il cinema e la danza.” Per un cittadino israeliano, la pratica del boicottaggio può apparire complicata. Tu ed io abbiamo entrambi la famiglia in Israele, persone che amiamo e che non possiamo immaginare di non rivedere. Gli israeliani, come tutti, hanno molto da offrire al mondo. Quindi io comprendo la tua esitazione a “boicottare l’intera nazione”. Ma non è questo, il BDS. I singoli individui non sono l’obiettivo del boicottaggio, è lo Stato ad esserlo. Queste cose possono e devono essere separate. La verità è che il BDS non è nemmeno un movimento. Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni sono una serie di strategie nonviolente che vengono utilizzate da molti movimenti, ma che le istituzioni della società civile palestinese hanno chiesto alla comunità internazionale di adottare come parte del movimento nonviolento per i diritti dei palestinesi, per mandare a Israele il messaggio che deve smettere di negarli. E lo stato di Israele, dal canto suo, terrorizzato dall’adozione su vasta scala di queste strategie, ha cercato di diffamare gli attivisti e di mettere zizzania tra i palestinesi e gli internazionali che vogliono sostenerne i diritti, nel tentativo di far desistere la gente dall’uso di queste strategie nonviolente. Alla fine, israeliani e palestinesi dovranno raggiungere un accordo sulle regole politiche che governeranno la loro coesistenza. Ma questo non può succedere finché lo stato israeliano non si rende conto che lo status quo è inaccettabile, immorale e costoso. L’importante è che il messaggio venga inviato. Israele ha bisogno di sentirlo. Ma il modo in cui ognuno decide di mandare il messaggio, beh, questo dipende da ogni singola persona. Sicuramente c’è modo di fare soggiorni etici che non forniscono sostegno o legittimazione allo stato israeliano e alle sue politiche. Io preferisco un’azione economica nonviolenta contro lo stato israeliano e le istituzioni o le aziende legate allo stato che fanno profitti dalle sue politiche abusive o lavorano per mascherarle. Ciò non vuol dire che io non possa comprare l’hummus nel makolet (negozio di alimentari, n.d.t.) di mio cugino quando vado a trovare la mia famiglia. E a quanto pare tu hai trovato il tuo modo di partecipare, boicottando il Genesis Prize. C’è un’ultima differenza tra noi che mi piacerebbe sottolineare. Magari hai pensato di tornare a vivere in Israele, un giorno, con la tua famiglia. Il tuo partner, Benjamin, coreografo francese, potrebbe ottenere la residenza e poi la cittadinanza perché tu sei cittadina israeliana. La mia compagna ed io, invece, non possiamo tornarci insieme, perché lei, professoressa di chimica, è palestinese della Cisgiordania, terra occupata da Israele. Ciò significa che, anche se io sono cittadino israeliano, lo stato impedisce a me e ad altri, sposati con palestinesi, di vivere con loro in Israele. Questo perché, come ha spiegato Benjamin Netanyahu, ciò comporterebbe “un’esplosione demografica”. La differenza, vedi, è che lo stato si preoccupa dei miei figli non ancora nati, ma non dei tuoi. Tu hai contribuito a modo tuo, questa settimana, a mettere fine a questa situazione perversa, mettendoci la faccia contro questo tipo di ineguaglianze. Spero che tu e gli altri che potrebbero trarre ispirazione dalla tua decisione continuerete a farlo, in modi che facciano sentire sempre più forte il messaggio, finché non potrà più essere ignorato.
Con affetto, Yousef
Yousef Munayyer, analista politico e scrittore, è Direttore Esecutivo della Campagna USA per i diritti dei Palestinesi.
(Traduzione di Elena Bellini) su Facebook