Gestire l’occupazione e nascondere i crimini di guerra: come Israele ha trasformato il paesaggio in Palestina

Clothilde Mraffko

sabato 1 agosto 2020 – Middle East Eye

Vegetazione, architettura, strade, muri…Il progetto sionista ha rimodellato il paesaggio in Israele e nei territori occupati, creando complessi intrecci in cui la presenza palestinese è nascosta, quando non è messa sotto sorveglianza o rinchiusa

Per il viaggiatore europeo che arriva dall’aeroporto di Tel Aviv l’ingresso a Gerusalemme offre un panorama stranamente familiare. Poco prima che la città santa scopra le sue prime colline, l’autostrada si snoda tra monti verdeggianti. Qui gli alberi ricordano più le foreste europee che i paesaggi del vicino Libano. Lungi dall’immagine biblica di uliveti, sono pini e cipressi a coprire i rilievi.

Ancor prima della creazione di Israele nel 1948 “gli immigrati sionisti che arrivarono qui dall’Europa, in particolare da quella dell’est, volevano che il paesaggio fosse più verde, con alberi, che assomigliasse a quello che conoscevano”, ricorda a Middle East Eye Noga Kadman, ricercatrice indipendente, autrice del libro Erased from Space and Consciousness: Israel and the Depopulated Palestinian Villages of 1948 [Cancellati dallo spazio e dalla consapevolezza: Israele e i villaggi palestinesi spopolati del 1948].

Allora molti emigrarono con in testa un mito: la Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra, gli ebrei. Solo che in realtà, all’inizio del 1948 circa 900.000 palestinesi vivevano all’interno delle frontiere di quello che sarebbe diventato Israele.

Nell’immaginario dei nuovi arrivati ebrei sussisteva nonostante tutto l’“idea che il paese fosse stato abbandonato per centinaia di anni,” continua Noga Kadman. Quindi gli immigrati si misero a piantare a tutto spiano sul territorio, ricorrendo principalmente a due specie di alberi: l’eucalipto e il pino di Aleppo, o pino di Gerusalemme.

Importato dall’Australia l’eucalipto venne inizialmente piantato ovunque: serviva a prosciugare le paludi e soprattutto cresceva molto in fretta. Ma, troppo avido di acqua, non era effettivamente adatto alla Palestina.

Venne sostituito un po’ alla volta dal pino di Aleppo che, a differenza di quello che farebbe pensare il suo nome, non è neppure lui una specie locale. Si trova piuttosto nel Mediterraneo occidentale, ad esempio nel sud della Francia. Anch’esso cresce rapidamente, resiste alla siccità, ma al contempo è più vulnerabile agli incendi.

Il paesaggio si trasformò dunque un po’ alla volta, soggetto alle iniziative del Fondo Nazionale Ebraico (FNE). L’agenzia, creata dall’inizio del XX secolo per acquisire terre in Palestina per gli immigrati ebrei, dal 1948 venne incaricata di occuparsi delle terre da cui erano stati cacciati i palestinesi, definite, in assenza dei loro proprietari, proprietà dello Stato.

Attualmente il Fondo gestisce soprattutto le foreste in Israele e si vanta di aver piantato “centinaia di milioni di alberi”, asserisce in sua difesa uno dei portavoce del Fondo, Alon Brandt, in una lettera di risposta a Middle East Eye. Precisa che l’organizzazione non ha piantato solo pini di Aleppo, ma anche ulivi, la specie locale per eccellenza.

Ma alcune critiche fanno notare che le piantagioni del FNE non hanno creato dei veri ecosistemi. Al contrario, dato che queste specie non sono abbastanza diversificate, questi luoghi non hanno l’aspetto di vere foreste: i pini hanno reso il suolo acido e gli animali non abitano effettivamente in questi luoghi in cui il sottobosco non ha messo radici.

Prendere possesso della terra”

Ma il FNE non cerca solo di rinverdire la Palestina. “Piantare alberi era un modo per prendere possesso della terra,” sostiene Noga Kadman. A tutt’oggi, nelle “località palestinesi in Israele, se non si vuole che le città si ingrandiscano con la costruzione di nuove case, gli si piantano attorno dei boschi,” aggiunge.

Nel Negev, nel sud di Israele, le autorità israeliane hanno demolito addirittura un intero villaggio per rimboschire il deserto. Lo scorso 12 febbraio la località di al-Araqib è stata distrutta per la 175sima volta. Su appezzamenti di terra che gli abitanti, beduini arabi israeliani discendenti dei palestinesi rimasti sulle loro terre nel 1948, sostengono essere loro, nel 2006 il FNE ha iniziato a piantare alberi: conta di crearvi con il tempo due boschi.

Gli alberi servono anche a nascondere le stigmate della nascita violenta di Israele: “La priorità della politica di riforestazione portata avanti dal FNE è di nascondere i suoi crimini di guerra in modo che Israele sia considerato come l’unica democrazia del Medio Oriente,” denunciava nel 2005 il militante israeliano dei diritti civili Uri Davis.

Tra il 1947 e il 1949, dai 750.000 agli 800.000 palestinesi vennero espulsi dalle proprie terre dalle milizie sioniste, cacciati con la forza o in fuga dai combattimenti per trovare rifugio nei Paesi confinanti. Nel maggio 1948 venne creato lo Stato di Israele; per i palestinesi questa data infausta è commemorata come la Nakba, la “catastrofe” in arabo.

Più di 400 villaggi vennero allora distrutti, ricorda Noga Kadman: “La metà di questi villaggi sono sepolti sotto cittadine israeliane o sono stati inglobati in esse.”

Ma una parte di essi, secondo lei 68, si trovano oggi su terre appartenenti al FNE, di cui “46 sono sepolti sotto un bosco.” Dal 1948 gli alberi vennero rapidamente piantati sulle rovine delle case palestinesi; Israele sperava così di dissuadere i rifugiati dal tentare di tornare e ricostruire le loro abitazioni.

Una politica proseguita nel 1967. Durante la guerra dei Sei Giorni le battaglie di Latrun permisero agli israeliani di impossessarsi di tutta Gerusalemme. Spinsero anche sulla via dell’esilio circa 10.000 palestinesi che vivevano in questa enclave, all’epoca sotto controllo della Transgiordania, molto vicina alla città santa.

Oggi palestinesi e israeliani conoscono il luogo soprattutto perché è uno degli spazi di svago più belli nei dintorni di Gerusalemme: 700 ettari con cascate, piste ciclabili e tavoli per scampagnate all’ombra.

Solo che il parco Ayalon in realtà è stato costituito sulle rovine di due villaggi palestinesi, Amwas e Yalu, totalmente rasi al suolo nel 1967, così come sulle terre di un’altra località, Beit Nuba. Oggi non ne resta che un santuario e dei fichi d’india che, in Palestina, servivano per delimitare i terreni delle famiglie. Le forme spinose con frutti rossi e gialli, che hanno paradossalmente dato il loro nome agli israeliani (sabra [frutto dei fichi d’india in ebraico. Si riferisce agli ebrei nati n Palestina, ndtr.]), costellano i sentieri del parco, come per ricordare che una volta vi si trovavano dei villaggi palestinesi.

I generosi donatori canadesi che resero possibile la costituzione del parco Ayalon, inaugurato dal FNE nel 1976, di questa tragica storia non ne sapevano niente.

Nel 1991 un servizio della televisione canadese rivelò al pubblico d’oltre Atlantico che il parco non solo venne in parte costituito dall’altra parte della Linea verde, la frontiera internazionalmente riconosciuta nel 1949 tra un futuro Stato palestinese e Israele – quindi su territorio occupato -, ma che servì soprattutto a seppellire le rovine di più di un migliaio di case distrutte. Il FNE fu costretto a scusarsi. Non ha risposto alle domande di MEE su questo argomento.

Si dovrà attendere il 2006 e una decisione della giustizia israeliana perché i visitatori potessero finalmente venire a conoscenza della tragica storia del luogo, sintetizzata in ebraico su cartelli in legno. L’organizzazione israeliana “Zochrot”, “Ricordi” in ebraico [associazione israeliana che si dedica a mantenere viva la memoria dei villaggi palestinesi distrutti da Israele, ndtr.], ha intentato un’azione legale contro il FNE per obbligarlo a non cancellare la memoria di Amwas e Yalu.

Una segregazione visibile

Se centinaia di villaggi palestinesi vennero rasi al suolo quando fu creato Israele, le grandi città vennero preservate, ma depurate da ogni presenza araba. Così, racconta lo storico israeliano Ilan Pappé nella sua opera “La pulizia etnica della Palestina”, nel 1948, insieme al mercato, “uno dei più belli del suo genere”, 227 case furono demolite a Haifa e circa 500 altre abitazioni palestinesi furono ridotte in polvere a Tiberiade, nel nord-est del Paese, a Jaffa e ancora a Gerusalemme ovest.

Israele si costruì così su un principio: nessuna mescolanza tra ebrei israeliani e quelli che vengono chiamati arabi israeliani, discendenti dei palestinesi rimasti sulle loro terre nel 1948 e che vissero sotto amministrazione militare fino al 1966.

Salvo rare eccezioni, spesso nelle zone più povere, “su tutto il territorio si nota una segregazione tra israeliani e palestinesi,” spiega a Middle East Eye Efrat Cohen-Bar, architetto dell’Ong israeliana per la difesa dei diritti umani “Bimkom”. L’idea principale “è che non si voglia stare insieme, e questo vale per entrambe le parti,” ritiene. A ognuno il suo quartiere, ognuno nella sua città.

Un credo ancora più evidente in Cisgiordania, territorio palestinese sotto occupazione israeliana dal 1967. Qui due mondi, i coloni israeliani e i palestinesi sotto occupazione, si incrociano ma non si incontrano mai. Una segregazione iscritta, in modo molto più brutale, nel paesaggio.

Così, dall’uscita da Gerusalemme, lungo la strada di Betlemme, il simbolo più evidente di questi paesaggi sotto occupazione compare da quando si supera il primo tunnel: a volte fatto di blocchi di cemento, a volte di staccionate più alte dei muri antirumore delle autostrade o ancora imponente recinzione, il muro di separazione costruito da Israele negli anni 2000, giudicato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia chiude l’orizzonte. In basso le case palestinesi si distinguono appena.

Questa frontiera, iscritta nel paesaggio, incarna di per sé sola tutte le altre strutture militari contro cui vanno a sbattere i palestinesi quando si avventurano fuori dalle loro città e villaggi: blocchi stradali, check point, torri di guardia, barriere…

Al contrario, attraverso un ingegnoso dedalo di tunnel, strade riservate alle vetture israeliane e ponti, i coloni israeliani passano da una colonia all’altra senza mai entrare in contatto con una località palestinese. Uno stato di fatto che l’annessione delle colonie, promessa da Israele in questi ultimi mesi con l’appoggio degli Stati Uniti, dovrebbe rafforzare. La segregazione non potrà che essere più impressionante.

La collocazione stessa delle colonie racconta questa storia di dominazione: “Storicamente i villaggi palestinesi erano costruiti in base a dove si trovavano le fonti d’acqua, quindi generalmente non sulla cima delle colline,” spiega Efran Cohen-Bar.

Ma praticamente tutte le colonie israeliane sono iniziate dalla cima. Anche un modo per dire: noi possediamo questa terra, è nostra.” La cima delle colline, meno fertile, è anche spesso il luogo più a disposizione per nuove costruzioni.

L’occupazione israeliana si sviluppa in modo strategico: il paesaggio cambia in base all’evoluzione degli interessi israeliani.

All’inizio era un tentativo di controllare il territorio, un po’ come se le colonie fossero dei mezzi corrazzati e delle basi militari. Poi sono state piazzate in modo da bloccare la creazione di uno spazio palestinese contiguo, distruggendo così la possibilità di uno Stato,” precisa a Middle East Eye Eyal Weizman, fondatore di “Forensic Architecture” [Architettura Forense], un’organizzazione che indaga le violazioni dei diritti dell’uomo utilizzando, tra le altre cose, l’architettura.

Del resto la mappa dello Stato palestinese immaginato da Donald Trump nel quadro del suo “piano di pace” è il risultato di questa strategia: vi si individua un insieme di isolette palestinesi legate le une alle altre da tunnel e ponti, senza omogeneità geografica.

Così in Cisgiordania il visitatore può identificare due mondi con un solo colpo d’occhio: da una parte case palestinesi con i tetti piatti, sparse sul fianco della collina, sopra i campi, dall’altra le colonie, spesso un insieme di edifici tutti uguali, identificabili per i loro tetti rossi, a punta, all’occidentale, e arroccati sulla cima dei rilievi.

In Israele non abbiamo bisogno di quel tipo di tetti, che servono per la neve,” rileva Efran Cohen-Bar. “Ma non volevamo assomigliare a loro (ai palestinesi), volevamo differenziarci.”

Per parte sua Eyal Weizman sostiene che i tetti rossi erano obbligatori: permettono all’esercito israeliano di individuare rapidamente dal cielo le colonie, e quindi i luoghi da non bombardare.

Le case dei coloni israeliani sono disposte in cerchio e “si affacciano sul paesaggio per sorvegliare, per ragioni militari e di sicurezza e per godere del panorama”, spiega. “Da un lato gli israeliani non vogliono palestinesi sul posto, hanno distrutto la loro cultura e vogliono che se ne vadano. Ma dall’altra leggono gli elementi tradizionali del paesaggio, ad esempio gli uliveti e le case di pietra, come rappresentazioni bibliche.”

Perché Israele, pur avendo modificato profondamente il paesaggio palestinese per i suoi scopi strategici, continua a vendere ai turisti e ai suoi abitanti l’immagine di una terra vergine, identica a quella dove gli ebrei vivevano ai tempi della Bibbia.

Quando fanno pubblicità (per spingere la gente a sistemarsi nelle colonie) dicono: ‘Venite a vivere nella natura, venite a vivere nel Paese della Bibbia’,” evidenzia Eyal Weizman. Un paesaggio tuttavia plasmato da quelli che essi [gli israeliani] non vogliono vedere: i palestinesi. È un paradosso,” conclude l’architetto.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




“Voglio che Battir vada all’inferno”. Coloni avanzano su un sito palestinese patrimonio dell’umanità

Yuval Abraham

29 luglio, 2020 +972

I palestinesi del villaggio agricolo di Battir in Cisgiordania si imbattono in coloni israeliani armati che cercano di cacciarli dalla loro terra.

Khaled e Miriam Muammar vivono a Battir, un villaggio agricolo nella Cisgiordania occupata, a sud di Gerusalemme.Khaled lavora nell’edilizia e Miriam nel campo di famiglia, dove coltiva melanzane, per le quali Battir – iscritta nella lista del Patrimonio mondiale dell’UNESCO e del Patrimonio mondiale in pericolo nel 2014 – è nota. “Ogni melanzana è di 40 centimetri [16 pollici]. Sono enormi. Il mondo intero le vuole “, dice Khaled.

Un mese fa, quando Miriam venne a lavorare nei campi, vide qualcosa che la fece immediatamente tornare a casa: otto coloni israeliani armati e un doberman camminavano per il campo. Hanno costruito una tenda in un appezzamento di terreno vicino, appartenente al residente di Battir Ghassan Alyan, dove avevano legato le loro pecore. Rimasero fino al tramonto prima di andarsene.

“Questo è quello che hanno fatto per un mese, un gruppo di coloni, più volte alla settimana. Ieri (26 luglio) sono venuti di nuovo ” afferma Alyan. “Ho una cisterna da cui bevo. Il colono si spoglia e si arrampica nella cisterna per nuotare al suo interno. “Se ti dessi un bicchiere d’acqua e ci avessi messo un dito prima, lo berresti?” Chiede Alyan. “Penso proprio di no. Quindi ora immagina cosa provo. È ripugnante. Mi fa impazzire. Sono impotente “.

L’uomo a cui Alyan si riferisce è Lior Tal, un capo dei coloni che arriva in questo punto ad est di Battir dalla sua casa nell’avamposto illegale di Neve Ori, a soli 4 km di distanza, costruito meno di un anno fa. Alyan dice di aver visto per la prima volta Tal allevare pecore nella terra di Battir. “Non ho avuto problemi con questo, purché non distrugga nulla – perché dovrebbe importarmene? Ma ora è andato oltre. Arriva, lega le pecore al sole dalle 8 di mattina fino a sera e non le fa pascolare. Lui rimane lì. Per provocazione. La scorsa settimana, ha bussato alle porte dei residenti di Battir e ha chiesto loro di presentargli i documenti di proprietà terriera “.

Khaled Muammar spiega che l’area è strategicamente importante per l’ attività di insediamenti in Cisgiordania. “Vogliono occupare quest’area per tre motivi: prima di tutto, a causa della sua altezza: si affaccia sulla regione. In secondo luogo, separa [Battir da] al-Walajeh; stabilirsi lì crea un cuneo tra due villaggi palestinesi. E in terzo luogo, perché crea continuità geografica tra [l’insediamento israeliano] Har Homa e Gerusalemme ”.

Dror Etkes, uno dei maggiori esperti israeliani di insediamenti e il capo di Kerem Navot, un’organizzazione che controlla e ricerca la politica fondiaria israeliana in Cisgiordania, ritiene che l’arrivo dei coloni a Battir alla fine di giugno non sia una coincidenza. “Perché? A causa del piano Trump ” spiega. “Questa area, secondo il piano, dovrebbe essere territorio palestinese. Vogliono ora occupare l’area, prima che il governo dichiari che accetterà il piano. Per creare fatti sul terreno. “

Questa non è la prima volta che i coloni hanno tentato di conquistare quest’area. Nel dicembre 2018, centinaia di coloni sono arrivati durante la notte con bulldozer e trattori, hanno scavato una strada di accesso attraverso la montagna e hanno cercato di impiantare un avamposto. Hanno fallito: ha piovuto, i veicoli si sono bloccati e al mattino l’amministrazione civile – il braccio del governo militare israeliano che governa i 2,8 milioni di palestinesi in Cisgiordania – li ha evacuati.

 

Una coppia palestinese torna a casa lungo i binari della ferrovia dopo una giornata di lavoro, nel villaggio palestinese di Battir, Cisgiordania, 23 aprile 2014. (Hadas Parush / Flash90)

“Il lavoro nel 2018 è stato ben finanziato”, aggiunge Etkes. “Tutto è stato fatto in modo molto professionale, con veicoli pesanti. È un investimento di centinaia di migliaia di shekel. “

Un esercito indifferente

Quando Alyan vide la tenda di Tal sulla sua terra, chiamò la polizia israeliana, che a sua volta chiamò l’esercito. “Alcuni soldati arrivarono rapidamente”, racconta Muammar, che all’epoca era con Alyan. “Abbiamo indicato Lior. Abbiamo detto che era solo seduto qui con i suoi doberman e armi e che c’erano varie persone con lui, tutte armate. Spiegammo che erano entrati nelle piantagioni di ulivi e datteri, che stavano creando un attrito non necessario che avrebbe portato qualcuno a farsi male. Abbiamo detto loro che questo non va bene, che non vogliamo problemi.

“Le prime tre volte, uno dei soldati mi ha detto:” Non parlare con Lior. Ignoralo. Lo rimuoveremo “, continua Muammar. “Quindi il soldato andò da Lior e gli disse: ‘Sei in terra palestinese privata. Devi andartene. “Ed è quello che è successo. “Ma le cose sono cambiate. Le ultime due volte è arrivato un soldato diverso. Si è seduto vicino a Lior gli ha parlato. Poi mi ha detto che non potevo stare qui. Ho detto: “Che vuoi dire? Questa è la mia terra, ecco i documenti. “Ma non mi ha ascoltato. Ha detto che Lior può stare qui e se c’è un problema, devo andare all’Amministrazione Civile di Gush Etzion [il vicino blocco degli insediamenti] e dimostrare che è la mia terra ”.

Quando Tal e la sua banda sono arrivati di nuovo il 25 luglio, gli abitanti di Battir decisero di non chiamare l’esercito. “Ci siamo resi conto che non avrebbero fatto nulla. Non ha senso. “

Confische annuali

Non c’è nulla di casuale nella decisione dei coloni di costruire la loro tenda sulla terra di Alyan. Nel 1982, Israele dichiarò la sua proprietà, insieme a una parte sostanziale della terra nella zona, “terra statale”, usando il codice della terra ottomana – un meccanismo legale del 19 ° secolo adottato da Israele che gli conferiva l’autorità di trasformare terreni agricoli incolti in terra statale.

Dall’inizio dell’occupazione nel 1967, Israele ha usato il Codice per sequestrare centinaia di migliaia di dunam di terra; Il 99,76 percento delle terre statali nei territori occupati è stato assegnato agli insediamenti israeliani, mentre un minuscolo 0,24 percento è stato assegnato per uso palestinese.

Alyan spiega che non ha coltivato la sua terra per un breve periodo perché l’aveva usata per coltivare tabacco e voleva lasciarla riposare prima di avviare colture diverse. “Quando sono tornato a lavorare sulla mia terra, è venuto un rappresentante dell’Amministrazione Civile e mi ha detto che ero in terra statale. Mi ha chiesto di lasciare i locali e fatto multe ai miei dipendenti. L’amministrazione civile non mi ha neppure informato di aver espropriato la terra “.

Alyan continua: “È una buona terra. Appartiene alla mia famiglia da generazioni, con un atto di proprietà. Voglio piantarci sopra, ma per lavorare la terra ho bisogno di trattori per l’aratura. Abbiamo portato un trattore e l’abbiamo usato per tre o quattro ore. Poi venne l’Amministrazione Civile e ci disse che questo era proibito perché eravamo in terra statale. Hanno confiscato il trattore. Ogni anno proviamo a lavorare la terra: vengono e confiscano “.

Battere i pugni sull’”affare del secolo”

L’avamposto di Tal, Neve Ori, è stato costruito senza permesso a soli cinque minuti di auto da Battir. Adolescenti da tutta Israele vengono come volontari all’avamposto, dove “lavorano, sudano e assorbono molti valori”, secondo il sito web di Neve Ori. Le famiglie sono anche invitate “a divertirsi con i loro figli e prendere parte alla presenza ebraica sulla montagna e alla protezione della terra”. C’è anche uno zoo.

Ho chiamato Tal per chiedergli perché sta invadendo la terra di Battir. Ha insistito sul fatto che ha agito “legalmente” sulla terra che lo stato “ha ripreso”, affermando che “Loro [palestinesi] mi hanno rubato la terra”. Ho chiesto perché fosse venuto a Battir dato che si trova a 4 miglia di distanza dal suo avamposto, e Tal ha risposto “La mia fattoria è su un terreno che appartiene al Fondo nazionale ebraico ed è circondata da un terreno privato con uliveti. [La terra di Battir] è l’unica terra nell’area di cui nessuno può rivendicare la proprietà “.

Tal è esplicito nel suo antagonismo verso i palestinesi di Battir. “Voglio che tutto Battir vada all’inferno … lo Stato di Israele appartiene al popolo ebraico”, dice. “Non ho alcun problema che rimangano [i palestinesi] se concordano con le Sette Leggi di Noè [una serie di divieti che gli ebrei ortodossi ritengono vincolanti per tutti] o se vogliono convertirsi”.

È facile definire Tal un fanatico religioso. Ma l’essenza delle sue parole – il desiderio di massimizzare l’insediamento ebraico a spese dei palestinesi – ha sempre caratterizzato anche l’ala sinistra del movimento sionista. Ciò include il partito di colombe Meretz, che ha rappresentanti nel Jewish National Fund – la stessa organizzazione sulla cui terra Tal ha costruito il suo avamposto.

Quando Neve Ori è stata fondata nel 2019, l’amministrazione civile ha affermato che le strutture di insediamento “sono state erette illegalmente e senza un permesso adeguato e saranno quindi evacuate”. Da allora è passato quasi un anno e l’avamposto è ancora in piedi. Martedì, un portavoce dell’amministrazione civile ha dichiarato che “l’applicazione in loco verrà eseguita in accordo con le autorità e le procedure e soggetta alle priorità [dell’amministrazione]”.

Secondo l’ONG Kerem Navot, i coloni hanno creato 37 nuovi avamposti israeliani in Cisgiordania negli ultimi cinque anni. Il processo attraverso cui vengono creati questi avamposti è molto simile: una famiglia si stabilisce in “terra statale” e inizia a costruire strutture senza permessi, e quelle strutture rimangono “illegali” fino a quando lo stato non le approva retroattivamente.

La sessantenne Mariam Bader innaffia il suo raccolto sulle antiche terrazze di Battir, con vista sui binari della ferrovia israeliana che attraversavano il terreno agricolo del villaggio, West Bank, 7 aprile 2014. (Hadas Parush / Flash90)

L’avamposto più recente è stato istituito solo una settimana fa, ad est della città palestinese di Yatta vicino a Hebron, anch’esso su un terreno che secondo il piano Trump dovrebbe essere dalla parte palestinese. “I tempi e la posizione non sono una coincidenza”, afferma Etkes di Kerem Navot.

“Lo spazio si sta esaurendo”

Vivien Sansour, una attivista ecologista palestinese, è nata nella città di Beit Jala in Cisgiordania, un’area panoramica piena di antiche terrazze, sorgenti, vigneti e uliveti – e anche il sito scelto dai coloni israeliani per stabilire l’avamposto di Tal. Esplorare i dintorni di Beit Jala ha “plasmato” Sansour da bambina, dice. Ma Tal ha cambiato le cose. “Da quando l’avamposto è stato istituito l’anno scorso, non mi sento più a mio agio ad avvicinarmi”, afferma. “Un uomo armato è lì costantemente. Non mi sento sicuro come donna, e certamente no come donna palestinese ”.

L’avamposto, aggiunge Sansour, è anche dannoso per l’ambiente. “C’è un recinto per animali di plastica nera enorme, brutto, che non corrisponde al tradizionale modo [palestinese] di costruire su una montagna – dato che si basano su materiali naturali. L’avamposto ha tagliato una contiguità geografica che esisteva da secoli. Camminavamo qui da una collina all’altra a piedi, su sentieri, e poi è finito. Ciò danneggia l’ambiente, l’ecologia e, naturalmente, gli esseri umani. “

Sansour gestisce una biblioteca di semi di famiglia di Battir. “La cultura ecologica palestinese viene distrutta. Salvando questi semi, sto salvando chi sono, la mia cultura e ricordando alle generazioni seguenti che siamo preziosi “, afferma. “La terra presa da questo colono è l’ultimo spazio di Battir a respirare”, continua Sansour. “Le persone sono costrette a emigrare a Betlemme perché non ci permettono di costruire qui”.

Battir è circondato dall’Area C, sotto il pieno controllo militare israeliano, su cui raramente ai palestinesi vengono concessi permessi di costruzione. L’amministrazione civile respinge il 98,6 % delle richieste di permessi in queste aree e distrugge ciò che i palestinesi costruiscono di propria iniziativa. “Le persone sono stipate in città dove lo spazio si sta esaurendo”, afferma Sansour. “Di giorno in giorno, le città palestinesi si stanno trasformando in ghetti, in campi di rifugiati di cemento. È impossibile coltivare cibo sul cemento. Da ricca società agricola, stiamo diventando dipendenti dalle aziende israeliane per nutrirci ”.

Una versione in ebraico di questo articolo è stata pubblicata su Local Call. Read it here.

Yuval Abraham è fotografo e studente di lunguistica

Traduzione a cura di Alessandra Mecozzi da palestinaculturalibertà.org




I coloni israeliani incendiano una moschea nella città di Al-Bireh in Cisgiordania

Redazione di MEE

27 Luglio 2020 Middle East Eye

Slogan razzista scritto sui muri dell’edificio nell’ultimo attacco “del prezzo da pagare” contro i palestinesi

Secondo l’agenzia di stampa Wafa dei coloni israeliani hanno organizzato un assalto incendiario contro una moschea palestinese nella città di Al-Bireh, vicino alla città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

I bagni e i sevizi igienici della moschea di Al-Bir wa al-Ehsan sono stati incendiati, e lasciati bruciare e distruggere dal fuoco, ma non è stato riportato nessun ferito.

Gli incendiari hanno imbrattato le pareti della moschea con graffiti che dichiarano “Assedio ad arabi e non ebrei” e “la terra di Israele è per il popolo di Israele”.

Il sindaco del comune di Al-Bireh, Azzam Ismail, ha detto a Wafa che i coloni israeliani sono entrati in città nelle prime ore del mattino di lunedì e, oltre ad innescare l’incendio, hanno imbrattato con graffiti e slogan razzisti le pareti interne della moschea,.

I residenti di Al-Bireh si sono accorti dell’incendio intorno alle 3 del mattino prima che i vigili del fuoco lo estinguessero e la polizia palestinese arrivasse per indagare sull’incidente.

Al-Bireh è circondato dagli edifici della colonia israeliana di Biet El a nord e dall’insediamento coloniale illegale di Psagot a sud. Ad ovest della cittadina si trova la città palestinese di Ramallah.

La moschea di Al-Birr wa al-Ehsan si trova ai margini della città.

Husam Abu al-Rub, il referente del awqaf [fondazione di matrice religiosa con fini sociali e benefici, ndtr.] dell’Autorità palestinese e del Ministero degli affari religiosi, ha condannato l’attacco dicendo: “È un un atto criminale e razzista di cui è responsabile il governo d’occupazione, dal momento che sostiene questi gruppi terroristici”, riferendosi a Israele.

A gennaio, i coloni israeliani hanno dato alle fiamme una moschea e scritto slogan anti-arabi sulle sue mura nel sobborgo dj Sharafat a Gerusalemme Est occupata.

Tali atti vandalici da parte dei coloni israeliani contro le comunità palestinesi sono attacchi noti come il prezzo da pagare” e sono usati per intimidire i residenti e affermare la supremazia ebraica nei territori che Israele ha occupato militarmente dal 1967.

Gli attacchi “il prezzo da pagare” sono diventati sempre più comuni in Cisgiordania.

Includono il taglio di pneumatici e le scritte con la vernice di slogan anti-arabi sulle automobili, aggressioni contro palestinesi, incendi dolosi contro proprietà e luoghi sacri e abbattimenti di alberi appartenenti a agricoltori palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Per i giornalisti palestinesi, gli attacchi violenti delle forze israeliane fanno parte del lavoro

Juman Abu Arafeh 

4 luglio 2020 Middle East Eye

Gli abusi nei confronti dei giornalisti, che comprendono aggressioni e arresti, sono aumentati negli ultimi mesi specialmente nella Gerusalemme occupata.

Messa alle corde e impaurita, Sondus Ewies, giornalista palestinese di 23 anni, parlava nervosamente con un gruppo di agenti israeliani radunatisi intorno a lei mentre stava girando un film il mese scorso nella moschea di Al-Aqsa.

“Non ho fatto nulla. Stavo solo filmando e facendo il mio lavoro”, ricorda di avergli detto.

Ewies ha poi tirato fuori il suo tesserino internazionale di giornalista, sperando di evitare la detenzione, ma è accolta con una scrollata di spalle da un agente che le ha risposto: “Questa è una carta fasulla che non riconosciamo.”

Gli agenti israeliani hanno arrestato Ewies e sequestrato il suo telefonino. È stata quindi sottoposta a interrogatorio e le è stato imposto il divieto di visitare il complesso della moschea, situato nella Gerusalemme est occupata, per tre mesi.

Non era il suo primo incontro con le autorità israeliane. Ewies è stata interrotta più volte mentre era in onda ed è stata anche picchiata mentre copriva varie proteste.

A Middle East Eye ha detto di temere più il temporaneo divieto che l’effettiva detenzione.

Ewies vive nel quartiere palestinese di Ras al-Amoud, appena a sud del complesso della moschea Al-Aqsa, avendo fatto di quest’ultima una parte centrale del suo lavoro giornalistico. Dice di aver contato le ore per entrare nel complesso della moschea dopo che era stato chiuso per due mesi a causa della pandemia di coronavirus.

Molti giornalisti palestinesi affrontano arresti e divieti temporanei di accesso al complesso per avervi filmato incursioni dei coloni o forze israeliane che aggredivano i fedeli.

Nel 2016, le autorità israeliane hanno redatto liste nere con i nomi dei palestinesi, giornalisti compresi, a cui è vietato entrare nel complesso.

Dall’inizio di giugno, le autorità israeliane hanno emanato circa 10 mandati di comparizione a giornalisti e fotografi per interrogarli su come informano riguardo ad eventi politici.

Divieti alle agenzie stampa palestinesi

Ewies è una delle tante giornaliste che hanno subìto molestie da parte delle forze israeliane mentre erano in servizio.

La nota giornalista locale Christine Rinawi, di 31 anni, lavorava da 10 anni per Palestine TV, una stazione che opera nell’ambito dell’emittente palestinese pubblica dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), quando è stata incarcerata nel dicembre 2019.

Il mese prima l’allora Ministro della Pubblica Sicurezza israeliano Gilad Erdan aveva emanato un decreto per chiudere gli uffici della TV palestinese per sei mesi, sostenendo che la sua attività costituiva una violazione agli accordi di Oslo che vietano la presenza dell’ANP nella Gerusalemme est occupata da Israele. L’ordine è stato rinnovato nel maggio 2020.

Subito dopo la chiusura, il personale dell’emittente di Gerusalemme ha deciso di contestare la decisione e di proseguire il proprio lavoro.

A dicembre, durante la trasmissione del terzo episodio di un programma in diretta, le forze israeliane hanno arrestato la presentatrice Dana Abu Shamsia e il cameraman Amir Abed Rabbo. Rinawi e un altro cameraman, Ali Yassin, furono anch’essi poco dopo arrestati e portati in un centro di interrogatori.

Per Rinawi, la chiusura della Palestine TV fa parte delle restrizioni imposte da Israele sulla documentazione degli abusi israeliani da parte dei media palestinesi.

“Hanno cercato di aggredirci e ci hanno trattati come criminali”, dice a MEE.

L’ufficiale mi ha detto: ‘Vai a lavorare a Betlemme o Ramallah. Ti è proibito lavorare a Gerusalemme, sia in strada che sottoterra o vicino al bagno o in salotto’ “.

Durante l’iniziale chiusura di sei mesi della Palestine TV, i servizi segreti israeliani hanno convocato Rinawi cinque volte per interrogarlo.

La Palestine TV non è il solo centro di informazione palestinese ad essere bandito da Gerusalemme dalle autorità israeliane. Negli ultimi anni, Al Quds, Palestine Today, Qpress e l’Elia Youth Media Foundation [associazione giovanile non profit, ndtr.] sono stati tutti sottoposti a divieti.

Nel corso degli anni, Rinawi ha subito diverse aggressioni mentre svolgeva il suo lavoro. Nel 2019, è stata spinta e strattonata dai soldati israeliani durante una trasmissione in diretta, che è stata interrotta quattro volte.

Nel 2015, schegge di una granata stordente l’hanno colpita agli occhi mentre copriva la situazione nella moschea di Al-Aqsa.

Un anno prima, lei e il suo cameraman erano stati colpiti con proiettili di gomma mentre riferivano degli eventi verificatisi dopo il rapimento e l’uccisione dell’adolescente palestinese Mohammed Abu Khdeir.

Più pericolosa delle armi

Ata Owaisat, di 50 anni, del quartiere di Jabal al-Mukaber a Gerusalemme, ha iniziato la sua carriera come fotoreporter 19 anni fa. Ha lavorato con l’agenzia di stampa Associated Press e l’organizzazione di notizie israeliana Yedioth Ahronot.

Ha detto di aver perso il conto del numero di volte in cui i soldati israeliani hanno rotto la sua attrezzatura fotografica.

“Uno di loro mi ha detto letteralmente ” la tua macchina fotografica è più pericolosa delle armi “, dice a MEE.

“Sono stato picchiato e umiliato mentre svolgevo il mio lavoro, sono stato ostacolato, fermato, perquisito, interrogato e bandito da Al-Aqsa”.

La carriera giornalistica di Owaisat è stata bruscamente interrotta nel 2013, quando ha subito un grave infortunio e il conseguente trauma psicologico, compreso un disturbo post-traumatico da stress. Ha detto che gli è difficile parlare di quel giorno.

L’8 marzo 2013, Owaisat prese la sua macchina fotografica e andò a seguire gli scontri ad Al-Aqsa, dove le forze israeliane stavano sparando granate stordenti e proiettili di metallo rivestiti di gomma contro i palestinesi che protestavano nel complesso della moschea contro le violazioni israeliane.

Owaisat fu colpito alla bocca da un oggetto metallico che non è stato in grado di identificare, che gli causò una copiosa emorragia.

“Ho perso parte dei miei denti, del labbro superiore e il mio viso era sfigurato”, ha ricordato.

Dopo essere stato colpito, Owaisat ha momentaneamente perso conoscenza ma è stato presto risvegliato da calci e insulti prima di perdere di nuovo conoscenza.

L’equipaggio di un’ambulanza lo portò in ospedale.

“Ho visto la morte negli occhi”, ha detto.

In seguito Owaisat ha avuto difficoltà a mangiare, parlare e persino a sorridere. Ha subito diverse operazioni per ricostruire viso e denti.

Ha anche smesso di lavorare per un anno, dopo di che ha ricevuto un referto medico che specificava il trauma psicologico che gli impedisce di riprendere il suo lavoro.

Restrizioni generalizzate

Oltre ai giornalisti di Gerusalemme, anche i palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza assediata sono sottoposti a una pletora di violenze.

Il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media (Mada) ha segnalato 18 di tali abusi durante il mese di maggio, inclusi attacchi fisici, arresti e la chiusura di uffici in tutti i territori palestinesi.

Anche un recente rapporto della Commissione per le Libertà del Sindacato Giornalisti Palestinesi ha riscontrato che le autorità israeliane hanno commesso 760 violazioni nel 2019.

Nasser Abu Bakr, il presidente del Sindacato, ha commentato la cosa dicendo che Israele concentra le sue restrizioni e l’ostruzionismo sui giornalisti a Gerusalemme, che considera la propria capitale.

Ha aggiunto che tali incidenti sono aumentati negli ultimi mesi, portando il Sindacato ad avvertire la Federazione internazionale dei Giornalisti (IFJ) dell’elevato numero di infrazioni contro i giornalisti a Gerusalemme e invitandola a intervenire.

Abu Bakr ha dichiarato a MEE che una delegazione della Federazione aveva richiesto al governo israeliano di porre fine alle violenze e di riconoscere la tessera stampa internazionale, senza risultato.

“Forniamo supporto più che possiamo. Abbiamo una riunione al sindacato la prossima settimana e la situazione dei giornalisti a Gerusalemme sarà il primo punto dell’ordine del giorno”, ha detto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I pericoli della guida sotto l’apartheid israeliano

Izzy Mustafa

26 giugno 2020 – +972 Magazine

“Non mandare su di giri il motore. Tieni le mani sul volante. Non guardare bruscamente negli occhi i soldati di fronte a te. Abbassa la musica. Tieni pronto il tuo documento d’identità per il controllo. Tieni il piede sul pedale del freno. Assicurati, quando il soldato ti fa un cenno con le braccia, di non premere per sbaglio il pedale dell’acceleratore.”

Questo fa parte della lista delle cose da fare che mi viene in mente ogni volta che attraverso un posto di blocco militare israeliano in Palestina. È la routine che mio padre mi ha insegnato a 17 anni, quando ho guidato per la prima volta con lui attraverso il famigerato checkpoint di Za’atara [teatro di numerose uccisioni e ferimenti di palestinesi, n.d.tr.], vicino al villaggio della mia famiglia di Jamma’in, nella Cisgiordania occupata.

Per più di 10 anni, da allora, ho familiarizzato con le strade che collegano tutte le principali città palestinesi in Cisgiordania, dalle dolci colline di Hebron a sud, al maestoso paesaggio agricolo della Valle del Giordano, agli infiniti uliveti di Jenin a nord. Ricordo di aver schivato le buche e la gente per le strade di Kufr Aqab nei miei viaggi avanti e indietro tra Ramallah e Gerusalemme. È durante i miei viaggi da un villaggio di famiglia a un altro che ho assistito alla vorace espansione degli insediamenti ebraici nel corso degli anni.

Tuttavia ogni chilometro di queste strade comporta per i palestinesi dei rischi eccezionali.

Dobbiamo condividere le nostre strade con soldati israeliani e coloni armati. Ogni volta che percorriamo la strada, non siamo solo preoccupati di incorrere in un incidente – le corsie sono strette e non ci sono barriere sparti-traffico – ma siamo anche profondamente consapevoli che la minima mossa sbagliata da parte nostra potrebbe farci uccidere dai nostri colonizzatori.

Il regime israeliano di apartheid impone ai palestinesi nei territori occupati di guidare auto con targhe bianche o verdi, in modo da consentire agli israeliani di monitorare e controllare il movimento dei palestinesi prima ancora di rilevarne l’identità.

I cittadini israeliani, al contrario, guidano auto con targa gialla, il che permette loro di vagare liberamente in Cisgiordania e all’interno di Israele, sulla terra che lo Stato ha rubato ai palestinesi nel 1948. Anche i cittadini palestinesi di Israele e quelli che risiedono a Gerusalemme guidano auto con la targa gialla, ma sono comunque schedati sul versante razziale e sottoposti a maltrattamenti ai posti di blocco.

In un’auto con targa bianca o verde devi prendere ulteriori precauzioni e rimanere vigile in questo ambiente sottoposto a controllo razziale. Non esiste una guida piacevole nella tua terra militarizzata e occupata. Non puoi lasciare che la tua mente vaghi nella leggerezza della vita quotidiana. Non puoi fare una svolta sbagliata o finirai all’ingresso pattugliato di un insediamento coloniale israeliano. Non puoi lasciare che la tua mente ceda al torpore o potresti accidentalmente premere l’acceleratore invece del pedale del freno mentre ti trovi ad un posto di blocco.

I ricordi dei miei viaggi in Palestina si sono riaccesi quando ho saputo che Ahmed Erakat, un palestinese di 27 anni, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco dai soldati israeliani dopo che la sua auto ha sterzato finendo contro una guardiola in un posto di blocco a Gerusalemme est.

Non è ancora chiaro cosa sia successo esattamente, ma sappiamo che Ahmed stava andando a prendere i suoi familiari presso il salone di un parrucchiere a Betlemme nel giorno del matrimonio di sua sorella.

Posso solo immaginare l’ansia e la tensione che Ahmed deve aver provato. Aveva il compito di assicurarsi che tutti arrivassero agli appuntamenti in tempo, e per di più nel giorno delle nozze, quando lo stress tra i familiari non può non essere particolarmente intenso. Questi compiti diventano ancora più stressanti quando si deve avere a che fare con i posti di controllo che è necessario attraversare prima di assicurarsi che tutto vada per il meglio.

So quanto può essere intensa questa esperienza, perché è successa a me.

Il giorno del matrimonio di mio fratello, due anni fa, io, come Ahmed, ero incaricato delle commissioni. Usando un’auto a noleggio con targa verde che mi aveva prestato mio padre, quel giorno dovevo guidare tra Nablus e Ramallah più volte – un tragitto per cui si impiegano almeno 40 minuti per ciascuna direzione – per trasportare i familiari nei luoghi dei loro vari impegni. Durante tutto quel tempo il mio telefono non smetteva di squillare: o venivo sgridato per essere in ritardo o incaricato di un altro compito. L’ ansia e lo stress avevano raggiunto il massimo, divorando la mia mente.

Giunto al posto di controllo di Za’atara, invece di rallentare, ho accidentalmente premuto l’acceleratore e ho quasi invaso la fermata dell’autobus dove si trovavano alcuni coloni israeliani. Fortunatamente, sono stato in grado di azionare rapidamente i freni prima che fosse troppo tardi. So che quell’errore avrebbe potuto costarmi la vita attraverso la canna di una pistola. Sarei potuto finire come un altro “terrorista”, accusato della mia morte, dipinto come un palestinese che avesse intenzionalmente spinto la sua auto contro degli ebrei israeliani.

Agli occhi dei nostri colonizzatori e dei loro sostenitori, ai palestinesi non è mai permesso compiere un errore umano. Non possiamo permetterci il lusso di sbagliare. Per loro, cerchiamo solo la morte e la distruzione; non siamo esseri umani che hanno la stessa gamma di emozioni, stress, ansie, preoccupazioni e difetti che potrebbero causare tali incidenti. In questo sistema di apartheid, i colonizzatori devono sempre giustificare la loro occupazione militare e il furto di terra demonizzando i colonizzati.

Ogni volta che sto per mettermi in viaggio dopo aver visitato mia nonna, lei mi chiede e supplica di guidare con attenzione. So che le sue parole sono più una preghiera che una raccomandazione. Una preghiera che io non finisca coll’essere un’altra vittima come Ahmed Erakat e innumerevoli altri condannati a morte per la guida in quanto palestinesi.

Izzy Mustafa è un organizzatore [di campagne a favore dei diritti umani in Palestina n.d.tr.] palestinese che vive a Brooklyn, New York.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

 




Gli ebrei britannici esigono che la nuova ambasciatrice israeliana di destra non possa assumere l’incarico

22 giugno 2020 – Middle East Monitor

Circa 1.500 ebrei britannici hanno firmato una petizione in cui si chiede al governo di Boris Johnson di non accettare la nomina della ministra per le Questioni delle Colonie Israeliane, Tzipi Hotovely, come ambasciatrice di Tel Aviv a Londra perché “ha orribili precedenti di comportamenti razzisti e provocatori.”

Na’amod, un’organizzazione che dice di “cercare di porre fine all’appoggio della nostra comunità [ebraica] all’occupazione”, ha stilato la petizione che afferma: “I valori e la politica di Tzipi Hotovely non hanno posto nel Regno Unito. È fondamentale che il governo britannico invii il messaggio che le sue opinioni sono inaccettabili e rifiuti la sua nomina come ambasciatrice.”

Aggiunge che in passato Hotovely si è opposta pubblicamente ai rapporti tra ebrei ed arabi, ha definito “criminali di guerra” gli attivisti israeliani per i diritti umani ed ha accusato i palestinesi di essere “ladri di storia” che non hanno alcun patrimonio né legame con Israele-Palestina.

La settimana scorsa Israele ha nominato Hotovely nuova ambasciatrice nel Regno Unito, e alla fine della prossima estate sostituirà Mark Regev.

Nel 2015 Hotovely è stata nominata viceministro degli Esteri di Israele. In una conferenza a Gerusalemme si è vantata di aver trasformato, da quando ha assunto l’incarico, il ministero degli Esteri israeliano in un bastione dei diritti dei coloni, fatto che sta portando Israele verso l’annessione [del 30% della Cisgiordania, ndtr.].

Tutto il territorio che si trova a ovest del fiume Giordano può essere solo [proprietà] di una Nazione: il popolo ebraico,” ha affermato.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Il piano di annessione israeliano pregiudicherà la normalizzazione arabo-israeliana?

Yousef Alhelou

17 giugno 2020 – Middle East Monitor

La posizione adottata dagli Stati Arabi sul piano israeliano di annettere dal prossimo mese aree della Cisgiordania occupata, compresa la Valle del Giordano, può essere scomposta in linea di massima in tre orientamenti: i Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Bahrain, Qatar, Marocco ed Egitto offrono un esplicito sostegno all’ “accordo del secolo” degli Stati Uniti, che comprende l’annessione e lo scambio di territori; alcuni Paesi, come Palestina, Giordania, Algeria, Iraq e Tunisia respingono totalmente il piano; e altri hanno delle riserve e non hanno espresso un parere in un senso o nell’altro.

L’annessione implica il controllo della terra e il trasferimento degli attuali abitanti. In Palestina, si tratta di una continuazione della pulizia etnica israeliana dei territori iniziata nel 1948 che non sarebbe nemmeno all’ordine del giorno senza il sostegno degli Stati Uniti. L’attuale amministrazione di Washington guidata dal presidente Donald Trump ha già riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv alla Città Santa e ha affermato che gli insediamenti israeliani costruiti sulla terra palestinese “non necessariamente” sarebbero illegali. Ha anche bloccato tutti gli aiuti statunitensi ai palestinesi.

Tuttavia, con una mossa insolita, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Yousef Al-Otaiba, ha scritto un commento su Yedioth Ahronoth, il più diffuso quotidiano in lingua ebraica d’ Israele. “Annessione o Normalizzazione” si rivolge principalmente all’ala destra israeliana e invia un velato avvertimento ai funzionari e all’opinione pubblica in generale. Ha anche twittato un video in inglese per enfatizzare il suo messaggio. Al-Otaiba ha messo in guardia contro la prospettiva dell’annessione e ha menzionato le sue probabili conseguenze. L’ambasciatore desidera proteggere la normalizzazione formale dei legami con Israele, legami diplomatici, economici, culturali e sulla sicurezza.

Mentre i critici affermano che il suo messaggio è più un consiglio amichevole che un avvertimento formale, altri credono che Al-Otaiba stia cercando di salvare la faccia dopo che gli Emirati Arabi Uniti si sono viste respinte due diverse spedizioni di aiuti medici per i palestinesi perché non si sarebbero coordinati in anticipo con l’Autorità Nazionale Palestinese. Inoltre, gli Emirati Arabi Uniti ospitano anche l’ex funzionario di Fatah Mohammed Dahlan, espulso dal movimento da Mahmoud Abbas. Tuttavia, gli Emirati Arabi Uniti rimangono un grande sostenitore dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA) che fornisce i beni di prima necessità a milioni di rifugiati palestinesi.

È chiaro che qualsiasi instabilità che facesse seguito all’annessione potrebbe ravvivare nella coscienza araba lo spirito della lotta armata in tutta la regione. Se esplodesse, in aperta solidarietà con i palestinesi oppressi, la rabbia popolare, potrebbe anche danneggiare i rapporti diplomatici in fase di sviluppo, mettendo a repentaglio la piena e pubblica normalizzazione dei legami tra gli Stati arabi e Israele.

L’Iran e i suoi alleati nello Yemen, nel Libano meridionale e a Gaza non possono essere ignorati, poiché Teheran è il nemico comune di Israele e di alcuni Stati musulmani sunniti. Qualsiasi destabilizzazione dello status quo in Cisgiordania o Gerusalemme potrebbe incoraggiare la mobilitazione di gruppi filo-iraniani e attacchi contro obiettivi nel Golfo. La Turchia, nel frattempo, potrebbe sostituire il sostegno arabo alla legittima causa palestinese e fornire sostegno finanziario a coloro che vivono sotto l’occupazione militare di Israele. Inoltre, le industrie petrolifere e del turismo potrebbero soffrirne se, ad esempio, gli Houthi filo iraniani cercassero di vendicarsi contro la coalizione araba guidata dai sauditi che combattono nello Yemen e sostengono i palestinesi e i loro diritti. Hamas e altri gruppi di resistenza palestinese hanno anche avvertito delle gravi conseguenze se l’annessione dovesse procedere. Tutte le opzioni, a quanto pare, sono sul tavolo.

Quando a gennaio Trump ha annunciato i dettagli del suo “piano di pace”, gli ambasciatori degli Emirati Arabi Uniti, del Bahrain e dell’Oman si trovavano alla Casa Bianca in piedi accanto al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu . Trump li ha ringraziati per il loro supporto. Nessun funzionario palestinese era presente. L'”accordo” è stato una pugnalata alle spalle; un piano pro-Israele; un matrimonio forzato della “sposa” israeliana con un “sposo” palestinese riluttante. Gli stati arabi intenzionati a normalizzare i legami con Israele hanno bisogno di pace e coesistenza tra palestinesi e israeliani, per porre fine alla loro imbarazzante diplomazia sotto copertura e consentire loro di avere un rapporto economico aperto con lo Stato occupante.

Sorprendentemente, gli unici due Paesi arabi che hanno firmato trattati di pace con Israele – Egitto e Giordania, rispettivamente nel 1979 e nel 1994 – non hanno partecipato alla cerimonia della Casa Bianca. Entrambi hanno intense relazioni con l’Autorità Nazionale Palestinese e condividono più o meno la stessa visione su come porre fine al conflitto Israele-Palestina: piena normalizzazione in cambio della fine dell’occupazione militare israeliana in Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme, e un ritorno ai confini del 1967. Questa è la base dell’iniziativa di pace araba approvata dalla Lega araba nel 2002 al suo vertice di Beirut.

Gli accordi di Oslo firmati nel 1993 dovevano portare alla costituzione di uno Stato palestinese entro cinque anni. Quasi tre decenni dopo centinaia di migliaia di coloni ebrei vivono in enormi blocchi di insediamenti costruiti da Israele nonostante gli Accordi. Ancora altri territori palestinesi sono stati rubati per costruire il muro dell’apartheid lungo 708 chilometri che si snoda lungo il confine della Cisgiordania [in prevalenza il muro si trova nel territorio cisgiordano, n.d.tr.]; ci sono più di 600 posti di blocco militari fissi e mobili; e le comunità palestinesi sono state isolate, creando bantustan separati. Inoltre, le case e gli altri edifici palestinesi vengono regolarmente demoliti dagli israeliani e i palestinesi nativi di Gerusalemme si vedono revocare i loro permessi di residenza mentre la giudaizzazione della Città Santa continua. Sotto i governi consecutivi di estrema destra di Netanyahu, la più estremista della storia di Israele, Israele ha fatto fuori la cosiddetta “soluzione a due Stati”.

La Giordania ha respinto il piano di annessione perché la valle del Giordano occupata si estende lungo il confine del Regno Hascemita [la dinastia hashemita, fondata nel 1916, dominò prima nel igiāz (regione comprendente La Mecca e Medina) in Arabia, poi in Iraq e Transgiordania, e infine nel Regno hashemita di Giordania, n.d.tr.] L’area costituisce circa il 30% della Cisgiordania, con una popolazione di circa 65.000 palestinesi e 11.000 coloni illegali. In realtà, Israele ha quasi il controllo totale di quello che è già di fatto un territorio annesso.

Tutto ciò suggerisce che l’avvertimento di Al-Otaiba potrebbe essere ascoltato, perché Netanyahu non vorrà perdere alleati nel mondo arabo, non ultimi nuovi amici come il Sudan, nel caso che la situazione si dovesse deteriorare nei territori palestinesi occupati. Il leader israeliano è il più consapevole di tutti del fatto che il presidente dell’ANP Abbas ha annunciato il mese scorso che sta ponendo fine a tutti gli accordi con Israele e gli Stati Uniti, inclusa la cooperazione in materia di sicurezza con le forze di occupazione.

È vero che la causa palestinese è diventata un grattacapo per alcuni regimi arabi, in particolare nel Golfo, ma per altri è ancora la “questione centrale” che unisce tutti gli arabi e i musulmani. Senza una giusta soluzione in Palestina, non ci sarà mai stabilità in Medio Oriente. Sebbene l’ANP sotto Abbas sia accusata di aver aperto per prima le porte alla normalizzazione, i palestinesi insistono sul fatto che i legami con Israele non devono procedere a spese del popolo palestinese che ha lottato per decenni per la libertà e l’autodeterminazione .

Israele ha investito molto nella normalizzazione dei legami con gli Stati del Golfo. Sono stati fatti molti incontri reciproci segreti e sono state utilizzate molte applicazioni di social media per colmare le lacune culturali e politiche esistenti, nell’incoraggiare gli arabi del Golfo a rivoltarsi contro i palestinesi demonizzandoli come ostacolo alla pace con Israele.

Al momento, tuttavia, tutto ciò che conta per Netanyahu è la luce verde di Trump. È stato in grado di mettere insieme un governo di “unità” che condivide il potere e rimanere al potere significa tutto per lui. L’annessione faceva parte della sua campagna elettorale ed è tempo di adempiere al suo impegno. Le posizioni palestinesi e arabe non gli interessano molto, ma è un politico esperto e scaltro, che prenderà in considerazione i pro e i contro con attenzione.

Il velato avvertimento del capo ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Al-Otaiba, sarà sufficiente per fermare o ritardare il piano di annessione? O Israele andrà avanti a prescindere e quindi pregiudicherà la normalizzazione con gli Stati arabi che temono disordini popolari nei loro paesi? Solo il tempo lo dirà, ma ci sono rischi per tutti i soggetti coinvolti, in particolare per i palestinesi, indipendentemente dal modo in cui si guardi la cosa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Mentre lo Stato ebraico si lancia in un baratro, la temibile lobby dell’AIPAC non fa assolutamente niente

PHILIP WEISS e JAMES NORTH

17 giugno 2020 – Mondoweiss

Di tutti i drammi che stanno avvenendo nel contesto del piano del governo israeliano di annettere grandi aree della Cisgiordania a partire da luglio, è passato in buona misura sotto silenzio un prodigio politico: l’American Israel Public Affairs Committee [Comitato Americano per le Questioni Pubbliche di Israele] (AIPAC), la temibile lobby israeliana a Washington, non ha avuto niente da dire e di conseguenza con il suo silenzio potrebbe avere preannunciato il suo stesso declino.

Ciò in quanto l’iniziativa israeliana è senza dubbio una grande minaccia per il futuro dello “Stato ebraico”, sicuramente la maggiore crisi che Israele abbia affrontato almeno negli ultimi 10 anni, e ciononostante l’organizzazione, il cui unico scopo è garantire il futuro di Israele, è stata assolutamente silenziosa. Il sito tweet dell’AIPAC è pieno di pubblicità del genere camera di commercio (“L’innovazione israeliana ci rende più sicuri e più sani”), e neppure una parola sull’annessione.

Ma se ci si mette in contatto con singoli importanti sionisti negli Stati Uniti, progressisti o conservatori, sono tutti contrari all’annessione. Persone come Jeremy Burton, Dennis Ross, Robert Satloff, Martin Indyk, Jeremy Ben-Ami, Jeffrey Goldberg, persino Daniel Pipes. Essi si rendono conto della minaccia rappresentata dall’annessione per il futuro dello Stato ebraico. La minaccia è molteplice e ovvia: l’annessione isolerà Israele nel mondo e farà sì che gli europei impongano sanzioni contro Israele; l’annessione minaccia il trattato di pace con la Giordania; l’annessione minerà così tanto il movimento palestinese da rendere possibile una terza Intifada, tanto che persino i sionisti laburisti prevedono una “rivolta” come risposta naturale di un popolo messo all’angolo; l’annessione frammenterà e inizierà a dissolvere il sostegno del partito Democratico a Israele; l’annessione renderà l’apartheid ufficiale e innegabile, persino agli occhi di molti ebrei americani che hanno resistito a rendersene conto per anni; l’annessione darà forza alla campagna per il boicottaggio.

L’unica obiezione a questa sfilza di argomenti è l’illusione messianica: dio (o i britannici) hanno promesso la terra agli ebrei, perciò, di cosa vi preoccupate? Se sei una persona seria che crede nella necessità di uno Stato ebraico, questo è davvero un periodo veramente pericoloso. Un governo israeliano con un limitato appoggio dell’opinione pubblica sta per lanciare una nuova era che potrebbe produrre anni e anni di isolamento e di violenza in Israele. Persino uno dei beniamini dell’AIPAC, che fa parte del movimento dei coloni, è contrario!

Ancora una volta la domanda è: dov’è l’AIPAC? È la maggiore organizzazione filoisraeliana, che in una notte può avere 76 firme del Senato su un tovagliolo e riunire ogni anno in un centro congressi di Washington 20.000 sostenitori di Israele. È talmente famoso che chiunque lo conosce anche solo dalle sue iniziali. E oggi tutta questa potenza di fuoco è silenziosa. Durante una vera e propria crisi per lo Stato ebraico, l’AIPAC non ha niente da dire.

Ci sono un paio di spiegazioni plausibili per questo silenzio. Primo, l’AIPAC, per sua stessa politica, non ha mai criticato il governo israeliano. Va bene, ma cosa succede se questo governo sta per spingere lo Stato ebraico in un baratro? L’AIPAC è talmente condizionato da un ragionamento tattico da non poter vedere una reale minaccia quando si presenta? Forse.

Ma in questo caso la lobby ha dimostrato di aver esaurito la sua utilità per Israele ed è una vittima della sua stessa irresponsabilità. Per decenni ha affermato che non avrebbe mai criticato Israele mentre colonizzava la terra di un altro popolo ed ora, quando Israele è sul punto di fare un enorme passo in quella direzione, non si può smentire.

O forse l’AIPAC pensa di non poter criticare un presidente USA, di non poter danneggiare il suo accesso alla carica più alta del Paese. Trump è assolutamente pronto all’annessione. Pensa che ciò possa fargli avere i milioni di Sheldon Adelson [miliardario americano che finanzia Trump, Israele e le colonie, ndtr.] e forse la Florida in novembre, e l’AIPAC non può essere minimamente critico con un presidente o potrebbe perdere la possibilità di avervi accesso.

Ma di nuovo: il portabandiera della lobby israeliana ha sacrificato la sua stessa missione a una tattica burocratica. Ha costruito una potenza mostruosa e malefica a Washington per appoggiare Israele ed ora, in un momento di crisi, non dice niente.

Il fallimento dell’AIPAC ha chiaramente rafforzato altre organizzazioni sioniste. J Street [associazione di sionisti progressisti contrari all’occupazione, ndtr.] sta conducendo la lotta contro l’annessione insieme ad “Americans for Peace Now [Americani per la pace adesso, organizzazione sionista statunitense a favore della soluzione dei due Stati, ndtr.]. La graduale conquista della lobby israeliana da parte di J Street che abbiamo visto più o meno nell’ultimo anno sembra ormai inevitabile, data l’abdicazione dell’AIPAC. Di fatto l’unico commentatore ad evidenziarlo è il nuovo presidente di APN, Hadar Suskind, che ha scritto su Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] che le principali organizzazioni della lobby israeliana hanno consentito a Israele di sacrificare il suo futuro “sull’altare dell’etno-nazionalismo”.

Con una disperata richiesta di aiuto, Suskind ha scritto che è a rischio nientemeno che lo Stato ebraico: “Quando questo futuro sarà minacciato, noi ci esprimeremo a voce alta, denunceremo apertamente e lotteremo per una prospettiva che rifletta l’opinione sia dei fondatori di Israele che della grande maggioranza degli ebrei americani. Chiediamo a tutti i nostri colleghi di unirsi a noi per proteggere un Israele ebraico e democratico opponendoci chiaramente e fortemente all’annessione. Non aspettate che sia troppo tardi.”

Qualunque cosa si pensi del progetto sionista – e noi siamo contrari – da una prospettiva politica, l’abdicazione dell’AIPAC è sia mistificatoria che patetica, e potrebbe portare a una caotica lotta generazionale all’interno della lobby israeliana in cui i giovani ebrei di IfNotNow [SeNonOra, organizzazione di ebrei statunitensi contraria alle politiche israeliane, ndtr.] e Open Hillel [Hillel Aperto, associazione universitaria ebraica con posizioni critiche, ndtr.] stanno improvvisamente contendendo la leadership all’American Jewish Committee [Comitato Ebraico Americano, storica organizzazione ebraica statunitense filosionista, ndtr.].

Come in un atto di spontanea autodistruzione politica, il silenzio dell’AIPAC è un prodigio, proprio come in primo luogo l’accumulazione di potere della lobby.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In Palestina più di 100 violazioni da parte di Israele in una settimana

29 maggio 2020 – Middle East Monitor

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR) ha documentato più di 100 violazioni del diritto internazionale sui diritti umani perpetrate dalle forze di occupazione e dai coloni israeliani un una sola settimana nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Secondo un rapporto del PCHR pubblicato ieri, è stato registrato complessivamente un totale di 106 violazioni di diritti umani da parte di Israele; tuttavia le restrizioni imposte dallo stato di emergenza hanno limitato la capacità della ONG di monitorare tutti gli incidenti nei TPO.

“Questa settimana, segnata dalla festa musulmana di Eid al-Fitr, che celebra la fine del mese di Ramadan, non è stata diversa, essendo continuati gli attacchi delle forze israeliane; inoltre i coloni hanno sparato, ferendoli, ad agricoltori palestinesi, hanno incendiato terreni e attaccato case”, ha dichiarato la ONG per i diritti umani.

Come segnalato dal PCHR, le forze israeliane hanno ucciso illegalmente cinque civili palestinesi, compreso un bambino che non costituiva una minaccia imminente per la vita, usando proiettili veri durante le incursioni militari israeliane a Ramallah e Tuba.

Inoltre Israele ha continuato ad ampliare le colonie illegali e le relative infrastrutture nella Cisgiordania occupata, compreso lo smantellamento di una roulotte e la demolizione di una casa ancora in costruzione nella zona centrale della Valle del Giordano, in quanto non disponeva del permesso necessario da parte delle autorità di occupazione israeliane.

Questi permessi sono quasi impossibili da ottenere da parte dei palestinesi. Si dice che tre palestinesi siano stati costretti a demolire essi stessi le proprie case.

Il PCHR ha dichiarato che le estese demolizioni hanno comportato anche l’uso di bulldozer nel sito archeologico di Sebastia e il furto di pietre antiche nei dintorni.

Attualmente vi sono circa 650.000 coloni ebrei che vivono nel territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme est. Tutte le colonie israeliane sono illegali in base al diritto internazionale. La Quarta Convenzione di Ginevra proibisce ad una potenza occupante di trasferire la propria popolazione sulla terra occupata.

(Traduzione dallo spagnolo di Cristiana Cavagna)




L’UE recede da una presa di posizione nei confronti di Israele sull’annessione della Cisgiordania

Ali Abunimah

23 aprile 2020 – Electronic Intifada

A quanto pare l’Unione europea ha receduto dalla sua minaccia di imporre delle misure nei confronti di Israele nel caso metta in atto ulteriori annessioni di territori della Cisgiordania occupata.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il leader del partito Blu e Bianco Benny Gantz, dopo un anno di stallo politico e tre elezioni generali, hanno raggiunto un accordo per formare una coalizione.

L’accordo di coalizione prevede l’impegno che da luglio il governo e il parlamento israeliani procedano alla votazione per l’annessione vaste aree della Cisgiordania.

Secondo il Times of Israel, tali misure probabilmente verrebbero approvate.

Giovedì, il responsabile della politica estera europea Josep Borrell ha ribadito la posizione del blocco delle 27 Nazioni secondo cui “qualsiasi annessione costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale”.

“L’Unione Europea continuerà a monitorare attentamente la situazione e le sue più ampie implicazioni e agirà di conseguenza”, ha aggiunto Borrell.

Naturalmente “agire di conseguenza” potrebbe significare non fare nulla.

Un linguaggio annacquato

Considerando quanto i diplomatici dell’UE siano in sintonia con le sottigliezze linguistiche – e data la loro propensione a fare più o meno un copia-incolla di precedenti dichiarazioni – è degno di nota come Borrell non abbia ribadito una frase molto più incisiva di una dichiarazione fatta solo pochi mesi fa.

All’inizio di febbraio, Borrell ha reagito al piano del presidente Donald Trump, comunemente chiamato Accordo del Secolo, che sostiene l’annessione israeliana di gran parte della Cisgiordania, con un raro, se non inedito, avvertimento che Israele avrebbe dovuto affrontare delle conseguenze.

“Dei passi verso l’annessione, se attuati, non potrebbero passare incontrastati”, ha affermato Borrell nell’occasione.

Come avevo rilevato allora, ci sono poche possibilità che l’UE cambi effettivamente il suo approccio di lunga data di sostegno incondizionato a Israele, nonostante commetta violazioni su violazioni, crimini su crimini.

Avevo anche evidenziato come Israele avesse già annesso Gerusalemme est occupata nel 1967 e le alture del Golan in Siria nel 1981 – gravi violazioni del diritto internazionale che hanno avuto come unico riscontro decenni di elargizioni profuse dalla UE ad Israele.

Ciò è in netto contrasto con il modo in cui l’UE ha imposto sanzioni alla Russia per l’annessione della Crimea dall’Ucraina nel 2014. A gennaio l’UE ha aggiunto a tali misure punitive le sanzioni ai funzionari russi che hanno contribuito a organizzare le elezioni in Crimea.

Israele tiene regolarmente elezioni in Cisgiordania in cui possono votare solo i coloni israeliani. L’UE abitualmente elogia queste elezioni segregazioniste organizzate negli insediamenti coloniali costruiti illegalmente sui territorio occupato.

Borrell, recedendo dalla sua già debole dichiarazione di febbraio, ha inviato un altro segnale a Israele secondo cui non avrebbe nulla da temere da Bruxelles.

Nella sua ultima dichiarazione, Borrell promette che l’UE è “intenzionata a cooperare strettamente con il nuovo governo nella lotta contro il coronavirus”.

Aggiunge che “la cooperazione tecnica è in corso e sarà rafforzata su tutti gli aspetti della pandemia”.

Una “cooperazione” rafforzata con ogni probabilità significa maggiori elargizioni dell’UE all’industria bellica israeliana.

Semaforo verde di Washington

L’amministrazione Trump ha nel frattempo dato il via libera all’annessione.

Mercoledì il segretario di Stato Mike Pompeo ha confermato che gli Stati Uniti considerano la questione come una “decisione israeliana”.

Ciò rende particolarmente significativi i possibili passi da parte dell’UE per contrastare questo sostegno incondizionato degli Stati Uniti.

Ma l’UE, il principale partner commerciale di Israele, non ha la volontà e la credibilità per agire.

All’inizio di questa settimana è emerso che i funzionari dell’UE avevano avvertito Gantz di non sottoscrivere un accordo per un governo determinato a procedere all’annessione.

Secondo il Times of Israel, “si diceva che i funzionari avessero lanciato l’avvertimento che una tale mossa da parte di un potenziale governo di unità avrebbe danneggiato le relazioni di Israele con l’UE, suscitando una forte risposta”.

Gantz non gli ha dato retta, indubbiamente fiducioso che l’UE continuerà la sua politica di di sporadiche sfuriate riguardo alle azioni di Israele continuando a inondarla di regalini.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)