Quello che i palestinesi ci possono insegnare sulla resistenza popolare

Ramzy Baroud

11 Aprile 2018, Al Jazeera

La gente di Gaza si è ribellata non per le fazioni politiche palestinesi, ma nonostante loro.

La continua mobilitazione popolare sul confine di Gaza è una reminiscenza di avvenimenti storici precedenti, in cui il popolo palestinese si è sollevato all’unisono per sfidare l’oppressione e chiedere la libertà.

La resistenza popolare palestinese non è né un fenomeno nuovo né estraneo. Scioperi generali di massa e disobbedienza civile, sfidando l’imperialismo britannico e gli insediamenti sionisti in Palestina, iniziarono circa un secolo fa, culminati nel 1936 con uno sciopero generale di sei mesi.

Da allora la resistenza popolare è stata un elemento fondamentale nella storia palestinese ed una caratteristica rilevante della Prima Intifada, la rivolta popolare del 1987.

È superfluo dire che i palestinesi non hanno bisogno di lezioni su come resistere all’occupazione israeliana, lottare contro il razzismo e sfidare l’apartheid. Loro, e solo loro, sono in grado di sviluppare la strategia adeguata e i mezzi che alla fine li porteranno alla vittoria. Oggi la necessità di questa strategia è più che mai urgente, e c’è una ragione di ciò.

Gaza viene soffocata. Il decennale blocco israeliano, insieme all’indifferenza araba e al prolungato conflitto tra le fazioni palestinesi, sono serviti a portare i palestinesi a un passo dal morire di fame e alla disperazione politica. Qualcosa si è spezzato.

Venerdì 30 marzo decine di migliaia di palestinesi si sono ammassati sul confine orientale di Gaza per iniziare una serie di proteste e veglie che dovrebbero durare fino al 15 maggio.

In quella data, settant’anni fa, Israele ha dichiarato l’indipendenza, obbligando centinaia di migliaia di palestinesi all’esilio. Per molti palestinesi la dichiarazione d’indipendenza di Israele, come risultato della distruzione della loro patria, è stato un crimine indimenticabile. Per gli israeliani il 15 maggio è una festa; per il popolo palestinese, è la nostra Nakba, o catastrofe.

Ma la continua mobilitazione di massa non è solo per sottolineare il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi (come sancito dalle leggi internazionali), né solo la commemorazione del “Giorno della Terra”, un evento che ha unito tutti i palestinesi dalle sanguinose proteste del 1976. La manifestazione riguarda la richiesta di un progetto che superi le lotte intestine e che ridia voce al popolo.

Ci sono parecchie somiglianze storiche tra questa mobilitazione e il contesto che ha preceduto la Prima Intifada nel 1987.

All’epoca in tutta la regione i governi arabi avevano largamente relegato la causa palestinese allo status di “problema di qualcun altro”. Alla fine del 1982 l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), già esiliata in Libano, venne espulsa insieme a migliaia di combattenti palestinesi ancora più lontano, in Tunisia, Algeria, Yemen e vari altri Paesi. Questo isolamento geografico rese irrilevante la dirigenza tradizionale della Palestina rispetto a quanto stava succedendo sul terreno, in patria.

Con scarse pressioni su Israele perché ponesse fine all’occupazione illegale di Gerusalemme est, di Gaza e della Cisgiordania, l’occupazione militare israeliana lentamente diventò lo status quo. I palestinesi divennero poco più che prigionieri in una serie di carceri urbane separate – controllati ad ogni incrocio stradale principale, sottoposti ad incursioni nelle loro case in modo prevedibilmente irregolare, e spiati giorno e notte da terra, aria e, nel caso di Gaza, dal mare.

Ma, in quel momento di apparente disperazione, scattò qualcosa. Nel dicembre 1987 la gente (per lo più bambini ed adolescenti) scese in strada con una mobilitazione prevalentemente non violenta che durò oltre sei anni. Ma la dirigenza palestinese non approfittò dell’energia di massa del suo popolo. Peggio, ne approfitto per arrivare alla firma degli accordi di Oslo nel 1993.

Oggi la dirigenza palestinese si trova in una situazione simile di crescente irrilevanza. Di nuovo isolata geograficamente (con Fatah che controlla la Cisgiordania e Hamas Gaza), ma anche dalle divisioni ideologiche.

È vero, ovviamente, che le divisioni politiche ed ideologiche sono tipiche di ogni lotta anticolonialista. Dall’India all’Algeria al Sud Africa, le divisioni interne sono state la norma, non l’eccezione, nei movimenti di liberazione di massa.

Ma mai prima d’ora queste divisioni interne sono state utilizzate come arma in modo così efficace dagli avversari della causa ed usate come argomento contro la causa primaria, per delegittimare la richiesta di un intero popolo per i diritti umani fondamentali: “I palestinesi sono divisi, per cui devono rimanere imprigionati.”

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah sta rapidamente perdendo credibilità tra i palestinesi, a causa delle prolungate accuse di corruzione, con molti che chiedono che il leader dell’ANP dia le dimissioni (tecnicamente il suo mandato è scaduto nel 2009).

Lo scorso dicembre il nuovo presidente USA Donald Trump ha accentuato l’isolamento dell’ANP, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, sfidando le leggi internazionali e il consenso dell’ONU. Molti vedono questa come nient’altro che la prima di una serie di mosse destinate a marginalizzare ulteriormente l’ANP.

L’Autorità Nazionale non è l’unica fazione palestinese che sta diventando sempre più isolata.

Hamas – in origine un movimento di base nato nei campi di rifugiati di Gaza durante la Prima Intifada – ora è altrettanto indebolita dall’isolamento politico.

Per oltre un decennio, fin dalla sua sanguinosa presa del potere a Gaza nel 2007, la dirigenza di Hamas ha compiuto infinite manovre politiche per rompere l’assedio di Gaza, ma ha ripetutamente fallito. Finalmente ha iniziato a capire di non poter essere utile a quella causa nell’isolamento politico ed ha cominciato a prendere iniziative per la riconciliazione con Fatah. Più di recente, nell’ottobre dello scorso anno i due partiti hanno firmato al Cairo un accordo di riconciliazione.

Come precedenti tentativi di riconciliazione, quest’ultimo ha iniziato quasi subito a vacillare. Il principale ostacolo si è manifestato il 13 marzo, quando il corteo del primo ministro dell’ANP Rami Hamdallah è stato bersaglio di un apparente tentativo di assassinio. Hamdallah stava andando a Gaza attraverso un posto di frontiera israeliano. Subito l’ANP ha incolpato Hamas dell’attacco. Quest’ultimo l’ha fermamente smentito. La politica palestinese è tornata al punto di partenza.

Ma poi c’è stato il 30 marzo. Quando migliaia di palestinesi hanno camminato nella mortale “zona di sicurezza” lungo il confine di Gaza, cioè pacificamente e consapevolmente nel mirino dei cecchini israeliani, la loro intenzione era chiara: essere visti dal mondo come cittadini comuni, che finora sono rimasti invisibili dietro i politici.

I gazawi hanno eretto tende, cantato insieme e sventolato bandiere palestinesi – non quelle delle varie fazioni. Famiglie si sono riunite, bambini hanno giocato, sono comparsi persino dei clown da circo ed hanno fatto spettacoli. È stato un raro momento di unità.

La risposta dell’esercito israeliano è stata, bisogna dirlo, “degna del personaggio”. Uccidendo 17 manifestanti disarmati e ferendo migliaia di persone in un solo giorno, utilizzando le più moderne tecnologie in pallottole esplosive, hanno pensato di poter impartire una lezione ai palestinesi. Si è trattato del manuale 101 delle guardie carcerarie: picchiali, e picchiali di nuovo. Uccidili. Uccidili di nuovo. Persino giornalisti che hanno semplicemente cercato di informare il mondo su questo eroico ma tragico momento sono stati colpiti, feriti e uccisi.

Condanne per questo massacro sono piovute da personaggi rispettati di tutto il mondo come papa Francesco ed organizzazioni come Human Right Watch. Questo barlume di attenzione può aver fornito ai palestinesi un’opportunità di portare l’ingiustizia dell’assedio fino all’ordine del giorno della politica globale, ma sarà una magra consolazione per le famiglie delle vittime.

Consapevole di trovarsi al centro dell’attenzione internazionale, Fatah ha approfittato dell’opportunità di attribuirsi il merito di questo atto spontaneo di resistenza popolare. Il vice presidente, Mahmoud al-Aloul, ha affermato che i manifestanti si sono mobilitati per appoggiare l’ANP “di fronte alle pressioni ed alle cospirazioni architettate contro la nostra causa,” riferendosi senza dubbio alla strategia di isolamento contro l’ANP controllata da Fatah da parte di Trump. Anche Hamas ha cercato di sfruttarla allo stesso modo.

Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Questa volta è il popolo palestinese, sono gli audaci ragazzi e ragazze di Gaza che stanno forgiando la propria strategia, indipendentemente dalle fazioni, di fatto a dispetto delle divisioni. E questa volta dobbiamo ascoltare, smettere di dare lezioni e forse imparare da questi giovani uomini e donne che stanno a petto nudo davanti a cecchini e assassini solo con i loro slogan per la libertà e la loro fede in una vittoria sicura.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente l’orientamento redazionale di Al Jazeera.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Con la Grande Marcia del Ritorno, i palestinesi chiedono una vita dignitosa

Ahmad Abu Rtemah

The Nation – 6 aprile, 2018

La Nakba non è solo una memoria [da coltivare], è una realtà tuttora in atto. Possiamo accettare che alla fine dobbiamo morire tutti; a Gaza la tragedia è che non riusciamo a vivere.

Khan Younis- Negli ultimi otto giorni, decine di migliaia di manifestanti a Gaza hanno ridato vita a un luogo che lentamente se ne stava impoverendo. Siamo venuti in massa, lanciando slogan e cantando una ninna nanna che tutti abbiamo desiderato, “Noi ritorneremo”, portando tutto quello che ci è rimasto da offrire nel tentativo di reclamare i nostri diritti a vivere in libertà e giustizia. Nonostante la nostra marcia pacifica, ci siamo imbattuti in una pioggia di gas lacrimogeni e di fuoco letale [lanciati] dai soldati israeliani. Sfortunatamente non è una novità per i palestinesi di Gaza che hanno vissuto molte guerre e un brutale assedio e blocco.

A Gaza abitano quasi 1 milione e 900.000 persone di cui 1 milione e 200.000 sono rifugiati espulsi dalle loro case e dalle loro terre durante la formazione di Israele 70 anni addietro, conosciuta come la Nakba ( la Catastrofe) per i palestinesi. Sin dall’inizio dell’assedio quasi 11 anni fa, il semplice obiettivo di sopravvivere ogni giorno si è dimostrato essere una sfida. Adesso solamente svegliarsi e potere usare acqua pulita ed elettricità è un lusso. L’assedio è stato particolarmente duro per i giovani, che soffrono a causa di un tasso di disoccupazione pari al 58%. Quello che è peggio è che tutto ciò è il risultato della politica di Israele che può essere cambiata. Questa vita dura e difficile non deve essere la realtà di Gaza.

I pescatori non possono avventurarsi oltre le sei miglia marine, il che trasforma in una sfida pescare abbastanza da mantenere i loro familiari. Dopo le guerre di Israele del 2008-09 e poi di nuovo del 2012 e del 2014 e tutte le uccisioni che sono avvenute in quel periodo, alla gente qui non è nemmeno concessa l’opportunità di ricostruire, giacché Israele ha ridotto i permessi di ingresso dei materiali di costruzione. Le condizioni degli ospedali sono allarmanti, e ai pazienti di rado viene data l’opportunità di andare a curarsi fuori [da Gaza]. Non vale la pena nemmeno di menzionare la perpetua condizione di oscurità in cui viviamo, praticamente senza elettricità o acqua pulita. Non è stato sufficiente averci cacciati; è come se tutta la memoria dei rifugiati palestinesi debba essere confinata e cancellata.

 Sono nato nel campo profughi di Rafah a Gaza. I miei genitori sono della città di Ramle in quello che ora è conosciuto come Israele. Come la maggior parte dei rifugiati palestinesi, ho sentito le storie dai membri più anziani della mia famiglia riguardo alla brutalità con cui sono stati cacciati dalle loro case durante la Nakba. Nonostante siano passati molti decenni, essi, come centinaia di migliaia di altre persone, non sono capaci di dimenticare gli orrori di cui sono stati testimoni durante il loro esproprio e tutte le violenze e sofferenze che si sono accompagnate a ciò.

Non ho mai visto la casa della mia famiglia a Ramle e i miei figli non hanno mai visto niente oltre i confini di Gaza e dell’assedio. Il mio più grande figlio di 7 anni e il più piccolo di 2 non conoscono nessuna realtà all’infuori del rumore delle bombe, del buio della notte senza elettricità, dell’impossibilità di viaggiare liberamente, o il fatto che queste cose non sono normali. Niente nella vita di Gaza è normale. La Nakba non è solo una pratica di memoria, è una realtà tuttora in atto. E se possiamo rassegnarci che tutti alla fine dobbiamo morire, a Gaza la tragedia è che non riusciamo a vivere.

 E’ contro questa dura realtà che resistiamo. Gli ultimi due venerdì, abbiamo resistito contro tutte le potenze che ci dicevano di smettere e morire in silenzio e abbiamo deciso di marciare per la vita. Si tratta di una protesta di una popolazione che non vuole altro che vivere in dignità.

 Nel 2011 i palestinesi hanno marciato verso i confini dalla Siria , dal Libano, dalla Giordania, da Gaza e dalla Cisgiordania. Alcuni sono stati uccisi, altri che sono riusciti a oltrepassare il confine sono stati arrestati dai soldati israeliani. Ma molto tempo prima, nel 1976, i palestinesi hanno protestato contro l’esproprio da parte di Israele delle loro terre in quello che più tardi è stato conosciuto come il Giorno della Terra. Allora sei palestinesi furono uccisi e 42 anni dopo Israele sta ancora facendo ricorso a una violenza omicida per impedire ai rifugiati di ritornare, ammazzando almeno 25 palestinesi a Gaza dallo scorso venerdì. Quegli esseri umani hanno osato sognare [di andare] al di là di tutte le strade dei campi profughi; avevano avuto la visione di una casa che non hanno mai avuto l’occasione di vedere.

 Ero preoccupato per la nostra incolumità quando siamo arrivati in migliaia in quella che Israele ritiene “ zona da non percorrere”. Ho riflettuto sulle conseguenze. Quando mi sono trovato con la mia famiglia nei pressi della piazza della Marcia del Ritorno nella zona orientale di Khan Younis, abbiamo respirato i gas lacrimogeni, compresi i miei figli. Ho sofferto nel vedere l’infanzia innocente colpita da un’esperienza così traumatica. Ma quello che molte persone non riescono a riconoscere è che sia che stiamo a casa, sia che protestiamo all’aperto, non siamo mai veramente sicuri a Gaza, né siamo realmente vivi. È come se tutta la nostra esistenza e i sogni di ritornare a casa e vivere con dignità debba essere nascosta nell’oscurità.

Tuttavia, quest’anno, dopo il riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele e la possibilità di realizzare quello che ha definito come “l’accordo del secolo”, i palestinesi hanno sentito un’imminente minaccia al diritto al ritorno dei rifugiati, nonostante venga riconosciuto dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite. È una preoccupazione di tutti che i nostri diritti in quanto rifugiati siano in serio pericolo e noi dobbiamo resistere in un modo nuovo, unitario, rivoluzionario, un modo che è al di fuori delle modalità dei negoziati e di quelle delle fazioni, per fare pressione su Israele e reclamare i nostri diritti.

Nei 70 anni trascorsi, Israele ha continuamente cacciato e umiliato i palestinesi. L’abbiamo visto nel ’48 e di nuovo nel ’67 e ora ancora ne siamo testimoni con l’espansione delle colonie. Mentre Israele butta fuori i palestinesi, porta nuovi immigrati da ogni parte del globo e li insedia su terre rubate ai palestinesi in violazione del diritto internazionale. Tuttora Israele continua ad essere incoraggiata dalla mancanza di pressioni da parte della comunità internazionale e dal sostegno dell’amministrazione Trump, cosicché le colonie continuano inesorabilmente ad espandersi.

Israele vorrebbe che il mondo credesse che noi palestinesi abbiamo lasciato volontariamente le nostre case ed abbiamo scelto questa vita di umiliazione, senza i diritti umani fondamentali, e che abbiamo imposto tutto ciò a noi stessi.

 Oggi i palestinesi di Gaza stanno provando a rompere le catene in cui Israele ha tentato così duramente di imprigionarci. Siamo dei manifestanti inermi che affrontano, protestando pacificamente, soldati pesantemente armati. Come risultato è difficile per Israele calunniarci e giustificare la sua brutale violenza e il mondo ha davanti a sé la realtà che innocenti civili vengono uccisi solo per avere esercitato il loro diritto a protestare pacificamente. Le scuse che Israele usa per giustificare le sue politiche nei confronti dei palestinesi stanno lentamente perdendo la loro efficacia, dal momento che a livello mondiale le persone realizzano sempre più che il vero volto di Israele è quello di un brutale regime di apartheid.

Nonostante la violenza voluta e mirata verso manifestanti inermi da parte di Israele, con la nostra Grande Marcia del Ritorno noi palestinesi a Gaza stiamo affermando ad alta voce e chiaramente che noi siamo ancora qui. Per Israele , è la nostra identità il nostro crimine, ma noi stiamo celebrando proprio quell’ identità che Israele cerca di criminalizzare. Persone di tutti i ceti stanno partecipando alla marcia. Artisti contribuiscono con la tradizionale danza dabka, intellettuali organizzano circoli di lettura, volontari si vestono da clown e giocano con i bambini. Quello che è più sorprendente sono i giovani che vivono e giocano, la loro risata, la più grande protesta fra tutte.

Le Nazioni Unite hanno ammonito che Gaza può essere invivibile entro soli due anni. Resistendo al destino che Israele ha programmato per noi, stiamo lottando pacificamente con i nostri corpi e il nostro amore per la vita, appellandoci alla giustizia che rimane nel mondo.

Ahmad Abu Rtemah è uno scrittore indipendente di Gaza, attivista di un social media e uno degli organizzatori della Grande Marcia del Ritorno.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La crociata annessionista di Israele a Gerusalemme: il ruolo di Ma’ale Adumim e del corridoio E1

Zena Agha

26 marzo 2018, Al Shabaka

Sintesi

Negli scorsi mesi Israele ha fatto una serie di continui tentativi di annettersi colonie che confinano con Gerusalemme. Il più ambizioso: la legge della “Gerusalemme più grande”, che intende annettere Ma’ale Adumim, Givat Zeev, Beitar Illit e il blocco di Etzion – una colonia inserita tra Gerusalemme ed Hebron – che era in programma per l’approvazione da parte della commissione ministeriale israeliana per le leggi alla fine dell’ottobre 20171. Il suo scopo finale era di “ebraicizzare” Gerusalemme per mezzo di una manipolazione demografica e di un’espansione territoriale [dei confini di Gerusalemme, ndt.].

Benché Netanyahu abbia rimandato a tempo indefinito la legge a causa delle pressioni degli Stati Uniti, preoccupati che ciò potesse ostacolare gli sforzi di far risuscitare i colloqui di pace, il tentativo recondito continua a vivere in altre misure. In seguito al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente USA Donald Trump nel dicembre 2017, Israele ha accentuato i tentativi per annettere la terra e cambiare l’aspetto demografico di Gerusalemme.

L’attuale governo di Benjamin Netanyahu ha sfacciatamente proposto una sfilza di altri progetti, risoluzioni e leggi che rafforzerebbero la presa di Israele su Gerusalemme. Sostenuti dal consenso di Trump, i politici, amministratori e pianificatori israeliani hanno approvato anche la costruzione di migliaia di unità abitative nelle colonie sia all’interno che attorno a Gerusalemme e nei Territori Palestinesi Occupati [TPO], nonostante il fatto che la fondazione di queste colonie nei TPO rappresenti una violazione dell’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra. Garantirsi una maggioranza demografica ed espandere le colonie fanno anche parte di un piano più complessivo di Israele per annettersi la Cisgiordania.

Questo commento politico esplora le implicazioni dell’annessione della zona di Gerusalemme, in particolare l’impatto dell’annessione della colonia urbana di Ma’ale Adumim e dell’area territoriale nota come E1, che la collega a Gerusalemme. Mostra come l’annessione di questi luoghi renderebbe impraticabile un futuro Stato palestinese, separando di fatto tra loro la parte settentrionale della Cisgiordania e quella meridionale. Tale annessione mette in luce anche i metodi di colonizzazione israeliani nei TPO: confisca delle terre, annessione strisciante, manipolazione della demografia e trasferimento della popolazione. L’articolo conclude con dei suggerimenti su quanto la comunità internazionale, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e gli stessi palestinesi possono fare per arginare questo esito catastrofico.

Annessione fin dai primi giorni dell’occupazione

Il 27 giugno 1967, 20 giorni dopo che l’esercito israeliano aveva occupato Gerusalemme fino alla sua parte più orientale, Israele si annesse circa 71 km2 di terre all’interno dei confini ampliati della municipalità israeliana di Gerusalemme. Ciò riunì la Città Vecchia, la parte occidentale israeliana della città, la città in precedenza amministrata dalla Giordania e 28 villaggi palestinesi (ed i loro pascoli) in un’unica area metropolitana – tutto ciò nel tentativo di creare una unificata, “eterna” capitale ebraica. L’annessione incluse circa 69.000 palestinesi che vivevano sul territorio.

Dal 1967 Israele ha limitato potere, proprietà e abitazioni dei palestinesi nella zona di Gerusalemme, incrementando al contempo la presenza ed il controllo da parte degli ebrei israeliani. Mentre Gerusalemme continua ad essere l’unico territorio palestinese ufficialmente annesso dal 1967, la destra nazionalista in Israele ha a lungo chiesto la totale annessione dei TPO.

Nel corso degli anni sono state proposte leggi simili a quella della “Gerusalemme più grande”. La legge in sé è stata una riproposizione di un progetto simile degli anni ’90, e il parlamentare della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Yisrael Katz ha presentato una proposta simile nel 2007. Entrambe vennero accantonate a causa delle preoccupazioni in merito a reazioni internazionali e palestinesi.

Come i precedenti tentativi, la legge della “Gerusalemme più grande” riguardava la demografia. Stabiliva che i 150.000 coloni che vivono nelle cittadine e nei municipi in questione venissero considerati abitanti di Gerusalemme, consentendogli quindi di votare nelle elezioni comunali e di influenzare i risultati elettorali. Al contempo la Knesset ha aggiunto un emendamento alla “Legge fondamentale” del 1980, “Gerusalemme capitale di Israele”, che consente al governo di separare zone della città dalla municipalità di Gerusalemme, pur esigendo che queste nuove amministrazioni rimanessero sotto sovranità israeliana. Ciò intendeva chiaramente eliminare i 100.000 palestinesi che vivono nel quartiere di Kufr Aqab, nel campo profughi di Shuafat e ad Anata – che si trova oltre la barriera di separazione – riclassificandoli come municipi di rango inferiore e togliendoli dall’anagrafe [di Gerusalemme].

Queste misure avrebbero garantito che la popolazione palestinese – che attualmente comprende circa il 40% della popolazione di Gerusalemme –scendesse al 32%, semplicemente ridefinendo i confini della città. Il parlamentare Kish ha espresso questa visione demografica in modo piuttosto ingenuo: “Gerusalemme ingloberà una popolazione che garantirà l’equilibrio demografico.” Allo stesso modo il deputato Katz ha sottolineato che la legge avrebbe “garantito una maggioranza ebraica nella città unificata,” insediando in questo modo Gerusalemme come la capitale di Israele.

Inoltre sono già in corso preparativi per l’annessione della Cisgiordania, come dimostra la risoluzione non vincolante votata all’unanimità il 1 gennaio 2018 dal comitato centrale del Likud [principale partito della destra israeliana al governo da molti anni, ndt.]. La risoluzione chiede che Netanyahu, i dirigenti e politici del partito “applichino le leggi di Israele e la sua sovranità su tutte le zone liberate dell’insediamento ebraico in Giudea e Samaria” – il nome utilizzato dai nazional-religiosi in riferimento alla Cisgiordania. Come ha proclamato l’ex-ministro dell’Educazione e rivale di Netanyahu Gideon Sa’ar: “(L’annessione) verrà realizzata in pochi anni. Lasciateci guidare il Likud…L’obiettivo della nostra generazione è rimuovere ogni punto interrogativo che incombe sul futuro delle colonie.”

Mentre a metà febbraio Netanyahu ha scartato una legge basata su questa risoluzione in risposta alla disapprovazione USA, il suo spirito è evidente in una serie di più sottili ma ugualmente pericolose leggi presentate da parlamentari israeliani. A metà febbraio, per esempio, la Knesset ha approvato una legge che estende la giurisdizione dello Stato all’interno della Cisgiordania, mettendo college e università delle colonie sotto l’autorità della commissione israeliana per l’Educazione superiore. Benché il suo impatto diretto sia in qualche modo ridotto, i sostenitori della legge hanno creato un contesto retorico e legislativo in cui l’applicazione della legge israeliana nelle colonie non è più discutibile – un passo verso l’obiettivo finale di annettere parti della Cisgiordania.

In modo ancor più significativo, la ministra della Giustizia Ayelet Shaked (Casa Ebraica [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]) ha proposto una legge, fatta propria dal governo all’inizio di marzo, che propone di togliere alla Corte suprema israeliana la giurisdizione sulle terre contese in Cisgiordania. Se approvata, la legge garantirebbe che il tribunale distrettuale di Gerusalemme, invece della Corte suprema, si occupi dei casi riguardanti palestinesi che intendono fare ricorso legale nei conflitti territoriali con i coloni. Questo è un passo che stabilisce un precedente che imporrebbe concretamente la legge israeliana sulla Cisgiordania occupata.

L’intento di questa legge è duplice: in primo luogo, attribuendo a un tribunale israeliano la giurisdizione sui palestinesi non cittadini che vivono al di là della Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania prima della guerra del ’67, ndt.], Shaked intende estendere (ulteriormente) le leggi interne e il sistema giuridico di Israele in Cisgiordania. In secondo luogo, dà un ulteriore vantaggio nei tribunali ai coloni rispetto alle denunce palestinesi. Secondo un funzionario del ministero di Giustizia, Shaked vede la Corte Suprema israeliana come “eccessivamente preoccupata delle leggi internazionali e della protezione dei diritti della popolazione ‘occupata’ in Giudea e Samaria.”

Simili atteggiamenti stanno ricevendo una base d’appoggio internazionale. In una riunione durante la conferenza dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, principale gruppo di pressione filoisraeliano negli USA, ndt.] a Washington nel marzo 2018, Oded Ravivi, il capo del consiglio della colonia di Efrat, ha invitato i parlamentari statunitensi ad appoggiare l’annessione della Cisgiordania e l’incremento nella costruzione di colonie. Ha affermato: “Non è un segreto che alla Knesset ci sono stati diversi tentativi riguardo all’annessione o all’adozione delle leggi israeliane in Giudea e Samaria…Penso che sia giunto il momento di applicare le leggi israeliane in Giudea e Samaria.”

Quindi, mentre la costruzione (o espansione) di colonie illegali e i tentativi di annessione sono stati messi in pratica senza sosta dal 1967, è chiaro che la Palestina sta affrontando un momento cruciale. Se la legge della “Gerusalemme più grande”, ed ogni modifica di essa, dovessero essere messe in atto, ci sarebbero due conseguenze epocali: taglierebbe fuori i palestinesi dalla loro capitale, Gerusalemme, ebraicizzando la città dal punto di vista demografico e spaziale, e colonizzerebbe il punto più stretto della Cisgiordania, rendendo impossibile uno Stato palestinese con continuità territoriale.

Per entrambi questi risultati è fondamentale la proposta di annessione della colonia urbana di Ma’ale Adumim e della striscia di terra che la unisce a Gerusalemme, nota come corridoio E1. Dal punto di vista demografico l’inclusione di Ma’ale Adumim nel Comune di Gerusalemme farebbe aumentare drasticamente il numero di abitanti ebrei israeliani nella città, e, dal punto di vista spaziale, l’annessione del corridoio E1 sarebbe il colpo di grazia per la soluzione dei due Stati.

Ma’ale Adumim: il gioiello nella corona della colonizzazione

Ma’ale Adumim si trova nei pressi di Gerico, nei TPO, e funge da sobborgo ebraico di Gerusalemme, contando 40.000 abitanti. L’esatta “fondazione” di Ma’ale Adumim è incerta. È nata come avamposto di 15 coloni estremisti nel 1975 ed ha ottenuto lo status di cittadina nel 1991 – la prima ad ottenerlo in Cisgiordania.

Il primo governo di Menachem Begin (1977-81) la pianificò e la costruì. I confini, definiti nel 1979, coprivano circa 3.500 ettari con 2.600 unità abitative. Contrariamente alla voce corrente secondo cui le terre tra Gerico e Gerusalemme vennero “ereditate” dai giordani e quindi erano “terre dello Stato”, Ma’ale Adumim venne costruita su terreni di proprietà di abitanti dei villaggi palestinesi di Abu Dis, Anata, Azariya, At-Tur e Isawiya. Inoltre i Jahalin, la tribù beduina che in precedenza abitava sulle colline di Ma’ale Adumim, vennero deportati a forza in una vicina discarica dopo la demolizione dei loro accampamenti di tende. La colonia venne estesa ad altri 1.300 ettari che Israele dichiarò “terre dello Stato” durante gli anni ’80 e ’90. Ciò determinò un’ulteriore espulsione forzata dei Jahalin nel 1997 e 1998, con la deportazione di 100 famiglie.

Ma’ale Adumim mirava a raggiungere due obiettivi generali: penetrare strategicamente all’interno dei TPO e consolidare il controllo di Israele su Gerusalemme. Nel primo caso, la posizione di Ma’ale Adumim venne scelta espressamente: il principale architetto e urbanista della colonia, Thomas Leitersdorf, disse che il suo posizionamento nella parte centrale della Cisgiordania era “senza dubbio, politico …(e) accuratamente prefissato – il luogo più distante da Israele che fosse plausibilmente possibile.”

Nel tentativo di creare concreti “fatti sul terreno”, a Ma’ale Adumim vennero fornite tutte le risorse necessarie e si sviluppò alla velocità della luce. In un periodo di tre anni gli urbanisti israeliani costruirono una cittadina composta da migliaia di appartamenti identici. Una pianificazione così rigida, in cui ogni casa è una copia esatta della successiva, è, nelle parole di Dana Erekat [architetta ed urbanista palestinese, ndt.] “la quintessenza del colonialismo di popolamento. È egemonia colonialista” – in contrasto con lo sviluppo organico del paesaggio palestinese circostante.

Il governo israeliano intendeva aumentare il numero di ebrei israeliani all’interno ed attorno alla città, anche finanziando la colonia e incentivando i propri cittadini a sistemarvisi. Il principale obiettivo era appoggiare la migrazione di coppie giovani di classe media, offrendo loro migliori condizioni abitative vicino a Gerusalemme ad un costo significativamente inferiore. Questi coloni non ideologizzati erano spinti dal desiderio di una migliore qualità di vita. Oggi la ripartizione demografica è circa di [abitanti] per il 75% laici e per il 25% religiosi2.

Dal 1975 Ma’ale Adumim è diventata una vera e propria città, con una biblioteca, un teatro, un’area industriale, centri commerciali, 15 scuole e 78 asili. Circa il 70% degli abitanti si reca a Gerusalemme per lavoro, senza quasi neanche accorgendosi di attraversare un territorio occupato.

Ma’ale Adumim, insieme a colonie vicine che sono spuntate tutto intorno, forma una zona edificata impattante che si frappone al paesaggio palestinese e isola i palestinesi dalla loro capitale e tra loro. È il gioiello nella corona del progetto di colonizzazione israeliana.

Gli effetti devastanti dell’annessione della E1.

Qualunque annessione di Ma’ale Adumim e di altre parti della Cisgiordania dipenderebbe dall’acquisizione di una parte strategicamente significativa della terra nota come E1. Il corridoio E1misura approssimativamente 12 km2 e si trova all’interno dell’Area C controllata da Israele, tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim. Il principale obiettivo di Israele nell’acquisizione dell’E1 è garantire la continuità territoriale tra Ma’ale Adumim ed Israele, creando un blocco urbano ebraico tra Ma’ale Adumim e Gerusalemme. Ciò rafforzerebbe il controllo di Israele su Gerusalemme est, schiacciando i suoi distretti palestinesi tra quartieri ebraici e rendendo lo schema dei due Stati ancor meno possibile.

Il membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Naftali Bennett (Casa Ebraica [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]), ministro dell’Educazione di destra, ha parlato di annettere Ma’ale Adumim e l’E1. In preparazione della presentazione di una legge per l’annessione, nel 2017 ha dichiarato che “evidentemente è tempo di un cambiamento quantistico… L’approccio incrementale non ha funzionato. Dobbiamo comprendere che è una nuova situazione. Dobbiamo fare le cose in grande, con coraggio e in fretta.” Questa “nuova situazione” è un primo passo verso la totale annessione della Cisgiordania.

L’E1 non è semplicemente una fascia di terra, ma è anche destinata alla colonizzazione. Il primo ministro Yitzhak Rabin (1992-95) estese il confine di Ma’ale Adumim per mettere l’E1 sotto il suo controllo – coprendo circa 4.800 ettari – ed ogni primo ministro israeliano dopo Rabin ha tentato di costruire blocchi di edifici nella zona. Il piano generale dell’E1 (piano n° 420/4) ha ricevuto l’approvazione nel 1999 ed è diviso in piani dettagliati separati, che coprono circa 1.200 ettari di terreno, la maggior parte dei quali sono stati dichiarati da Israele “terra dello Stato”. Attualmente una riserva d’acqua, una zona industriale e una stazione di polizia sono state sottoposte a controllo pubblico e costruite. Inoltre la maggior parte delle infrastrutture per i servizi è già stata realizzata, comprese strade asfaltate, muri di sostegno, rotonde e illuminazione delle strade, per oltre 5.5 milioni di dollari.

Tali infrastrutture sono in previsione di una nuova colonia israeliana chiamata “Mevaseret Adumim”, che includerebbe 3.500 unità abitative nella sua zona residenziale. Apparentemente intesa per alleviare la carenza di abitazioni a Ma’ale Adumim e offrire servizi regionali e strutture commerciali e turistiche, in sostanza incrementerebbe la popolazione ebraica nella zona di Gerusalemme. “Mevaseret Adumim” è diventata un grido di battaglia della destra israeliana in Israele. Netanyahu ha ripetutamente promesso di costruirla – sotto la pressione sia dei gruppi di destra che dell’astuto sindaco di Ma’ale Adumim, Benny Kasriel.

L’effetto dell’annessione e/o colonizzazione nel corridoio E1 sarebbe devastante. In primo luogo creerebbe una “punta sporgente” a metà strada attraverso il punto più stretto della Cisgiordania (28 km tra est e ovest). Ciò taglierebbe la strada tra Ramallah e Betlemme, interromperebbe la contiguità territoriale tra la Cisgiordania settentrionale e quella meridionale e in ultima analisi porrebbe fine alle speranze di uno schema a due Stati.

In secondo luogo isolerebbe ulteriormente i palestinesi di Gerusalemme e separerebbe i palestinesi della Cisgiordania da Gerusalemme. Per molti palestinesi dei TPO Gerusalemme è il centro economico e culturale. La costruzione del “Muro di Separazione” attraverso parti della Cisgiordania e attorno all’anello delle colonie attualmente esistenti ha già negato ai palestinesi l’accesso a Gerusalemme. I palestinesi con la carta d’identità della Cisgiordania non possono più commerciare, studiare, ricevere cure mediche o visitare amici e familiari senza un permesso dell’apparato di sicurezza israeliano.

Oltretutto non dovrebbe essere trascurato il significato religioso di tale annessione. Gerusalemme è la sede di molti dei luoghi religiosi più sacri per i palestinesi musulmani e cristiani, compresa la “Spianata delle Moschee” (dove si trova la moschea di Al-Aqsa) e la chiesa del Sacro Sepolcro. L’annessione non farebbe che esasperare le restrizioni religiose imposte sui palestinesi, a cui viene negato il diritto di pregare liberamente nei luoghi santi.

Inoltre l’E1 è disseminata di enclave di circa 77.5 ettari di terra palestinese di proprietà privata. Dato che Israele non è stato in grado di dichiararle “terra dello Stato”, non sono ufficialmente incluse nell’annessione o nei piani di colonizzazione. Qualunque costruzione di insediamenti nell’E1 le circonderebbe inevitabilmente con zone ebraiche israeliane edificate, limitando la possibilità dei proprietari palestinesi di accedervi e coltivare i loro campi.

Ciò inciderebbe sulle infrastrutture locali. Per esempio, le strade attualmente utilizzate dai palestinesi diventerebbero, come nel caso di altre colonie, strade locali per l’uso dei coloni e verrebbe negato l’accesso ai palestinesi. Un rapporto dell’Ong israeliana B’Tselem afferma che, se non venissero costruite strade alternative, il divieto di accesso ridurrebbe notevolmente la libertà di movimento dei palestinesi nella già ridotta area.

Riconoscendo le conseguenze spaziali, politiche e diplomatiche del fatto di tagliare a metà la Cisgiordania, Israele sta costruendo la “Circonvallazione orientale” nei pressi di Gerusalemme. Soprannominata la “strada dell’apartheid” a causa del muro che corre a metà separando automobilisti israeliani e palestinesi, intende agevolare gli spostamenti dei palestinesi tra il nord e il sud della Cisgiordania per garantire la “contiguità dei trasporti”. Ma è anche intesa a collegare meglio le colonie israeliane a Gerusalemme, impedendo agli automobilisti palestinesi di accedere a Gerusalemme. Le implicazioni della strada sono devastanti per la libertà di movimento dei palestinesi e per il loro eventuale futuro “Stato”.

Insomma, la contestata annessione del corridoio E1 intende inserire formalmente Ma’ale Adumim nell’enclave di Gerusalemme, dividendo diagonalmente il territorio e tagliando anche fuori i palestinesi da Gerusalemme – quella che dovrebbe essere la loro capitale. Espellerebbe anche comunità palestinesi che hanno vissuto lì da generazioni.

Trasferimento di popolazione

La messa in pratica delle intenzioni di annessione/colonizzazione dell’E1 richiederebbe l’immediata espulsione dei beduini che vivono sulla terra, una violazione delle leggi internazionali. Attualmente ci sono circa 2.700 beduini, la metà dei quali sono bambini, nei pressi di Ma’ale Adumim. La maggioranza di queste comunità fa parte della tribù Jahalin.

Benché i beduini abbiano vissuto dagli anni ’50 su quella terra – che Israele ha destinato loro dopo averli espulsi dalla zona di Tel Arad, nel Negev – l’amministrazione civile [in realtà il governo militare israeliano, ndt.] (che gestisce le attività nei TPO) ha stabilito che essi non possano fare costruzioni considerate “legali” da Israele. Le autorità israeliane hanno anche privato deliberatamente i Jahalin dell’accesso a servizi fondamentali, come acqua ed elettricità, per rendere insopportabile la loro vita sul territorio. Non gli viene consentito di lavorare o di costruire sulla terra. Oltretutto l’esercito israeliano limita la loro possibilità di accedere alle loro terre per pascolare le greggi, obbligandoli a dipendere dall’acquisto di costoso foraggio per le pecore. Alcuni pastori sono stati obbligati a vendere le proprie greggi, con il risultato che solo il 30% dei residenti continua a guadagnarsi da vivere con l’allevamento. Gli altri lavorano come braccianti, anche nelle colonie vicine.

Tentativi da parte di stranieri di migliorare la situazione dei beduini sono stati ostacolati. Nel marzo 2017 Israele ha emanato 42 ordini di demolizione contro il misero villaggio di Khan al-Ahmar nell’E1, facendo arrabbiare l’Unione Europea, che aveva finanziato molti degli edifici del villaggio, compresa una scuola che ospitava più di 150 bambini dai sei a quindici anni – alcuni di comunità vicine3. Nel settembre 2017 a Khan al-Ahmar vivono 21 famiglie che rappresentano 146 persone, compresi 85 minori.

In base agli attuali progetti dell’E1, i Jahalin devono essere espulsi e ricollocati in tre baraccopoli. Ciò costringe i beduini a uno stile di vita che è in totale contrasto con il loro nomadismo. Nel contesto dell’occupazione militare ogni trasferimento di “persone protette” – come queste comunità – compresa la confisca e la distruzione di proprietà da parte del potere occupante, rappresenta una grave violazione delle leggi internazionali4. Per estensione, ogni progetto militare inteso a deportare permanentemente persone sotto occupazione è un crimine di guerra5. Eppure, nonostante il chiaro contesto giuridico internazionale che condanna queste pratiche, i tentativi israeliani di spostare i beduini continuano – utilizzando leggi interne come mezzo per occultare le rivendicazioni di beduini e palestinesi sulla terra6.

Suggerimenti

L’annessione dell’E1 e di Ma’ale Adumim altererebbe in modo drammatico la situazione geopolitica in Palestina-Israele. Non solo sancirebbe l’”ebraicizzazione” di Gerusalemme da parte di Israele, ma metterebbe a repentaglio il futuro Stato palestinese definito dagli accordi di Oslo. Queste tensioni si manifestano continuamente nella Knesset, nel congresso USA, alle Nazioni Unite, all’Unione Europea, sui media e più generalmente nel campo umanitario. Le molte parti coinvolte nel progetto di annessione di Ma’ale Adumim la rendono una perenne fonte di discussioni, contrasti e resistenza.

La comunità internazionale, l’ANP e la società civile palestinese possono prendere iniziative per bloccare questa flagrante violazione delle leggi internazionali:

  • Dato che è evidente che l’amministrazione Trump non sarà la forza di contenzione della coalizione di destra alla Knesset, Nazioni diverse dagli USA così come istituzioni internazionali devono esercitare pressioni sul governo israeliano per fare in modo che ogni legge di annessione risulti onerosa. La società civile palestinese e il movimento di solidarietà con la Palestina nelle loro attuali e future campagne con i parlamentari devono approfondire la sensibilizzazione su quanto il progetto di colonizzazione israeliano sia vicino al punto di non ritorno.

  • L’UE dovrebbe andare oltre le frasi fatte di condanna quando la sua assistenza umanitaria a comunità vulnerabili è confiscata o distrutta. Dovrebbe rendere responsabile attivamente Israele con pressioni diplomatiche, come il riconoscimento dello Stato palestinese. Allo stesso tempo il movimento di solidarietà con la Palestina dovrebbe identificare modi per fare pressione sull’UE spingendola ad attenersi alle sue stesse regole e ai suoi obblighi in base alle leggi internazionali.

  • L’ANP dovrebbe chiarire che la messa in atto di qualunque legge per l’annessione rappresenterebbe la linea rossa che, se superata, metterebbe fine a qualunque cooperazione tra l’ANP ed Israele. Un movimento di base organizzato dovrebbe sia far pressione sull’ANP che rafforzare la propria azione.

  • L’ANP dovrebbe creare un proprio progetto territoriale della zona tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim, appoggiata da fatti che sottolineino l’importanza dell’area per l’esistenza di un futuro Stato palestinese. Questa visione alternativa dovrebbe essere creata da geografi, urbanisti e gruppi di ricercatori palestinesi.

La valanga di recenti leggi è semplicemente l’ultimo esempio del furto di terra palestinese da parte di Israele e del processo di colonizzazione sionista che ha avuto inizio da prima della fondazione dello Stato di Israele. Benché sia improbabile che la realizzazione di questi suggerimenti bloccherebbe Israele nella sua missione ideologica di “ebraicizzare” tutta la Palestina-Israele, tali iniziative potrebbero sfruttare il sentimento filo-palestinese raccogliendo impulso in Occidente e richiamare all’ordine Israele per la sua occupazione consolidata e per le pratiche di colonizzazione.

Note

  1. La legge è stata proposta dai membri della Knesset Yoav Kish (Likud) e Bezalel Smotrich (Jewish Home) ed appoggiata dal ministro dei Trasporti Yisrael Katz (Likud) e dal primo ministro Benjamin Netanyahu (Likud).

  2. Sebbene in Cisgiordania le colonie rurali superino quelle urbane di 94 a 50, il numero di coloni israeliani che vivono in insediamenti urbani è di circa 477.000, più di otto volte quello dei coloni israeliani in colonie rurali, che è di circa 60.000.

  3. L’UE ha invitato Israele ad “accelerare l’approvazione di piani regolatori palestinesi, interrompere la deportazione forzata di popolazione e le demolizioni di case ed infrastrutture palestinesi, semplificare le procedure amministrative per ottenere concessioni edilizie, garantire l’accesso all’acqua e a soddisfare le necessità umanitarie.”

  4. Le leggi umanitarie internazionali proibiscono il trasferimento forzato se non per la sicurezza degli abitanti o per urgenti necessità militari.

  5. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale stabilisce che il trasferimento forzato di popolazione include “minaccia dell’uso della forza o coercizione, come quella provocata dalla paura di essere vittima di violenze, di costrizione, di detenzione, di oppressione psicologica o di abuso di potere contro una o più persone o altre persone, o approfittando di un contesto di coercizione.”

  6. Questa prassi di trasferimento di popolazione trova riscontro all’interno della Linea Verde. I beduini che vivono nei cosiddetti “villaggi non riconosciuti” nel deserto del Naqab/Negev sono perennemente a rischio di “ricollocazione”. Più di recente le autorità israeliane hanno annunciato l’espulsione degli abitanti della cittadina beduina di Umm Al-Hiran per fare spazio alla cittadina ebraica chiamata Hiran.

Zena Agha è la collaboratrice politica per gli USA di Al-Shabaka, la rete politica palestinese. L’esperienza di Zena si concentra sulla politica, la diplomazia e il giornalismo. In precedenza ha lavorato all’ambasciata irachena di Parigi, alla delegazione palestinese all’UNESCO e a “The Economist”. Oltre a editoriali su “The Independent”, le esperienze mediatiche di Zena includono El Pais, PRI’s the World, il BBC World Service e BBC Arabic. Zena è stata premiata con una borsa di studio Kennedy per frequentare l’università di Harvard, dove ha completato un master in studi sul Medio Oriente. I suoi principali interessi di ricerca includono la storia moderna del Medio Oriente, la memoria e la produzione narrativa, le pratiche territoriali.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come soldati, anche a noi è stato detto di aprire il fuoco contro i manifestanti a Gaza

Shai Eluk

2 aprile 2018,+972 Magazine

Sei anni fa ero sul confine con Gaza. Gli stessi dimostranti, le stesse proteste. Anche gli ordini di aprire il fuoco contro assembramenti di persone sono rimasti gli stessi

Sei anni fa ero là. Era venerdì 30 marzo 2012, “Giorno della Terra” sul confine con Gaza. Le manifestazioni iniziarono dopo la preghiera di mezzogiorno. Un gruppo di cecchini aveva preso posizione la notte precedente, mentre il resto dell’unità era schierato con armi antisommossa, vicino alla barriera. L’ordine era chiaro: se un palestinese avesse superato la zona di sicurezza – 300 metri dalla barriera all’interno della Striscia di Gaza – si sarebbe dovuto sparare alle gambe dei “principali sobillatori”.

Questo ordine, che non ha mai definito esattamente come un soldato dovrebbe identificare, isolare e sparare a un “principale sobillatore” tra decine di migliaia di manifestanti, all’epoca mi turbò. Ha continuato a turbarmi lo scorso fine settimana, dopo che cecchini dell’esercito israeliano hanno aperto il fuoco contro dimostranti palestinesi sul confine di Gaza. “Come può essere legittimo un ordine di aprire il fuoco contro un assembramento di persone?” chiesi al vice comandante della mia compagnia sei anni fa. Devo ancora avere una risposta.

Cosa sarebbe successo se quei soldati avessero passato tutto il loro servizio militare sul fronte di Gaza? Come soldati che avevano appena terminato la formazione, il “Giorno della Terra” era l’opportunità ideale per vedere qualche “azione”. Lo stesso può probabilmente dirsi dei soldati che venerdì hanno ucciso almeno 16 manifestanti. Anche i loro comandanti molto probabilmente erano eccitati.

Sono certo che se fossimo stati chiamati a fare lo stesso per anni, qualcosa sarebbe cambiato. Dopo tutto questa situazione – ogni anno, nello stesso momento, nello stesso posto, con un’alta probabilità che un palestinese, non un israeliano, perda la vita – ha un senso solo la prima volta, soprattutto agli occhi di uno sbarbatello diciottenne.

Ma qualunque soldato che fosse tornato al confine con Gaza ogni anno, che avesse visto cadere al suolo un palestinese dopo l’altro, riuscirebbe a immaginare una soluzione migliore della situazione. Qualunque soldato che fosse tornato a vedere gli stessi manifestanti avvicinarsi alla barriera – che, più di ogni altra cosa, significa che la morte possa non essere un’alternativa così cattiva – capisce che ci deve essere un’altra soluzione.

Uno dei miei amici ha ucciso un manifestante sul confine con Gaza. Io faccio parte di un gruppo che porta sulle proprie spalle questa morte. L’unica differenza tra me e il mio amico è stata il caso. Se fossi stato mandato al corso per tiratori scelti piuttosto che a quello della sanità, sarei stato quello che ha sparato. Tutto il gruppo espresse il proprio appoggio all’operazione, e il sangue – nonostante il fatto che tutti siamo stati congedati dall’esercito – è ancora sulle nostre mani. Dubito che qualcun altro oltre a me se ne ricordi.

Ogni anno è nuovo, e sul confine con Gaza arrivano nuovi comandanti e nuovi soldati – carne fresca e comandanti con la memoria corta.

I soldati hanno un privilegio. Ogni tre o sei mesi si spostano in un’altra zona. Vedono solo una piccola parte della disperazione di Gaza, ma prima hanno anche la possibilità di elaborare o riflettere su questo, di andare a vedere la disperazione a Hebron, Ramallah e Nablus.

Il soldato picchia alla porta della famiglia Abu Awad in piena notte solo una volta. Spara ai manifestanti del “Giorno della Terra” solo una volta. Compie arresti per qualche mese, dopodiché è sostituito da un altro soldato. Poi è congedato.

Gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania stanno celebrando 50 anni di occupazione. Ma non saranno sostituiti, e nessuno sta arrivando per congedarli o aiutarli a portarne il peso. Per noi soldati tutto è temporaneo. Per loro questo è permanente.

Shai Eluk è un ex-soldato della brigata Nahal e un attivista di “Combattants for Peace” [“Combattenti per la pace”, Ong israelo-palestinese che promuove forme non violente di lotta contro l’occupazione, ndt.]. Quest’articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [“Chiamata Locale”, sito web d’informazione in ebraico].

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il massacro di Pasqua a Gaza

Neve Gordon

1 aprile 2018, Al Jazeera

Il massacro di Pasqua a Gaza non è stato affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese

Per decenni i sionisti hanno imputato ai palestinesi la prosecuzione del progetto coloniale di Israele: “Se solo i palestinesi avessero un Mahatma Gandhi,” molti progressisti israeliani hanno esclamato, “allora l’occupazione finirebbe.”

Ma se si volessero realmente trovare dei Mahatma Gandhi palestinesi basterebbe vedere le immagini dei notiziari sui manifestanti di venerdì notte. Palestinesi, stimati in 30.000, si sono uniti nella “Marcia del Ritorno” nonviolenta, che intendeva piazzare alcuni campi a qualche centinaio di metri dalla barriera militarizzata che circonda la Striscia di Gaza. Il loro obiettivo era protestare contro la loro incarcerazione nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, così come contro la massiccia espropriazione della loro terra ancestrale – dopotutto il 70% della popolazione di Gaza è composta da rifugiati del ’48 le cui famiglie sono state proprietarie di terre in quello che è diventato Israele.

Mentre gli abitanti di Gaza marciavano verso la barriera militarizzata, stavo seduto con la mia famiglia, recitando l’Haggadah [testo ebraico che ricorda l’esodo degli ebrei dall’Egitto, ndt.] per la festa di Pesach, che ci dice che “in ogni generazione c’è il dovere di guardare se stessi come se fossimo noi stessi usciti dall’Egitto”. In altre parole, mentre i soldati sparavano proiettili letali contro manifestanti pacifici, ai genitori di quei soldati veniva chiesto di immaginarsi cosa significhi vivere a Gaza e che cosa ci vorrebbe per liberarsi da una simile prigionia. E quando la mia famiglia ha iniziato a cantare “Non devono più faticare in schiavitù, lasciate che il mio popolo se ne vada,” i siti di notizie riferivano che il numero di palestinesi morti aveva raggiunto i 17, mentre parecchie centinaia erano stati feriti.

L’accusa che i palestinesi non hanno adottato metodi di resistenza non violenta e quindi condividono la responsabilità della continua oppressione e espropriazione da parte di Israele non solo nega completamente la notevole asimmetria delle relazioni di potere tra il colonizzatore ed il colonizzato, ma, cosa non meno importante, non prende in considerazione la storia politica e le lotte anticoloniali, non ultima proprio quella palestinese. Inoltre ignora totalmente il fatto che il progetto coloniale di Israele è stato condotto attraverso una violenza ususrante, prolungata e diffusa e che, a differenza di quello che certi mezzi di informazione occidentali propongono, i palestinesi hanno sviluppato una forte e persistente tradizione di resistenza non violenta. Oltretutto, la richiesta di adottare un’ideologia non violenta ignora completamente la storia di altre lotte di liberazione: dall’Algeria al Vietnam, fino ad arrivare al Sud Africa.

Nonviolenza palestinese

La “Marcia del Ritorno” nonviolenta di venerdì e la risposta israeliana non sono affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese. La marcia è stata organizzata in coincidenza con l’anniversario del “Giorno della Terra”, che commemora quel tragico giorno del 1976 in cui le forze di sicurezza israeliane affrontarono uno sciopero generale e una protesta di massa organizzata dai cittadini palestinesi di Israele, la cui terra era stata confiscata. In quella protesta pacifica sei palestinesi vennero uccisi e altre centinaia feriti dall’esercito israeliano.

In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza le cose sono sempre andate molto peggio, dato che ogni forma di resistenza palestinese non violenta è stata un diritto vietato dopo la guerra del 1967. Tenere incontri politici, sventolare bandiere o altri simboli nazionali, pubblicare o distribuire articoli o disegni di carattere politico o persino cantare o ascoltare canzoni nazionaliste – per non parlare dell’organizzazione di scioperi e manifestazioni – sono stati illegali fino al 1993 (ed alcuni lo sono ancora nell’Area C [oltre il 60% dei territori occupati, sotto totale controllo di Israele in base agli accordi di Oslo, ndt.]). Qualunque tentativo di protestare in uno di questi modi è stato inevitabilmente affrontato con la violenza.

Appena tre mesi dopo la Guerra del 1967, i palestinesi lanciarono con successo uno sciopero generale delle scuole in Cisgiordania: i docenti rifiutarono di presentarsi al lavoro, i ragazzini occuparono le strade per protestare contro l’occupazione e molti commercianti non aprirono i propri negozi. In risposta a questi atti di disobbedienza civile Israele mise in atto severe misure poliziesche, dal coprifuoco notturno ad altre restrizioni alla libertà di movimento, fino all’interruzione delle linee telefoniche, all’arresto di dirigenti e a crescenti maltrattamenti nei confronti della popolazione. Questo, in molti modi, diventò il modus operandi di Israele quando dovette affrontare la continua resistenza nonviolenta dei palestinesi.

Eppure sembra che vi sia una generale amnesia sociale riguardo alla reazione di Israele alle tattiche gandhiane. Quando i palestinesi lanciarono uno sciopero del commercio in Cisgiordania, il governo militare chiuse decine di negozi “fino a nuovo ordine”. Quando tentarono di emulare lo sciopero dei trasporti di Martin Luther King, le forze di sicurezza bloccarono completamente le linee dei bus locali. Inoltre durante la Prima Intifada i palestinesi adottarono strategie di disobbedienza civile di massa, compresi scioperi dei negozianti, boicottaggio dei prodotti israeliani, una rivolta fiscale e proteste quotidiane contro le forze di occupazione. Israele rispose con l’imposizione del coprifuoco, la limitazione della libertà di movimento e arresti di massa (per citare solo alcune delle misure violente). Tra il 1987 e il 1994, per esempio, i servizi segreti interrogarono più di 23.000 palestinesi, uno ogni cento abitanti della Cisgiordania e di Gaza. Ora sappiamo che molti di loro vennero torturati.

Quindi il dramma è che questo massacro di Pasqua non fa che unirsi a questa lunga lista della resistenza nonviolenta che è stata storicamente affrontata da Israele con la violenza e la repressione.

Le sommosse sono il linguaggio di chi non viene ascoltato”

Immaginiamo per un momento cosa significhi vivere in una prigione a cielo aperto, anno dopo anno. Immaginiamo di essere i prigionieri e che il carceriere abbia il potere di decidere quanto cibo possiamo mangiare, quando possiamo avere l’elettricità, quando possiamo ricevere trattamenti sanitari specialistici e se possiamo avere abbastanza acqua da bere. Immaginiamo anche che ogni volta che camminiamo nei pressi della barriera diventiamo bersaglio delle guardie. Quali azioni di resistenza nonviolenta sono effettivamente a nostra disposizione? Andreste pacificamente ad attraversare la barriera? Migliaia di palestinesi l’hanno coraggiosamente fatto e molti hanno pagato con la vita.

Anche se Gaza è, da molti punti di vista, unica, storicamente le popolazioni indigene si sono trovate in situazioni simili. Ciò è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite, quando hanno affermato “la legittimità della lotta dei popoli per la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla sottomissione ad altri con ogni mezzo possibile, compresa la lotta armata.” Lo stesso Gandhi pensava che in certe circostanze la violenza fosse una scelta strategica legittima: “Io credo”, scrisse, “che dove c’è solo la scelta tra la vigliaccheria e la violenza io raccomanderei la violenza…Pertanto io sostengo anche l’addestramento all’uso delle armi per quelli che credono nel metodo della violenza. Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il proprio onore piuttosto che diventasse o rimanesse vigliaccamente testimone impotente del proprio disonore.”

Si potrebbe sperare altrimenti – ed io sicuramente lo faccio -, ma nessun progetto coloniale è terminato senza che i colonizzati abbiano fatto ricorso alla violenza contro i loro oppressori. Chiedere o persino domandare con rabbia la liberazione non è mai stato efficace.

Ironicamente questo è anche uno dei messaggi fondamentali della festa della Pasqua ebraica. La storia dell’Esodo racconta come Mosè si rivolse varie volte al faraone, chiedendogli di liberare i figli di Israele dalla schiavitù. Eppure ogni volta il faraone rifiutò. Fu solo dopo che una terribile violenza venne scatenata contro gli egiziani che gli israeliti vennero liberati.

Questa di certo non è una cosa che possiamo mai augurarci, ma quando si guarda la risposta di Israele alla marcia non violenta dei palestinesi, quello che è chiaro è che dobbiamo urgentemente trovare un modo per capovolgere la domanda sionista per evitare futuri bagni di sangue. Piuttosto che chiedere quando i palestinesi produrranno un Mahatma Gandhi, dobbiamo domandarci: quando Israele produrrà un dirigente politico che non sostenga l’oppressione dei palestinesi attraverso l’uso di una violenza omicida? Quando, in altre parole, Israele finalmente si libererà di questa etica da faraone e comprenderà che i palestinesi hanno diritto alla libertà?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Neve Gordon ha conseguito una borsa di studio “Marie Curie” ed è professore di Diritto Internazionale alla Queen Mary University di Londra.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Le forze israeliane uccidono 16 persone a Gaza mentre i palestinesi manifestano nel “Giorno della Terra”

MEE ed agenzie


Venerdì 30 marzo 2018, Middle East Eye

Più di 1.000 manifestanti feriti mentre i palestinesi rivendicano il diritto al ritorno e la fine del furto di terra.

Secondo le autorità venerdì le forze israeliane hanno ucciso almeno 16 palestinesi nella Striscia di Gaza assediata, mentre decine di migliaia manifestavano nei territori occupati e in Israele nel “Giorno della Terra”.

Il giorno della Terra” nasce nel 30 marzo 1976, quando forze israeliane uccisero sei palestinesi con cittadinanza israeliana durante una protesta contro la confisca di terre. I palestinesi hanno celebrato questo giorno negli scorsi 42 anni per denunciare le politiche israeliane di appropriazione della terra palestinese.

Quest’anno ciò è avvenuto sulla scia di mesi di rabbia contro la decisione del presidente USA Donald Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, generalmente percepita come il rifiuto da parte degli Stati Uniti delle rivendicazioni palestinesi su Gerusalemme est come loro capitale nel contesto della soluzione dei due Stati.

Nella Striscia di Gaza, dove 1.3 dei 2 milioni di abitanti del piccolo territorio sono rifugiati, gli organizzatori della protesta hanno promosso sei settimane di manifestazioni chiamate la “Grande Marcia del Ritorno” lungo il confine tra l’enclave palestinese assediata e Israele, che iniziano con il “Giorno della Terra” e culmineranno il 15 maggio con il “Giorno della Nakba”, che segna l’espulsione dei palestinesi da Israele nel 1948.

Mentre il discorso politico israeliano con il primo ministro Benjamin Netanyahu si sposta ulteriormente a destra, i palestinesi sono diventati sempre più scettici riguardo alla possibilità di negoziati o di un miglioramento delle loro condizioni di vita a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme est e nello stesso Israele.

Il ministero [della Salute di Gaza, ndt.] ha aggiunto che, alla fine del pomeriggio, più di 1.000 manifestanti sono stati feriti. Un portavoce della Mezzaluna Rossa palestinese ha detto a MEE di stimare che circa 800 manifestanti di Gaza siano stati colpiti da proiettili veri.

Secondo il ministero della Salute, ore prima delle proteste un carrarmato israeliano ha ucciso un contadino gazawi e ne ha ferito un altro.

Omar Samour, 27 anni, è stato ucciso da martire e un altro abitante è stato ferito a est del villaggio di Qarara in seguito al fatto che i contadini sono presi di mira,” ha detto un portavoce del ministero della Salute di Gaza. Abitanti del villaggio a sud della Striscia di Gaza hanno detto che Samour era andato a raccogliere erbe.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha confermato l’incidente: “Durante la notte due sospetti si sono avvicinati alla barriera di sicurezza, hanno iniziato a muoversi in modo sospetto e il carrarmato ha sparato verso di loro,” ha affermato il portavoce.

Il portavoce di Antonio Guterres ha affermato in un comunicato che il segretario generale delle Nazioni Unite ha chiesto un’inchiesta indipendente e trasparente sulle morti e feriti venerdì a Gaza.

Ha anche fatto appello a quanti sono coinvolti per evitare ogni atto che possa portare ad ulteriori vittime, e in particolare ogni misura che possa mettere in pericolo i civili,” ha detto il portavoce ONU Farhan Haq.

Brutale violazione”

Il ministero della Salute di Gaza ha confermato che almeno 16 manifestanti palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane sul confine con Israele, ed ha identificato alcune delle vittime: Mohammad Kamel Najjar, 29 anni, ucciso nei pressi di Jabalia, a nord di Gaza; Mahmoud Abu Muammar, 38 anni, nei pressi di Rafah, a sud; Mohammad Abu Amro, noto artista della Striscia di Gaza; il sedicenne Ahmad Odeh, a nord di Gaza City; Jihad Farina, 33 anni, a est di Gaza City; Mahmoud Rahmi, 33 anni; Ibrahim Abu Shaer 22 anni, nei pressi di Rafah; Abd al-Fattah Bahjat Abd al-Nabi, 18 anni; Abd al-Qader al-Hawajra, 42 anni, ucciso nella zona centrale di Gaza; Sari Abu Odeh; Hamdan Abu Amsha, nei pressi di Beit Hanoun, nel nord di Gaza.

L’ong per i diritti umani “Adalah” ha denunciato l’uso da parte dell’esercito israeliano di proiettili letali come una “brutale violazione degli obblighi legali internazionali nella distinzione tra civili e combattenti,” ed ha chiesto un’inchiesta sulle uccisioni. In un comunicato l’esercito israeliano ha annunciato di aver dichiarato l’area di confine della Striscia di Gaza una zona militare chiusa – intendendo che ogni palestinese che si trovi vicino alla recinzione di confine può rischiare di essere colpito.

La marcia ha raggiunto i suoi obiettivi, ha scosso i pilastri dell’entità (Israele), ed ha posto il primo mattone sulla via del ritorno,” ha detto a MEE Ismail Haniyeh, uno dei principali dirigenti politici di Hamas mentre visitava un campo della protesta a Gaza.

Secondo il mezzo di informazione israeliano di sinistra “+972 Magazine”, un gruppo israeliano noto come la “Coalizione delle Donne per la Pace”, pensa di unirsi alla protesta sul lato israeliano.

La distanza tra quello che stiamo sentendo sugli eventi dall’interno di Gaza e l’istigazione [alla violenza] che stiamo sentendo nei media israeliani è enorme e non lascia dubbi sulle intenzioni violente delle autorità israeliane. Speriamo che i nostri timori di una risposta militare violenta si dimostrino sbagliati, ma indipendentemente da ciò sabato saremo presenti in appoggio ai manifestanti, che hanno il diritto di chiedere i propri diritti e la propria libertà,” ha detto Tania Rubinstein, una coordinatrice del gruppo.

A settecento metri da quei soldati c’è il mio diritto e il diritto del popolo palestinese a tornare a casa dopo 70 anni di espulsione. Non aspetteremo altri 70 anni,” ha detto a MEE Alaa Shahin, un giovane uomo palestinese che stava festeggiando il suo matrimonio in un campo di protesta nei pressi di Jabaliya.

Conservo ancora i documenti originali della nostra terra a Nilya, che ho ereditato da mio padre,” ha detto Yousef al-Kahlout, un insegnante di storia in pensione che venerdì ha partecipato ad una delle manifestazioni di Gaza insieme a cinque dei suoi nipoti. “Oggi spiego ai miei nipoti che loro hanno il diritto di riprenderne possesso se io non fossi più vivo per realizzare il mio sogno di tornare.”

Mentre gli organizzatori di Gaza hanno insistito che le manifestazioni sarebbero state pacifiche, vari incidenti di gazawi arrestati dopo essere entrati in Israele negli scorsi giorni – compresi tre palestinesi che stavano portando armi – hanno visto le forze israeliane ansiose di dimostrare il proprio controllo della situazione.

In un comunicato l’esercito israeliano ha confermato che stava usando “mezzi per disperdere disordini” – un termine regolarmente utilizzato in riferimento a gas lacrimogeni e a bombe assordanti – così come sparando ai “principali istigatori” della protesta.

La “Grande Marcia del Ritorno” ha anche visto le forze israeliane utilizzare droni per lanciare gas lacrimogeni sui manifestanti – una tecnologia che è stata usata solo poche volte a Gaza dalle forze israeliane.

Mercoledì il capo dell’esercito israeliano ha detto che più di 100 cecchini sono stati schierati sul confine di Gaza in vista delle previste manifestazioni di massa nei pressi della frontiera. Pesanti pale meccaniche hanno costruito cumuli di terra sul lato israeliano del confine ed è stato collocato filo spinato come ulteriore ostacolo contro qualunque tentativo dei dimostranti di violare il confine nel territorio israeliano.

Proteste del “Giorno della Terra” in Israele e in Cisgiordania

Nel contempo venerdì i palestinesi hanno manifestato anche in Israele e in Cisgiordania per commemorare il “Giorno della Terra”. Nella città a maggioranza palestinese di Arraba, nella regione della Galilea, nel nord di Israele, migliaia di persone, compresi parlamentari palestinesi della Knesset israeliana, sindaci e personalità religiose, sono scesi in strada.

Prima del corteo membri dell’”Alta Commissione di Verifica per i Cittadini Arabi di Israele” della Knesset si sono recati alle tombe dei sei palestinesi cittadini di Israele che vennero uccisi durante la prima marcia del “Giorno della Terra” nel 1976, nei cimiteri di Arraba, Sakhnin e Deir Hanna.

Israele sta ancora rubando e confiscando le nostre terre, e l’oppressione continua contro il nostro popolo all’interno del ’48, nella diaspora e a Gaza,” ha detto in un discorso il sindaco di Arraba Ali Asleh, utilizzando una perifrasi per riferirsi alle terre su cui è stato dichiarato lo Stato di Israele nel 1948.

Secondo mezzi d’informazione palestinesi ci sono stati scontri in alcune città della Cisgiordania, comprese

Un portavoce della Mezzaluna Rossa palestinese ha detto a MEE che l’organizzazione ha curato almeno 63 manifestanti in Cisgiordania, la maggior parte per aver inalato gas lacrimogeno, mentre almeno 10 sono stati feriti da proiettili di metallo rivestito di gomma.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I dati presentati dall’esercito mostrano che in Israele, Cisgiordania e Gaza vivono più arabi che ebrei

Yotam Berger

26 marzo 2018, Haaretz

Ai parlamentari sono stati presentati numeri che mostrano che 5 milioni di palestinesi vivono a Gaza e in Cisgiordania, 1.8 milioni di arabi vivono in Israele e centinaia di migliaia a Gerusalemme Est. 6.5 milioni di ebrei vivono in Israele.

Lunedì, durante un dibattito alla Knesset, l’esercito israeliano ha presentato alcuni dati che mostrano come siano più arabi che ebrei a vivere tra il Mediterraneo e il fiume Giordano.

Secondo il vice-comandante dell’Amministrazione Civile [l’organismo militare israeliano che governa i territori palestinesi occupati, ndt.], colonnello Haim Mendes, cinque milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questo numero non include le centinaia di migliaia di palestinesi che vivono a Gerusalemme Est, o l’1.8 milioni di arabi israeliani. Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica israeliano, a settembre 2017 erano 6.5 milioni gli ebrei che vivono in Israele.

I dati presentati da Mendes durante la sessione della commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset si basano su statistiche redatte dall’Ufficio palestinese di statistica. In passato l’affidabilità dei dati è stata messa in dubbio, e i servizi di sicurezza israeliani spesso evitano di farvi affidamento.

I parlamentari di destra che hanno presenziato alla sessione affermano che i dati sono falsi e dicono che Mendes non ha presentato una documentazione a supporto. Il comitato ha dunque chiesto all’Amministrazione Civile di produrre tale documentazione.

I dati presentati da Mendes mostrano un significativo incremento nel numero di palestinesi che vivono tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Nel maggio 2012, un documento ufficiale redatto dall’Amministrazione Civile ha affermato che 2.7 milioni di palestinesi vivevano in Cisgiordania – un incremento del 29% rispetto al 2000.

Il parlamentare Moti Yogev (Habayit Hayehudi [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]), che sta a capo della sottocommissione per la Giudea e la Samaria [definizione israeliana della Cisgiordania, ndt.], durante la discussione ha affermato che Mendes ha gonfiato i numeri, poiché, secondo Yogev, nel 2017 “sono state rilevate circa 80.000 nuove nascite e 8.000 decessi – un’aspettativa di vita che non esiste in nessun’altra parte del mondo”.

Le divergenze sull’argomento riflettono una disputa accesa sul numero dei palestinesi che vivono nei territori [palestinesi occupati, ndt.]. Un centro di ricerca noto come “American-Israel Demographic Research Group” [Gruppo Israelo-Americano di Ricerca Demografica] ha provato in passato a dimostrare che i palestinesi sono riusciti ad aggiungere, grazie a una significativa falsificazione dei dati, circa 1 milione di persone in più rispetto al loro numero del 2012. Secondo loro, quell’anno viveva in Cisgiordania 1.5 milione di palestinesi, un numero nettamente inferiore a quello presentato dall’Amministrazione Civile.

Anche se le affermazioni del gruppo non sono supportate dagli esperti in demografia né in Israele né all’estero, erano molto diffuse ed accettate tra i portavoce e i politici della destra. Secondo loro, il tempo e la demografia volgono in favore di Israele piuttosto che dei palestinesi, e concludono che, se il numero dei palestinesi in Cisgiordania è relativamente basso e la minaccia demografica non esiste, non c’è bisogno di intraprendere negoziati riguardo alla fondazione di uno Stato palestinese, ed è giunto il momento di discutere come annettere i territori e gli abitanti.

Il parlamentare Ayman Odeh, capo della Joint List [Lista Unita, la coalizione dei vari partiti arabo israeliani che si sono presentati insieme alle ultime elezioni, ndt.], ha ha risposto twittando che “tra il fiume Giordano e il Mediterraneo c’è un numero eguale di palestinesi ed ebrei, e non c’è nulla di nuovo in questo. Ecco perché il bivio a cui ci troviamo è chiaro: due Stati in base al 1967 [cioè ai confini precedenti la guerra dei Sei Giorni e l’occupazione militare israeliana, ndt.], oppure uno Stato che sia di apartheid, o ancora uno Stato democratico in cui tutti abbiano il diritto al voto. Non ci sono altre opzioni, e almeno questa semplice verità deve essere sottolineata chiaramente”.

(Traduzione di Veronica Garbarini)

 




Rapporto OCHA del periodo 13-26 marzo 2018 (due settimane)

In Cisgiordania, nel corso di due aggressioni compiute da palestinesi, sono rimasti uccisi tre israeliani (due soldati e un colono) ed un attentatore palestinese.

Il 16 marzo, nei pressi dell’insediamento colonico di Mevo Dotan (Jenin), un palestinese di 26 anni ha guidato il suo veicolo contro un gruppo di soldati israeliani uccidendone due; ha continuato a guidare e, prima di essere arrestato dalle forze israeliane, ha investito un altro gruppo di soldati ferendone due. Secondo testimoni oculari palestinesi, quanto accaduto è sembrato essere un incidente d’auto; al contrario, secondo fonti dei media israeliani, l’autista avrebbe confessato di aver portato un attacco deliberato. Il 18 marzo, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese di 28 anni ha accoltellato e ucciso un colono israeliano di 32 anni. L’aggressore, proveniente dal villaggio di Aqraba (Nablus), è stato ucciso sul posto da un ufficiale della polizia israeliana e il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. Dall’inizio del 2018, nel contesto di attacchi o presunti attacchi palestinesi, sono stati uccisi cinque israeliani e due aggressori palestinesi.

Lungo la recinzione perimetrale che circonda Gaza, in seguito a molteplici attacchi, scontri e altri episodi di violenza, la tensione è aumentata. Il 15 e il 17 marzo, nella parte settentrionale di Gaza, vicino alla recinzione, sono stati fatti detonare ordigni esplosivi; secondo quanto riferito, ad opera di membri di gruppi armati palestinesi che avevano preso di mira soldati israeliani: non ci sono stati feriti. Il 24 marzo, quattro palestinesi si sono infiltrati in Israele attraverso la recinzione; hanno danneggiato apparecchiature di ingegneria utilizzate dall’esercito israeliano e sono ritornati a Gaza illesi. In risposta a questi episodi, le forze israeliane hanno lanciato diversi raid aerei e sparato colpi di carro armato contro Gaza, mirando, secondo quanto riferito, a siti militari; non sono stati segnalati feriti. Inoltre, in dodici occasioni, sempre nei pressi della recinzione, manifestanti palestinesi si sono scontrati con forze israeliane: 43 palestinesi, di cui 13 minori, sono rimasti feriti; 31 dei feriti sono stati colpiti con armi da fuoco.

Sempre a Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, in almeno 35 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento per far rispettare il divieto di accesso, interrompendo le attività di sussistenza di agricoltori e pescatori palestinesi, ma senza causare feriti. Dall’inizio del 2018, nelle Aree ad Accesso Riservato, ci sono stati almeno 181 episodi di spari verso contadini e pescatori, con due morti e 13 feriti. Durante il periodo di riferimento, all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, per altre nove volte le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi. In un altro caso, al valico di Erez, tre palestinesi, di cui due malati in viaggio per cure mediche, sono stati trattenuti dalle forze israeliane.

A partire dal 30 marzo, i principali partiti politici di Gaza hanno promosso una serie di proteste di massa lungo la recinzione perimetrale, inclusa una marcia dei manifestanti verso Israele. Lungo la recinzione sono stati approntati diversi siti dove erigere tende per accogliere i manifestanti. Sebbene gli organizzatori abbiano chiesto dimostrazioni non violente, c’è la preoccupazione che gli eventi possano degenerare in scontri violenti con le forze israeliane e causare un numero elevato di vittime. L’Ufficio delle Nazioni Unite dell’Alto Commissario per i diritti umani ha esortato tutti “a rispettare il diritto al raduno pacifico e alla libertà di espressione” e ha esortato Israele “a conformarsi agli obblighi previsti dalle norme sui diritti umani e ad esercitare il massimo controllo sull’uso della forza durante le operazioni di accertamento del rispetto della legge”.

In Cisgiordania, durante numerose proteste e scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane 646 palestinesi, tra cui 181 minori. La stragrande maggioranza dei ferimenti (89%) è avvenuta nel contesto delle proteste settimanali contro le restrizioni di accesso e contro l’espansione degli insediamenti colonici, nonché durante manifestazioni contro il riconoscimento da parte degli Stati Uniti (6 dicembre 2017) di Gerusalemme quale capitale di Israele. Altri 59 ferimenti sono avvenuti durante scontri scoppiati nel corso di sei delle 176 operazioni di ricerca-arresto effettuate nel periodo di riferimento. Il maggior numero di feriti è stato registrato durante scontri nella città di Qalqiliya, seguita dai villaggi Kafr Qalil e Al Lubban ash Sharqiya (entrambi in Nablus) e Abu Dis (Gerusalemme). Di tutte le ferite, 38 sono state causate da armi da fuoco, 99 da proiettili gommati e 507 da inalazione di gas lacrimogeno, richiedente cure mediche oppure direttamente dalle bombolette lacrimogene sparate. Da evidenziare il caso di un ragazzo palestinese di 13 anni: è stato colpito agli occhi da un proiettile gommato sparato dalle forze israeliane durante scontri presso la scuola di Burin (Nablus); il fatto ha innescato una sospensione delle lezioni per il resto della giornata.

Il 22 marzo, nella striscia di Gaza, nel Campo Profughi di An Nuseirat, durante scontri armati innescati da un’operazione di arresto condotta da forze palestinesi, due agenti di polizia palestinesi e altri due palestinesi sono rimasti uccisi. Secondo quanto riferito, l’operazione mirava a catturare gli autori di un attacco avvenuto il 13 marzo, quando un ordigno esplosivo venne fatto detonare vicino a un convoglio di auto con cui viaggiavano il Primo Ministro palestinese ed alti funzionari. L’esplosione si verificò poco dopo l’ingresso dei veicoli nella Striscia di Gaza e ferì sette palestinesi addetti alla sicurezza.

A scopo “punitivo” le autorità israeliane hanno sigillato con calcestruzzo una stanza nella città di Qabatiya (Jenin), colpendo sei palestinesi. Il locale fa parte della casa di famiglia di uno degli autori palestinesi di un attacco avvenuto nell’ottobre 2017 a Kafr Qasem, in Israele, dove fu ucciso un colono israeliano.

In area C e nella zona est di Gerusalemme, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate altre dodici strutture, sfollando 18 palestinesi, tra cui sei minori, e diversamente colpendo altre 14 persone. Nove delle strutture prese di mira erano a Gerusalemme Est (Jabal al Mukabir, Ath Thuri e Al Watta), le altre tre nella zona C dei villaggi Kafr Malik e Silwad (entrambi a Ramallah).

Sono stati segnalati undici attacchi di coloni israeliani con conseguenti ferimenti di palestinesi o danni alle loro proprietà. In cinque diversi episodi, cinque contadini palestinesi che lavoravano sulle proprie terre, nei villaggi di Turmus’ayya (Ramallah), Immatin (Qalqiliya), At Tuwani (Hebron), Huwwara e Burin (entrambi in Nablus), sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni israeliani; in quest’ultima località è stato danneggiato anche un trattore. Inoltre, a Gerusalemme Est, un ragazzo palestinese di 16 anni è stato aggredito fisicamente e ferito. Nella città di Hizma e nel villaggio di Beit Iksa (entrambi a Gerusalemme), coloni israeliani hanno vandalizzato cinque veicoli di proprietà palestinese ed hanno spruzzato sui muri di una casa palestinese scritte razziste e “Questo è il prezzo che dovete pagare”. In tre diversi episodi, coloni israeliani hanno tagliato 17 alberi di proprietà palestinese nei villaggi di Qaryut (Nablus) e Al Jab’a (Betlemme) ed hanno rubato il bestiame di un contadino del villaggio di Urif (Nablus). In As Sawiya e Madama (Nablus), Kardala e Khirbet Tell el Himma (Tubas) ed in A Seefer e At Tuwani (Hebron), coloni hanno sparato o lanciato pietre contro contadini palestinesi che lavoravano vicino alle aree di insediamento colonico; non sono stati segnalati feriti. Dall’inizio del 2018, la media settimanale degli attacchi di coloni con ferimenti di palestinesi o danni alle proprietà, ha registrato un aumento del 50 % rispetto al 2017 e del 67% rispetto al 2016.

In Cisgiordania, secondo quanto riportato dai media israeliani, sono stati segnalati, almeno dodici episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguenti danni a tre veicoli. Gli episodi sono stati segnalati nelle aree di Hebron e Betlemme. Inoltre, a Gerusalemme Est sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera nell’area di Shu’fat.

Il 27 marzo, nell’area (H2) di Hebron sotto controllo israeliano, coloni israeliani, sotto la protezione delle forze israeliane, hanno occupato due case disabitate, sostenendo di averne acquisito la proprietà. Da parte palestinese vengono respinte queste affermazioni. Una delle case era stata precedentemente occupata da coloni nel gennaio 2016 e successivamente evacuata in seguito a una decisione dell’Alta Corte di Giustizia Israeliana. La stretta vicinanza di abitazioni di coloni alla Moschea di Ibrahimi solleva preoccupazioni in merito a potenziali restrizioni di accesso a questo sito religioso, ma anche di ulteriori tensioni e scontri nella zona. Il 22 marzo, nella stessa zona, coloni israeliani hanno evacuato, sempre in conseguenza di una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia, parti di un edificio di proprietà palestinese (Abu Rajab), che erano state occupate nel luglio 2017.

Il 24 marzo, l’unica Centrale Elettrica di Gaza è stata spenta avendo esaurito le riserve di carburante; le interruzioni di corrente sono così salite a 20 ore al giorno. Ciò consegue all’interruzione, a partire dal 21 gennaio, delle importazioni di carburante dall’Egitto. Una delle due turbine della Centrale è rientrata in funzione il 26 marzo, a seguito della ripresa delle consegne di carburante. La grave crisi dell’elettricità ha continuato a minare la fornitura di servizi essenziali, tra cui sanità, acqua potabile e servizi igienici, incidendo direttamente sulla vita dei 2 milioni di persone che vivono a Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato aperto per tre giorni (23-25 marzo): un giorno in entrambe le direzioni e due giorni in una direzione, permettendo a 830 palestinesi di entrare in Gaza e a 620 di uscirne. Secondo le autorità palestinesi a Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah. Dall’inizio del 2018, il valico è stato aperto solo per dieci giorni: cinque giorni in entrambe le direzioni e cinque giorni in una direzione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Israele condanna centinaia di palestinesi alla disoccupazione – a causa del loro cognome

Gideon Levy, Alex Levac |

23 marzo 2018, Haaretz

Le autorità israeliane hanno revocato i permessi di lavoro a più di mille palestinesi per il solo motivo che hanno lo stesso cognome dell’autore di un’aggressione col coltello.

Se questa non è una punizione collettiva, allora che cos’ è una punizione collettiva? Se questo non è arbitrio, allora che cos’ è un arbitrio? E se questa misura non innesca il fuoco nella relativamente tranquilla cittadina di Yatta, in Cisgiordania, allora a che cosa mira questo provvedimento? Yatta è sconvolta, la sua economia minaccia di collassare, e tutto per via di una persona che ha compiuto un reato, a causa del quale Israele sta punendo un’intera città.

Fino a pochi mesi fa più di 7000 residenti di questa cittadina a sud delle colline di Hebron avevano permessi di lavoro. Secondo l’ufficio palestinese di Coordinamento e Contatto [con gli occupanti israeliani] di Yatta, 915 di loro, con il cognome Abu Aram, lavoravano in Israele ed altre centinaia nelle colonie. Ma poi quei lavoratori hanno perso il lavoro in Israele e nelle colonie, solo a causa del loro cognome, in seguito ad un’ incredibile, draconiana decisione dell’Amministrazione Civile, l’ente israeliano che governa in Cisgiordania. Disperati, decine di loro hanno addirittura cambiato i loro cognomi sulle carte di identità, ma è stato inutile. Il loro ingresso per lavorare in Israele, dove per anni hanno avuto un impiego, è bloccato, benché non abbiano fatto niente di male. Ecco ciò che è successo.

Lo scorso 2 agosto un diciannovenne residente a Yatta, Ismail Abu Aram, accoltellò Niv Nehemia, vicedirettore di un supermercato nella città israeliana di Yavneh, ferendolo gravemente. L’aggressore fu arrestato. Il giorno seguente le autorità decisero – in base alla procedura standard dopo un attacco terroristico – di vietare alla famiglia dell’aggressore l’ingresso in Israele. Il divieto venne revocato 10 giorni dopo, i membri della famiglia tornarono ai loro impieghi in Israele e nelle colonie e Yatta riprese la sua vita normale.

Tuttavia, il 14 dicembre, senza ragioni apparenti, Israele improvvisamente si è ricordato dell’incidente e ha reintrodotto un divieto generalizzato nei confronti di migliaia di persone, senza preavviso né spiegazione.

Benché simili misure siano prassi consueta di Israele dopo gli attacchi, questa volta le dimensioni [del provvedimento] non hanno precedenti. Abu Aram è la più numerosa hamula (clan) di Yatta. Secondo gli attivisti, il lavoro in Israele e nelle colonie dà sostentamento a migliaia di residenti. I lavoratori e le loro famiglie sono ora condannati alla disoccupazione e agli stenti a causa dell’accoltellamento compiuto da Ismail, anche se la maggior parte di loro non lo conosce nemmeno.

Dal momento del divieto, la città è sconvolta e la sua economia in grave pericolo. Migliaia di lavoratori sono rimasti a casa inattivi per quattro mesi, si sono accumulati debiti e annullati matrimoni, gli assegni vengono respinti, i magazzini sono vuoti e i ragazzi hanno abbandonato la scuola. In base a caute stime, la cittadina, i cui residenti sono quasi interamente dipendenti dal lavoro in Israele, al momento ha una riduzione di centinaia di migliaia di shekel [100.000 ILS= 23.000 €, ndtr.] di entrate al mese.

Questa settimana gli abitanti di Yatta si sono riuniti per sfogare la loro angoscia e protestare. Più di 100 uomini si sono recati in un ristorante all’ingresso della città. In vista del nostro arrivo, qualcuno aveva preparato dei poster in un ebraico approssimativo per esprimere la loro protesta: “Lavoratori contro la punizione”, “No alla politica delle rappresaglie”. Dalla collina su cui è arroccata una moschea sono scesi sempre più uomini, in maggioranza di mezza età, i volti bruciati dal sole e non rasati, le mani da lavoratori, al polso orologi di plastica di poco valore – i muratori e gli asfaltatori, a cui ora si nega questa possibilità.

Sono gli uomini che si alzano alle tre del mattino per iniziare il lavoro alle sette, a Tel Aviv, Be’er Sheva, Gerusalemme, Beit Shemesh o Ashdod, e tornano a casa quando è buio. Ora languiscono a casa, arrabbiati e frustrati. Quasi tutti parlano ebraico. Mostrano i loro permessi di lavoro. I documenti rosa si accumulano sul tavolo; alcuni sono ancora validi, altri sono scaduti e non possono essere rinnovati e nessuno di essi ora consentirà loro di entrare in Israele a lavorare. Non sono colpiti solo i lavoratori manuali: commercianti e anche persone che hanno bisogno di cure mediche hanno il divieto di ingresso in Israele a causa del blocco “Abu Aram”.

Qui useremo solo il loro nome, perché hanno tutti lo stesso cognome, per loro disgrazia. Naim, di 52 anni, padre di otto figli, lavora per la Bardarian Brothers di Gerusalemme, impresa che si occupa di progettazione di infrastrutture e movimento terra. Di fatto, circa 300 membri della famiglia [allargata] lavorano per questa impresa. Naim vi ha lavorato per 13 anni. Il giorno dopo l’aggressione di Yavneh, si è alzato a notte fonda per andare a lavorare, ma al checkpoint 300 di Betlemme è stato rimandato a casa insieme ad altre centinaia di persone del clan. Gli è stato detto che il divieto sarebbe stato revocato dopo 10 giorni.

Ed è stato così. Dopo una settimana e mezza tutti sono tornati al lavoro, felici e sollevati. Poi è arrivato quel giorno nero di dicembre, quattro mesi dopo. Quella notte, ai checkpoint che attraversano andando al lavoro – Tarqumiya, Meitar e Checkpoint 300 – gli è stato detto: “ Tutti quelli della famiglia Abu Aram tornino a casa.” Almeno per sei mesi. Anche ai loro datori di lavoro israeliani è stato intimato: non assumete nessuno con il cognome proibito.

I lavoratori erano sconvolti, anche Naim. “Siamo andati a casa e vi siamo rimasti da allora”, dice, imbarazzato. Solo pochi di loro hanno nuovamente tentato la fortuna ai checkpoint negli ultimi mesi, e tutti sono stati mandati a casa. A quelli che hanno fatto molti tentativi sono stati anche confiscati i permessi – non che sarebbero serviti a qualcosa.

Abitualmente i permessi di lavoro devono essere rinnovati ogni sei mesi. Ecco il permesso di Sabar, valido fino al 10 marzo. Il permesso di Mohammed era valido fino al 14 febbraio. Gettano i documenti sul tavolo allo stesso modo in cui le carte da gioco vengono buttate sul tappeto verde di un tavolo di casinò; magari accadrà una magia e ritorneranno validi. “Permesso di uscita per lavoro in Israele. Il lavoro dura tutto il giorno. In Israele, tranne che a Eilat [città del sud di Israele, ndtr.]. Firmato Yitzhak Levy, ufficiale responsabile per l’impiego.”

Gli uomini sono andati negli uffici dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano dei territori palestinesi occupati, ndtr.] ed all’unità distrettuale di Coordinamento e Contatto [ente locale dell’ANP, ndtr.], a Hebron, ed alle principali sedi amministrative di Beit El. Nessuno li ha neppure ascoltati, tantomeno gli ha dato spiegazioni. Solo un impiegato si è preso la briga di dirgli che l’ordine era arrivato dall’alto. Quanto in alto? Non si può sapere. Hanno anche tentato la fortuna al municipio di Hebron, ma ovviamente nessuno là li ha potuti aiutare.

Nasser, un commerciante di rottami di ferro, è disoccupato. Ha 51 anni e nove figli. Con sei anni di lavoro nello stesso posto, dice: “È davvero brutto, fratello. Stiamo male.” Mahmoud, di 43 anni e cinque figli, ha lavorato come fattorino per la Levy Brothers negli ultimi 11 anni: “Uno abituato a stare in Israele per tutta la vita, può lavorare nei territori? Non c’è lavoro a Yatta. All’inizio ci alzavamo al mattino e andavamo al checkpoint. Adesso io mi alzo al mattino e litigo con mia moglie. Vogliamo che ciò che diciamo giunga (alle autorità israeliane).”

Anche Mohammed, 42 anni, passa le giornate in casa. Lavora per Y.D. Barzani, una ditta di costruzioni di Gerusalemme che ogni giorno faceva arrivare 10 lavoratori da Yatta per i suoi cantieri; adesso sono tutti qui, bloccati in casa. In base ai loro permessi, dovrebbero lavorare nelle costruzioni a Har Hotzvim, la zona di alta tecnologia industriale a Gerusalemme. Si avvicina suo figlio di 12 anni; ci avevano detto che ha lasciato la scuola perché i suoi genitori non hanno i soldi per comprargli i quaderni. “Non ci sono nemmeno 2 shekel ( 0,46 €) per comprare qualcosa per la ricreazione”, dice uno degli uomini. Altri dicono che alcuni residenti sono stati arrestati dalla polizia palestinese a causa di assegni a vuoto e debiti non pagati.

Alcuni disoccupati di Yatta più intraprendenti sono andati alla sede locale del ministero dell’Interno palestinese per modificare i propri nomi. Sabri Abu Aram è diventato Sabri Hassin, Mahmoud Abu Aram è diventato Mahmoud Mahmed, Radi Abu Aram si è trasformato in Radi Gabrin. I nomi sono stati modificati sulla loro carta d’identità – eccoli qui, per farceli controllare – ma al checkpoint israeliano non è cambiato niente: il numero di carta di identità era lo stesso.

Nasser, il commerciante di rottami di ferro, fa una domanda: “Metti che adesso andiamo sulla strada principale. Vogliamo fare una manifestazione pacifica. Vogliamo solo dire che vogliamo vivere. L’esercito è vicino. Sulla collina, a cinque minuti di distanza. C’è la possibilità che vengano qui e voi possiate parlare con loro?”

Ibrahim dice che se c’è un cespuglio spinoso nel giardino, tu sradichi il cespuglio, non l’intero giardino. Ibrahim, di 52 anni, si definisce un attivista per la pace, che probabilmente è il motivo per cui gli è stato negato l’ingresso in Israele negli ultimi 20 anni. Calcola che 30.000 persone siano colpite dal divieto, e di conseguenza tutta la città di Yatta, in quanto non vi è più entrato denaro. I negozi sono vuoti, dice.

“Ci vedono come nemici. Ma questa è una politica che accresce il livello di violenza. La vostra gente non lo capisce? Noi siamo a favore della vicinanza e della pace – ma questo agisce nel senso opposto”, dice Ibrahim. “Vorremmo che la sinistra israeliana sentisse la pressione, sollevasse la questione anche alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.]. Abbiamo già scritto lettere a tutte le organizzazioni per la pace.”

Interrogato sul tema, il portavoce del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori ha detto a Haaretz: “Il 2 agosto 2017 Ismail Abu Aram del villaggio di Yatta ha compiuto un’aggressione col coltello a Yavneh, durante la quale un civile è stato ferito gravemente. Come conseguenza, i permessi rilasciati ai membri del clan Abu Aram sono stati immediatamente sospesi.”

A Yatta dicono che prima del 1967 c’erano molti più cognomi in città. Dopo la conquista israeliana tutti i rami del grande clan vennero registrati col nome del mukhtar, il capo, Abu Aram. Ora vengono puniti.

Il lavoratore disoccupato Radi chiede se gli israeliani hanno trattato gli assassini (ebrei) della famiglia Dawabsheh a Duma [un bambino di 18 mesi, sua madre e suo padre sono morti arsi vivi in seguito all’attacco di coloni, ndtr.] nello stesso modo.

Io chiedo a Radi: “Almeno dormi fino tardi al mattino adesso?”

“Che cosa intendi con dormire, abbiamo ogni genere di pensieri e preoccupazioni.”

Raccolgono i loro permessi dal tavolo e li infilano in fondo alle tasche, il loro tesoro nascosto, e lentamente tornano a casa.

Ibrahim, quello che si definisce attivista, ha telefonato giovedì per dirci che il giorno prima quattro uomini del clan Abu Aram di Yatta hanno fatto un’escursione sui Monti della Giudea. Nel tardo pomeriggio, mentre scendevano in una gola che conduce al Mar Morto, hanno sentito grida di aiuto. Si sono imbattuti in una coppia di giovani escursionisti israeliani, di Be’er Sheva, che si erano persi ed erano sfiniti. Gli uomini se li sono caricati sulle spalle e li hanno portati dal letto del fiume fino alla loro macchina. Dopo aver raggiunto la strada principale, la coppia ha chiamato l’unità di sicurezza della vicina colonia di Carmel per chiedere aiuto.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




È l’economia, bellezza: la trattativa riservata di Israele con i palestinesi

Noa Landau

24 marzo 2018, Haaretz

Il ministro delle finanze Moshe Kahlon ha sviluppato legami diplomatici più profondi con Ramallah di quanto non voglia rivelare.

La tensione dei giorni di rabbia che seguirono il riconoscimento da parte dell’America di Gerusalemme come capitale di Israele rimane palpabile. I palestinesi hanno tagliato del tutto i rapporti con l’amministrazione Trump. Un accordo di pace sembra più lontano che mai. E un anziano ministro israeliano è entrato a passo di marcia nella Muqata [il quartier generale dell’ANP ndt] a Ramallah e, con un grande sorriso sul volto, ha dichiarato in arabo “Rahat a-Quds!” (“Avete perso Gerusalemme!”)

In un altro luogo e in un altro tempo, questo sicuramente sarebbe stato un casus belli, ma in questa storia, che è accaduta alla fine del mese scorso, i presenti hanno risposto divertiti e tolleranti e hanno stretto la mano al loro ospite – il ministro delle finanze e membro del gabinetto di sicurezza Moshe Kahlon.

Non era la prima visita di Kahlon a Ramallah, né il suo primo incontro con alti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il suo gesto è stato accettato con leggerezza perché hanno familiarità con lo stile diretto ma accattivante di Kahlon. Da quando è diventato ministro delle finanze, questo ex membro del Likud – che ora guida un partito, Kulanu, che non ha una chiara agenda diplomatica – è riuscito a sviluppare un canale riservato con la leadership palestinese. In primo luogo è stato per la cooperazione economica e il coordinamento sotto l’egida del sistema della sicurezza, mentre in seguito sono state affrontate altre questioni, mosse dall’abbraccio dell’orso americano. In sostanza, poiché i palestinesi hanno dichiarato che non siederanno al tavolo dei negoziati se Washington resta il mediatore, Kahlon è attualmente l’unico canale diplomatico attivo.

Alcuni funzionari palestinesi si riferiscono a lui con ironia come ministro del campo profughi, perché durante uno dei suoi incontri ha raccontato della difficile infanzia nei quartieri popolari di Givat Olga. Le sue conversazioni sono inframmezzate dall’arabo che ha imparato dai genitori tripolitani. Questo dettaglio ha attirato l’attenzione delle agenzie di stampa straniere, che lo hanno etichettato come “l’oratore arabo che potrebbe guidare Israele”. Solo Kahlon comprende veramente l’arabo: così hanno raccontato ad Haaretz persone al corrente di questi incontri, con una frecciata chiaramente rivolta al ministro della Difesa Avigdor Lieberman, ma si affrettano ad aggiungere che l’arabo di Kahlon è molto semplice e le sue conversazioni con i funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese sono condotte con l’aiuto di interpreti o in inglese.

Sebbene questi incontri non siano mai stati veramente segreti, anche se tutti i dettagli non sono noti, il presidente di Kulanu si sforza molto di nascondere questo aspetto del suo lavoro. Su tutti i suoi vivaci social network, tra le centinaia di annunci sui nuovi benefici finanziari e le immagini della anziana madre (che vive ancora a Givat Olga), troverete solo una manciata di riferimenti agli affari diplomatici o di sicurezza in generale e ai suoi legami con Ramallah in particolare. Non è una coincidenza, ovviamente. Kahlon è orgoglioso del suo lavoro in quest’area, ma ha anche paura di erodere la propria immagine di destra.

Misure restrittive’

I contatti sono iniziati quando ha assunto il Ministero delle Finanze nel 2015, con una telefonata dal suo omologo palestinese Shukri Bishara, che ha portato a un incontro a cui ha preso parte anche il Ministro per gli affari civili dell’ANP Hussein al-Sheikh. Questo non era un gesto insolito né una dimostrazione di buona volontà. Con il Protocollo di Parigi che regola le relazioni economiche tra Israele e ANP – che è stato perfino aggiornato nel 2012 dal primo ministro Benjamin Netanyahu, il quale ha dichiarato che era finalizzato a “sostenere la società palestinese e a rafforzare la sua economia” – Israele è obbligato a coordinare varie attività economiche con l’ANP, compreso il trasferimento delle imposte raccolte da Israele per conto dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Nel corso degli anni, i governi israeliani hanno tenuto in ostaggio questi fondi palestinesi, ritardando o congelando il loro trasferimento come forma di pressione o di punizione. Stando così le cose, anche una decisione che regoli il trasferimento di fondi diventa una decisione diplomatica significativa, com’è la decisione del livello dei funzionari che partecipano alle riunioni. I colleghi di Kahlon dicono che anche il precedente ministro delle finanze, Yair Lapid, aveva incontrato Bishara nelle stesse circostanze, ma la relazione non fu mai così e non si riuscì ad affrontare [il problema] dei debiti.

Nel 2017 Kahlon ha iniziato a incontrare anche il primo ministro palestinese Rami Hamdallah, con il beneplacito e la benedizione di Netanyahu. I due si sono incontrati tre volte a Ramallah e si prevede che terranno un altro incontro a Gerusalemme. I due, insieme ai propri collaboratori, si connettono anche telefonicamente. A questi incontri parteciperà il Coordinatore delle attività del governo nei Territori, il generale Yoav Mordechai, che è responsabile anche dei meccanismi del coordinamento finanziario e della sicurezza. A volte ha partecipato anche il capo dell’intelligence palestinese Majid Faraj.

In assenza di un autentico processo diplomatico, le Forze di Difesa israeliane si sono da tempo concepite come l’adulto responsabile, mantenendo aperti i canali di dialogo con la Cisgiordania e Gaza nella maggior parte dei settori vitali. Ciò è sempre rappresentato come uno sforzo per mantenere il controllo sulla sicurezza. L’esercito ritiene che le misure di costruzione della fiducia siano un modo significativo per prevenire proteste violente. “Misure restrittive”, le chiamano gli alti funzionari della sicurezza.

Di tanto in tanto l’esercito coinvolge anche i politici, e Kahlon era un candidato perfetto. Il suo nuovo partito era sufficientemente libero dai tradizionali lacci politici, ha manifestato il desiderio di essere coinvolto e possiede un certo fascino personale. E poi, non aveva esperienza diplomatica. Gli incontri iniziati nel quadro degli Accordi di Oslo sono proseguiti, sotto la direzione di Mordechai, su altre questioni, principalmente l’accordo per risolvere il debito dell’Autorità Nazionale Palestinese verso l’Israel Electric Corp. e per regolare il settore energetico dell’Autorità Nazionale Palestinese, accordo che Kahlon ha firmato nel settembre 2016 e che includeva complesse garanzie e disposizioni.

Il primo incontro fra Kahlon e Hamdallah è avvenuto nel mese di giugno 2017 a Ramallah, quando hanno condiviso il pasto iftar che rompe il digiuno del Ramadan. Erano passati più di 10 anni da quando un funzionario israeliano di così alto livello aveva visitato il territorio dell’Autorità Nazionale Palestinese. Da allora le discussioni tra i loro staff hanno toccato questioni come facilitare le condizioni per le costruzioni palestinesi nell’area C della Cisgiordania, che è sotto il completo controllo israeliano, o gli insediamenti, la situazione a Gaza, la riconciliazione tra le fazioni palestinesi e il terrorismo.

Ma i temi principali sono stati quelli economici, questioni come aumentare il numero di palestinesi che possono lavorare in Israele; affrontare la crisi idrica e fognaria; il potenziamento della copertura per i cellulari; l’installazione di un sistema informatico comune che bloccherebbe l’evasione fiscale ai terminali commerciali; la regolamentazione delle pensioni per i lavoratori palestinesi in Israele; l’ipotesi di una zona industriale congiunta nell’insediamento di Betar Illit che impiegherebbe 2.000 lavoratori ultraortodossi e palestinesi; un terminale di carburante; i risarcimenti da Israele alle banche che forniscono servizi all’ANP, in base alle leggi internazionali contro il riciclaggio di denaro sporco, e un fondo comune che sarà finanziato con le tasse di gestione che Israele raccoglie sulle imposte della ANP, che saranno utilizzate per incoraggiare iniziative congiunte ad alta tecnologia. (“Diciamo che un’azienda di Ra’anana che voglia lavorare con una compagnia di Ramallah otterrà dei finanziamenti”, dicono le fonti).

Fonti a conoscenza del contenuto degli incontri hanno detto ad Haaretz che, durante una delle discussioni sull’eliminazione dei debiti di riscossione, è scoppiato un litigio sull’ammontare totale. I palestinesi non avevano fatture da presentare, quindi le due parti si sono accordate sullo stesso importo dell’anno prima. Durante la discussione Kahlon gli ha detto: “Mi hanno riferito che non ci sono soldi per medicine o insegnanti. Vengo da una casa dove non si toglie il cibo di bocca ai bambini, e non importa se sono ebrei o palestinesi “. Questo commento ha facilitato il resto della conversazione.

Ma alcuni funzionari palestinesi sono meno entusiasti. Dicono che il rapporto con Kahlon è totalmente professionale e deriva dalla necessità di gestire gli accordi economici con Israele. Gli alti funzionari dell’ANP sottolineano che non hanno inclinazioni fra chi gestisce i contatti con loro, purché non sia un colono. Dicono che i palestinesi “comuni” preferirebbero tagliare tutti i contatti con Israele, ma non capiscono che l’ANP non può farlo perché ha degli obblighi.

Poco dopo che Donald Trump ha prestato giuramento come presidente degli Stati Uniti, il suo inviato speciale in Medio Oriente, Jason Greenblatt, si è inserito in questa relazione complessa e in via di sviluppo. Cominciò a incontrare Mordechai e in seguito capì il ruolo che stava giocando Kahlon. Il perseguimento della “pace economica” era qualcosa che Greenblatt aveva sempre sostenuto, ma la sua importanza crebbe quando divenne l’unica opzione sul tavolo a causa della brusca interruzione voluta dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas.

Greenblatt e il segretario al tesoro degli Stati Uniti Steven Mnuchin hanno incontrato Kahlon alcune volte e hanno iniziato a insistere per aumentare la cooperazione e ottenere risultati. Le poche immagini disponibili di questi incontri si trovano sull’account Twitter di Greenblatt, che in qualche misura ha spesso portato entrambe le parti fuori dall’armadio dove avrebbero preferito rimanere nascosti.

Il secondo incontro Kahlon-Hamdallah, svoltosi in ottobre, è stato tenuto segreto fino a quando non è stato rivelato dalla Radio dell’esercito. I due, con l’incoraggiamento americano, hanno discusso di aumentare le ore di apertura dell’Allenby Bridge e degli altri valichi della Cisgiordania da e verso la Giordania.. Più o meno nello stesso periodo, una delegazione guidata dal direttore generale del ministero delle Finanze, Shai Babad, ha visitato la nuova città palestinese di Rawabi per far avanzare la pavimentazione di una strada di accesso alla città. Il ministro dell’Economia e dell’Industria Eli Cohen, anch’egli [membro] di Kulanu, ha visitato la Cisgiordania per mandare avanti la creazione di una zona industriale congiunta. Successivamente, Cohen si è anche incontrato a Parigi con il suo omologo palestinese, Abeer Odeh.

A gennaio Kahlon è apparso con rappresentanti americani e palestinesi in un servizio fotografico per l’inaugurazione di una nuova postazione di controllo con scansione presso il ponte Allenby, acquistata con gli aiuti europei. Alla cerimonia, Kahlon ha detto: “Sono arrivato al ministero delle finanze dopo che c’era stato un lungo blocco nelle relazioni tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Abbiamo deciso di assumerci le nostre responsabilità e portare avanti una serie di progetti comuni. Il progetto che stiamo inaugurando qui è un esempio di come una piccola cosa può operare un grande cambiamento. Abbiamo molti progetti per continuare la cooperazione economica con l’Autorità Nazionale Palestinese”.

Le fonti israeliane, tuttavia, minimizzavano il significato del progetto Allenby. “Non ci sarà più passaggio lì, ma gli americani volevano un risultato subito”, ha detto uno.

Durante il suo terzo incontro con Hamdallah, dopo il riconoscimento degli Stati Uniti di Gerusalemme come capitale di Israele, Kahlon era già diventato un canale significativo nelle comunicazioni tra l’amministrazione e i palestinesi. “Tornate a negoziare con gli americani, sono l’unico mediatore onesto nella regione”, avrebbe all’epoca detto Kahlon.

Sia Netanyahu che Abbas sono consapevoli di ciò che accade in questi incontri; a volte viene riferito anche agli altri membri del gabinetto di sicurezza. Avere là Kahlon, davanti e di fronte, fa bene a tutti. Quando c’è qualcosa di cui vantarsi, Netanyahu, che per anni ha promosso l’idea di “pace economica”, può farsi bello con l’amministrazione americana. Quando c’è una critica da destra, può dare la colpa a Kahlon.

Ma come sta progettando Kahlon di mantenere questo suo nuovo ruolo? Non è emerso alcun progetto diplomatico, nemmeno parziale. L’uomo che in passato ha detto a un intervistatore che la pace con i palestinesi potrebbe anche iniziare con “concorsi di cucina”, come per la diplomazia del ping-pong del presidente statunitense Richard Nixon, sta acquistando una significativa esperienza diplomatica, ma sta mantenendo le sue conclusioni per se stesso.

Né gli uffici di Kahlon né quelli di Hamdallah hanno reagito a questo articolo.

(Traduzione di Luciana Galliano)