Rapporto OCHA del periodo 27febbraio- 12 marzo ( due settimane)

Nell’area di Nablus, durante scontri seguiti a cinque episodi di infiltrazione di coloni israeliani armati all’interno di comunità palestinesi, un palestinese è stato ucciso e altri 50 sono stati feriti dalle forze israeliane.

Quattro degli episodi si sono verificati attorno agli insediamenti colonici di Yitzhar e Bracha. Da lunga data questi insediamenti sono fonte di vessazioni e violenze sistematiche nei confronti dei palestinesi residenti nei sei villaggi circostanti. L’uccisione del palestinese ventiduenne [di cui sopra] ed il ferimento, con arma da fuoco, di un quindicenne sono stati registrati entrambi il 10 marzo, nel villaggio di ‘Urif (Nablus). Su questo episodio le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale. Nei giorni precedenti, in Burin ed Einabus, ed anche in ‘Urif, si erano già verificati scontri simili che avevano causato il ferimento di 44 palestinesi. I restanti quattro feriti sono stati registrati nella città di Nablus, durante scontri seguiti all’ingresso di coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, in visita ad un sito religioso (la Tomba di Giuseppe).

Nei Territori palestinesi occupati, ulteriori scontri tra palestinesi e forze israeliane hanno portato all’uccisione di un palestinese e al ferimento di altre 478 persone, tra cui 219 minori. La vittima, un 24enne sordo, è stato ucciso il 12 marzo, nella città di Hebron, durante una manifestazione. Secondo l’esercito israeliano, gli spari che hanno provocato l’uccisione erano in risposta al lancio di bottiglia incendiaria. Testimoni oculari palestinesi hanno dichiarato che, quando gli hanno sparato, l’uomo non era coinvolto negli scontri. Cinquanta dei ferimenti di questo periodo si sono verificati in scontri vicino alla recinzione perimetrale di Gaza, i rimanenti in Cisgiordania. La maggior parte di questi ultimi hanno avuto luogo durante le dimostrazioni settimanali contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni all’accesso a Kafr Qaddum (Qalqiliya), An Nabi Saleh e Al Mazra’a al Qibliya (entrambi a Ramallah); altre durante le manifestazioni contro il riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di Gerusalemme quale capitale d’Israele, le più vaste delle quali si sono verificate in Al Bireh / DCO (Ramallah), nella città di Hebron e al checkpoint di Huwwara (Nablus); altre ancora nel corso di una protesta contro un’operazione militare condotta dalle forze israeliane nell’università di Birzeit (Ramallah). Ulteriori scontri, che non hanno provocato feriti, si sono verificati nella scuola di Lubban ash Sharqiya (Nablus), dopo che le forze israeliane hanno impedito agli studenti di entrare nella loro scuola, secondo quanto riferito, come punizione per aver lanciato pietre contro veicoli israeliani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 457 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 243 palestinesi, compresi 21 minori. La maggior parte degli arresti (60, di cui 12 minori), si sono avuti nel governatorato di Gerusalemme, mentre nel governatorato di Ramallah è stato registrato il maggior numero di operazioni (84), compresa l’operazione nell’università di Birzeit (Ramallah), citata al paragrafo precedente.

In Cisgiordania, oltre alle incursioni riportate sopra, in dieci episodi di violenza ad opera di coloni, otto palestinesi sono stati feriti direttamente da coloni e proprietà palestinesi sono state vandalizzate oppure rubate. Tre di questi casi si sono verificati attorno ai già menzionati insediamenti di Yitzhar e Bracha a Nablus: l’aggressione fisica di tre contadini e il danneggiamento di un veicolo a Einabus; la vandalizzazione di 115 ulivi a Madama; il furto di un asino a Burin. Altri tre episodi di lancio di pietre contro veicoli palestinesi hanno provocato il ferimento di tre studenti che viaggiavano su uno scuolabus vicino a Salfit e danni a due veicoli. In tre diverse occasioni, coloni israeliani, secondo quanto riferito, provenienti dall’avamposto [= insediamento colonico non autorizzato da Israele] di Havat Ma’on, hanno danneggiato 18 alberi di proprietà palestinese nei pressi del villaggio di At Tuwani (Hebron). Dall’inizio del 2018, la media settimanale di attacchi di coloni, con vittime palestinesi o danni alle proprietà, è aumentata del 50%, rispetto al 2017 e del 67% rispetto al 2016.

Il 4 marzo, ad est di Khan Younis, vicino alla recinzione perimetrale che circonda Gaza, nel contesto della persistente imposizione, da parte di Israele, delle restrizioni di accesso alle ARA [cioè le zone che Israele ha stabilito come “Aree ad Accesso Riservato”], un agricoltore palestinese di 59 anni, al lavoro sulla propria terra, è stato ucciso dalle forze israeliane. Secondo un gruppo per la difesa dei diritti umani, il contadino si trovava a circa 200 metri dalla recinzione [all’interno di essa]. In almeno altre 31 occasioni, nelle zone lungo la recinzione e in mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso contadini e pescatori, senza provocare feriti. Dall’inizio del 2018, in “Aree ad Accesso Riservato”, di terra o di mare, sono stati segnalati almeno 142 episodi di spari verso contadini o pescatori palestinesi, che hanno provocato 2 morti e 11 feriti. In un caso, undici pescatori, tra cui un minore, sono stati costretti a togliersi i vestiti e a nuotare verso le imbarcazioni militari israeliane, dove sono stati arrestati; le loro barche e le reti da pesca sono state sequestrate. All’interno della Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, in cinque occasioni, le forze israeliane [sono entrate ed] hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo. Agricoltori palestinesi hanno riferito che, il 4 marzo, vicino alla recinzione nel nord di Gaza, aerei israeliani hanno irrorato erbicidi su terreni agricoli.

Il 10 marzo, a Beit Lahiya (Gaza Nord), un palestinese è morto ed altri due sono rimasti feriti (tutti membri di un gruppo armato) dall’esplosione, nel sito del lancio, di un razzo che gruppi armati palestinesi di Gaza stavano tentando di sparare verso il sud di Israele.

In Cisgiordania, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato otto strutture di proprietà palestinese: non ci sono stati sfollamenti, ma sono stati colpiti i mezzi di sostentamento di circa 50 persone. Tutti gli episodi si sono verificati a causa della mancanza di permessi di costruzione. Quattro delle strutture colpite erano a Gerusalemme Est (Silwan, Beit Hanina e Al ‘Isawiya) e le altre quattro nell’Area C, ad Al’ Auja (Jericho) e Hizma (Gerusalemme).

Nell’area H2 di Hebron, controllata da Israele, a conclusione di una lunga controversia, l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha ordinato l’evacuazione di alcune parti di un edificio di proprietà palestinese (Abu Rajab), che, nel luglio 2017, erano state occupate da coloni israeliani. Altre parti dell’edificio erano già state occupate da coloni nel 2012 e nel 2013. Nella città di Hebron, le politiche e le pratiche attuate dalle autorità israeliane e giustificate da ragioni di sicurezza, hanno portato al trasferimento forzato di palestinesi dalle loro case, riducendo una zona fiorente ad una “città fantasma”.

In Cisgiordania, secondo quanto riportato dai media israeliani, sono stati segnalati almeno otto episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie, da parte palestinese, contro veicoli israeliani: un israeliano è stato ferito e sette veicoli sono stati danneggiati. Gli episodi si sono verificati su strade vicino ad Al Khadr e Husan (entrambi a Betlemme), vicino al Campo profughi di Tuqu’ e Al ‘Arrub (entrambi in Hebron) e vicino a Gerico. Inoltre, a Gerusalemme Est, nella zona di Shu’fat, sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto solo per un giorno in una direzione, consentendo a 22 palestinesi di entrare a Gaza. Secondo le autorità palestinesi a Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah. Dall’inizio del 2018, il valico è stato aperto solo per 7 giorni; quattro giorni in entrambe le direzioni e tre giorni in una direzione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Quindici anni di separazione: i palestinesi tagliati fuori da Gerusalemme dal muro

Netta Ahituv

10 marzo 2018,Haaretz

I palestinesi lo vedono come un tentativo di Israele di espellerli da Gerusalemme; gli israeliani come una difesa contro il terrorismo. Haaretz ha indagato l’impatto della barriera di separazione sulla città e sui suoi abitanti.

Nella capitale di Israele[ per Israele ma per la comunità internazionale salvo Trump la capitale è Tel Aviv,ndt] un muro serpeggia e gira per un totale di 202 kilometri. Da una parte questo serpente di cemento incarna l’occupazione; allo stesso tempo offre un senso di sicurezza. Tra questi due poli, a volte la situazione assume una dimensione assurda. Quest’anno segna il quindicesimo anniversario da quando la costruzione del muro è iniziata – un progetto concepito come necessità securitaria che si è ingrandito fino a diventare un strumento politico molto potente. I suoi molteplici aspetti si riflettono nei diversi nomi che gli sono stati attribuiti: “barriera di sicurezza”, “recinto di separazione”, il “muro” e, denominazione ufficiale, “l’involucro di Gerusalemme”.

I suoi sostenitori si concentrano su quello che descrivono come il suo principale pregio: la sicurezza. Come prova che il muro sta funzionando bene sottolineano il notevole decremento del numero di attacchi suicidi che sono avvenuti in Israele da quando l’idea è stata approvata la prima volta (43 di questi attacchi nel 2002, zero attacchi suicidi nel 2012).

Chi critica la barriera sostiene che il suo obiettivo sotteso sia demografico: l’annessione di fatto ad Israele della maggiore estensione possibile di territorio, includendo il minor numero possibile di abitanti palestinesi. L’esistenza del muro, affermano, renderà ancora più difficile alle due parti raggiungere mai un accordo. A supporto di questa considerazione, sottolineano che solo il 15% del percorso di 470 km dell’intera barriera (non solo il suo tracciato a Gerusalemme) corrisponde alla Linea Verde [che divideva Israele e la Cisgiordania prima della guerra del ’67 e dell’occupazione israeliana, ndt.], mentre il restante 85% passa all’interno di zone palestinesi.

Sostenitori e detrattori dei benefici del muro possono essere trovati tra israeliani sia di destra che di sinistra, così come nella comunità internazionale. Un suo ammiratore è il presidente Usa Donald Trump, che vuole replicare il suo “successo” lungo il confine del suo Paese con il Messico. Tuttavia la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia non riconosce la legittimità del muro e – in una sentenza del 2004 – chiede che venga smantellato, con indennizzi da pagare ai palestinesi che sono stati danneggiati dalla sua costruzione.

Qualunque sia l’opinione, non si può negare il fatto che la presenza del muro abbia provocato non pochi sconvolgimenti nelle vite sia degli israeliani che dei palestinesi. Ha alterato l’aspetto delle comunità, è diventato il fattore dominante nelle vite di molti, ha colpito l’economia dei due popoli e si è insinuato in modo molto naturale nelle abitudini culturali di questa terra in conflitto.

Descrivendo le diverse percezioni del muro all’interno delle due Nazioni, l’avvocatessa Nisreen Alyan, una palestinese con cittadinanza israeliana che lavora per l’”Associazione per i Diritti Civili in Israele”, osserva: “I palestinesi lo vedono come una ferita in mezzo alla popolazione. Sono anche informati del fatto che, in base alle leggi internazionali, non è legittimo. Dal loro punto di vista il muro è un ulteriore simbolo dell’occupazione israeliana. Al contrario gli israeliani vedono il muro come un mezzo di protezione, una necessità legata alla sicurezza, e di conseguenza pensano che la sua legittimità o illegittimità non sia pertinente alla discussione.”

Anche i tribunali israeliani si sono occupati del problema del muro in varie occasioni (negli anni sono stati presentati circa 150 ricorsi contro di esso e contro il suo percorso). Le sentenze non hanno mai assunto la forma di decisioni contro il muro in quanto tale, al massimo hanno dato debole espressione all’opinione che questa o quella parte del suo percorso fosse sproporzionata o irragionevole in termini di sconvolgimento della vita quotidiana dei palestinesi.

In realtà il tribunale non ha mai scavato in profondità alla radice dell’esistenza del muro, ne ha invariabilmente discusso in superficie,” dice Alyan.

Tutti questi ricorsi e contro-ricorsi hanno assunto una maggiore intensità riguardo al tratto di muro a Gerusalemme, che va dalla comunità di Har Adar a nord fino al blocco di colonie di Gush Etzion, a sud di Betlemme. In alcune parti assume la forma di una recinzione, con sotto dei fossati, in altre parti, soprattutto nelle aree urbane, è un muro di cemento alto nove metri sormontato da filo spinato, punteggiato di torri di controllo e telecamere.

Come molti capitoli della storia israeliana, la vicenda della nascita del muro è intrisa di sangue. Una serie di attacchi kamikaze scosse il Paese alla fine degli anni ’90 e nei primi anni del nuovo secolo. Il dicembre del 2001 fu un mese particolarmente duro, iniziato con due attacchi mortali. Nel primo vennero uccisi 11 israeliani da due kamikaze nella zona commerciale pedonale di via Ben Yehuda e da un’autobomba che esplose nei pressi. Il secondo incidente avvenne il giorno dopo ad Haifa, con 15 persone uccise in un autobus. La commissione ministeriale per la sicurezza nazionale si riunì in sessione speciale e decise di mettere in atto il progetto dell’“involucro di Gerusalemme”, con l’obiettivo di regolare l’ingresso dei palestinesi in Israele.

Nell’agosto del 2002 la prima fase del muro di Gerusalemme venne pianificata ed approvata – due sezioni di 10 km l’una. La parte settentrionale avrebbe separato Ramallah da Gerusalemme; quella meridionale avrebbe diviso Betlemme dalla capitale israeliana. Il resto del percorso venne aggiunto un po’ alla volta nel corso degli anni. Il tratto finale, al momento, viene costruito sulla dorsale meridionale di Gerusalemme, nel quartiere [in realtà una colonia, ndt.] di Gilo attraverso la Linea Verde, vicino al monastero “Cremisan” (che rimane all’interno dei confini municipali di Gerusalemme a causa delle pressioni da parte del Vaticano).

Nel loro libro del 2008 “The Wall of Folly” [“Il muro della follia”] (in ebraico) il geo-demografo Shaul Arieli e l’avvocato Michael Sfard, specializzato in leggi sui diritti umani, raccontano come il primo ministro Ariel Sharon e il suo governo del Likud [partito di destra israeliano, ndt.] “cercarono in ogni modo di evitare la costruzione di un muro a Gerusalemme.” Alla fine, aggiungono, la decisione di erigerlo “fu una risposta senza alternative di fronte agli avvenimenti terroristici di cui Gerusalemme soffrì più di qualunque altro luogo in Israele.”

In effetti il terrorismo si ridusse, ma molti analisti, compreso Arieli, sostengono che la diminuzione degli attacchi non sia stata dovuta solo alla costruzione del muro, ma a un insieme di vari fattori: il colpo sferrato alle organizzazioni terroristiche nell’operazione “Scudo difensivo” dell’esercito israeliano nel 2002; una più stretta collaborazione con l’Autorità Nazionale Palestinese in questioni relative alla sicurezza; una maggiore attività di intelligence da parte di Israele.

Inizialmente la barriera di Gerusalemme avrebbe dovuto circondare la cittadina [in realtà una colonia, ndt.] di Ma’aleh Adumim a est della città sulla strada verso il Mar Morto e annettere quella regione, nota come E-1, ad Israele. Tuttavia, in seguito a pressioni internazionali, il progetto di rendere Ma’aleh Adumim parte della conurbazione di Gerusalemme non è ancora stato messo in pratica. Per evitare un varco nella barriera di Gerusalemme, ma senza annettere quest’area sensibile, è stato costruito un muro tra Gerusalemme e l’E-1, che obbliga i 38.000 coloni ebrei nella zona ad attraversare un checkpoint per entrare a Gerusalemme.

La nostra espulsione silenziosa”

Per i palestinesi l’involucro di Gerusalemme ha creato spazi urbani totalmente diversi da quelli che esistevano nel periodo precedente il muro. Il risultato che più colpisce è la separazione di Gerusalemme sia da Betlemme che da Ramallah, che di fatto esclude dalla Cisgiordania gli abitanti palestinesi di Gerusalemme.

Un esempio calzante è la vita di due studenti, M. e L., che vivono entrambi a Gerusalemme est ed hanno carte d’identità blu (quelle israeliane). Si sono incontrati al corso preparatorio dell’Università Ebraica di Gerusalemme, dove ancora studiano, ed hanno intenzione di sposarsi presto. Poiché la famiglia estesa di L. vive a Ramallah, lei ha presentato una richiesta per ottenere dei permessi di ingresso per i parenti in modo che possano festeggiare insieme alla coppia il giorno delle nozze. La data dell’avvenimento si avvicina, ma le autorità israeliane non hanno ancora risposto alla richiesta. Questo non era stato un problema che i genitori di L., che si erano sposati prima della costruzione del muro, dovettero affrontare quando spedirono gli inviti per il loro matrimonio.

Il secondo cambiamento importante è la separazione dalla città vera e propria di Kafr Aqab, un villaggio nel nord di Gerusalemme, e del campo profughi di Shoafat, a nordest. Il muro separa entrambe le aree dal resto della città. Per entrare a Gerusalemme – cosa per cui queste persone hanno il permesso, in quanto possiedono carte d’identità blu e sono considerati residenti di Gerusalemme – gli abitanti dei due quartieri sono obbligati ad attraversare dei checkpoint. Circa 90.000 persone, che rappresentano tra un quarto e un terzo degli abitanti palestinesi di Gerusalemme est, vivono in quartieri “lasciati” dalla parte sbagliata del muro, fuori dalla Gerusalemme vera e propria.

Per i palestinesi con status di residenti a Gerusalemme est, le barriere erano precedenti al muro. Già negli anni ’90, durante la prima Intifada, Israele eresse barriere e proibì ai palestinesi che non erano residenti a Gerusalemme di entrare in città senza un permesso – ma la separazione ora è concreta e permanente.

Molti palestinesi ricordano con nostalgia il periodo precedente il muro. Descrivono via Salah e-Din, la strada principale di Gerusalemme est, come un prospero centro commerciale, economico e culturale, una calamita per i palestinesi di ogni parte della Cisgiordania e di Israele. In seguito alla costruzione della barriera, tuttavia, l’accesso a Gerusalemme è diventato difficile e l’attività commerciale nella parte orientale della città si è ridotta. Negli anni seguenti circa 5.000 piccoli commerci a Gerusalemme est hanno chiuso per mancanza di clienti, cosa che ha ulteriormente intensificato la povertà. Se prima della costruzione dell’involucro di Gerusalemme la percentuale di poveri tra i palestinesi di Gerusalemme era del 60%, dopo è salita fino all’80%, ed è rimasta tuttora invariata.

Il quartiere Bir Naballah di Gerusalemme nord, per esempio, è stato chiuso fuori, trasformato in una enclave isolata. Nel passato il quartiere era un centro di locali da ricevimento. Oggi i palestinesi che vogliono entrare a Bir Naballah devono attraversare posti di blocco e nessuno vuole smorzare l’allegria di una festa in quel modo. La situazione ha portato alla chiusura della maggior parte dei locali da ricevimento e dei ristoranti.

E non sono state solo le attività commerciali a soffrirne – anche la vita culturale ne ha risentito. C’erano tre cine teatri popolari a Gerusalemme est, insieme al teatro nazionale palestinese, Al Hakawati; i cine teatri hanno chiuso e Al Hakawati si è spostato a Ramallah.

Quindici anni sono passati da quando è iniziata la costruzione del muro, e gli uffici ed i servizi governativi, come la polizia e i servizi fognari, in quei quartieri non stanno più funzionando,” dice Nisreen Alyan.

Il risultato è stato il dominio di delinquenti e famiglie criminali. Ci sono spaccio di droga, prostituzione e anche un mercato delle armi, e nessuno sta facendo qualcosa. I quartieri oltre il muro sono diventati il rifugio di criminali che scappano dalle leggi in Israele o dal sistema giudiziario dell’ANP.”

Si è detto e scritto molto sul campo di rifugiati di Shoafat (30.000 abitanti), che soffre per la scarsità di infrastrutture e per la povertà. Kafr Aqab (25.000 abitanti) e i quartieri limitrofi sono in una situazione simile. Ufficialmente si trovano all’interno della giurisdizione del Comune di Gerusalemme, ma in pratica ricevono dalla città servizi vergognosamente inadeguati.

I residenti del posto descrivono la loro condizione come “la nostra espulsione silenziosa.” Quello che vogliono dire è che, in base al fatto concreto del loro abbandono, sono convinti che il Comune di Gerusalemme e lo Stato di Israele stiano tentando di spingerli in una condizione disperata, in seguito alla quale se ne andranno, e così facendo perderanno il loro status di residenti a Gerusalemme. In questo modo non rappresenteranno più una minaccia demografica per la maggioranza ebraica della città.

Infatti la disperazione è il sentimento dilagante sia a Shoafat che a Kafr Aqab. Le ragioni di ciò non mancano, e recentemente se n’è aggiunta una nuova: il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente Trump e l’annuncio che l’ambasciata USA sarà spostata in città come omaggio a Israele per il 70° anniversario della sua indipendenza. Per i palestinesi di Gerusalemme è l’ennesima iniziativa che allontana ulteriormente le loro speranze della fine dell’occupazione e le loro aspirazioni a fare di Al-Quds – come definiscono la Gerusalemme est araba – la loro capitale. Ciò potrebbe non cambiare la loro situazione materiale, ma costituisce un colpo in più al loro morale.

Paura della partizione

Una persona che ancora non dispera di migliorare la situazione è l’avvocato Mu’in Odeh. È nato e cresciuto nel quartiere di Silwan a Gerusalemme, nei pressi della Città Vecchia. Quando si è sposato, otto anni fa, a trent’anni, ha constatato di persona la crisi abitativa del quartiere. Siccome Silwan è parte integrante di Gerusalemme, i suoi abitanti non devono attraversare posti di controllo per entrare in città, il che rende molto ricercato il fatto di abitarvi. Odeh e sua moglie non hanno avuto altra possibilità che spostarsi a Kafr Aqab, al di là del muro. Lì pagano un affitto mensile di 2.000 shekel (circa 400 €), mentre un affitto all’interno della barriera di Gerusalemme può costare due o tre volte quella somma.

L’affitto a Kfr Aqab è basso, sì, ma ci sono tre gravi problemi in questo quartiere,” dice Odeh, che ha uno studio legale privato a Gerusalemme. “Il primo è il checkpoint. Non c’è modo di sapere in anticipo se ci sarà un grande ingorgo e per attraversarlo ci vorranno due ore o se andrà veloce e potrò superarlo in un quarto d’ora.”

Il secondo problema è “l’assenza di una sensazione di sicurezza,” continua Odeh. “Non ci sono forze di sicurezza nel quartiere, né israeliane né palestinesi. L’unica istituzione che agisce qui a volte è l’esercito israeliano, che entra solo per compiere arresti legati alla sicurezza. Nessuno ci protegge.”

Odeh arriva al terzo problema: l’abbandono delle infrastrutture e della rete fognaria. Solo metà delle case sono collegate alla rete idrica, le strade secondarie non sono asfaltate e sono costellate di buche, e la spazzatura è ammucchiata dappertutto. I residenti di Kafr Aqab parlano di una carenza di aule scolastiche – secondo “Ir Amim”, un’organizzazione no profit che si dedica a creare una situazione più giusta per i palestinesi di Gerusalemme, c’è una carenza di 2.557 aule nei quartieri di Gerusalemme dall’altra parte del muro. I dati mostrano che c’è una carenza di ambulatori infantili e di centri di salute, uffici di assistenza sociale, uffici postali – e in zona non c’è neppure un parco giochi per i bambini.

Nel 2012 Odeh ha presentato una petizione contro il Comune di Gerusalemme presso il tribunale amministrativo a nome dei residenti di Kafr Aqab. Nel preparare la causa, gli abitanti hanno scoperto che il bilancio per i servizi di pulizia a Kafr Aqab ammonta a meno dell’1% del bilancio totale del Comune per quella voce. Il tribunale ha invitato le due parti a raggiungere un compromesso, e la città ha accettato di aumentare il bilancio per le pulizie all’1%.

Odeh dice che la risposta del Comune è sempre la stessa: non ci sono soldi ed è pericoloso mandare operai municipali in quei quartieri. Riguardo agli stanziamenti, dice, “paghiamo le tasse municipali e il bilancio dovrebbe essere ripartito in modo diverso. Invece in merito alle questioni di sicurezza, molti operai delle fognature sono di Gerusalemme est. Invece di mandarli in altre zone della città, perché non lavorano nei loro stessi quartieri? Se il Comune pensa che non sia troppo pericoloso per loro vivere lì, possono anche lavorarci.”

Nel 2015 Odeh ha presentato un altro ricorso, dato che i servizi comunali non sono migliorati. Il municipio afferma che, dato che è lo Stato che ha costruito il muro, dovrebbe partecipare alle decisioni. A questo lo Stato ha risposto criticando la città per aver trascurato i quartieri, benché abbia ricevuto fondi statali a loro favore. Per esempio, il ministero dei Trasporti ha informato il tribunale di aver concesso a Gerusalemme 423 milioni di shekel (circa 121.2 milioni di dollari) per migliorare infrastrutture come strade e servizi di autobus a Gerusalemme est, ma il Comune non ha utilizzato i soldi a quello scopo.

Nir Barkat è stato eletto sindaco di Gerusalemme per la prima volta nel 2008. Il suo predecessore, Uri Lupolianski, ha cercato di risolvere il problema dei suoi quartieri palestinesi nel 2005. Pensava che con 80 milioni di shekel (circa 17.5 milioni di dollari), si potesse creare una rete di servizi accettabile per quelli che erano stati tagliati fuori dal muro. “Prendi i soldi dai tuoi amici dell’Unione Europea, qual è il problema?” consigliò al sindaco l’allora ministro delle Finanze, Benjamin Netanyahu. In seguito lo stesso Netanyahu, come primo ministro, ha dovuto fare i conti con le conseguenze dell’abbandono. Un rapporto del servizio di sicurezza Shin Bet del 2008 ha fatto riferimento al crescente numero degli abitanti di Gerusalemme coinvolti nel terrorismo. C’era anche un allarme in merito alla possibilità di atti di terrorismo perpetrati da individui solitari dei quartieri di Gerusalemme est – una previsione che si sarebbe avverata qualche anno dopo.

Durante i primi anni 2000 relativamente pochi abitanti della città presero parte al terrorismo, ma il numero di attentatori residenti a Gerusalemme iniziò ad aumentare nel 2008. In un articolo di Nir Hasson nel 2014 su Haaretz, intitolato “La pericolosa anomalia imprevista di Gerusalemme est” egli ha citato palestinesi che attribuivano l’incremento a tre fattori. Il primo di questi era la barriera di separazione, che, con le parole di uno di loro, “danneggia gravemente la vita sociale ed economica a Gerusalemme.”

Un’altra proposta per risolvere il “problema dei quartieri di Gerusalemme est” è stata architettata recentemente dal ministro per Gerusalemme e il Patrimonio Nazionale, Zeev Elkin (Likud). Elkin ha fatto molte pressioni per l’approvazione di un emendamento alla “Legge Fondamentale su Gerusalemme, Capitale di Israele”. Una delle sue clausole avrebbe stabilito che i quartieri palestinesi della parte orientale della città sarebbero stati gestiti da un’autorità municipale separata rispetto a quella di Gerusalemme. L’ottobre scorso Elkin ha detto ai giornalisti di “Haaretz” Nir Hasson e Jonathan Lis che la situazione nei quartieri non potrebbe essere peggiore, ed ha proposto: “Il sistema attuale è stato un totale fallimento. È stato un errore il modo in cui hanno tracciato la barriera. Attualmente ci sono due aree municipali – Gerusalemme e i suoi quartieri – e il rapporto tra loro è molto scarso. Dal punto di vista formale l’esercito non potrebbe intervenire là, la polizia vi entra solo per (effettuare) operazioni, e la zona è diventata una terra di nessuno.”

Elkin ha anche manifestato preoccupazione per il rapido aumento della popolazione in quei quartieri, che sta disintegrando l’attuale equilibrio tra ebrei ed arabi in città, a danno della maggioranza ebraica. Il collega che ha proposto l’emendamento insieme a lui è il ministro dell’Educazione Naftali Bennett (“La casa ebraica” [partito di estrema destra, ndt]). Tuttavia molti altri deputati di destra si sono indignati all’idea di mettere i quartieri di Gerusalemme sotto l’autorità di un governo municipale a parte: essi hanno sostenuto che ciò avrebbe messo le basi per un’eventuale divisione della città, anche se solo a livello dei servizi. Ne è seguito un certo trambusto, e Elkin e Bennett sono stati obbligati a cancellare la clausola dall’emendamento. L’emendamento, il cui principale obiettivo era rendere più difficile ad ogni futuro governo rinunciare alla sovranità su una qualunque parte di Gerusalemme, è stato approvato dalla Knesset a gennaio di quest’anno, ma senza la clausola sulla “divisione”.

Un sacco di cancelli”

Ahmed Sub Laban, un ricercatore di “Ir Amim”, guida la sua auto con sorprendente destrezza nel dedalo di stradine nel quartiere A-Ram di Gerusalemme. Conosce bene ogni pezzetto di asfalto ed ogni vicolo, sa chi vive dove e può raccontare la storia di ogni edificio. “Pronta?” chiede poco prima di girare a sinistra da una stretta via senza nome ad un’altra. Improvvisamente il muro si profila davanti a noi, emergendo in tutta la sua gloria in mezzo alla strada, come se fosse caduto a caso dal cielo. Ma non c’è niente di casuale nel percorso del muro. Passa qui e non in un posto più logico perché c’è una scuola cristiana nel quartiere, a cui molti diplomatici stranieri mandano i propri figli. Non vogliono aver a che fare tutte le mattine con un posto di blocco, per cui lo Stato di Israele ha accettato di far passare il muro dietro la scuola. Il muro passa anche attraverso il cortile della casa del nonno di Sub Laban. Lo stesso Sub Laban sottolinea di aver passato un’infanzia relativamente tranquilla accanto agli ebrei del vicino quartiere di Neve Yaakov, all’estremità settentrionale della città.

Dice che fin dalle prime voci sulla costruzione della barriera, tra i palestinesi si scatenò un boom immobiliare: “Sapevamo che avrebbe cambiato il quartiere, per cui la gente iniziò a costruire in tutti i modi, per creare fatti sul terreno prima che l’occupante ci dicesse cosa avesse bisogno di un permesso e cosa no. Quelli che hanno costruito qui (sul lato che alla fine è rimasto all’interno di Gerusalemme) hanno fatto un affarone, quelli che hanno costruito là (in quello che è risultato essere l’altro lato del muro) hanno perso.” La differenza di prezzo è notevole: un appartamento di tre stanze sul lato israeliano costa 1.5 milioni di shekel (oltre 430.000 dollari), sul lato palestinese circa 16.000 shekel (48.000 dollari).

La direttrice esecutiva di “Ir Amim”, Yudith Oppenheimer, anche lei nell’auto, aggiunge che il muro a Gerusalemme “non separa solo israeliani da palestinesi, ma anche Gerusalemme est dalla Cisgiordania. La sua costruzione è stata provocata da ragioni di sicurezza, ma il percorso scelto è stato sfruttato per rispondere alle ambizioni politiche, demografiche e territoriali israeliane.”

Il geografo Arnon Soffer, professore emerito dell’università di Haifa, parla dell’estetica del muro. “Tutta questa barriera è un sacco di cancelli ed ingressi,” dice, quando ne parliamo. “La sua bruttezza è spaventosa. Entrambi possiamo concordare che è un’aggiunta estremamente brutta alla nostra capitale. Ricordo fin dall’adolescenza la classica immagine della stupenda Gerusalemme. Cosa ne è rimasto? È un errore estetico madornale, che è anche un errore geografico.”

Aggiunge: “Sa quanti palestinesi vivono a Gerusalemme? Qualcuno lo sa? Nessuno lo sa esattamente. I numeri variano da 300.000 a 400.000, e si suppone che un terzo di loro siano fuori dal muro. Ma non c’è un modo effettivo per contarli, perché nessuno sa cosa stia succedendo in quei miseri quartieri. Quale futuro stiamo preparando a noi stessi in questo terribile posto?”

La curiosità di sapere cosa succede dall’altra parte del muro è irresistibile, ma tutto quello che si può fare è ascoltare. Dall’altra parte, alla “Tomba di Rachele”, a sud della città, si sente una guida turistica spiegare in inglese fluente il muro a un gruppo che sembra avere un accento britannico. Sul lato israeliano circa 50 scolare ascoltano i loro insegnanti raccontare la storia della matriarca biblica Rachele. Chiedo se qualcuna di loro è curiosa di sapere cosa ci sia dall’altra parte del muro. Una risponde “Sì,” un’altra dice “C’è Betlemme”; tutte le altre rispondono negativamente, non sono curiose: “È così alla Tomba di Rachele.” È sorprendente con quanta rapidità un muro fatto dall’uomo possa diventare qualcosa che la gente dà per scontato.

Sfide insormontabili

Chiedo a Soffer, che ha 82 anni, come vede il futuro del muro. “Le sfide sono così terribili che sono seriamente preoccupato che voi” – riferendosi alle generazioni più giovani – “non sarete in grado di superarle,” risponde.

Infatti, a questo punto del conflitto e dato lo spirito dei tempi, è difficile immaginare che il muro possa mai crollare. Al momento non pare che succederà nel contesto di un accordo di pace, e la sua eliminazione per obiettivi di annessione ora è una missione troppo complessa. Ma ci sono anche quelli che pensano che il muro sia in realtà un segnale di speranza. Sottolineano che comunque esiste una specie di frontiera tra palestinesi ed israeliani, per quanto frammentata e discussa. Quindi lo spazio per un accordo potrebbe essere più ampio di quanto appaia in un primo momento.

Questa è la premessa di due architetti, Karen-Lee Bar Sinai and Yehuda Greenfield-Gilat (che è anche membro del consiglio comunale di Gerusalemme, in rappresentanza del Partito dei Gerosolimitani [partito laico-religioso di centro, ndt.]). Entrambi erano studenti di architettura quando venne lanciato il progetto di separazione.

Benché le implicazioni geopolitiche, spaziali ed economiche del muro siano enormi, abbiamo rilevato che la comunità locale degli architetti non è stata coinvolta nella questione,” dice Bar Sinai. “Pensiamo che gli architetti abbiano un importante ruolo da svolgere nell’assunzione di responsabilità su come sarà il confine tra Israele e Palestina. Quello che è iniziato come una tesi di laurea è diventato la nostra professione.” I due hanno fondato lo studio “SAYA/Design for Change” ed hanno prodotto numerose mappe e simulazioni con l’obiettivo di “valorizzare la frontiera tra Israele e Palestina,” come dicono loro.

Il muro attorno a Gerusalemme rimarrà,” dice Greenfield-Gilat, “ma il suo percorso cambierà una volta che siano stabiliti i confini definitivi. Secondo noi, insieme ad un cambiamento del percorso, deve cambiare anche l’essenza del muro, in modo che diventi un collegamento e non una divisione. Deve diventare una membrana che respira e rende possibile un tessuto urbano vitale.”

Se il muro rimane, ma non com’è adesso, a cosa somiglierà? I due suggeriscono che sia integrato nelle infrastrutture municipali e mostrano con immagini e mappe come ciò possa essere fatto. Un’idea, per esempio, è di collocare un attraversamento nella stazione centrale degli autobus, in modo che il controllo di sicurezza venga effettuato all’entrata della stazione viaria ed evochi un aeroporto più che un posto di blocco. Un altro attraversamento verrebbe creato sotto la porta di Damasco della Città Vecchia, vicino al sito archeologico. Propongono anche un punto di passaggio nella forma di un ponte pedonale nei pressi dell’hotel “American Colony” a Gerusalemme est. Invece di un muro, in certi punti propongono uno spartitraffico alto, che separi due parti di una strada.

Durante la nostra conversazione dico agli architetti che, benché abbiano descritto la barriera di separazione in termini eleganti, parlando di una “membrana che respira” o di “un viale di confine” – non posso smettere di immaginare un alto muro con filo spinato.

Il nostro ruolo,” replica Greenfield-Gilat, “è proprio cambiare quello che lei sta immaginando. Stiamo proponendo una soluzione che ponga le basi soprattutto per trasformare le coscienze.” A cui Bar Sinai aggiunge: “Lei dipinge la separazione tra i popoli, e va bene – quando viene deciso di separarli per ragioni di sicurezza, lasciamo fare la separazione -, ma noi stiamo parlando della connessione. Stiamo dimostrando che è possibile mettere in connessione in modo più intelligente, farlo meglio.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Infanzia rubata: la vita dei minori palestinesi dopo la prigione

Chloé Benoist

5 marzo 2018, Middle East Eye

I minori palestinesi incarcerati da Israele affrontano il trauma e la sfida di cercare di riconquistare la propria infanzia.

CISGIORDANIA OCCUPATA – A volte il diciottenne Mohammad sogna di essere ancora nella prigione militare di Ofer.

“Ricordo i miei amici in prigione. Mi sembra di essere di nuovo là”, dice sommessamente il giovane palestinese, tenendo gli occhi bassi mentre ricordava gli otto mesi passati nella prigione israeliana tra il 2016 e il 2017.

Mohammad, che preferisce non rivelare il suo cognome per motivi di sicurezza, è stato incarcerato quando aveva solo 16 anni.

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri palestinesi “Addameer”, in gennaio sono stati incarcerati 330 minori palestinesi.

Tra loro vi è Ahed Tamimi, la ragazza di 17 anni il cui caso è stato una notizia da prima pagina sui giornali di tutto il mondo da quando è stata incarcerata a dicembre.

“Sì, sono orgoglioso. Sì, lei è forte”, dice l’attivista politico e padre di Ahed, Bassem Tamimi. “Ma è cresciuta troppo presto per la sua età. Ha perduto la sua infanzia a causa di qualcosa di cui noi –il mondo, gli adulti – siamo responsabili.”

Violenza fisica

Secondo Carol Zoughbi-Janineh, supervisore amministrativo di YMCA di Gerusalemme est, programma di riabilitazione per ragazzini che sono stati in prigione, il numero di minori palestinesi detenuti dalle forze israeliane è costantemente aumentato dal 2000.

“Quando abbiamo dato inizio al programma (nel 2008) vi erano tra 500 e 700 minori detenuti all’anno. L’anno scorso sono stati 1.467”, dice a MEE. “È davvero un dato allarmante.”

Zoughbu-Janineh dice che, benché la stragrande maggioranza dei minori detenuti sia costituita da maschi, le ragazze sono state arrestate in sempre maggior numero negli ultimi tre anni, con oltre 60 ragazze arrestate nel 2017, un forte aumento rispetto a una o due per ogni anno antecedente il 2015.

Diverse associazioni per i diritti nel corso degli anni hanno denunciato le condizioni di incarcerazione dei minori palestinesi – puntando l’indice sulla sistematica incriminazione di fronte ai tribunali militari, con un tasso di condanne vicino al 100%.

Secondo “Defense for Children Iternational – Palestina “(DCIP), tre minori su quattro subiscono violenza fisica durante l’arresto o l’interrogatorio.

Rapporti di “Human Rights Watch” (HRW) e delle associazioni israeliane per i diritti B’Tselem e HaMoked hanno rivelato che le forze israeliane usano violenza non necessaria durante l’arresto di minori e “ regolarmente” li interrogano senza la presenza di un parente o di un avvocato. Parecchi minori hanno riferito di essere stati presi a schiaffi e calci, picchiati e bendati durante il loro arresto o interrogatorio.

Secondo le associazioni per i diritti umani, spesso ai minori vengono fatti firmare documenti scritti in ebraico, anche se non capiscono la lingua. Inoltre i minori sono abitualmente detenuti insieme agli adulti.

Il Servizio Carcerario Israeliano (IPS) non ha risposto alla richiesta di MEE di parlare delle condizioni detentive e delle violazioni riferite su minori palestinesi, o di dire quali servizi psicologici, se esistenti, fossero disponibili per i prigionieri minori al momento della pubblicazione [di questo articolo].

Quasi la metà dei palestinesi nei territori occupati sono minori di 18 anni. Per Mohammad, Ahed e molti altri giovani palestinesi che sono stati nelle carceri israeliane, le difficoltà non finiscono dopo essere usciti di prigione. Questi ragazzi devono imparare come riconquistare la propria infanzia dopo una così traumatica esperienza.

Acclamati come eroi

Mohammad è stato arrestato dalle forze israeliane alla fine del 2016 insieme a parecchi suoi amici, mentre si trovavano vicino ad un centro giovanile locale.

Secondo lui, è stato picchiato durante l’arresto e quando era sotto custodia israeliana ed accusato di aver lanciato pietre, che è un’ imputazione usuale contro i minori palestinesi.

La condanna, se c’è, può arrivare fino a 20 anni di prigione, ma Mohammad è stato rilasciato otto mesi dopo, senza aver subito alcuna condanna per alcun reato.

“Quando mi hanno rilasciato sono rimasto sorpreso”, dice Mohammad, ricordando quasi un anno dopo quel momento. “La liberazione dopo una detenzione di otto mesi, dopo che mi hanno detto che non ero colpevole di niente, ero felice e al tempo stesso sbalordito, perché non mi aspettavo di essere rilasciato.”

Mentre la liberazione di un prigioniero è un momento di grandi celebrazioni nei territori occupati, in seguito gli ex prigionieri vengono spesso lasciati a lottare con pensieri ed emozioni difficili quando tornano alla vita normale – un processo complicato, che è molto più arduo per dei ragazzi.

“I ragazzi sono più colpiti degli adulti (dal carcere), perché i loro meccanismi di difesa sono più deboli, in quanto il loro cervello è ancora in evoluzione”, avverte la psichiatra e psicoterapeuta palestinese Samah Jabr. “Un’esperienza come questa può spezzare il tessuto sociale intorno al giovane, il suo rapporto con la famiglia e la società.”

I prigionieri detenuti da Israele sono celebrati come eroi nella società palestinese, un ruolo che può spingere i minori a non mostrare segni di debolezza.

“A volte quel ruolo costringe le persone in una camicia di forza. Non possono esprimere il dolore; non possono chiedere aiuto; non possono mostrare le loro vulnerabilità”, dice Jabr.

Sia Jabr che Zoughbi-Janineh elencano una serie di sintomi psicologici manifestati dai minori dopo che erano stati rilasciati dal carcere, compresi depressione, ansia, problemi di concentrazione, introversione o comportamento aggressivo.

“Se sono con i miei amici o con la mia famiglia non sono triste. Ma se sono da solo a casa, incomincio a pensare alla prigione e a tutto il resto. E incomincio a sentirmi triste”, ha detto Mohammed, aggiungendo che passa molto tempo fuori con gli amici, per evitare di restare solo con i suoi pensieri.

Mentre Jabr dice che molti dei sintomi mostrati dai ragazzi ex prigionieri potrebbero rientrare nella classificazione di disordine da stress post-traumatico (PTSD), il perdurante trauma causato dai settant’anni di occupazione israeliana ha reso difficile affrontare tali questioni in passato.

“Raramente faccio per questi minori una diagnosi di PTSD [disturbi da stress post-traumatico]. Penso che ciò che accade sia una distruzione più subdola della loro personalità. Non si tratta solo di un evento traumatico, dopo il quale le persone vivono in pace per sempre”, dice Jabr, che ha scritto il libro “Derrière les fronts” [Dietro i fronti], che getta lo sguardo sull’impatto psicologico dell’occupazione. Il libro dovrebbe uscire verso la fine del mese.

‘Impotenti a proteggere i propri figli’

Dal momento dell’arresto – che spesso avviene in casa in piena notte – i minori imprigionati sono afflitti da “impressionanti immagini di impotenza, debolezza e disperazione dei genitori” incapaci di proteggere i propri figli, dice Jabr.

Zoughbi sottolinea un problema ancor più grande per le famiglie di Gerusalemme est annessa, dove molti minori sono condannati agli arresti domiciliari invece che al carcere.

“All’inizio potresti pensare ‘mio figlio non è in prigione’, ma dover stare in casa è psicologicamente ancor più devastante perché si chiede ai genitori di imprigionare il proprio stesso figlio”, dice. “Non vedi più i tuoi genitori come tali. Li vedi come carcerieri.”

Dopo la liberazione, le famiglie spesso lottano per ricostruire il rapporto di fiducia tra genitori e figli, in quanto i ragazzi si ribellano contro l’autorità dei genitori.

Molti ragazzi lottano per reinserirsi a scuola, soffrendo di problemi psicologici e venendo inquadrati in classi inferiori dopo aver passato molto tempo in prigione con un accesso minimo all’educazione. Il risultato è che minori ex prigionieri come Mohammad spesso lasciano la scuola. Lui ha lasciato la scuola superiore ed ora fa due lavori part-time.

Anche le amicizie finiscono per risentirne, in quanto i ragazzi ex detenuti faticano a rapportarsi con i loro pari e mostrano tendenze a isolarsi.

“Prima del carcere ero estroverso, parlavo a voce alta, ma ora sono più silenzioso”, dice Mohammad, aggiungendo di sentire una maggiore affinità con amici che sono stati in carcere con lui piuttosto che con quelli che non sono mai stati in prigione, “perché quelli fuori non hanno mai provato niente di simile.”

Per paura di essere nuovamente arrestato, Mohammad non va più al centro giovanile locale vicino al quale è stato arrestato e al più tardi alle dieci di sera è sempre a casa.

Un membro della comunità ha detto a MEE che le forze israeliane hanno fatto irruzione nella città di Mohammed ed arrestato il giovane ed un amico per alcune ore, alcuni giorni dopo l’intervista. Sono stati rilasciati senza essere informati del perché fossero stati presi, confermando i timori di Mohammad.

Quando non hai scelta’

Le Ong come YMCA forniscono servizi di riabilitazione per ragazzi ex prigionieri, ma Zoughbi-Janineh dice che l’organizzazione può farsi carico di 400 casi all’anno al massimo, sottolineando che le risorse limitate impediscono seriamente di raggiungere tutti i giovani colpiti che necessitano di supporto.

Intanto, Bassem Tamimi ammonisce che molte famiglie, soprattutto in zone politicamente attive come il villaggio di Nabi Saleh in Cisgiordania, diffidano delle Ong che si occupano di fornire supporto psicologico. Sospettano che queste organizzazioni potrebbero scoraggiare i ragazzi dall’impegnarsi nelle attività della resistenza.

“Lanciare pietre fa parte del trauma? Qualcuno potrebbe ritenere che sia così, sì”, dice. “O è una cura per la rabbia interiore? Magari i ragazzi curano se stessi evitando di essere solo vittime.”

Bassem afferma che gli abitanti di Nabi Saleh, dove vive la famiglia Tamimi, hanno inventato il loro modo per aiutare i ragazzi di fronte alla minaccia di arresto. Dice che lui cerca sempre di spiegare la situazione ai suoi figli fin da piccoli, invece di nascondergliela.

“Se spavento i miei figli e li tengo da parte, allora verranno spezzati dentro, e questo per loro è peggio che se gli venisse spezzata una mano”, dice.

Bassem racconta che il villaggio ha organizzato diverse sessioni di formazione durante le quali ai ragazzi viene detto che cosa aspettarsi durante l’arresto, l’interrogatorio e il processo, comprese simulazioni in cui i minori vengono bendati e ammanettati. Manal Tamimi, zia di Ahed, commenta una di queste sessioni di formazione su Facebook, dicendo:

“Certo non è normale sottoporre questi ragazzini ad una simile formazione, e non stiamo dipingendo come normale la situazione, ma questa è la nostra realtà e la nostra vita e quei minori devono essere preparati a tutto ciò che potrebbe succedere.”

Da parte sua, Jabr esprime delle riserve su queste sessioni di formazione.

“Preferisco un approccio più generale e meno ansiogeno”, dice. “Un approccio in cui stimoliamo la resilienza, i punti di forza delle persone, le loro abilità sociali, la loro assertività, le tecniche di relazione”, sostiene.

Jabr afferma di aver lavorato con consulenti scolastici, insegnanti, organizzatori di comunità e allenatori per creare reti comunitarie di adulti sensibilizzati ai bisogni psicologici dei minori. È un approccio che secondo lei potrebbe evitare lo stigma legato al cercare aiuto psicologico.

Per Jabr, l’incarcerazione di minori indica una politica israeliana consapevole che prende di mira la gioventù palestinese.

“Penso che questa sia un’azione deliberata per intimidire la comunità palestinese”, dice. “Ritengo che, quando una popolazione vive questa esperienza in età molto giovane, si tratti di un tentativo di mettere in ginocchio la comunità. Gli israeliani sperano che i palestinesi diventino l’ombra di ciò che sono.”

Bassem respinge le illazioni, diffuse da dirigenti israeliani, che i palestinesi tengano poco al benessere dei loro figli.

“A volte ci accusano di usare i nostri figli, di metterli in pericolo”, dice Tamimi. “Se qualcuno ci desse un posto sicuro in Palestina, metteremmo là i nostri figli. Ma lei (Ahed) non è in una condizione che le permetta di vivere una vita normale.”

“La nostra situazione ha bisogno di una cura: la fine dell’occupazione”, aggiunge. “Quando non hai scelta, che cosa dovresti fare? Noi dobbiamo imparare a fare i conti con questa situazione, ad essere abbastanza forti per affrontarla, a crescere i nostri figli in un modo diverso.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)





Un’uccisione pianificata e calcolata di pecore in Cisgiordania

Amira Hass

5 marzo 2018,Haaretz

Lo scorso mese l’aggressione, come centinaia di altre prima di questa, è stata chiaramente finalizzata ad un obiettivo.

La storia di “Haaretz” su ebrei mascherati che hanno aggredito un pastore palestinese e ucciso le sue pecore – nel villaggio di Einabus, a sud di Nablus – ha ottenuto 96 condivisioni su Facebook. Cosa esprimono queste condivisioni, stupore o sostegno all’attacco?

In ogni modo il ricordo del crimine commesso circa due settimane fa, il 21 febbraio, sicuramente è stato completamente cancellato dagli sguaiati titoli di giornale sulle inchieste per corruzione contro il primo ministro Benjamin Netanyahu ed i suoi amici, e messi da parte nel deposito nazionale dell’amnesia ebraica.

Una settimana dopo l’attacco il ventisettenne Zafar Ryan è ancora sotto shock. Suo padre, Mahmoud e i suoi fratelli dicono che non è più lo stesso. Anche lui annuisce quando gli viene chiesto se è ancora sconvolto per quanto successo.

Ma per mettere le cose in chiaro: l’aggressione non gli ha impedito di tornare quasi subito a pascolare il gregge della sua famiglia con qualcuno dei suoi fratelli. Di solito i fratelli vanno al pascolo insieme. Il recinto delle pecore è a poche decine di metri sopra la loro casa, sulla montagna.

Ma quel giorno Zafar è uscito da solo con le pecore. Era mezzogiorno. Le persone dell’avamposto [ebraico] non autorizzato ed illegale in cima alla montagna ne hanno approfittato, afferma suo padre. Sono scese di corsa verso di lui. Cinque di loro, con il volto mascherato, lo hanno colpito con dei randelli sulla testa e sulle mani.

Aveva un bastone da pastore; ha cercato di difendersi e di restituire i colpi, ma loro erano troppi. Altri sconosciuti hanno attaccato il gregge, hanno letteralmente sgozzato qualche pecora, ne hanno colpite e disperse altre.

Un cugino che stava facendo dei lavori di edilizia lì vicino ha visto quello che stava succedendo e ha chiamato immediatamente aiuto. Giovani del villaggio sono corsi per risalire la montagna, da cui stavano scendendo soldati e poliziotti israeliani. Zafar era preoccupato delle pecore che erano scappate. Non era ancora chiaro quante fossero morte, quante ferite e quante scomparse e dove fossero andate.

Zafar è stato portato all’ospedale a Nablus e vi è rimasto fino a sera. La tumefazione sulla sua testa si è ridotta. Aveva lividi sulle mani. La maggior parte delle pecore del gregge era incinta, comprese alcune di quelle che gli aggressor hanno ucciso e alcune di quelle scomparse. Una delle pecore ferite ha partorito un agnellino morto. Non sappiamo se la polizia israeliana ha arrestato i sospetti.

L’attacco non è stato perpetrato da teste calde, né si è trattato di uno sbaglio momentaneo di giovani ebrei altrimenti virtuosi, assolutamente anonimi, che sono stati improvvisamente travolti dal ricordo dei pogrom commessi dai cristiani contro gli ebrei. Questa aggressione contro palestinesi e i loro mezzi di sussistenza, come centinaia di altri che l’hanno preceduta, è stata molto ragionata e calcolata, diretta ad ottenere un obiettivo.

Ogni attacco è caratterizzato da una chiara divisione del lavoro tra tutti quelli che entrano in scena: gli aggressori, l’esercito, il cui compito è di proteggere ogni ebreo, chiunque sia, coloni o visitatori della colonia, compresi quelli che commettono pogrom, ispettori dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndt.] in Cisgiordania, in cui lavoro consiste nell’emettere ordini di blocco dei lavori per strutture ebraiche non autorizzate in Cisgiordania, ma il cui dovere è, nella maggior parte dei casi, di non mettere in pratica questi ordini.

Poi c’è la “Suprema Commissione per la Pianificazione” dell’Amministrazione Civile, la cui responsabilità è di mettere attentamente in atto la politica in base alla quale ai palestinesi è proibito costruire, fare un’escursione, piantare e arare sulla loro terra; allora la commissione si impossessa della terra e ne fa omaggio agli ebrei, che costruiranno e prolificheranno su di essa. In seguito ci sono i coloni che non attaccano nessuno ma chiedono una maggiore protezione, anche per gli avamposti. E c’è la polizia, il cui dovere è di ignorare gli attacchi precedenti, e gli ebrei israeliani, la cui responsabilità è di non mettere in relazione un attacco con l’altro o di considerare e quindi difendere la sacralità delle colonie e dei blocchi di colonie. (Secondo la legge internazionale tutti sono illegali).

L’avamposto non autorizzato ed illegale da cui sono scesi gli aggressori è uno dei nove che sono nati nel corso degli anni dalla colonia illegale e autorizzata di Yitzhar. Ogni avamposto è un ulteriore mattone di un altro blocco di colonie. Porta gli ebrei più vicino ai villaggi, agli orti e ai pascoli dei palestinesi.

Un importante livello nella strategia difensiva dell’esercito è l’ordine del comando generale che impedisce ai palestinesi di entrare nelle loro terre, per evitare frizioni con quelli che commettono i pogrom. È così che [si forma] il cerchio territoriale che i nostri ebrei, a testa alta, possono ottenere e quindi seminare o arare o costruire o espandersi ancora un po’ di più. E ancora un po’. E un po’ di più.

Nella fase successiva arriveranno anche vicino alle case dei palestinesi. E allora l’esercito e la polizia di frontiera sono obbligati ad arrivare e ad attaccare con granate lacrimogene e assordanti, e persino con proiettili ricoperti di gomma, i palestinesi che stanno difendendo se stessi, le proprie famiglie e i propri averi.

Tutto è calcolato. La divisione del lavoro ha già dato risultati in tutta la Cisgiordania. Un centimetro qui, un quarto di dunam [unità di misura dei terreni in Palestina, ndt.] o una zona militare di tiro là – ed i palestinesi sono spinti sempre più nelle loro zone urbane.

A proposito, le origini della famiglia Ryan sono nel villaggio palestinese distrutto di Majdal Yaba o Majdal al-Sadiq (a sud dell’attuale Rosh Ha’ayin). Possedeva circa 26.000 dunam (2.600 ettari). Nel XIX° secolo Sheikh Sadiq Ryan costruì un palazzo sulle rovine di una fortezza crociata del luogo. Il palazzo abbandonato tuttora sovrasta la strada.

Il nonno di Zafar aveva un fratello che viveva a Einabus all’inizio della guerra del 1948 [contro gli arabi e da cui nacque lo Stato di Israele, ndt.]. Alcuni dei suoi fratelli si unirono a lui invece di andare in un campo di rifugiati. Ma il nonno morì di crepacuore e di pena per la sua casa.

Il padre, Mahmoud, aprì una tipografia. I suoi figli si formarono come ingegneri meccanici e grafici. Ma la tipografia non è sufficiente per mantenere la famiglia. Circa un anno fa hanno comprato le pecore.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Con un eccesso di falsità, funzionari israeliani affermano che il quindicenne Mohammad non è stato colpito alla testa da un proiettile

Jonathan Ofir

27 febbraio 2018,Mondoweiss

L’esercito israeliano sta utilizzando ogni mezzo per vendicarsi dei Tamimi [la famiglia palestinese che guida la resistenza popolare nel suo villaggio, ndt.] e di Nabi Saleh per la loro resilienza e resistenza, incarnata da Ahed Tamimi, la ragazzina imprigionata per aver preso a schiaffi un soldato.

Ieri mattina, prima dell’alba, soldati israeliani hanno fatto un’incursione nel villaggio occupato di Nabi Saleh ed hanno arrestato dieci membri della famiglia estesa dei Tamimi – la metà dei quali minori.

Le forze [israeliane] hanno anche utilizzato quello che è noto come “skunk water” [lett. acqua della puzzola, liquido maledorante, ndt.], come si può vedere in un video del giornalista locale Bilal Tamimi (fornito da +972 Magazine) – che è apparentemente destinato al “controllo della folla”, solo che [nel video] non c’è nessuna folla. L’esercito israeliano sta usando il liquido puzzolente, spruzzato da un blindato, per punire collettivamente i palestinesi, come già documentato in passato, cospargendo case e scuole.

Tra gli arrestati durante l’incursione notturna c’era il quindicenne Mohammed Tamimi, che era stato colpito alla testa a distanza ravvicinata da un proiettile ricoperto di gomma, appena prima dei famosi schiaffi di Ahed circa due mesi e mezzo fa. Mohammed era stato in coma farmacologico e gli è stata rimossa una parte del cranio, il che lo ha lasciato deforme. La sua situazione è particolarmente delicata, e c’è da chiedersi perché non sia stato risparmiato dalla violenza durante l’incursione notturna. Poche ore dopo l’arresto ed un interrogatorio relativamente breve è stato rilasciato.

Ed ecco stamattina la “notizia”.

Il generale Yoav Mordechai, il Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori (COGAT), ha sostenuto in un post su Facebook che Mohammad non è stato colpito da un proiettile, ma piuttosto è caduto dalla sua bicicletta. Mordechai è la più alta autorità diretta dell’occupazione israeliana e sulla pagina Facebook ufficiale del COGAT in arabo ha scritto questo:

Una cultura di menzogne e di incitamento alla violenza continua per i giovani e gli adulti della famiglia Tamimi”.

Il post è stato segnato con un timbro rosso che diceva “notizia falsa” in arabo.

Nel suo post Haaretz ha informato, e si è stupito di come fosse possibile, che l’affermazione di Mordechai è stata contraddetta da “documenti medici, resoconti di testimoni e da immagini della pallottola rimossa dalla sua testa ottenute da Haaretz”. Inoltre persino la risposta ufficiale dell’esercito ad Haaretz è sembrata contraddire la sicurezza di Mordechai: vengono citate fonti militari che hanno affermato che “Tamimi è stato interrogato dalla polizia, e loro non possono confermare l’origine della sua ferita.”

Chi conosce la cultura dell’interrogatorio nell’apparato di sicurezza israeliano quando si tratta di palestinesi non si stupisce. Gli investigatori israeliani possono estorcere praticamente tutto quello che vogliono dai palestinesi, soprattutto se minori, ed è così che l’esercito può vantare un sorprendente tasso di condanne del 99,74%. Spesso i ragazzini sono obbligati a firmare documenti in ebraico, che non sanno neanche leggere, e durante questi interrogatori gli viene negata in modo praticamente sistematico la presenza di familiari o di un avvocato.

Da qui le affermazioni di Mordechai di aver ottenuto da Mohammed una “confessione”. E cosa ne dicono gli abitanti di Nabi Saleh? Sostengono che Mohammed “ha detto alla polizia di essersi ferito in un incidente in bicicletta e non dall’esercito israeliano per essere rilasciato dopo essere stato arrestato,” e che “aveva paura e temeva che se avesse detto di essere stato colpito da una pallottola, ci sarebbero state prove contro di lui e la sua detenzione sarebbe stata prolungata.”

È piuttosto ovvio, no? Questa “storia della bicicletta” è tutto quello che Mordechai voleva, o di cui aveva bisogno, come arma per screditare i palestinesi e provocare contro di loro. E non importa che persino l’esercito “non possa confermare”. È stato seminato il dubbio e quelli che sono propensi a credere alle menzogne dell’esercito israeliano, lo metteranno in dubbio.

Immaginate la situazione di Mohammed – immaginate di essere lui. Metà del tuo cervello è semplicemente senza protezione. Qualunque piccolo colpo può provocare un danno imprevedibile ed irreversibile, e sei nelle mani di gente violenta contro di te in modo sistematico. Tutto quello che vuoi fare è uscire e tornare a casa. Faresti qualunque cosa, diresti qualunque cosa.

È ovvio che tenere Mohammed in arresto prolungato sarebbe stato un danno per l’immagine pubblica di Israele. Egli è direttamente legato ad Ahed Tamimi, in quanto il suo ferimento è stato l’antecedente diretto degli schiaffi di Ahed. Il suo cranio deformato è una raffigurazione dello stato di Nabi Saleh: essere continuamente colpito dall’esercito israeliano. Ovviamente non volevano tenerlo in arresto a lungo, quantunque non sappiano cosa fare con Ahed, perché rilasciarla sarebbe troppo offensivo per moltissimi israeliani che non possono sopportare di essere presi a schiaffi. Perciò hanno rilasciato Mohammed molto presto, ma ora vediamo il tranello. Se Mordechai riesce a convincere qualche sciocco che la ferita di Mohammed è una “notizia falsa”, allora, di conseguenza, la storia di Ahed e quello che l’ha preceduta vengono indeboliti.

Una fonte ufficiale di B’Tselem [associazione israeliana dei diritti umani, ndt.] afferma che il governo israeliano deve mentire agli israeliani per salvare l’illusione:

Quello che stupisce dell’affermazione di ‪@cogat_israel secondo cui Muhammad Tamimi “è caduto dalla bicicletta” (non gli è stato sparato in faccia) non è quanto grande sia la menzogna: abbiamo già visto bugie orwelliane (Beitunia 2014). Ma queste menzogne così facili da smentire mostrano che l’unico pubblico a cui si mira è la destra israeliana.”

La narrazione delle “notizie false” e l’idea riguardo ai palestinesi sono state storicamente inculcate dalla dirigenza israeliana a livello ossessivo, come parte del suo tentativo di cancellare la Palestina. Ciò si può vedere nella grande narrazione, come nell’affermazione della defunta prima ministra Golda Meir che in realtà i palestinesi non esistono, o più tardi della ministra della Giustizia Ayelet Shaked alla federazione nazionale di basket secondo cui la Palestina è uno “Stato immaginario”. E può essere visto nei più puntuali tentativi di sostenere che la famiglia Tamimi non è una “vera famiglia”, come abbiamo visto con l’affermazione del parlamentare Michael Oren e la sua inchiesta parlamentare, niente di meno, su questa stessa “questione”. Recentemente Oren si è messo in difficoltà da solo con il post di un’immagine allo specchio della famiglia Tamimi, sostenendo che non poteva essere vera, dato che Mohammed, il fratello di Ahed, aveva un braccio ingessato a destra, poi a sinistra. La famiglia Tamimi quindi si stupisce ora di come “quello che è iniziato come un bizzarro tentativo di provare che non siamo neppure una famiglia è degenerato in una negazione della realtà.”

E si noti come Ahed Tamimi, con la sua semplice resilienza e con il suo coraggio, con il mantenere un contegno calmo e fiero, abbia creato una situazione che fa impazzire gli israeliani. È come se lei stesse continuamente schiaffeggiando Israele, semplicemente non arrendendosi. E ciò sta mettendo in luce un paradigma di oppressione istituzionalizzata e di violenza di Stato contro minori, che c’è stata da sempre, ma ora sta avendo un’attenzione particolare grazie ad Ahed. Israele non può sopportare questo smascheramento, e perciò tenta disperatamente di screditare l’oppresso – ma ogni passo che fa accentua solo ulteriormente la sua stessa corruzione.

Non ci si sbagli in merito – stiamo vedendo una violenza colonialista, è proprio davanti ai nostri occhi. La giornalista di Haaretz Amira Hass oggi lo ha chiamato “colonialismo ebraico”. Infatti è una violenza messa in atto in nome dello Stato ebraico. E questa non è una notizia falsa. Sta effettivamente avvenendo.

Su Jontathan Ofir

Musicista, conduttore e blogger / writer che vive in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Ferito da un proiettile in testa e poi arrestato, Mohammed Tamimi non si perde d’animo

Tessa Fox

28 febbraio 2018, Middle East Eye

L’adolescente, come altri dieci palestinesi, è stato arrestato nel quadro della continua repressione da parte di Israele contro il villaggio di Nabi Saleh, noto per la sua resistenza di lunga durata contro l’occupazione.

Nabi Saleh, Cisgiordania occupata – Alle tre del mattino Mohammed Tamimi è stato svegliato dalle urla e dai colpi alla porta d’entrata della casa della sua famiglia.

Mentre era ancora a letto, la porta della sua camera si è aperta ed ha visto dei soldati israeliani avvicinarglisi, mentre suo padre li seguiva.

Sapeva che stava per essere arrestato.

Il villaggio palestinese di Nabi Saleh, a nord ovest di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, è abituato alle incursioni notturne delle forze israeliane. Mohammed, 15 anni, come altri dieci giovani palestinesi del villaggio, è stato arrestato alla mattina presto del 26 febbraio. Tutti tranne due hanno meno di 18 anni.

Quello di Mohammed è un caso speciale, dato che è uscito dall’ospedale solo alla fine di dicembre.

Mohammed ha passato quattro giorni in coma ed ha subito due operazioni per togliere un proiettile di acciaio ricoperto di gomma piantato nella parte posteriore del suo cervello dopo essere stato colpito quasi a bruciapelo dalle forze israeliane. La sua ferita gli impedisce di andare a scuola per almeno sei mesi.

La madre di Mohammed, Emthal Tamimi, è sembrata molto preoccupata riguardo al figlio dopo il suo arresto.

Un’esperienza traumatica

Sono impazzita,” ha confermato Emthal Tamimi a Middle East Eye.

Ha chiesto ai soldati di lasciare in pace suo figlio a causa del suo precario stato di salute. “Abbiamo avuto una discussione, gli ho detto che era inutile prenderlo, che è ferito, che tutte le mattine e tutte le sere deve prendere delle medicine,” ha raccontato Emthal. Disobbedendo ai soldati che le avevano ordinato di rimanere in casa, Emthal è corsa dietro a suo figlio mentre era portato dentro una camionetta blindata. “Li ho seguiti e gli ho chiesto di ammanettarlo davanti perché ha male ad una spalla, ma gli hanno lasciato le manette dietro,” ha ricordato.

Contrariamente agli altri giovani di Nabi Saleh, Mohammed è stato liberato il giorno stesso, a metà pomeriggio.

L’avvocato della famiglia ha potuto individuare il luogo in cui i soldati l’hanno portato e farlo liberare. “Sabato ha subito un’altra operazione, è per questo che hanno potuto ottenere il suo ritorno anticipato,” ha spiegato Emthal.

Dopo essere stata avvertita che Mohammed sarebbe stato riportato al villaggio entro un’ora, Emthal ha atteso pazientemente a casa, circondata da amici e dalla sua famiglia. “Spero che stia bene,” ha confidato Emthal, innervosita per il suo stato di salute e per la brutalità dei soldati.

Sempre su di morale

Dopo essere tornato a casa, Mohammed era tutto sorridente.

Ha preso la madre tra le braccia nella sala della loro casa. Emthal avrebbe voluto che questa parentesi fosse durata un più a lungo. Chiaramente non voleva perderlo di nuovo.

Mohammed sembrava rilassato e calmo, ma quando si è seduto vicino a sua madre, è stato sopraffatto dall’emozione e ha trattenuto a stento le lacrime. Tuttavia, quando ha iniziato a parlare, si è messo a scherzare.

Penso che si sia trattato solo di sfortuna,” ha detto.

Poi ha spiegato, scherzando, che le forze israeliane l’avevano arrestato perché aveva spostato i mobili della sua camera.

Quando ho cambiato la posizione del mio letto, sono venuti ad arrestarmi,“ ha dichiarato Mohammed a Middle East Eye. “All’inizio era messa così,” ha spiegato tracciando la stanza con le sue mani, “e loro non sono venuti.”

È la seconda volta. In precedenza mi hanno arrestato una volta, anche quella dopo che avevo spostato il mio letto,” ha indicato Mohammed agitando le braccia e ridendo, nel tentativo di confermare la validità della sua teoria.

Non sapendo più come mettere il letto per evitare di essere arrestato, Mohammed ha affermato che ormai avrebbe “spostato (il letto) in un’altra camera.”

Mohammed si è detto sorpreso di essere stato liberato il giorno stesso del suo arresto, pur tenendo conto del suo stato. “Stavo dormendo, mi hanno svegliato e mi hanno detto che avrei potuto tornare a casa,” ha raccontato.

Gli manca ancora una parte del cranio perché i chirurghi aspettano che il suo cervello si sgonfi per potergliela rimettere.

Non si può esporre ai raggi del sole e deve fare molta attenzione ad evitare urti contro la sua testa.

I soldati israeliani hanno ignorato il fatto che il suo cervello non è protetto. “Mi hanno colpito alle gambe, mi hanno schiaffeggiato in faccia e facevano come se non notassero quello che ho alla testa,” ha dichiarato Mohammed. “Ho fatto del mio meglio per proteggermi la testa perché a loro non importava. Hanno continuato a colpirmi e a darmi delle pedate.”

Liberato per trasmettere un messaggio

Mohammed e il resto della sua famiglia sanno che è stato arrestato con gli altri ragazzi di Nabi Saleh per farne un esempio. Una volta liberato, si ritrova nel ruolo di messaggero degli israeliani per il resto della comunità.

Il primo messaggio che mi hanno affidato (durante la mia detenzione) è stato: “Tutte le notti ne arresteremo sei, fino ad arrivare a quaranta,’” ha riferito Mohammed.

L’altro messaggio è rivolto ai più anziani: arresteranno la maggioranza di loro, tutti quelli che parlano,” ha proseguito, aggiungendo che prenderanno di mira soprattutto i dirigenti della resistenza di Nabi Saleh.

Hanno cercato di farmi dire dei nomi, perché sapevano che avevo paura che mi dessero delle pedate e mi ferissero in testa.” Questi messaggi e questi arresti in massa fanno parte della punizione collettiva che Israele continua ad infliggere a Nabi Saleh dopo che nel 2010 il villaggio ha iniziato a protestare contro l’occupazione israeliana.

Anche Naji Tamimi, il padre di Noor Tamimi, di 20 anni e arrestata insieme a sua cugina Ahed a metà dicembre, è stato minacciato durante l’incursione notturna.

Mi hanno fatto delle domande sulla resistenza a Nabi Saleh, vogliono che io me ne assuma la responsabilità,” ha dichiarato Naji a Middle East Eye.

Gli ho detto che il problema è l’occupazione, che la resistenza è un altro aspetto dell’occupazione. Che se vogliono mettere fine alla resistenza, devono porre fine all’occupazione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 13-26 febbraio ( due settimane)

Gaza: il 17 febbraio, a sud-est di Rafah, due minori palestinesi di 15 e 17 anni sono stati uccisi ed altri due sono rimasti feriti dalle forze israeliane che hanno aperto il fuoco contro un gruppo di palestinesi che, a quanto riferito, si avvicinava al recinto per entrare in Israele.

Lo stesso giorno, presso la recinzione, ad est di Khan Younis, quattro soldati israeliani sono rimasti feriti per l’esplosione di un ordigno. In conseguenza di questo episodio, le forze israeliane hanno lanciato numerosi attacchi, a quanto riferito contro siti militari ed aree aperte all’interno di Gaza. Tre case adiacenti a questi obiettivi hanno subito danni. Gruppi palestinesi hanno lanciato diversi razzi verso il sud di Israele, uno dei quali ha colpito e danneggiato una casa israeliana.

Sempre a Gaza, al largo di Beit Lahiya, il 25 febbraio, un pescatore palestinese di 18 anni è stato ucciso e altri due sono stati feriti dalle forze navali israeliane che hanno aperto il fuoco contro una barca da pesca. Secondo un portavoce dell’esercito israeliano, il pescatore stava navigando oltre la zona consentita e si è rifiutato di fermarsi, nonostante diversi avvertimenti. In almeno altre 22 occasioni, le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso pescatori che navigavano nell’Area di mare ad Accesso Riservato (ARA), provocando il ferimento di un altro pescatore. Finora, nel 2018, in mare, ci sono stati almeno 68 casi di apertura del fuoco [verso pescatori palestinesi] che hanno provocato l’uccisione di cui sopra e undici feriti.

Il 22 febbraio, nella città di Gerico, durante un’operazione di ricerca-arresto, un palestinese è stato ucciso dai soldati israeliani. Una sequenza videoregistrata mostra l’uomo che corre con un grosso oggetto verso un gruppo di soldati che gli sparano da distanza ravvicinata, quindi lo aggrediscono fisicamente e lo trascinano in un veicolo militare. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale. Il corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. Ciò porta a cinque, dall’inizio del 2018, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane in operazioni di ricerca-arresto; le uccisioni nel 2017erano state nove. In aggiunta a quanto sopra, in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est , le forze israeliane hanno condotto 258 operazioni di ricerca-arresto; di queste almeno 61 hanno innescato scontri nel corso dei quali 55 palestinesi sono stati feriti.

Un palestinese è morto per le ferite riportate durante una manifestazione che ha avuto luogo nel precedente periodo di riferimento [30 gennaio -12 febbraio] mentre, nel periodo relativo al presente bollettino, 384 palestinesi, tra cui almeno 115 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane in manifestazioni e scontri. Il giovane deceduto aveva18 anni ed era stato ferito durante una manifestazione che si era tenuta il 16 febbraio in Gaza, vicino alla recinzione perimetrale. Dei [384] feriti di questo periodo [13-26 febbraio], 74 si sono avuti in scontri vicino alla recinzione di Gaza ed i rimanenti in Cisgiordania. La maggior parte di questi ultimi si sono verificati durante le dimostrazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya), An Nabi Saleh, Ni’lin, Bil’in e Al Mazra’a al Qibliya (tutti a Ramallah), e in manifestazioni contro il riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di Gerusalemme come capitale d’Israele. Di queste, le più ampie si sono verificate ad Al Bireh (Ramallah) e al checkpoint di Huwwara (Nablus). Altri feriti sono state segnalati durante scontri all’ingresso di Beit ‘Ummar e del Campo profughi Al ‘Arrub (entrambi a Hebron); altri ancora per l’intervento delle forze israeliane a seguito di scontri tra palestinesi e gruppi di coloni israeliani (vedi sotto). Di tutte le lesioni, 59 sono state causate da armi da fuoco, 102 da proiettili di gomma e 205 da inalazione di gas lacrimogeno, richiedente un intervento medico, o perché colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

Nella Striscia di Gaza, due bambini palestinesi (di 6 e 11 anni) sono rimasti feriti in seguito alla detonazione di un ordigno inesploso (UXO). L’episodio è avvenuto a Jabalia (nel nord della Striscia), quando uno dei bambini ha raccolto e cominciato a maneggiare l’ordigno trovato sul terreno, innescando la sua esplosione.

In Cisgiordania, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 20 strutture di proprietà palestinese, sfollando 18 persone, tra cui 10 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 70 persone circa. Tutti i provvedimenti di cui sopra sono stati motivati con la mancanza dei permessi di costruzione. 15 delle strutture prese di mira si trovavano in Gerusalemme Est e cinque in Area C, nelle Comunità di Al Baqa’a, Al Bowereh e Khirbet al Hasaka, a Hebron, e nella Comunità beduina di Jabal al Baba nel governatorato di Gerusalemme. Tre delle cinque strutture in Area C erano state fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni.

In attacchi e incursioni ad opera di coloni israeliani sono stati feriti sedici palestinesi, e proprietà palestinesi sono andate perdute o sono state danneggiate. Quattro degli episodi si sono verificati nei villaggi di Einabus e Asira al Qibliya (Nablus) e, a quanto riferito, sono opera di coloni provenienti dagli insediamenti di Yitzhar, Bracha e dai loro circostanti avamposti: è stato aggredito fisicamente e ferito un vecchio di 91 anni; sono state uccise 17 pecore e rubate altre 37; una abitazione è stata vandalizzata. Nella stessa zona, cinque palestinesi sono stati feriti dai soldati israeliani durante scontri scoppiati dopo un’incursione di coloni all’interno di un villaggio. Nella Zona H2 della città di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani hanno lanciato pietre contro tre case palestinesi e, negli scontri successivi, hanno ferito sei palestinesi, tra cui due minori. Altri quattro palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni in quattro distinti episodi verificatisi in altre località della Cisgiordania. Sei veicoli di proprietà palestinese sono stati danneggiati in cinque episodi di lancio di pietre. Dall’inizio del 2018, la violenza dei coloni è in aumento, con una media settimanale di sei attacchi, contro una media di tre nel 2017 e di due nel 2016.

Da media israeliani sono stati segnalati almeno tredici episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani con conseguenti danni a cinque veicoli. Gli episodi si sono verificati su strade vicino a Umm Safa e Sinjil (Ramallah), vicino a Tuqu’, Beit’ Ummar e nei pressi del Campo profughi di Al ‘Arrub (Hebron) e vicino ad Al Khadr (Betlemme). Inoltre, nella zona di Shu’fat a Gerusalemme Est sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato aperto per due giorni in entrambe le direzioni e per un giorno in una sola direzione, consentendo a 1.665 persone di attraversare (1.317 in uscita, 348 in entrata). Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah. Dall’inizio del 2018 il valico è stato aperto per 6 giorni (nel 2017 lo era stato per 36 giorni); in alcuni di questi giorni, l’attraversamento è stato consentito solo in una direzione.

Nella Striscia di Gaza proseguono le interruzioni di energia elettrica fino a 20 ore al giorno, compromettendo gravemente l’erogazione dei servizi. Rispetto al periodo precedente ciò rappresenta un leggero aumento dei blackout elettrici, attribuibile alla interruzione della fornitura di energia elettrica egiziana, determinata dal malfunzionamento tecnico delle tre linee di alimentazione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

þ

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Una controversa definizione di antisemitismo incontra resistenze riguardo a preoccupazioni per la libertà di parola

Ben White

22 febbraio 2018, Middle East Monitor

In Gran Bretagna gruppi filoisraeliani stanno incontrando resistenze ai loro tentativi di utilizzare una controversa definizione di antisemitismo per zittire l’attivismo in solidarietà con la Palestina. Università e autorità locali hanno dato ascolto alle preoccupazioni riguardanti la libertà di parola, un incoraggiamento per gli attivisti per i diritti della Palestina che attualmente stanno tenendo, o si stanno preparando a tenere, iniziative per la “Israeli Apartheid Week [Settimana dell’apartheid israeliana, ndt.] (IAW) nelle università di tutto il Paese.

Nel dicembre 2016 il governo britannico ha annunciato di aver “adottato” la definizione di antisemitismo accolta all’inizio di quell’anno dall’“International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, ndt.] (IHRA). Descritta come “straordinariamente imprecisa” da David Feldman, direttore del “Pears Institute for the Study of Anti-Semitism” [Istituto Pears per lo Studio dell’Antisemitismo, ndt.], la definizione è promossa dall’IHRA ed è accompagnata da un elenco di 11 esempi su come oggi si possa manifestare l’antisemitismo, che comprendono critiche a Israele.

Fin da quando il governo di Theresa May ha dato il suo (non legale, non vincolante) appoggio, in Gran Bretagna un certo numero di gruppi ha dedicato tempo e risorse considerevoli per cercare di ottenere appoggio alla definizione da parte di consigli comunali e istituzioni dell’educazione superiore, tra gli altri. Tuttavia quasi subito c’è stato un rifiuto da parte di chi ha visto nella definizione e nel modo in cui è stata utilizzata, consistenti pericoli per la libertà di parola e per l’attivismo politico legittimo.

Nel marzo 2017 la direttrice della “London’s School of Oriental and African Studies” [Scuola di Studi Orientali ed Africani di Londra, ndt.] (SOAS), Valerie Amos, ha detto alla BBC che la sua università non intende adottare questa definizione. “Ho consultato su questo il nostro ‘Centro di Studi Ebraici’,” ha spiegato, “che ha fondamentalmente detto che questa definizione è discutibile.”

Quello stesso mese l’avvocato dei diritti umani Hugh Tomlinson, patrocinante della Corona [corrispettivo inglese dell’avvocato di cassazione in Italia, ndt.], ha pubblicato un parere legale che evidenzia “gravi errori” nella definizione e nelle linee guida allegate.

Nel maggio 2017 il sindacato dell’università e dei college – che rappresenta 110.000 professori e altri membri del personale – ha approvato a stragrande maggioranza una mozione che respinge l’uso della definizione dell’IHRA e che evidenzia “tentativi ispirati dal governo di mettere al bando iniziative di solidarietà con la Palestina “ come l’”Israel Apartheid Week”.

Ora anche la “London School of Economics” [Scuola di Economia di Londra, ndt., una delle più prestigiose istituzioni accademiche inglesi, ndt.] (LSE) si è unita a quanti, pur accettando la definizione di antisemitismo di 38 parole formulata dall’IHRA, hanno esplicitamente respinto l’elenco di esempi suggeriti, che include critiche a Israele. “La Scuola intende chiarire che criticare il governo di Israele, senza ulteriori prove che suggeriscano intenzioni antisemite, non è antisemitismo,” ha scritto un dirigente della LSE in una lettera lo scorso mese. “La Scuola non accetta neppure che tutti gli esempi che l’IHRA elenca come esemplificazioni di antisemitismo ricadano nella definizione di antisemitismo, a meno che non ci siano ulteriori prove per suggerire intenzioni antisemite.” L’autenticità della lettera, pubblicata su un sito filoisraeliano, mi è stata confermata da un dirigente della LSE.

Frattanto “Università del Regno Unito”, l’influente organizzazione rappresentativa delle università, ha resistito ai tentativi da parte di gruppi filoisraeliani perché manifestasse il proprio appoggio alla definizione dell’IHRA. Secondo un portavoce, che ha parlato con me all’inizio del mese, “Università del Regno Unito” non ha una posizione in merito.

In una richiesta a una commissione parlamentare d’inchiesta in corso sulla libertà di parola nelle università, il “Comitato dei Deputati degli Ebrei Britannici” ha detto ai parlamentari che le università dovrebbero “adottare la definizione dell’IHRA per consentire loro di esprimere giudizi meditati su cosa sia o non sia considerato antisemitismo.” Il Comitato ha riconosciuto: “Tuttavia c’è una preoccupante resistenza da parte delle università ad adottarla e la libertà di parola viene addotta come la principale ragione della loro riluttanza.”

Questa riluttanza è ben fondata. Lo scorso anno, un evento dell’IAW all’università del Lancashire Centrale è stato annullato dai dirigenti dell’università sulla base del fatto che avrebbe trasgredito la definizione dell’IHRA (e in seguito a pressioni da parte di gruppi filoisraeliani). Questa settimana la “Campagna contro l’Antisemitismo” ha affermato di augurarsi che ci siano “successi simili” nell’ottenere che iniziative dell’IAW organizzate dagli studenti quest’anno vengano annullate. Anche l’”Alleanza Israele-Gran Bretagna – un progetto della Federazione Sionista – sta fondando sulla definizione dell’IHRA i propri “sforzi per bloccare…eventi (dell’IAW)”.

Frattanto l’onorevole conservatore Matthew Offord martedì ha detto in parlamento che “le parole “settimana dell’apartheid israeliano” sono palesemente antisemite,” in base alla definizione dell’IHRA. Quindi, ha sostenuto, i ministri dovrebbero prendere in considerazione il fatto di “portare avanti le leggi necessarie per impedire (iniziative dell’IAW).”

Anche a Bruxelles gli effetti agghiaccianti della definizione dell’IHRA, così come viene utilizzata dai gruppi filoisraeliani, sono già stati dimostrati nei tentativi per far annullare un evento del parlamento europeo che ospita il difensore palestinese dei diritti umani Omar Barghouti. In una lettera al presidente del parlamento europeo Antonio Tajani i gruppi filoisraeliani sostengono che Barghouti e il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), di cui è co-fondatore, sono colpevoli rispettivamente di affermazioni e di obiettivi “antisemiti” “in base alla (definizione dell’IHRA).”

Tuttavia, mentre i sostenitori di Israele vedono chiaramente la definizione dell’IHRA come un mezzo per l’eliminazione dell’attivismo in solidarietà con la Palestina e delle voci palestinesi, c’è una discussione interessante, ed una mancanza di chiarezza, riguardo a in cosa consista esattamente la definizione. La “definizione di antisemitismo non vincolante dal punto di vista legale” dell’IHRA è pubblicata in rete all’interno di un riquadro nero chiaramente evidenziato. È un testo di 38 parole, che dice quanto segue: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio nei confronti degli ebrei: manifestazioni verbali e fisiche di antisemitismo sono dirette verso individui ebrei e non ebrei e/o loro proprietà, verso istituzioni e strutture religiose della comunità ebraica.” Lo stesso testo è comparso, anch’esso in un riquadro nero a parte, nel maggio 2016 su un comunicato stampa dell’IHRA che annunciava l’adozione della definizione.

Queste 38 parole sono poi seguite da un testo più lungo, che include l’elenco degli esempi di come si può manifestare l’antisemitismo contemporaneo; questa è la parte in cui è inclusa, in modo discutibile, la critica contro Israele. Tuttavia questi esempi sono effettivamente parte della definizione stessa?

Secondo l’ufficio permanente dell’IHRA a Berlino la risposta è no. In un messaggio mail datato 12 settembre 2017 un rappresentante dell’IHRA ha confermato che la definizione consiste solo nel “testo nel riquadro”, mentre gli esempi intendono “servire come illustrazione” di come “possa manifestarsi” l’antisemitismo.

Sembra che questa conferma sia stata un passo falso o, quanto meno, non è stata ripetuta. Mi sono rivolto all’ufficio permanente dell’IHRA a questo proposito e, stranamente, mi è risultato impossibile, sia con email che al telefono, avere una chiara conferma su cosa sia effettivamente la definizione. In una conversazione di cinque minuti all’inizio di questo mese un funzionario dell’IHRA ha ribattuto alla mia richiesta di chiarire se la definizione consista solo nel testo di 38 parole dicendo che io dovrei “fare riferimento all’informazione sul nostro sito”, o “semplicemente inserire un link sul sito dell’IHRA.” Quando ho fatto notare che certe istituzioni hanno accolto il testo di 38 parole, ma non l’elenco di esempi che lo accompagna, il funzionario ha riconosciuto che “dipende dalla discrezionalità delle istituzioni e delle autorità adottare qualunque cosa ritengano utile,” ma si è di nuovo rifiutato di rispondere alla semplice domanda.

Mentre l’IHRA è curiosamente reticente nel chiarire quello che costituisce la definizione, altri hanno già deciso: una dichiarazione che ho ricevuto dal portavoce della Commissione Europea fa una chiara distinzione tra la “definizione” da una parte e “gli esempi non esaustivi” dall’altra.

Alcune autorità locali in Gran Bretagna hanno allo stesso modo adottato solo il testo di 38 parole; recenti esempi includono il consiglio comunale di Manchester e il consiglio regionale del South Northamptonshire. Quando il consiglio comunale di Liverpool ha accolto solo la definizione di 38 parole, un attivista filoisraeliano si è infuriato – spingendo gli “Amici di Israele di Merseyside” ad affermare che i due testi sono, di fatto, “la definizione effettiva.”

La confusione – e l’ambiguità probabilmente intenzionale da parte dell’IHRA – su cosa costituisca la definizione, l’opposizione alla libertà di parola e il rozzo tentativo di censura da parte di quanti (falsamente) sostengono che la definizione “dimostra” che iniziative come l’IAW sono antisemite, sono tutti ben noti. È per questo che la storia della definizione dell’IHRA è ripresa nel resoconto del suo infausto predecessore, la proposta di definizione provvisoria dell’EUMC [Centro Europeo per il Monitoraggio del Razzismo e della Xenofobia, ndt.]. Alla fine è stata screditata ed abbandonata dopo che sostenitori di Israele l’hanno utilizzata – nelle parole di uno degli estensori della definizione – “con la delicatezza di un martello”.

Nonostante questi tentativi, l’attivismo in solidarietà con la Palestina e in particolare la campagna BDS sono cresciuti e si sono estesi in tutta Europa, compresa la Gran Bretagna, in rapporto diretto con le politiche di un governo israeliano che continua a colonizzare la Cisgiordania e a devastare la Striscia di Gaza.

Gli apologeti di Israele non smetteranno di ridefinire l’antisemitismo per prendere di mira la solidarietà con i palestinesi. Tuttavia è improbabile che soffochino un movimento contro l’apartheid che, in un’epoca segnata da Trump e dalla annessione israeliana, in tutto il mondo troverà solo più adesioni sia dentro che fuori dai campus.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dopo una brutale aggressione al figlio minorenne, una famiglia palestinese querela Israele e l’impresa olandese che fornisce cani all’esercito [israeliano]

Yumna Patel

26 febbraio 2018, Mondoweiss

Quando aveva 15 anni, Hamza Abu Hashem è stato aggredito da cani dell’esercito israeliano ed ha riportato gravi ferite alle gambe, alle braccia e alla schiena.

In un video dell’aggressione, che è avvenuta il 23 dicembre 2014 nel villaggio di Beit Ummar nel sud della Cisgiordania occupata, si possono sentire soldati israeliani dire “dagliele, figlio di puttana” e “chi ha paura?”, mentre il ragazzo piangeva e urlava di dolore.

Dopo che il video è stato reso pubblico, Michael Ben-Ari, un ex deputato del partito di destra “National Union Party”, lo ha postato sulla sua pagina Facebook dicendo: “I soldati stanno dando una lezione al piccolo terrorista. Diffondete! In modo che ogni piccolo terrorista che pensi di fare del male ai nostri soldati saprà che ci sarà un prezzo da pagare.”

Hamza è stato arrestato immediatamente dopo l’aggressione, per la quarta volta da quando aveva 11 anni, e condannato a tre mesi e mezzo di prigione con l’accusa di aver lanciato pietre – un crimine che è costato a lui e ai suoi cinque fratelli il carcere per decine di volte in due decenni.

Prima di essere trasferito in prigione è stato ricoverato in ospedale in Israele per una settimana, con le mani incatenate al letto per tutto il tempo e senza che la sua famiglia potesse visitarlo.

Adesso, quattro anni dopo l’aggressione che gli ha lasciato la mente ed il corpo segnati per tutta la vita, Hamza, insieme alla sua famiglia, sta facendo causa al governo israeliano per l’aggressione, ed anche all’impresa olandese che per più di 20 anni ha fornito ad Israele cani da attacco.

Secondo un reportage del 2015 del giornale olandese NRC, ‘Four Winds K9’, l’impresa a cui Hamza sta facendo causa, risulta aver esportato in Israele “cani di servizio” per 23 anni.

Nel reportage, NRC cita il proprietario di ‘Four Winds K9, Tonny Boeijen, che avrebbe detto di aver spedito in Israele ogni anno decine di cani addestrati all’attacco, e che il 90% dei cani dell’esercito israeliano venivano addestrati dalla sua impresa.

In seguito alle pressioni di politici olandesi e di organizzazioni come l’Ong palestinese per i diritti umani Al-Haq, nel giugno 2016 l’impresa ha comunicato che avrebbe interrotto l’esportazione di “cani da attacco” ad Israele ed avrebbe fornito allo Stato solo dei “segugi”, mentre la comproprietaria dell’impresa Linda Boeijen ha detto a NRC: “Non intendiamo violare i diritti umani.”

Ma per i genitori di Hamza, Ahmad e Hamda, questo non è abbastanza. “Dobbiamo mettere fine alla vendita di tutti i cani all’esercito israeliano di occupazione”, hanno detto a Mondoweiss nel loro salotto, mentre sullo schermo televisivo scorreva il video dell’aggressione ad Hamza.

Vogliamo sottolineare che non si tratta di soldi”, ha detto categoricamente Ahmad, dicendo a Mondoweiss che la famiglia non ha richiesto un solo shekel in nessuna delle sue denunce.

È intervenuta Hamda: “Nel corso degli anni, mio marito e tutti i miei sei ragazzi sono stati incarcerati molte volte da Israele, ed abbiamo pagato decine di migliaia di dollari di cauzione all’occupante. Tuttavia, non è il denaro che vogliamo.”

Scuotendo la testa, Hamda ha detto a Mondoweiss che l’ultima volta che la sua famiglia di 10 persone si è riunita è stato durante l’ultimo Ramadan, appena prima che il figlio maggiore Thaer, che è tuttora in carcere, fosse nuovamente arrestato. Prima di allora, dice che non ricorda nemmeno l’ultima volta in cui si sono trovati tutti insieme.

L’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer ha calcolato che circa il 40% degli uomini palestinesi viene arrestato da Israele ad un certo punto della propria vita.

L’impresa olandese ha cercato di chiudere la faccenda con noi, dicendo che avrebbero dato a Hamza circa 10.000 euro se avessimo ritirato la denuncia e non avessimo pubblicato nulla della sua vicenda”, ha continuato. “Che insulto è questo? Pensano che vogliamo del denaro? No, vogliamo che i diritti di tutti i bambini palestinesi vengano protetti, ecco che cosa vogliamo.”

Per Ahmad e Hamda vi sono due principali obiettivi che sperano di raggiungere attraverso la loro denuncia. Primo, nella loro denuncia contro il governo israeliano – che ammettono abbia poca probabilità di ottenere giustizia – l’obiettivo è rendere responsabili i soldati che hanno aggredito Hamza ed i politici come Ben-Ari, che loro dicono abbia in seguito istigato alla violenza contro i bambini. “Israele non assicura quasi mai giustizia ai palestinesi vittime dell’occupazione, ma, anche se solo simbolicamente, dobbiamo portarli in tribunale per i loro crimini”, ha detto Ahmad, aggiungendo che è stato dopo aver visto i commenti di Ben-Ari riguardo a Hamza che si è deciso a sporgere denuncia.

Secondo, per Ahmad e Hamda il presupposto della loro denuncia contro ‘Four Winds K9 è che per anni l’impresa ha scientemente venduto cani ad una potenza occupante che viola sistematicamente i diritti e le leggi internazionali.

L’impresa, e tutte le imprese del mondo, dovrebbero sapere che quando vendono ad Israele stanno facendo profitti grazie all’oppressione, alle uccisioni e all’incarcerazione di bambini”, ha detto Ahmad, e Hamda ha annuito. “Lo scopo di tutto questo è ottenere giustizia, sì, ma anche di impedire che ciò che è avvenuto a mio figlio accada ad altri bambini ed altre persone, in Palestina e in tutto il mondo.”

Segnato per tutta la vita

Oggi, a 19 anni, Hamza – che ha perso gran parte della sua infanzia in diverse prigioni israeliane per il reato di lancio di pietre – è più maturo dei suoi anni per come si comporta e per come parla, ma dice di essere ancora colto da un’indescrivibile, infantile paura quando vede dei soldati israeliani con i loro cani, costantemente presenti a Beit Ummar.

Adesso, tutte le volte che vedo proteste o disordini nel villaggio, sono terrorizzato e cerco di scappare via il più presto possibile”, ha detto Hamza a Mondoweiss, mentre camminavamo nello spiazzo dove anni fa è stato aggredito.

Ero stato arrestato molte volte dall’occupante israeliano prima dell’aggressione, ma quella è stata di gran lunga la cosa più spaventosa accaduta a me e alla mia famiglia”, ha detto.

Seguito da Seja, la sua sorellina più piccola, Hamza ha indicato le decine di bambini che giocavano a calcio in una strada vicina, “Ciò che è ancor più spaventoso della mia aggressione, tuttavia, è che ci sono persone che intendono fornire all’occupante cani e armi, che in ogni momento possono essere usati contro questi bambini.”

Ecco perché non cederemo a tentativi di corruzione o minacce”, ha detto, “è una questione che è molto più grande di me. Si tratta del diritto di ogni bambino palestinese di vivere un’infanzia normale, una cosa che a me non è stata concessa.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Protezione per i ladri di terra

Editoriale Haaretz, 27 febbraio 2018

Un governo è obbligato a proteggere i diritti delle persone sotto occupazione. Ayelet Shaked lo sta rendendo difficile.

La motivazione del recente disegno di legge, promosso dalla ministra della Giustizia Ayelet Shaked, che toglie l’autorità di esaminare le petizioni dei palestinesi della Cisgiordania all’Alta Corte di Giustizia e la attribuisce alla Corte Distrettuale di Gerusalemme, è stata sintetizzata dalla ministra sulla sua pagina Facebook. In seguito alla legge, ha scritto, “Il ricorso automatico all’Alta Corte da parte dei palestinesi e dalle associazioni di sinistra finanziate da denaro straniero non avverrà più.”

Il significato del disegno di legge approvato domenica dalla Commissione Ministeriale per la Legislazione è che l’Alta Corte non sarà più il tribunale di prima istanza per i reclami palestinesi sulle decisioni relative a pianificazione e edificazione, ingresso e uscita dai territori e richieste di libertà di informazione. La rivoluzione prodotta da questa legge mira a rendere ancor più difficili le azioni dei palestinesi danneggiati da azioni governative.

Ciò che è peggio, la promessa di Shaked che la nuova legge ridurrà la pressione sulla corte non è convincente, dato che nessuno garantisce che questi casi non saranno alla fine impugnati presso la Corte Suprema. Shaked semplicemente non tollera l’intervento dell’Alta Corte contro il furto di terre e la costruzione illegale su terreni palestinesi, intervento che ha già portato alla demolizione di case di coloni e la restituzione dei terreni su cui erano state costruite quelle case ai proprietari, come è successo ad Amona e Netiv Ha’avot. Shaked intende porre una barriera tra i palestinesi e l’Alta Corte di Giustizia sotto forma della Corte Distrettuale di Gerusalemme.

Nel 2000 è stata approvata la Legge sui Tribunali per le Questioni Amministrative, in base alla quale certe questioni legali su cui la legge è chiara e coerente, e non necessita di frequenti aggiornamenti, sono state spostate dall’Alta Corte di Giustizia alle corti distrettuali. Ma qualunque caso di carattere fondamentale, o che riguardi decisioni del governo centrale, viene ancora esaminato dai giudici della più alta corte.

Nel caso dei palestinesi, che sono soggetti al governo militare in un’area sotto occupazione, il loro timore di vedere messi a repentaglio i propri diritti umani si realizza quotidianamente, da cui l’importanza di consentire all’Alta Corte di continuare ad occuparsi delle loro istanze. Lo scopo era di attribuire adeguato peso al diritto internazionale, alle iniquità perpetrate dal governo ed all’obbligo di Israele di rispettare i diritti dei palestinesi. Questi principi, che sono considerati dall’attuale governo come ostacoli al totale ed aggressivo controllo dei territori, non sono abitualmente presi in considerazione dalla corte distrettuale.

Shaked sostiene: “Non meno importante è porre fine alla discriminazione contro i residenti di Giudea e Samaria (nome storico della Cisgiordania, ndtr). I loro diritti devono essere uguali a quelli di ogni altro cittadino.” Il cinismo di Shaked non ha limiti. In un luogo in cui non vi è eguaglianza tra lo status di un residente palestinese e quello di un israeliano, ed un grande solco separa i diritti dei due gruppi di residenti, il governo è obbligato a proteggere realmente i diritti di coloro che sono soggetti all’occupazione. Questa nuova legge deve essere immediatamente abrogata.

Questo articolo è l’editoriale di apertura di Haaretz, pubblicato sui giornali ebraici e inglesi in Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)